lunedì 7 dicembre 2015

Il Mare dei Mostri. 4.

Ultimo episodio, che giunge come avrete notato con enorme ritardo. Scusate la pigrizia, ciao e buona lettura!

4

Passò il pomeriggio e poi passò lenta la notte. Il buio e la nebbia li avvolsero e l’aria ferma sul mare non sembrò mai a nessuno di loro spessa e irrespirabile come in quelle ore. Chiusi nella cabina del capitano, stretti come pesci salati in un barile, aspettarono che il giorno tornasse perché un qualunque orrore, per quanto sia enorme e imbattibile, alla luce del sole sembra meno spaventoso. Gihn, il giovane mozzo taciturno, uscì nel bel mezzo della notte per pisciare e non tornò indietro; uno strano urlo soffocato seguito da il tonfo di due o tre cose pesanti nell’acqua lungo la fiancata furono le ultime cose che lui lasciò al loro ricordo.
Poi, all’alba, nella luce lattiginosa di quell’atmosfera nebbiosa, uscirono dalla cabina e, stretti a gruppi di tre, cominciarono a cercare per la nave il mostro. Avevano torce nelle loro mani, perché un mostro marino deve temere il fuoco, se qualcosa a questo modo ha un senso. Cercarono per ore, mentre il calore saliva senza riuscire a sciogliere la caligine che li opprimeva e alla paura si sostituì la frustrazione e a questa la delusione mista però a una qualche specie di sollievo. Il mostro non c’era, erano salvi. Mangiarono assieme del pesce e delle gallette e poi si divisero per tentare di fare quello che andava fatto. Forse, mettendo tutte le vele al vento sarebbero potuti partire, o forse con due scialuppe in mare i rematori avrebbero potuto … un urlo. Due urla anzi, aveva ucciso il vecchio Mareh e Virdu, i loro corpi erano smembrati e molta carne sembrava mancare. E lì la già poca disciplina dell’equipaggio colò a picco. Cominciarono a correre qua e là per la nave inciampando nei boccaporti e nelle funi, un giovane marinaio salito a bordo all’ultimo porto come Okaka saltò su una scialuppa e, avendovi trovato Neto, lo accoltellò con un pugnale che aveva rubato in mezzo ai resti di Virdu. Okaka vide morire il vecchio cuoco che lo aveva accolto quasi come un figlio sentendo che, purtroppo, anche questo fatto di veder morire le persone a cui voleva bene faceva parte della sua vita, era la sua vita, così come quella testa pelata che aveva riconosciuto con gratitudine nello specchio di bronzo che poche ore prima il cuoco aveva usato per mostrargli il risultato della rasatura. Chiuse gli occhi al vecchio e poi saltò sulla scialuppa dove c’era l’assassino. Questi gli si lanciò addosso con violenza, reso sicuro dalla spanna di altezza che aveva in più, per non parlare del peso che era quasi il doppio di quello del giovane nubiano.
Ma allora, per la prima volta, Okaka fece quello che avrebbe scoperto di sapere fare bene, meglio di chiunque altro al mondo. Okaka schivò il colpo di pugnale dell’assassino di Neto, Okaka girò intorno all’uomo armato con velocità e leggerezza inumane e, col suo pugnale di ossidiana, lo accoltellò. La lama affondò nel fianco dell’uomo e Okaka riconobbe quella sensazione pur non avendola mai provata. Uccidere era facile per lui, era naturale, e così schivò ancora con facilità irrisoria il colpo che l’uomo ferito gli restituì e, sfilata velocemente la lama la affondò nel suo collo facendo uscire la punta dal retro della nuca. L’uomo che aveva ucciso Neto, un ragazzo spaventato a morte, si accasciò davanti a lui e il giovane nubiano, terrorizzato e stranamente felice, gettò il corpo in mare. E allora, mentre guardava quella povera cosa affondare, si accorse che la scialuppa di era allontanata dalla nave trascinata da una corrente lenta ma costante. La nave era ormai lontana, una sagoma nella nebbia e, attutite dalla distanza e dalla caligine, le grida