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martedì 31 luglio 2012

Ecco il capitolo XVIII, Comincia il macabro valzer.

XVIII

Il bambino ucciso dall’esplosione del water nel bagno della sua casa in Canal Street a cui accennava il trafiletto sul News e di cui racconteremo dopo, non era stata la prima vittima del “nuovo” It. Era stato solo la prima vittima di cui fosse stato ritrovato il corpo. Aveva fame It, molta fame, e il sabato dopo essere risorto decise di fare una sortita nel suo territorio di caccia preferito, i Barrens.
L’area dei Barrens, come gran parte del centro della città, era stata devastata dall’alluvione dell’85 e la zona dove Bill Tartaglia nascondeva la sua sferragliante Silver era stata poi trasformata in un parcheggio.
Si trovava in una zona di uffici e negozi ed era quindi un parcheggio molto affollato nei giorni feriali in ora diurna e praticamente deserto al sabato sera. In fondo al parcheggio c’era una siepe di arbusti vari, tra cui anche dei rovi pieni di spine, e subito al di là una breve scarpata e i Barrens.
Come chiunque di voi potrà capire il terreno sotto alla siepe, e naturalmente anche i rami più in basso, erano addobbati di preservativi usati, essendo quello uno dei posti migliori per parcheggiare la macchina e darci dentro con la reginetta del liceo.
Ed era proprio per questa ragione che il diciassettenne Anthony Jones stava dirigendo in quel parcheggio l’auto del padre, una Toyota Prius di tre anni. Certo, farlo in una Plymouth del ’58 o giù di lì sarebbe stato molto più scenografico, ma ognuno vive nel secolo che si merita. Accanto a lui c’era la sedicenne Emily Baker, cheerleader e campionessa di spelling al tempo delle elementari, nota ora ai più col nomignolo di Tettedoro, tette che erano poi la ragione principale che avevano spinto Anthony a portarla fuori per un frappé corretto.
Sicuro che avrebbe trovato il posto occupato, perché c’era un unico punto del parcheggio che andava bene per quello che lui aveva in mente, cioè il punto in fondo a destra, dove le siepi facevano angolo e il lampione rotto non illuminava tutto con la sua fastidiosa luce arancione, entrò nel parcheggio e si guardò intorno. Fece due giri del parcheggio a passo d’uomo per controllare che non ci fosse nessuno, il posto era libero!, e poi si avvicinò alla postazione.
- Qua? – chiese Emily.
- Sì. Perché, c’è qualcosa che non va? –
- In mezzo alle siepi che danno sui Barrens? –
- Sì. – vedeva che non le piaceva l’idea. E la sua bimestrale esperienza con le donne gli diceva che non c’era nessuno di più rompicoglioni al mondo di una pollastrella che non è convinta.
- Ma non c’è proprio un altro posto? –
- Be’, in camera mia, ma glielo spieghi tu a mia madre? –
Emily rise, bene, se ride non è troppo incazzata, poi disse: - Ma no, scemo. Dicevo un altro posto meno nascosto. Qua sembra da film horror. –
- Ah. Ma allora hai paura! – disse lui, si mise tutto impettito dando una capocciata nel tettuccio dell’auto, si riabbassò ridendo e disse: - Ma di cosa hai paura? Del mostro? L’hanno preso Gray, non l’hai letto? –
- Certo che l’ho letto, stupido. È solo che … non mi piace qui, ecco tutto. –
- Vuoi che ce ne andiamo? – chiese lui con la faccia più da cocker che riusciva a fare.
Emily guardò fuori dal finestrino e vide il parcheggio totalmente deserto. Anche la strada era deserta. Davanti e a sinistra c’erano quelle orrende siepi. Oltre le siepi i Barrens. Sbuffò e lo guardò. Era bello, e baciava davvero bene. – Ma no, dai! –
Lui si tolse la cintura di sicurezza e le accarezzò la guancia. Liscia come il velluto, ce l’aveva già duro. Si avvicinò per baciarla e sentì il suo alito alla fragola, doppio frappé fragola e limone, tre dollari e mezzo, spesi da lui, naturalmente. Lei sorrideva e si passò volutamente la lingua sui denti. Cominciarono a baciarsi così, senza dire troppe parole, che a volte sono di troppo, no? Le poggiò una mano sulla spalla, la fece scendere lentamente sul braccio e, mentre le loro lingue facevano una specie di lotta greco-romana la spostò sul seno. Tettedoro pensò con notevole soddisfazione mentre le faceva passare l’altra mano sotto alla camicetta e le sganciava il reggiseno.
Ora sentiva anche la punta di rum che le aveva versato nel frappé, l’aveva portato da casa dentro a una bottiglietta dell’acqua minerale e mentre le rovistava il palato molle con la lingua e le impastava il seno sinistro come pasta da pizza, sentì la mano di lei scivolarle sul pacco. “ E dai!” pensò preparandosi a scavalcare la leva del cambio, quando lei si irrigidì e urlo: - Chi cazzo era quello? –
Rimase un attimo interdetto, il seno di lei adagiato morbidissimo nella sua mano, poi si svegliò dall’incantamento e disse: - Cosa? –
- Là fuori. – disse lei indicando la siepe alla sua sinistra. C’era qualcuno che ci guardava. –
Anthony si sporse verso il finestrino passando sopra di lei e ne sentì il profumo. Mamma mia che profumo che aveva, faceva pensare a letti sfatti e pelle rosea e sudaticcia. – Non vedo niente. –
- C’era una faccia lì. Ci guardava. –
- Aveva un impermeabile giallo e un uncino al posto della mano? – le chiese sarcastico e capì di averla fatta grossa. Non fare mai capire alla pollastra che la consideri stupida. Si incazzano e non te la danno più.
- No, non aveva un uncino, stronzo! –
- Aspetta un attimo. – disse lui, si aggiustò come poteva la maglietta, tentò di riposizionarsi l’uccello nella postura da camminata e uscì dall’auto.
- Attento! – disse lei e lui si voltò sorridendo. Si avvicinò alle siepi girando intorno all’auto, infilò le mani tra i rami e – Cazzo che male! – disse dividendoli.
- Cosa c’è? – gli chiese lei tirando la testa fuori dal finestrino.
- Spine. Cazzo che male, sanguino. –
- Oh! – disse lei. Sembrava più calma, e quell’ “Oh” sembrava promettere un qualcosa di simile all’infermiera sexy.
Lui guardò di nuovo nella siepe, aveva sentito un rumore, aguzzò lo sguardo per vedere nel buio, ma c’erano solo silenzio, se si può definire silenzio la brezza tra i rami e l’acqua che scorreva a una quindicina di metri.
- C’è qualcuno? – chiese ad alta voce e per un attimo si sentì il fesso dei film horror, quello che sta in macchina a pomiciare con la ragazza, ah-a!, esce perché lei ha sentito qualcosa, ah-a!, si inoltra tra le frasche, ah-a!, e viene infilzato dal maniaco con l’uncino che poi lo appende sopra l’auto a sgocciolare per bene. Era paura, quella? Aveva paura di cazzate simili? Cazzo, gli era venuto piccolo come il mignolo del piede.
- Non c’è niente. – le disse girando a passo (non troppo) svelto intorno all’auto e riinfilandosi dentro. Chiusa la portiera si sentì più tranquillo, l’auto era calda e satura del profumo di Emily. Non si era neanche riallacciata il reggiseno, cazzo, aveva la camicetta sbottonata per metà e lo spettacolo era davvero … - Niente! – e le sorrise.
Ricominciarono a baciarsi ridendo delle loro paure infantili e le loro mani tornarono dove si erano fermate prima. – Emily! – le disse mentre lei gli slacciava la cintura, una mano di lui sul seno e l’altra che le scendeva sulla schiena verso l’inizio dei glutei.
- Cazzo! – urlò lei staccandosi con violenza e lui si girò subito. Con la coda dell’occhio vide davvero un ramo muoversi. Poteva essere il vento, poteva essere stato lui a spostarlo e ora era tornato al suo posto. Poteva, sì. Ma si era mosso.
- Ma chi cazzo … - disse riallacciandosi la cintura, poi accese i fari. La siepe si illuminò a giorno mettendo in mostra tutta la sua decorazione di preservativi appesi come bocce di Natale.
- Vedi niente? – le chiese.
- Ora no, ma c’era una faccia, ne sono sicura. –
- Va bene. Ora scendo e gli spacco il culo! – e poggiò la mano sulla maniglia della portiera.
- No. – disse lei prendendolo per un braccio. Era spettinata, bellissima.
- È un guardone, capisci, ora lo prendo e gliela faccio pagare. – ma malgrado l’incazzatura non è che avesse poi tutta questa voglia di infilarsi tra quelle siepi. Continuava a ripensare al fesso dei film che finisce a sgocciolare sangue sulla sua auto appeso per i piedi.
- No, Tony. Andiamo al bar e prendiamoci un altro frappé. Dai! –
Si guardò intorno, aveva voglia di spaccargli la faccia a quel porco, ma aveva anche paura di uscire. Un frappé? Ma sì, dai. – Andiamo, magari poi andiamo a vederci un film al drive in. – non si poteva scopare al drive in, al massimo sbaciucchiarsi un po’, ma dopotutto …
- Va bene. – disse lei, e sorrise. Lui avviò il motore, innestò la retromarcia e si allontanò. Ma sì, dai, sarebbero andati al drive in, chi se ne frega del parcheggio. E si allontanarono nella notte.

- Cazzo! Ma potevi starci attento, ancora un po’ e quello scendeva a spaccarci la faccia! – disse Wally, un tredicenne che aveva sentito a scuola da amici comuni che Emily Tettedoro Baker quella sera sarebbe andata con Tony Jones a farlo. E l’unico posto per farlo in macchina era lì.
- È che non vedevo niente! – disse Jimmy Rispoli, un dodicenne che seguiva Wally come un cagnolino ammaestrato.
- E infatti non abbiamo visto niente. – disse Wally che era incavolato da far paura. – Ma che ti credi, di poter appoggiare il naso all’auto? –
- Ma c’avevo un ramo davanti! –
- C’avevo un ramo davanti. – gli fece il verso Wally parlando con voce stridula. Era Tettedoro, cazzo, Tettedoro e gliela avrebbe data! –
- E ora? – gli chiese Jimmy che era molto avvilito.
- E ora? Ora ce ne andiamo a casa, cavolo! – e uscì attraverso la siepe e si incamminò verso casa. C’era CSI, se faceva in fretta vedeva almeno il secondo episodio. Ma guarda te quel fesso … - ‘notte Jimmy! – gli disse voltandosi un attimo, poi attraversò di corsa la strada.
Jimmy rimase lì dietro alla siepe per un attimo chiedendosi se dovesse passare fuori, cinquecento metri buoni prima di arrivare a casa, o se gli convenisse attraversare i Barrens. Guardò in alto, c’era la luna, non più piena, ma quasi. Si incamminò tra i cespugli bassi pensando a cosa avrebbero potuto vedere se fosse stato un po’ più attento. Doveva essere davvero una gran fica Tettedoro, si sarebbe tolta la camicetta e … e scivolò sul terreno scosceso e ricoperto di foglie marce. Scivolò sul sedere per un bel po’ andando a cadere circa dove cinquantaquattro anni prima era caduto uno dei più famosi architetti del mondo. Rise istericamente, lo faceva sempre cadendo, poi si guardò intorno.
Era coricato sotto a dei rami bassi, era in fondo a un fosso e la luce della luna lì non c’era. Tentò di alzarsi e rimase avviluppato nei rami. Si sentì come quello di quel racconto di Poe che aveva letto a maggio a scuola. Gli mancavano solo un pendolo affilato a volteggiare sul petto e i topi.
I topi? Altro che topi, cavolo, ratti. Jimmy odiava i ratti, cavolo, avevano quelle code rosa che gli facevano davvero schifo. Tentò di rialzarsi dal terreno umido e viscido e di nuovo un ramo lo tenne giù. – Cavolo! – disse, quando sentì dei fruscii intorno a lui. Fruscii tutto intorno a lui, ovunque, e rumore di piccole unghie, minuscole unghie che colpivano il terreno a ogni passo.
- Cavolo! – disse tentando di nuovo di alzarsi, ma la mano gli scivolò e finì ancora più in basso, i rami dei cespugli che lo schiacciavano a terra. Quei fruscii erano sempre più vicini. E c’era dell’altro, squittii. Erano topi, topi ovunque. Entrò nel panico più totale e a ogni tentativo di alzarsi finiva solo per scivolare più in basso e ferirsi le mani e la faccia contro i rami. – Aiuto! – urlò sentendo qualcosa di morbido che gli passava sulla mano. Era morbido, pesante, peloso e caldo. Guardò in quella direzione e vide due occhietti che luccicavano nell’oscurità, occhietti arancioni.
- Cazzo! - urlò tentando di nuovo di alzarsi e battendo violentemente la testa in un ramo più grosso. Il sangue gli sgorgò dalla fronte e gli entrò in un occhio. Riuscì a scrollarselo, ma gli squittii ormai erano migliaia. Vedeva i loro occhietti, migliaia di occhietti arancioni intorno a lui, gli mordicchiavano i calzoncini, gli camminavano sulle gambe. – Aiuto! – urlò ormai in preda al terrore, quando i ratti gli salirono tutti insieme addosso. Camminavano su di lui schiacciandogli addosso le loro pance calde e pesanti, sentiva il loro odore di fogna e muffa. Uno lo guardava stando in piedi sul suo petto. Era argentato nella luce della luna. E aveva gli occhi arancioni. Per un attimo fu ancora così lucido da chiedersi quando avesse mai sentito di animali che al buio hanno gli occhi arancioni, poi i ratti lo aggredirono tutti insieme e perse il senno molto prima della vita.
Quando il suo corpo finì di sussultare i ratti scesero da lui e si arrampicarono uno sull’altro fino a formare una colonna. Cambiarono forma, divennero un clown, poi il clown afferrò Jimmy per un piede e cominciò a trascinarlo verso un cilindro di cemento delle fognature, tane dei Morlock li chiamava Covone, e se lo trascinò nelle fogne fischiettando.

lunedì 30 luglio 2012

Capitolo XVII, Interludio.

XVII

Interludio

Stamattina mi sono alzato per la prima volta da quando sono ricoverato qui e, zoppicando e sacramentando per i dolori che sento in ogni parte del mio corpo, sono andato in bagno a pisciare. È stata la prima grande scoperta della giornata. Tutto può precipitare intorno a te, le fondamenta stesse di quello che tu ritieni la realtà possono essere scosse, ma svuotare la vescica quando ti scappa, rende sempre tutto più roseo.
La seconda scoperta l’ho fatta quando sono tornato nella mia stanza. C’ero entrato la prima volta in barella e pieno di antidolorifici e poi l’avevo vista sempre dal letto. Oggi sono entrato dalla porta e mi sono reso conto che è la stessa stanza in cui mio padre è morto undici mesi fa.
Avendo scoperto quello che ho scoperto, su Derry e su tutti noi che ci abitiamo, non mi ha stupito poi tanto. Non mi stupirebbe neanche scoprire che in questa stanza fosse morto anche mio nonno, ma è roba di moltissimi anni fa e nessuno lo potrebbe ricordare.
E ora sono qui, coricato nello stesso letto in cui mio padre Mike Hanlon è morto e scrivo sullo stesso quaderno che lui ha quasi del tutto riempito una trentina di anni fa.
Mi sembra di essere Frodo Baggins, sapete, quello de Il Signore degli Anelli, quando alla fine del libro scrive la sua parte di storia sul libro cominciato dal cugino Bilbo. Anche io aggiungerò la mia storia alla Storia di Derry, alla storia di It.
Ho letto e riletto quello che mio padre ha scritto, ho smesso solo quando è venuta trovarmi mia madre, lei non sa nulla, e mi riconosco perfettamente nelle parole di mio padre: “… non credevo che fosse possibile a un uomo di conoscere il terrore che ho conosciuto io … e continuare, non dico a ragionare, ma più semplicemente a vivere …” Ecco, anche in questo mi sto riunendo a lui.
Ho sognato un suo ricordo, vivo nella sua città, giaccio malato nel suo letto di morte, parole da romanzaccio gotico, eh?, e ora so quello che sapeva lui.
Sarebbe facile credere che mio padre fosse pazzo, ma Rachel Uris è qui. La figlia di Stan Uris, quello che non ebbe il coraggio di tornare, è qui.
Io sono qui, avrei potuto essere ovunque, anche morto in Afghanistan ma invece sono qui.
Dembrough e Tozier hanno ricordato, li ho visti e anche Hanscom, l’architetto, ho visto su Google che ha disdetto un incontro a Roma con dei pezzi grossi per un lavoro che sarebbe passato alla storia. Posso immaginare perché, e immagino che c’entri anche sua moglie, la Beverly di cui scrive mio padre.
E poi c’è Robert Gray. Sapeva chi ero, sapeva del Richard Tozier show, sapeva di mio padre. Parlava alla luna, come il Bowers che tiranneggiava mio padre e i suoi amici, Bowers come l’Harlan Bowers che mi ha aggredito l’altra sera.
E Robert Gray era l’alter ego umano di It, il clown Pennywise, e il mio Gray adescava i bambini travestendosi da clown
Che legame c’è tra i due Gray? Non lo so, ma oggi parlando al telefono con un mio collega ho scoperto due cose. Robert Gray a undici anni sparì per tre giorni, subito dopo l’alluvione, subito dopo che gli amici di mio padre avevano ucciso It, o pensarono di averlo fatto.
E anche un’altra cosa ho saputo, una cosa di quelle che dovrebbero farti fuggire via urlando, perché solo il protagonista di un film o di un romanzo horror non lo farebbe. Stanotte, all’incirca quando Dembrough e Tozier hanno dato spettacolo in diretta tv, all’incirca quando questo vecchio quaderno si è ricoperto di scrittura, la tomba di Gray è stata profanata.
Conoscendo i suoi crimini, c’era forse da aspettarselo, ma il mio collega, Andy Gaunt, un bravo ragazzo, mi ha detto che il corpo è scomparso. Non l’hanno impalato o bruciato o smembrato. È scomparso. E la terra sembra caduta dal tumulo, non sembra che sia stata spalata via. E infine, ma Andy mi ha detto che è meglio che rimanga tra noi, nella terra smossa c’erano delle impronte di scarpe. Si allontanavano dalla tomba, ma non ce ne era nessuna in senso contrario.
Ho riso alle sue parole, ho riso dicendo che è un credulone impressionabile, ma come mio padre ventisette anni fa, dentro non ridevo. Nell’85 It è entrato in Bobby Gray, in qualche strano modo, è cresciuto dentro di lui negli anni come un fungo velenoso in un tronco marcio e ora, dopo una bella strage inaugurale di quelle che accadono ogni venticinque - trent’anni qui a Derry, ne è uscito.
It è tornato, It è di nuovo in piedi, It ha di nuovo fame.
E io, Rachel e gli anziani amici di mio padre siamo gli unici argini che si frappongono tra lui e il mondo.
Ma se ventisette anni fa loro non ce l’hanno fatta ad ucciderlo, e non so molto altro perché non hanno mai raccontato a mio padre cosa fosse successo là sotto, qua sotto anzi, perché dovremmo riuscirci adesso? Si può uccidere It? E, ancora più importante, cosa è It?
Ho delle idee su questo e parlando con loro ne avrò altre di ancora più sicure, ma se non sapremo rispondere a quelle tre domande, pensò che qualunque nostro tentativo sarà destinato al fallimento.

domenica 29 luglio 2012

Capitolo XVI, It.