terrorizzate dei suoi compagni gli pungevano le orecchie. Indeciso su cosa fare, mentre cercava un remo e tentava di stimare la distanza e la forza della corrente Okaka vide una luce. Là, nella nebbia, dove forse doveva trovarsi la poppa, qualcosa bruciava. Le fiamme divamparono e le urla per un breve istante, trafissero la nebbia arrivando a lui, ma poi, improvvisamente, un lampo e un tuono lo colpirono in pieno e un’onda d’urto lo fece cadere sul fondo della scialuppa facendogli battere la testa sul legno consunto dagli anni. Il fuoco doveva aver raggiunto quel vecchio barile di polvere del Kattay che il capitano teneva nel fondo della stiva.
Quando il nubiano si risvegliò il sole stava tramontando e la nebbia era scomparso. Nessuna traccia della nave vicino a lui o all’orizzonte, niente vele né vicine né lontane, solo il cielo che si arrossava e un vento costante da ovest.
Presa una tavola di legno mezzo marcio da un cumulo di immondizia che stava sul fondo della scialuppa Okaka si mise a remare nella stessa direzione del vento e continuò così mentre la luce calava.
Dopo un po’, il movimento costante e il rollio della barca lo avevano quasi fatto addormentare, qualcosa toccò lo strano remo. Guardò in quella direzione e vide qualcosa che, uscendo dall’acqua scura, si avvolgeva intorno al legno. Era un tentacolo, ma la sua punta era simile alla testa di un serpente. Ed era un tentacolo enorme, di una piovra gigante. Il ragazzo nubiano saltò più lontano che poteva e guardò con terrore quella orrenda bestia dai colori cangianti salire a bordo della scialuppa sbilanciandola col suo peso. Il polpo, che era ora rosso come il cielo, ora blu nerastro come il mare e ora marrone come il legno si accomodò sul fondo della barca e poi, come un’onda che passa sul mare, cambiò forma diventando uguale al capo Crip, e poi uguale a Virdu e infine, con un sorriso beffardo, diventò uguale a lui quando, la mattina precedente, aveva ancora una enorme massa di capelli neri e crespi sulla testa.
- Cosa aspetti, mostro, un invito? Attacca e uccidimi, se ce la fai! – disse a quella cosa che lo imitava prendendo in mano il pugnale. Sarebbe morto, sì, ma avrebbe lottato e avrebbe ferito la piovra. Se lo sarebbe ricordato, o se se lo sarebbe ricordato!
La bestia tornò alla sua forma e si lanciò su di lui aggredendolo con i suoi fortissimi tentacoli che lo avvolsero, lo stritolarono, lo morsero con le loro bocche, ma Okaka affondò il suo pugnale una miriade di volte ignorando il terrore e il dolore, fino a che il mostro saltò in preda al terrore fuori dalla barca trascinandoselo dietro. Il mostro continuava a mordere con le sue otto fauci e Okaka continuava ad affondare la nera lama di ossidiana mentre la superficie dell’acqua e l’aria si allontanavano da lui ogni momento di più. E poi, mentre sentiva i polmoni bruciare in cerca di un nuovo soffio d’aria, Okaka intravide nell’ombra di quell’acqua profonda, la rotondità della testa del mostro e, ricordandosi di un pescatore che aveva visto all’opera augli scogli davanti alla vecchia città di pietra, morse quella carne molle e viscida con tutta la sua forza. Il mostro urlò ferendogli le orecchie e mollò la presa perdendo come di consistenza e affondando mentre il ragazzo, quasi annegato, tornava a galla privo di sensi.

Lo raccolsero due giorni dopo, bruciato dal sole, arso dalla sete come non pensava che fosse possibile, stretto a un legno semi marcito che lo aveva aiutato a galleggiare, strano orfano trovato da una nave che non stava cercando di certo figli perduti. Quando, due giorni dopo, riuscì di nuovo a parlare, rispose alla domanda che gli avevano fatto. “Come ti chiami?” gli avevano chiesto e la sua risposta fu – Okaka del Mare dei Mostri. -