XVI

It stava rassettando. La sua tana era rimasta abbandonata per ventisette anni e, anche se era rimasta impregnata della sua presenza abbastanza da tenere lontani scarafaggi e topi, tutto era comunque ricoperto di polvere e muffa.
Arrampicandosi sulle parete con le sue lunghe zampe pelose It andava da un lato all’altro della grande sala tendendo i fili della sua ragnatela. Era un lavoro che aveva fatto per milioni di anni, a ogni risveglio dal suo letargo, quando la fame di paura umana lo riportava qua dai suoi Pozzi Neri e lo faceva ridestare sotto al suo pollaio privato chiamato Derry.
Però, mentre era quasi sul punto di terminare il cerchio più largo di ragnatela, cui sarebbero seguiti a spirale quelli più stretti fino ad arrivare al centro, It si rese conto di stare fischiettando.
Come era possibile? Era una cosa da umani, una di quelle stupide debolezze che lui poteva utilizzare per farli suoi. E invece fischiettava. Riconobbe anche il motivetto, quella stupida canzoncina di Spiderman, TA-DA-DA’ TA-DA-DA’ TA-DA-DA-DA-DA-DA-DA-DA’.
Che gli prendeva? Si fermò e scese a terra appendendosi al suo filo, camminò fino al suo antro là in fondo, quello dove riposava e si guardò dentro.
Era diverso. Stava pensando. In milioni di anni di esistenza It non aveva mai pensato, se non in un modo molto semplice per catturare le sue prede. Solo da quando quei marmocchi lo avevano attaccato e ferito in Neibolt Street aveva cominciato a farlo, ma non gli era piaciuto, ne aveva avuto paura.
Ma ora era diverso. Sentiva i suoi pensieri concatenarsi ordinatamente nella sua testa, nel modo dei cervelli di quei ridicoli esseri di cui si nutriva.
Forse … sì, forse era così. La memoria dell’acqua, quel folle principio su cui si basa l’omeopatia. Per ventisette anni It, almeno nella sua incarnazione qui sulla terra, era esistito solo come parte dei pensieri di Robert Gray. Si era inserito in lui come un virus in un computer e lentamente aveva cominciato a conoscere il comportamento della sua mente. Ci aveva messo un bel po’, ma presto aveva cominciato a parlargli da dentro, prima come un pensiero tra i suoi, poi come voce autonoma, come la voce di un Padre che gli suggeriva cosa fare. Al momento della morte di Gray, ben poco dell’originale era rimasto in lui, per la maggior parte del tempo era It a pensare e ad agire.
E ora, ora che era finalmente uscito da quel ridicolo corpo, ora che si era potuto staccare da quella debolezza e da quei sentimenti, scopriva con fastidio che molto di lui, la struttura stessa della sua mente, gli era entrata dentro contaminandolo.
Uscì dal suo cunicolo e si avvicinò al corpo di Robert Gray. Quando era uscito da lui questi era tornato alla forma originale, quella del bambino che era arrivato fin laggiù spinto dal terrore e da una sorta di reminescenza dei pensieri di It. Lo aveva terrorizzato, lo aveva aggredito, gli aveva fatto pagare quei ventisette anni passati in un buco di corpo umano e ora il bambino giaceva in una sorta di coma avvolto nel bozzolo della sua ragnatela. Lo scosse per guardargli occhi, ma non erano più vivi di un sasso, se qualcosa di lui ancora viveva, purtroppo era nella sua mente.
Tornò ad arrampicarsi sulla sua ragnatela chiedendosi se fosse ancora sé stesso, o se fosse un qualcosa di diverso, di nuovo. Non aveva mai pensato a chi fosse e a quale fosse la sua essenza, domande da umani in crisi, ma ora lo fece.
Prima che It prendesse totalmente il sopravvento su di lui Robert Gray aveva cominciato l’università e aveva seguito corsi di fisica, filosofia e letteratura. L’influsso di It all’epoca lo portava solo ad uccidere piccoli animali con una sadica lentezza. Quelle materie erano piaciute a Bob e ora It si trovava a riutilizzarne i termini e le idee per inquadrare la sua esistenza.
Cosa era It? Non era davvero un ragno, proprio no, e di sicuro non era un dio.
Era eterno, o comunque esisteva da prima dell’universo, ma solo da pochi milioni di anni sapeva di esistere.
It pensò alla fisica, a quelle caratteristiche della materia e dell’energia come la gravità, il magnetismo, i legami deboli e forti. Erano ovunque ed erano connaturati a tutto.
Ecco, forse It era una tendenza della materia. Un buco nero fagocita una stella? Quello è It.
Un leone uccide una gazzella? È It.
Due bambini si prendono a schiaffi? Di nuovo It.
Un vulcano esplode distruggendo il territori intorno a sé? Anche quello è It.
It forse era una pulsione di odio e di distruzione che era ovunque e sempre presente.
Persino i Perdenti, i suoi nemici, lo avevano in sé, era stato It a far appuntare sulla bacheca da Bill Dembrough l’assegno per il suo primo racconto venduto. La voglia di vendicarsi sul suo professore era It. Beverly Marsh che schioccava la cintura sulle palle del marito violento per difendersi, provando però un certo perverso piacere facendolo, era di nuovo It.
E anche Ben Hanscom, il buonissimo Ben Hanscom, quando aveva vinto la gara di corsa ed era andato a vantarsi dal professore che lo aveva umiliato, era stato It a farglielo fare.
It era ovunque, c’era sempre stato e così sarebbe sempre stato, come così era anche per la Tartaruga che doveva invece essere la tendenza a creare e ad amare. Tutto era It, almeno in parte e quindi It era immortale.
Ma, come l’idrogeno che è ovunque nell’universo, in media un paio di atomi a metro cubo, e a volte collassa su di sé fino a creare una stella e le sue reazioni nucleari e il suo calore, una qualche particolarità, un qualche accidente aveva fatto collassare su sé stesso un po’ di quell’It amorfo e quello che ne era uscito fuori era questo It, quello sotto a Derry, che assomigliava all’It diffuso quanto una stella che devia il tempo e lo spazio intorno a sé assomiglia all’idrogeno siderale.
Quando quella tendenza al male e alla morte aveva raggiunto la massa critica, gli piaceva quest’espressione, era cominciata una reazione, un’evoluzione che lo aveva cambiato, così come dalla fusione del nucleo di una stella nascono calore e elio, e poi carbonio e poi ferro.
I Pozzi Neri, capiva ora che poteva pensare introspettivamente, erano solo quella non esistenza diffusa, una sorta di maligno Nirvana da cui veniva e in cui quei Perdenti avevano tentato di rispedirlo.
Ma It non era solo quel ragno, la stessa Derry faceva parte di lui, come un sistema solare nasce con la sua stella e con essa muore. Quando quei sette maledetti lo avevano ucciso era stata Derry stessa a richiamarlo in vita, perché lui era Derry e Derry era lui.
Ora era tornato, era di nuovo in piedi e aveva di nuovo fame. Prima si sarebbe nutrito di Derry, e poi si sarebbe vendicato di quei maledetti Perdenti.

sabato 28 luglio 2012

Capitolo quindicesimo.

XV

Dal News di Derry di domenica 8-7-2012. Editoriale del direttore.

“In un famoso film di qualche anno fa un personaggio diceva che è proprio prima dell’alba che viene l’ora più buia.
Ecco, a Derry è successo esattamente questo.
La nostra bella città era in declino, lo sapevamo tutti. È dal maggio dell’85, quando vi fu quell’orrenda alluvione che tutti noi adulti ricordiamo con orrore e tristezza, che Derry aveva cominciato a morire.
Le ferite del disastro erano state suturate per quanto possibile, ma le cicatrici rimaste erano impossibili da non vedere. E, peggio ancora, quella catastrofe aveva allontanato da noi gli investitori e la città era finita in una parabola discendente che avrebbe potuto portarla, in pochi anni, a fare la fine della vicina ‘Salem’s Lot, che da fiorente cittadina piena di vita si è trasformata in una ghost town da film western.
E poi, negli ultimi otto o nove anni, quando una generazione che non aveva vissuto la tragedia dell’alluvione cominciava ad affacciarsi alla vita adulta e pensava, comprensibilmente, di abbandonare la città, sono cominciati le sparizioni e gli omicidi di bambini.
E infine, martedì scorso, ecco l’orrore più grande, il momento più buio e cupo della notte di Derry, Allison e Louise Chambers sono state rapite e barbaramente uccise da J. D. Paniska e Robert Gray. Sembrava un punto di non ritorno per la nostra città, la morte civile di una piccola e sana comunità di brave persone, ma il rapimento e la successiva morte in un incendio dei due rapitori sono stati invece l’azimut della nostra sofferenza.
Nei due giorni successivi la città è rimasta come intontita dal dolore e dallo stupore, stringendosi intorno al signor Chambers che aveva intanto perso anche sua moglie che non aveva retto allo strazio della doppia perdita, così come si è stretta intorno all’agente Stanley Hanlon che coraggiosamente aveva arrestato i due mostri rimanendo gravemente ferito. Ma poi, la notte di giovedì c’è stata una scossa. Reale oltre che metaforica.
È stato come se quella piccola scossa di terremoto avesse risvegliato la nostra cara Derry. Si respira per le strade un’aria migliore, un’aura di ottimismo pare contornare tutto e il mondo si è ricordato nuovamente di noi.
È proprio di giovedì la notizia che l’Ikea ha deciso di aprire una nuova fabbrica proprio qui nella nostra contea, portandoci almeno seicento nuovi posti di lavoro.
E venerdì l’hanno seguita l’industria automobilistica FIAT-Chrysler e la Apple. Entrambe hanno scelto proprio la nostra città come sede di fabbriche e uffici periferici e gli esperti prevedono che queste nuove attività porteranno almeno altri duemilacinquecento nuovi posti di lavoro.
I tempi delle vacche magre sono finite, Derry, ci siamo di nuovo alzati in piedi e vogliamo rivendicare il nostro posto nello Stato e nell’Unione.
Stai attento a te, mondo, Derry è di nuovo in piedi. Derry ha di nuovo fame.”

Dallo stesso numero del News, pagina dieci, in fondo a sinistra.

“Inspiegabile incidente domestico. Eccezionale ritorno di pressione dalle fogne e water di un appartamento di Canal Street esplode. Frammenti di ceramica uccidono bambino di dieci anni.
Gli esperti del comune sono al lavoro per tentare di capire la dinamica dell’incidente. Il Sindaco si dichiara vicino ai genitori della vittima.”

E sì, Derry aveva di nuovo fame, non c’è dubbio.

venerdì 27 luglio 2012

Quattordicesimo capitolo. Stan e Rachel.

XIV

Naturalmente il programma non riprese dopo la pubblicità, mancava solo un minuto, un paio di battute e i saluti e saltarono senza problemi. Stan e Rachel rimasero lì, davanti alla tv accesa senza dire nulla, entrambi ricoperti di sudori freddi. Quello che avevano visto in tv non era molto normale, la piccola scossa di terremoto che c’era stata mentre Tozier e Dembrough finivano di parlare era stata inaspettata, ma il quaderno del padre di Stan che, come se mosso da una mano invisibile, era saltato per aria ed era caduto in terra mentre le sue pagine si sfogliavano da sole velocemente era stato davvero spaventoso.
- Lo raccolgo? – chiese Rachel.
- Sì. Attenta, però. –
- Certo. - fece tre passi, allungò cautamente la mano e sfiorò il quaderno. - È caldo. – disse, ma questo non stupì poi troppo nessuno dei due. Lo porse a Stan e gli chiese: - Chi lo ha scritto? –
- Mio padre, Mike Hanlon. –
- Quello che hanno citato Tozier e Dembrough, Mike il nero? –
- E se non sbaglio, Stan l’ebreo dovrebbe essere … -
- Mio padre. – rabbrividì e si passò una mano nei capelli. Le tremavano le gambe. – Ma come è possibile? –
Prendendo il quaderno Stan ne guardò la copertina. Non fu sbalordito quanto pensava dal trovarvi una scritta, evidentemente molto vecchia, che solo quel pomeriggio non c’era stata. “Derry: una storia non autorizzata della città.”
- Mio padre era il bibliotecario. Se sei stata in biblioteca avrai visto che l’entrata si chiama “Sala Michael Hanlon” Gliela hanno dedicata tre mesi fa, è morto di tumore al cervello undici mesi fa. –
- Mi dispiace. –
- Anche a me, grazie. Era un brav’uomo, non esagero, si sarebbe buttato nel fuoco per gli altri, ma era anche un grande mistero. Era stato solo, e mi hanno detto molto depresso, fino ai trentotto anni, poi, dopo l’alluvione, sai, quella catastrofica dell’85, ha preso a vivere.
Ha sposato mia madre, sono nato io, si è messo a fare sport e a coltivare un mega orto.
Non mi ha mai parlato della sua vita di prima, mai. A dire il vero penso che no la ricordasse.
Poi due anni fa ha cominciato ad avere dei mal di testa, poi dei tremori. – e mentre parlava Stan accarezzava quel quaderno che il padre aveva scritto molti anni prima – E poi sono cominciati gli incubi. Urlava tutte le notti, mi ha detto mamma, urla orrende, tentava di non dormire, perché diceva che qualcosa lo aspettava di là. A volte, appena sveglio, lo chiamava It. È per quello che mi ha fatto così impressione Michael Jackson che diceva quella frase, penso, perché mi sembrava che ripetesse le parole di mio padre. –
- Quando glielo hanno diagnosticato? – chiese lei tornando a sedersi accanto a lui e poggiando la sua mano su quella di lui che stava sul quaderno.
- Un anno e mezzo fa. Lo hanno operato, poi ha fatto radio e chemioterapia, per un paio di mesi è sembrato che funzionassero, io ero tornato prima per lui e poi in congedo definitivo. –
- E come stava? Si era ripreso bene? –
- Sì e no. Stava bene, per quanto si possa dopo aver vomitato tutti i giorni per due settimane, ma era diverso. Era come … spento. Non aveva più gli incubi, sembrava che ce l’avesse intorno, l’incubo. –
- Era per la malattia? Sapeva quanto era grave? –
- Sì. E pensavo anch’io che fosse per quello, ma … era qualcos’altro, qualcosa di peggio. Me lo ha detto dopo, quando stava di nuovo male.
Delirava, per molto tempo non c’era, poi ogni tanto tornava sé stesso e parlava con noi. Ma per la maggior parte del tempo parlava con persone che non c’erano. – Stan – diceva – chiama gli uccelli, dilli tutti. – ha detto una volta, e poi chiamava Big Bill, che ho scoperto adesso chi era, e mi urlava di non avvicinarmi ai tombini. Aveva paura degli uccelli, poveraccio, una paura fottuta. E io lo capivo, sai? –
- Come facevi? – chiese lei, che però sentendo il nome Stan, suo padre evidentemente, collegato ai nomi degli uccelli, aveva ricordato una cosa della sua infanzia, la volta che mamma e Ethan, il suo patrigno, l’avevano portata all’ospedale per la febbre. Non aveva forse visto … -
- Come facevo? È stato al college, c’era una festa e tutti prendevano ‘ste pillole, quella rossa, quella blu, quella gialla. E poi quella a coccinella, quella a paperella. A me piacque quella a forma di tartaruga, non so perché, ma l’ho presa. –
- Era LSD? –
- O qualcosa di simile. Mi mancano un paio d’ore dopo la pasticca, non c’ero proprio. Mi hanno detto che correvo nel prato in mutande, non so. È possibile, no? –
- Direi di sì. – disse lei sorridendo.
- Comunque l’ho buttata giù, ‘sta tartarughina e subito penso, ma che cazzo, non fa niente, ma poi mi accorgo che non sono più lì con gli altri, sono in mezzo a delle macerie, mi sembrava di essere in quella poesia, Ozymandias, l’hai letta? –
- Guardate alle mie opere o potenti, e disperate! – disse Rachel con voce impostata.
- Ecco. E non è che mi sembrava di essere lì, devi capire, ma c’ero per davvero. E la mia pelle non era così chiara, era nera nera. E così mi rendo conto che sono mio padre. Io ero Mike Hanlon, ero mio padre a dieci anni. E mentre giro per queste macerie enormi mi aggredisce una cosa. Sapevo che era il Rodan, e io personalmente non avevo la minima idea di cosa fosse, ma Mike Hanlon che io ero in quel momento lo sapeva. E quell’uccello enorme, quella sorta di pterodattilo da incubo, mi fa fuggire in una ciminiera. Non sembrava un sogno, devi capire, era vero. –
- E poi? –
- E poi mi sono ripreso coricato sul prato, non so come finisse quella storia, e l’ho dimenticata, pensando che ci fosse qualcosa di psicanalitico, di edipico, capisci, ero mio padre e mi aggrediva un uccello. –
- Capisco. – disse lei sorridendo, ma ora ricordava bene. Aveva avuto le convulsioni e aveva visto, anzi era stata suo padre bambino. C’erano dei bambini morti, in una grande cisterna. Ed era scappato (scappata?) dicendo il nome degli uccelli, i nomi latini.
- Capisci? –
- C’era una cisterna qua a Derry, grande e bianca? – chiese lei.
Stan non capì il collegamento, ma rispose: - Sì. È crollata nell’85. –
- E allora ti capisco molto bene. – disse lei con un sorriso incredibilmente amaro – Credimi, ti capisco anche fin troppo bene. Mio padre fu aggredito lì, da bambini zombi, e si difese urlando i nomi degli uccelli, i nomi scientifici. –
- Cazzo. – disse Stan e rimase per un po’ in silenzio. Poi disse: - Una volta, mentre mio padre delirava su questi uccelli io gli ho detto, non so perché: - E il Rodan, lo hai mai visto? –
- E lui che ti ha detto? –
- Mi ha guardato, pover’uomo, e lo so che sapeva chi ero. Mi ha guardato e mi ha detto: - Se sai questa cosa non è morto. Vattene via da qui, prima che puoi. – e prima che potessi chiedergli spiegazioni si è rifugiato di nuovo nel suo delirio. –
- Non ti ha mai più detto niente? –
- No. È morto una settimana dopo, ma in realtà quelle sono le ultime parole che mi ha detto. –
- Però ti ha lasciato questo. – disse Rachel battendo l’indice sulla copertina lisa del quaderno. –
- Sì. – rispose lui e poi cominciò a piangere.
Rachel gli passò un braccio intorno alle spalle e pensò che era bello stringerlo a sé mentre piangeva. Ma doveva chiedergli una cosa. – Che cazzo era ‘sto Rodan, poi? -

giovedì 26 luglio 2012

Tredicesimo, Bill e Richie.

XIII

- Ciao Big Bill! – disse Richie – Come butta? –
- Sempre all’erta. – e si misero a ridere.
Tozier guardò il gobbo e lesse: “Il libro di racconti, da dove gli vengono le idee, perché non horror”
- Allora, Big Bill … Bel libro, racconti, non horror. Come mai? –
Bill inspirò rumorosamente e si apprestò a rispondere, ma fu interrotto da Tozier che disse: - Mi è piaciuta molto la scena de “Il corpo” in cui i quattro ragazzi affrontano i bulli di Ace, ma perché non ce l’hai messa? –
- Cosa? – chiese Dembrough, ma la sua faccia era la meno stupita nello studio. Richie stava improvvisando e Richie non improvvisava mai, se non era costretto.
- La battaglia a sassate, Big Bill, la battaglia a sassate. E non hai neanche scritto che Ace era brutto come il sedere di un mulo. –
Bill rise alla battuta e disse – Beep-Beep Richie.- e giù altri sghignazzi da preadolescenti. Tutti nello studio li guardavano sbalorditi.
- Ma non l’ho scritto perché se devo immaginarmi Bowers se posso lo immagino un po’ più bello di come era. – e rise di nuovo.
- E non ci hai messo nemmeno Bev, cacchio Big Bill, Bev con la sua fionda li avrebbe fatti secchi. –
- Eh già. Se ti devo dire me la ero proprio dimenticata, colpiva tutte le lattine, no? –
- E colpiva pure altre cose, ti ricordi in Neibolt Street? Lo ha preso in pieno! – e dopo aver detto queste parole Tozier parve ingrigire come un cadavere e si accasciò sulla sedia. Tutto gli girava intorno, perché insieme al licantropo di Neibolt Street aveva ricordato anche il viaggio, anzi i due viaggi, nelle fogne. Ancora non ricordava il perché e il per chi, ma sapeva che anche questo crudele cetaceo stava per venire a galla.
Anche Dembrough aveva tremato a quelle parole, ma i suoi ricordi erano un po’ più chiari. Poggiò una mano sul braccio di Richie e disse: - Tranquillo Boccaccia, v-va tutto b-bene. –
Oramai lo studio televisivo era tutto un andirivieni di persone agitate, l’assistente di studio parlava col regista, i cameraman chiedevano cosa dovevano inquadrare, il gobbista sfogliava i grandi fogli che teneva in mano tentando di capire a che punto fosse arrivato il signor Tozier, mentre l’agente di Bill parlava un po’ con tutti tentando di spiegare cose che non sapeva.
- Ti ricordi, Big Bill, eravamo una forza noi sette eh? I Perdenti, il balbuziente, il ciccione, il secchione, la bella vestita di stracci …
- E Eddie che aveva l’asma e Stan che era ebreo e Mike che era nero. – disse Bill e aveva le lacrime agli occhi. Dentro di sé ringraziava il cielo per quei bei ricordi che gli stavano invadendo la testa, perché bilanciavano almeno un po’ quegli altri ricordi, quelli di IT. – Una bella squadra di perdenti eravamo, eh? –
- Ma li abbiamo fatti neri. – disse sorridendo Richie, poi rabbrividì di nuovo e disse con la voce un po’ tremante – Abbiamo fatto nero anche lui, vero Big Bill? –
La faccia di Dembrough sembrava un collage. I suoi occhi erano quelli di un bambino, ma il resto del suo volto sembrava invecchiato di dieci anni in un paio di minuti. – L’abbiamo fatto nero, sì. – disse, poi cominciò a piangere e disse – Stan e Eddie non … Gl-gliela faremo p-p-pagare a quella stronza, fosse l-l-l’ultima cosa che faccio la ammazzo. –
- Sono con te Big Bill, sempre e comunque. –
- Lo so Boccaccia, lo so. – e risero insieme.
Il caos nello studio era ormai totale, c’era chi voleva interrompere il programma, chi pensava che fosse meglio andare avanti fino alla fine facendo finta di niente, l’editore di Bill aveva chiamato l’agente urlandole offese che sarebbero state eccessive anche per Giuda Iscariota e Adolf Hitler, lei aveva risposto difendendo Bill e mandando a cagare l’editore, l’assistente di studio si era lanciato verso Richie entrando nell’inquadratura e il gobbista l’aveva afferrato trascinandolo indietro dando origine a uno dei filmati di Youtube che avrebbero spopolato per settimane. Intanto Bill e Richie continuavano a parlare tra loro fregandosene delle telecamere, totalmente presi dai loro ricordi che ogni minuto di più si accavallavano nelle loro menti.
E poi, quando a Derry, un centinaio di metri sotto a Derry, a dire il vero, It sprizzò come acqua frizzante dal corpo di Bob Gray redivivo e scivolò come melma fino a riunirsi al suo corpo, quando il ragno che non era un ragno ricominciò a muoversi e si palesò nella sua forma di clown a Bobby per ringraziarlo, allora tutto tornò in mente ai due uomini seduti uno a fianco all’altro e per un attimo entrambi pensarono di morire, lo sperarono forse.
Ma non accadde. Il terrore li galvanizzò, si sentirono di nuovo giovani, ragazzini intrappolati per sbaglio nel corpo di due anziani vestiti eleganti e seppero cosa dovevano fare.
- Vado? – chiese Richie a Bill, perché Bill era il capo, lo era stato allora e lo era anche adesso.
- Vai Boccaccia. T-t-tocca a te. –
Richard Tozier guardò in camera con una faccia seria che il suo pubblico non conosceva, poi sorrise e disse: - Ci vediamo a Derry, ragazzi. È tornato. – poi sorrise e disse: - Pubblicità. – e appena le telecamere furono spente scoppiò il pandemonio.
Mentre Richie tentava di calmare i produttori e lo staff, Sandra, l’agente di Bill, gli si avvicinò col telefonino in mano, lo teneva come se fosse stato ricoperto di vermi. Non aveva lo sguardo incazzato che si sarebbe aspettato, sembrava che stesse per piangere. Lui capì subito.
- Audra. – disse, poi prese il cellulare.

mercoledì 25 luglio 2012

Capitolo dodicesimo, di nuovo Stan e Rachel.

XII

Colpo di fulmine. Che sarebbe poi a dire quando un uomo e una donna, o due uomini o due donne, dipende dalle preferenze, si vedono per la prima volta e, sbadabàn, sono innamorati, cotti a puntino come due begli arrostini con patate al forno.
Voi penserete che sia una cazzata, roba da bambinetti che si infatuano della prof di matematica solo perché ha la gonna sopra al ginocchio e si appoggia al davanti della cattedra spiegando le equazioni. Di solito è così. Ma nel caso di Stan Hanlon e di Rachel Uris, anche se loro non se ne erano ancora resi conto, perché lo si potesse definire senza tema di smentite un colpo di fulmine, sarebbe mancato solo il tuono.
Rachel si era seduta accanto al letto di Stan e quel profumo che lei spandeva intorno a sé, “hipnotic qualcosa che suona francese qualcos’altro”, ma anche proprio il profumo della sua pelle, avevano fatto dimenticare a Stan il dolore per le fratture e la delusione per il comportamento dei suoi superiori, e dei suoi concittadini.
E lei, essendo un medico col suo paziente non poteva pensare a lui come un uomo, si sa, ma quegli occhi nocciola, così calmi e tristi, quella pelle che più che nera sembrava molto abbronzata, quel sorriso sincero quando le aveva fatto dei buffi complimenti, le avevano fatto venire voglia di sedersi accanto a lui a parlare di tutto e di niente, dimenticandosi della fatica del turno di notte in corsia, dimenticandosi dell’affitto da pagare, dimenticandosi del linciaggio che c’era stato tre giorni prima e che le aveva fatto venire voglia di tornarsene giù al sud.
- Vuoi dell’acqua? – gli chiese vedendo che continuava a masticarsi le labbra e lui le aveva detto di sì. E quando gli aveva porto il bicchiere, sebbene la mano sinistra l’avesse funzionante anche se un po’ ammaccata, le era venuto naturale reggerglielo mentre beveva.
- Grazie. – disse lui sorridendo e a quel sorriso, mentre in tv lo speaker con la sua voce stentorea annunciava l’inizio del Richard Tozier Show, in diretta dalla più mitica città de mondo, Los Angeles, Rachel si innamorò del tutto di Stan. E lui, be’, in realtà lui si era già innamorato di lei quando nel suo doloroso dormiveglia l’aveva presa per Rachel Weisz.
Sullo schermo Richie Tozier entrò in scivolata in mezzo allo studio, e Stan disse quello che aveva sempre pensato vedendolo entrare così. – Qualche volta ci rimane a fare quella corsa. –
- E sì. – disse lei e sorrise, perché era stata lì lì per dirlo anche lei. Anime gemelle, o almeno cazzate gemelle, che era già qualcosa.
- Oggi a casa io e la mia colf abbiamo sentito Romney che diceva che se va avanti così con l’immigrazione, gli Stati Uniti dovranno cambiare lingua ufficiale. E lei ha detto: “O mio Dio. E come faccio a imparare l’inglese?” – disse Tozier sbagliando totalmente i tempi comici, che sono quella cosa che ti accorgi che esiste solo quando il comico non ne becca uno.
- Ma sta male? – chiese Stan – Mi sembra più vecchio di dieci anni. –
- Eh già. – disse Rachel – C’ha delle occhiaie che fanno paura. –
- Avete letto che in Italia Berlusconi si vuole ricandidare a premier? – chiese Tozier al pubblico, poi sorrise e aggiunse: - Certe volte per quanto tiri lo sciacquone non vogliono proprio andare giù nelle fogne, eh? – e il pubblico rise di gusto, ma alla parola fogne Tozier sembrò avere un mancamento.
- Per me sbatte in terra tra meno di un minuto. – disse Rachel togliendo un peletto dal camice di Stan. Lo fece così, senza neanche pensarci e anche a lui sembrò normale.
- Lo sapete perché Kim Kardashian non si è ancora risposata? – chiese ancora al pubblico Richie e qui sembrò riprendersi un po’. Il pubblico reagì bene alla battuta che seguì e lui continuò col suo repertorio tipico sui matrimoni delle star, che durano meno degli effetti collaterali del viagra, sui candidati repubblicani e le loro figuracce, sul matrimonio di Tom Cruise, sul divorzio di Tom Cruise, sulla figlia di Tom Cruise.
Passò poi allo sketch di Facebook, quando si sedeva al computer e faceva finta di non sapere neanche da che parte aprirlo, ma a questo punto Stan e Rachel non lo seguivano più. Si erano messi a parlare di film con Tom Cruise, parlando dei loro preferiti, imitando le battute più famose, ridendo dei momenti più cretini e dicendo cose stupide che non avrebbero mai ricordato, perché l’importante era la complicità che si rafforzava tra loro.
Dopo la top five della serata, i cinque motivi per cui un cane voterebbe per Obama e non per Romney, arrivò il momento del tizio un po’ scemo che fa cose molto sceme. Quella sera era un clown, uno di quelli che arrotolano i palloncini formando animaletti che poi sono sempre bassotti, barboncini e giraffe.
- Uh quanto odio i clown! – disse Rachel facendo una graziosa smorfia di disgusto e Stan sorrise, perché anche lui li aveva sempre odiati.
- Quando divento re del mondo, li metto fuori legge. –
- Hai il mio voto. –
- Li mando a spalare letame, ma con le loro scarpe extra lunghe ai piedi. –
- Giusto! – disse lei e pensò di baciarlo, ma lo vide allargare gli occhi in segno di stupore e si voltò a guardare la tv.
- E che cosa sarebbe quel palloncino, perché sembrerebbe proprio un … - disse Tozier, ma aveva la voce strozzata e stava appoggiato alla scrivania come uno a cui giri la testa. Malgrado il cerone che aveva in faccia era verde come il Joker. Mentre leggeva il gobbo gli tremava la voce.
- Ma si sente male per davvero! – disse Stan, ma in effetti quel clown coi palloncini in mano dava fastidio anche lui, gli ricordava il delirio di suo padre quando il tumore al cervello gli aveva tolto il senno.
- Per me fermano il programma. – disse Rachel, e chissà come mai le tornò in mente suo padre mentre si suicidava. Pensava che dovesse avere la stessa espressione di Tozier mentre si apriva i polsi.
Il pagliaccio fece un altro paio di palloncini, toh! Un bassotto e un barboncino! E poi se ne andò. Tozier sembrava ormai un morto rianimato con l’elettricità e quando gli strinse la mano parve toccarlo come un uomo normale toccherebbe una cesta di serpenti a sonagli. Poi guardò in camera e con un sorriso tirato disse: - Torniamo dopo la pubblicità. –
- Mamma mia. – disse Stan che era ingrigito vedendo la sofferenza del povero Tozier – Per te ricomincia il programma o no? –
- Non lo so. – disse lei. – Per me quel tizio aveva una paura fottuta. – e disse la parolaccia senza neanche pensarci. Non era un paziente, con cui si sarebbe controllata, era Stan.
Si rimisero a parlare di questo e quello, Atlanta, Derry, i film, le canzoni, ogni secondo più vicini e senza smettere mai di guardarsi negli occhi, quando dalla tv risuonò la sigletta del programma. Tozier era seduto alla scrivania, sembrava essersi ripreso, più o meno, e annunciò l’ospite della serata. – Ecco a voi lo scrittore Bill Dembrough! –
L’uomo che entrò in scena era un sessantenne, o qualcosa di più, alto e ben fatto, calvo e con la faccia simpatica, e ricordò a Stan un uomo politico di cui aveva letto tempo prima, il Presidente italiano Giorgio Napolitano. Quello che aveva letto di lui, l’impressione di calma e autorevolezza che quella vecchia faccia esprimevano dalle foto, corrispondevano perfettamente a Bill Dembrough. Solo che lo scrittore era di una ventina di anni più giovane ed era vestito sportivo. Anche lui era pallido come Tozier, aveva anche un discreto paio di occhiaie, ma stringendo la mano al conduttore sorrise. – Ciao Boccaccia! – gli disse e Tozier rimase per un attimo interdetto, poi parve illuminarsi, parve quasi ringiovanire, e gli rispose: - Ciao Big Bill. Come butta? –

martedì 24 luglio 2012

Capitolo XI, Richie.

XI

Quelli che amano parlare forbito chiamano questa cosa serendipità, che sarebbe a dire una cosa che ti accade, una cosa buona, mentre tentavi di farne un’altra. Fleming che lascia delle colture di batteri aperte e vi trova poi dentro una muffa che li ha uccisi, ed ecco lì la penicillina. Roentgen che appoggia sbadatamente una mano su una lastra fotografica mentre studia i suoi misteriosissimi raggi, tanto misteriosi da averli chiamati X, ed ecco lì che appare una bella radiografia della sua estremità
Un altro esempio era la carriera di Richie Tozier. Al culmine della sua carriera di dj, nel maggio 1985, quando tutte le radio sono ai suoi piedi, lascia tutto per tornare al paesello natio per una ragione incredibilmente stupida, visto che non la ricordava nemmeno più, scampa per miracolo a un mezzo cataclisma in cui la ridente cittadina si inabissa in una voragine puzzolente, torna a Los Angeles senza lavoro e, ecco lì la serendipità, schiatta il conduttore del programma di punta della notte della CBS di Los Angeles. E i produttori chiamano il trentottenne Richie che scopre che la sua faccia da secchione un po’ stagionato, che riusciva ad attirare solo un sacco di pugni alle medie e al liceo, risulta essere una vera e propria calamita in tv, rendendolo l’idolo delle folle, o almeno delle folle che alle undici di sera vogliono gustarsi delle interviste spiritose ma non cretine.
E ora, ventisette anni dopo, il buon Richie era ancora lì, quattro sere alla settimana, a leggere le battute che il suo formidabile staff di autori scrivevano per lui scartabellando giornali e siti web, mentre sulla sedia accanto alla sua si sedevano politici, campioni dello sport, intellettuali, star del cinema e comici affermati.
Era una bella vita, molto migliore di quella che sognava da bambino, anche se non ricordava poi così bene i suoi sogni di allora. E allora perché era così triste e irascibile negli ultimi giorni?
Sentiva come una cappa di aria irrespirabile su di lui, sempre più stretta, più irrespirabile dell’aria di Los Angeles in luglio. Le ultime due notti non aveva dormito quasi per niente, Kasia, la bella ventinovenne polacca che conviveva con lui da un anno, gli aveva detto che aveva incubi orrendi, incubi che parlavano di fogne e di pagliacci.
Seduto al tavolo del truccatore, mentre Sean gli dava un generoso strato di cerone sulla faccia, sfogliava il libro dello scrittore che sarebbe stato suo ospite quella sera. Bill Dembrough. Scriveva bene, il tizio, niente da dire. Le sue parole ti scorrevano addosso come acqua, ma le cose che raccontava facevano paura, anche se erano solo storie di ragazzi che camminavano lungo una ferrovia.
Negli ultimi giorni si era procurato alcuni libri di Dembrough e li aveva leggiucchiati e forse erano quelli che gli avevano fatto venire gli incubi, cazzo, quello scrittore c’aveva delle belle zone buie in testa.
Poi, alle dieci e venticinque, stava per andare in scena, lesse un paio di righe che parlavano di bulli che vessano i più piccoli e, senza neanche accorgersene si ricordò Henry Bowers, il suo incubo alle elementari. E proprio mentre ricordava questa cosa il truccatore gli urtò gli occhiali che caddero a terra. Richie senza occhiali era quasi cieco e anche Bowers gli aveva gettato gli occhiali a terra, cacchio, e glieli aveva anche rotti con una pedata.
- Cazzo Sean! – urlò facendo girare tutti nello studio – Ma perché non te le infili nel culo quelle cazzo di mani di merda? – e Sean raccogliendogli gli occhiali e porgendoglieli lo aveva guardato malissimo.
Si alzò dalla sedia aggiustandosi la giacca italiana blu notte, controllò di avere le scarpe da ginnastica grigio chiaro ben allacciate, perché Richard Tozier senza scarpe da ginnastica non lo avrebbero neanche riconosciuto gli Americani, poi si avvicinò all’assistente di studio e gli chiese quali erano gli sketch della serata.
- Va tutto bene, Richie? –
- Mi ha fatto cadere gli occhiali. – rispose quasi ringhiando – Ho dormito poco, ecco. –
- Con Kasia capisco. – disse l’altro, ma lo sguardo di Richie lo incenerì lì sul posto.
- Allora, dopo le battute e la canzone di Paul, che scenetta c’è? –
- Quel tizio dei palloncini. –
Richie rabbrividì e deglutì un paio di volte. – Chi? –
- Quel clown che arrotola i palloncini facendo bassotti e giraffe, sai, lo abbiamo visto tre giorni fa. Le battute sono tutte incentrate sul fatto che mentre arrotola i palloncini sembrano cazzi. –
- Clown? –
- Cosa? –
- Hai detto che è vestito da clown? –
- Sì. Due minuti, Richie. –
- Non lo voglio. –
- Chi? –
- Il clown. Mandalo via. –
- TI stai rincoglionendo, Richie. Stiamo per andare in onda. –
- Non lo voglio qui stasera! – urlò di nuovo e tutti si voltarono di nuovo a guardarlo, anche lo scrittore che era adesso al trucco.
- Senti Richie, calmati. – guardò in alto al timer, un minuto, i cameraman si stavano posizionando e il gobbista si era andato a mettere davanti al pubblico per suggerire le battute.
- Ti prego, Mitch. – disse Richard Tozier – TI prego. –
- Venti secondi, Richie. – disse l’assistente e allargò le braccia.
Cazzo. Pensò Richie, the show must go on si disse, allargò la sua smorfia di paura immotivata in un sorriso e si lanciò di corsa sul palco per fare la sua famosa entrata in scivolata. Gli sembrò di avere di nuovo undici anni e di fuggire da qualcosa di mostruoso. Erano le dieci e trenta, a un continente di distanza un qualcosa usciva da una tomba chiedendosi chi potesse mai essere e all’altro capo del mondo Ben Hanscom entrava nel Pantheon.
- Salve amici! – disse alle telecamere.

lunedì 23 luglio 2012

Decimo capitolo, Bill.

X

Sandra Smith, la sua agente, gli aggiustò il colletto della camicia con la disinvoltura che può avere solo chi è stato a letto con te, pensò Bill guardando il timer che diceva quanto mancava al suo ingresso in scena. Ed effettivamente era successo, dieci anni prima per cinque o sei volte e l’anno scorso un altro paio, dopo che lei aveva divorziato. Per fortuna non aveva rovinato la loro amicizia, non era stato sesso così bello da valere quella perdita.
- Sei pronto? – gli chiese ritoccando di nuovo il colletto.
- Come il toro prima di entrare nell’arena. – rispose lui.
- E dai! Lo sai che serve! –
A te, forse. Pensò lui, poi sorrise e disse: - Sono pronto. – e allargò il sorriso come un politico quando promette di abbassare le tasse.
La cosa a cui Bill Dembrough doveva essere pronto era l’intervista di dodici minuti al Richard Tozier show, in occasione del lancio del suo nuovo libro, una raccolta di racconti non horror incentrati sulle diverse stagioni della vita. Un’intervista in tv. Bill odiava le interviste in tv, perché odiava andare in tv.
Quello che noi vediamo in tv è solo una minima parte di ciò che accade in uno studio televisivo, aveva imparato Bill negli anni, e se andiamo lì con delle aspettative, esse saranno sicuramente deluse. Prendiamo quel programma lì, per esempio. Bill amava vedere il Richard Tozier show, perché il conduttore gli era simpatico. Avevano la stessa età, lo stesso accento, del New England, e usavano a volte gli stessi modi di dire, farsi cretine come “Puoi scommetterci la testa” e “A tutte l’ore alligatore”. A volerla dire letterariamente il Richard Tozier aveva su Bill Dembrough un effetto da Madeleine proustiana. Gli bastava sentirlo parlare per qualche minuto e subito lui si sentiva giovane e pieno di forza, pronto ad aggredire il mondo.
E ora … ora che era lì e vedeva il programma da dietro alle quinte, tutti i trucchi erano svelati. Vedere un programma tv dal vero gli faceva l’effetto degli spettacoli teatrali di Brecht che aveva visto all’università. Bill Dembrough amava la verosimiglianza, anche se nei suoi libri narrava quasi sempre di mostri che risorgevano dalle tombe, e la amava perché gli piaceva potersi immedesimare in quello che vedeva o leggeva dimenticando il palco o lo schermo cinematografico davanti a lui, o il libro che teneva in mano. Per questo aveva odiato i tizi che passavano sul palco con cartelli in mano tipo video di Bob Dylan dei tempi che furono.
E ora, qua era uguale: la mitragliata di battute che Tozier diceva a inizio programma? Erano scritte su un cartello bello grosso, Tozier doveva essere cieco come una talpa, e il conduttore le leggeva anche con una certa fatica. E non sembrava manco tanto simpatico, visto da lì. Aveva risposto molto male a un assistente di studio e aveva trattato male anche un truccatore. Sembrava un vecchio che avesse dormito poco, e dato che anche lui era nelle stesse condizioni, Bill pensò che avrebbe potuto uscirne una bella lite che avrebbe girato su Youtube per qualche millennio o giù di lì.
E poi Bill aveva un altro problema, che Sandra ignorava come quasi tutti gli altri che lo conoscevano, Cristo, a volte sembrava dimenticarselo anche lui. Bill balbettava, Bill Tartaglia lo chiamavano da piccolo, un brivido gelido a questo pensiero, strano, e l’unico modo di non farlo era parlare lentamente. Che a farlo con la gente normale passi per un pensatore, ma durante un’intervista con uno come Tozier, bene che vada sembri un fesso.
E le domande poi. Con gli anni era diventato scorbutico, come tutti i vecchi, ma per lui era stata una grossa sorpresa, perché era il primo Dembrough a superare i quarantacinque anni da un secolo a questa parte e non aveva mai avuto a che fare con i vecchi, non abbastanza da conoscerli bene e così si stupiva del cattivo carattere che gli era venuto. Se a ventitre anni aveva reagito ridendo alla domanda “Ma da dove le vengono le idee?” e a quell’altra peggiore, “Ma perché scrive horror?”, e a quarant’anni non aveva riso ma aveva abbozzato una spiegazione abbastanza divertente, se quelle domande gli fossero state rivolte da Tozier di lì a qualche minuto, sarebbero potuti finire in terra a darsi dei pugni, davanti a milioni di telespettatori in tutta la Nazione.
Mentre pensava queste cose gli passò accanto un tizio che aveva appena fatto una scenetta buffa con Tozier, era vestito da clown e arrotolava palloncini in forma di animale, ma sembrava sempre che la forma fosse quella di quel coso che pende tra le gambe di tutti i maschietti. Il numero era in sé penoso, pensò Bill, e Tozier era sembrato sul punto di sentirsi male mentre diceva le sue battute che leggeva sul cartello. Era sbiancato sotto al cerone e si era dovuto appoggiare al tavolo con una mano. “Speriamo che non mi muoia davanti.” pensò Bill alle undici meno un quarto quando il clown gli era passato accanto, come ho già detto,e gli aveva offerto sorridendo un palloncino rosso.
- George. – disse Bill sentendo che le gambe gli cedevano. Dritto in piedi tra la sua agente e l’assistente di studio Bill Dembrough ricordò all’improvviso suo fratello morto dopo l’alluvione del ’57, suo fratello a cui qualcuno, o qualcosa, aveva strappato un braccio e si allontanò disgustato dall’uomo truccato da pagliaccio.
- Va tutto bene, Bill? – gli chiese Sandra.
- Sì. – le rispose strizzando forte gli occhi e sperando che bastasse per non svenire mentre la sua memoria veniva alluvionata da una serie infinita di ricordi. Tutto quello che si era sdoppiato davanti a lui tornò a riunirsi in una visione unica e Sandra, preoccupata per Bill ma evidentemente più preoccupata per il suo venti per cento sui guadagni del libro che doveva pubblicizzare, lo spinse in scena.
E così, alle otto meno dodici, mentre una cosa senza forma e senza nome sfrecciava nelle tubature sotto a Derry, Bill Dembrough si trovò di fronte Richie Tozier che gli tendeva la mano e pensò che dopo tutto Boccaccia non era cambiato poi troppo dalla loro infanzia.

domenica 22 luglio 2012

Capitolo IX, Beverly Marsh.

IX

La vecchiaia quando arriva ti sottrae molte cose, pensò quella mattina Beverly Marsh Hanscom alzandosi dal suo lussuosissimo letto nella lussuosissima suite dell’ultralussuosissimo hotel nel centro di Roma in cui lei e suo marito avevano passato la notte. Una cosa che sicuramente le aveva sottratto era il sonno e il piacere di starsene a letto a poltrire. E così, non avendo assolutamente nulla da fare, Beverly si alzò dal letto alle sette e trenta e andò ciabattando in bagno.
Mentre il vetusto portone del Pantheon si chiudeva alle spalle di suo marito Beverly si sedeva sbadigliando sul water e svuotava la vescica ringraziando Dio di non aver dotato le donne di prostata, perché aveva notato che per Ben pisciare era diventato una sorta di tortura della goccia al contrario. Sfilatosi il pigiama mentre l’acqua della doccia raggiungeva la temperatura giusta, trentasette gradi e mezzo, pensò che era un bel po’ che dormiva in pigiama e non con la camicia da notte. E ancora di più che non dormiva nuda. Vecchiaia.
Rimase ferma sotto il getto d’acqua facendo scivolare via nello scarico, giù nelle fogne pensò con un brivido privo di senso, il lieve cerchio alla testa lasciato dal cicchetto della sera prima. Tanto prima delle dieci sarebbe arrivato un nuovo cicchetto a sostituirlo. Si insaponò con cura, ogni giorno di più le sembrava di puzzare di vecchio, si risciacquò e rimase poi altri cinque minuti sotto l’acqua, al diavolo il risparmio idrico e quello energetico.
Chiuso il rubinetto uscì dalla cabina gocciolando sul pavimento di cotto fiorentino o qualcos’altro di similmente lussuoso e si fermò davanti allo specchio. Per essere così vecchia era ancora bella. Strana frase che si dà torto da sola, pensò, come bella morte e puzza profumata.
Guardando il suo corpo di sessantacinquenne Beverly invidiò le donne nate brutte. Sì, le invidiò davvero, quelle donne nate grasse, quelle nate col naso storto e gli occhi bovini, quelle a cui le tette non sono mai cresciute e quelle che a dodici anni avevano già una sesta sproporzionata e molliccia. Quelle col culo piatto e le gambe secche, quelle col culo grosso che non sta nelle sedie. Quelle con una voglia sul viso e il sorriso storto. Quelle che hanno i capelli che appena lavati sembrano unti.
Beate loro, pensò, beate loro. Guardando i suoi seni che erano scesi di cinque centimetri buoni negli ultimi trenta anni, guardando le sue spalle incurvate, il suo ventre gonfio, i fianchi a rotoli e le gambe magre e cosparse di piccole vene violette invidiò con tutto il cuore le donne nate brutte.
Che grande fortuna la loro, pensò, che grande fortuna potersi immaginare senza gli sguardi degli uomini a carezzarti le forme, essere abituate a entrare in una stanza senza che tutti gli uomini si girino verso di te. E per strada, non essersi mai abituate a vedere gli uomini venirti incontro e poi girarsi per controllare se il lato B è all’altezza del lato A. Che fortuna sfacciata imparare che a questo mondo la gente non è gentile se gli chiedi qualcosa, pensò cominciando ad asciugarsi, sapere fin da subito che quando ti cade qualcosa nessun uomo si chinerà per raccoglierlo sorridendoti mentre te lo porge.
A undici anni era già bella, quando aveva incontrato Ben pensò stupendosene, e per lei il mondo era fatto di sguardi sognanti, per lei il suo aspetto era quello che vedeva riflesso nelle espressioni degli uomini che la vedevano.
E ora, pensò finendo di asciugarsi, le braccia ricoperte di piccole macchie scure là dove c’erano sempre state graziose lentiggini, ora era il nulla. Era invisibile agli occhi degli uomini, invisibile all’invidia delle donne. Aveva smesso di lavorare dieci anni prima, stanca di disegnare vestiti che non avrebbe più indossato. Non era più una madre, da quando allo scoccare dei diciotto anni Eddie se ne era andato al college per trasferirsi poi nell’Outback australiano per studiare i canguri e i koala. Non era più una moglie per Ben, al massimo un’amica con cui raramente se ne faceva una veloce, tanto per onorare gli anelli che portavano al dito. Non era neanche più rossa, i suoi capelli si erano ingrigiti quindici anni prima e da due anni non li tingeva più.
“Brace d’inverno
I capelli tuoi,
Dove il mio cuore brucia.”
Così aveva scritto Ben cinquantaquattro anni prima a Derry, pensò alle otto meno cinque stupita del nome di città che le era venuto alla mente, sbalordita da quel ricordo mai più tornato alla sua mente negli ultimi trenta anni, anzi no, ventisette anni. C’era poca brace nei suoi capelli, e poca nel loro matrimonio. E il peggio doveva ancora venire, pensò rabbrividendo. Alzheimer? Parkinson? Ictus? Aneurisma? Infarti o colpi vari? Cosa sarebbe giunto ad allietarli negli ultimi anni della loro vita?
E poi Ben si lamentava dei suoi cicchetti. Un po’ di whiskey al mattino, due sorsi di bourbon al pomeriggio, del vino rosso a cena e un bicchierino di whiskey ancora prima di addormentarsi e tutto sembrava diventare più rosa, sembrava un tramonto migliore. Un tramonto dal cielo rosso. Come quando si erano messi in circolo, pensò mentre la pelle le si accapponava così tanto da darle del dolore, si erano messi in circolo con le mani sanguinanti in un giuramento di sangue giurando di tornare a uccidere It. Questo pensò alle otto precise, mentre il clown sotto Derry si trasformava in Philip Stone e aggrediva il piccolo Bobby, mentre Audra Phillips saltava fuori dalla vasca da bagno per correre il suo ultimo tentativo di fuggire alla morte, mentre Ben crollava al suolo sopraffatto dalla memoria e mentre la mandibola di Eddie Kaspbrak si abbatteva in un urlo muto.
Seduta in terra con le spalle appoggiate a un comò Berverly Marsh ricordò tutto quello che aveva dimenticato e così, d’un colpo, l’avere sessantacinque anni le sembrò l’ultimo dei suoi problemi. It era tornato.

venerdì 20 luglio 2012

Capitolo VIII, Eddie, Myra e Audra.

VIII

Myra Kaspbrak non aveva scoperto come Patricia Uris di essere incinta poche settimane dopo la morte del marito. Myra Kaspbrak a dire il vero non aveva neanche mai potuto essere sicura della morte del marito, perché l’ultima volta che l’aveva visto lui stava partendo per la cittadina natia, Derry nel Maine, e l’unica cosa sicura era che pochi giorni dopo, mentre lei ne aspettava fiduciosa il ritorno, ché il suo Eddie non l’avrebbe mai potuta abbandonare da sola, le era giunta la notizia di uno spaventoso nubifragio che aveva devastato Derry facendone inabissare tutto il centro in una voragine fangosa e maleodorante.
Il conteggio finale delle vittime, più adatto a uno di quei paesi del terzo mondo dove pare che ogni acquazzone debba portare a delle stragi, era stato di ottantasette morti, tra i ritrovati, sessantuno, e i dispersi, ventisei tra cui Eddie.
Nessuno sapeva con precisione dove Eddie fosse stato durante la sua sosta a Derry e nessuno di conseguenza sapeva dove potesse essere finito durante il nubifragio.
Per Myra Eddie non era morto. Era ferito, in ospedale, privo di conoscenza, o di memoria, o in coma, o era stato rapito da un pazzo, dai terroristi, o l’aveva rapito una pazza che lo teneva prigioniero in una cantina umida abusando di lui.
Quando, nel 1987, vedendo in tv e sui giornali le foto oscene di una attrice che, ricordava solo allora, lo aveva incredibilmente colpito quando nell’81 l’aveva scarrozzata per la città, “Che capelli rossi!” le aveva detto con lo sguardo trasognato dell’adolescente che parla delle mutandine della cheerleader e quella notte aveva fatto un sogno erotico nominando più volte una certa Beverly, la nostra Myra aveva pensato che Eddie non fosse prigioniero di una pazza ma l’avesse in realtà lasciata per una donna più (magra) giovane e bella, il mondo le crollò addosso.
Lasciò il lavoro, abbandonò i pochi amici e si rifugiò, ancora più di prima, nel cibo, superando di gran carriera il limite dei centottanta chili nel mese di giugno dell’89. E fu allora, mentre seduta in poltrona si mangiava una fetta di torta alla crema, che il suo povero cuore soccombette alla ciccia che lo soffocava lasciandole solo il tempo di borbottare il nome del suo amato Eddie.
Quindi alle due del mattino non vi fu nessuno che avesse il sangue di Eddie Kaspbrak nelle vene che potesse in qualche modo reagire al terremoto della rinascita di It e l’unica cosa degna di nota che avvenne fu che lo scheletro ammuffito di Eddie, posato ormai da ventisette anni davanti alla porticina della tana del mostro, in posa composta per quanto lo permettesse l’assenza del braccio destro, fu scosso dalla vibrazione del terreno e perse definitivamente la connessione tra un osso e l’altro. Anche la mandibola cadde e, proprio a volerci vedere un qualche significato, sembrò che quelle ossa che molti anni prima erano state Eddie Kaspbrak, avessero emesso un urlo per quanto muto.
Le foto che tanto avevano colpito Myra nel 1987 erano invece quelle che Audra Phillips aveva fatto per Playboy alla notevole età di quarantacinque anni.
La Phillips e suo marito Bill Dembrough avevano fatto finta di avere accettato quel servizio fotografico, quando un giornale ti chiede di farti delle foto in cui ti si vede la passera, chiedi anche il parere di tuo marito prima di decidere se dire sì o no, per i duecentomila dollari che Hugh Heffner in persona le aveva promesso, ma tutti e due sapevano che quel servizio serviva invece per uno scopo ben preciso. Secondo una bella definizione dell’attrice Geena Davis a Hollywood esistono solo tre parti femminili: la bomba sexy, la procuratrice dello stato di New York e … A spasso con Daisy.
Con quel servizio la nostra Audra aveva attirato su di sé molta attenzione e aveva fatto capire ai produttori che malgrado l’età andava ancora bene per la prima delle tre parti suddette.
Dopo la pubblicazione del servizio, appartenente ad un’epoca in cui non esistevano ancora foto shop e la depilazione totale, servizio fotografico su cui molto ragazzini americani nati tra il ’71 e il ’74 si erano esercitati lungamente nell’arte di rendersi ciechi, per un paio di anni Audra era stata molto richiesta per film noir, normalmente nella parte della maliarda crudele e traditrice. La sua carriera di attrice, intendendo con questo termine la carriera di attrice in film per il cinema e non le comparsate in serie tv e soap opera che aveva fatto per i tre anni successivi, si era interrotta nel 1989, quando non era stata presa per la parte della bella archeologa cattiva del terzo Indiana Jones. Era chiaro a tutti che essendo coetanea di Harrison Ford e di ben dodici anni più giovane del coprotagonista Sean Connery non sarebbe stata credibile per nessuno come loro amante, e se non trovate una logica in queste ultime parole, non avete capito nulla del mondo del cinema.
Vuoi per la fine della sua carriera, vuoi per l’aborto spontaneo che aveva avuto al terzo mese della sua tardiva gravidanza, intorno ai cinquanta anni la bella Audra cominciò a chiudersi in sé stessa allontanandosi da tutti e passando sempre più tempo a letto.
I dottori parlarono di depressione, astenia, stanchezza cronica e mille altre cose, dovendo infine ammettere con il sempre più disperato Bill Dembrough che non avevano la minima idea di cosa avesse la donna.
Nel 1993 Bill fu costretto a farla ricoverare in una splendida casa di cura sulle colline dietro a Los Angeles e nel 1999, quando lei aveva 57 anni e lui 52, dopo sei mesi di silenzio totale, dovette riconoscere che Audra non si sarebbe più svegliata.
Arrivato ai giorni nostri Bill aveva cominciato a vedere Audra, che ormai non rispondeva neanche più agli stimoli dolorosi, come una donna in un film dell’orrore, tipo Notte dei morti viventi. Audra non era in coma, non era in stato di morte cerebrale. Audra aveva paura. Quando in quei film cominciano a gironzolare gli zombi, la gente prima si arma di fucili e piedi di porco e spacca teste su teste, ma quando gli zombi diventano troppi i sopravvissuti si chiudono in casa, asserragliati dietro porte e finestre sbarrate con tavoli e assi. Audra aveva paura di qualcosa, pensava Bill, qualcosa nella sua mente, e per non rischiare di esserne uccisa si era asserragliata nel più profondo del suo cervello, lontano da dove lui o chiunque altro la potessero raggiungere.
Era quindi una Audra Phillips settantenne e immobile che Camila Gutierrez, infermiera diplomata nata a San Salvador, stava lavando alle dieci e mezza di notte dopo averla calata nella vasca con un complicato sistema di cinghie e carrucole. Camila non aveva la minima idea di chi fosse quel corpo che curava tanto amorevolmente e di certo non la avrebbe riconosciuta se le avessero mostrato le foto apparse su Playboy venticinque anni prima. Fu mentre le passava una spugna sul braccio destro che, per la prima volta da dieci anni, Audra emise un suono. Era un gemito, in realtà molto simile a quello che era uscito dalla gola strozzata della povera prostituta uccisa dalla cosa che era stata Bob Gray.
Camila guardò con curiosità la povera Audra e rimase per un attimo ferma tentando di capire se fosse necessario chiamare il dottore. Decise poi di finire prima l’operazione di lavaggio e passò i successivi quindici minuti a rispondere con versetti infantili e schiocchi di lingua ai sempre più frequenti gemiti della donna. Aveva ormai finito di risciacquarla e si apprestava ad asciugarla quando Audra aveva spalancato gli occhi e si era messa a urlare frasi prive di senso che sembravano girare intorno a un clown e a un ragno e alle undici meno cinque, quando ormai intorno alla anziana donna si trovavano Camila, tre infermieri e il medico di guardia, Audra sorrise e disse, con voce molto chiara e solo un po’ metallica per il lungo silenzio: - Salve Bobby! – allargò ancora di più il sorriso, un sorriso cattivo, e disse: – Voglio proprio ringraziarti per avermi aiutato in questi anni! –
E poi avvenne in un attimo. La donna balzò fuori dalla vasca correndo sulle sue gambe atrofizzate in mezzo a infermieri e dottori spaventati, fece pochi metri in un corridoio dai colori pastello e poi crollò in terra, morta. Un filo di sangue le colava giù dall’occhio sinistro quando il medico di turno la voltò, ma il suo cuore era già fermo.

giovedì 19 luglio 2012

Ecco il capitolo VII:

VII

Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Santiago Calatrava, Renzo Piano e Ben Hanscom. Le archistar. Così li chiamavano, i grandi architetti che, secondo la simpatica definizione di un suo amico italiano erano passati ormai alla qualifica di Venerati Maestri, essendo le prime due quelle di Giovani Promesse, a inizio carriera, e Soliti Stronzi, a metà tra una e l’altra, nel pieno della creatività.
Erano gli architetti da cui ci si aspettava sempre un capolavoro e quando ti aspetti con tanta fiducia qualcosa, ti sforzerai in ogni modo di vederla in quello che ti troverai davanti. Per lui sarebbe stato meglio definirli invece quella manciata di architetti sparsi per il mondo a cui era permesso costruire qualunque obbrobrio senza essere per questo inseguiti con i forconi dalla popolazione inferocita.
Aveva sempre pensato, il nostro Ben, che la creatività fosse un qualcosa di connaturato all’immaginazione tipica della giovinezza, e all’età di 65 anni non si sentiva assolutamente giovane, soprattutto dopo una notte passata a rigirarsi nel letto in preda ad incubi orrendi, la seconda notte consecutiva, tra l’altro. Quando gli offrivano un lavoro, perché erano ormai molti anni che non doveva chiederlo, gli Stati, le città e i ricchi industriali facevano a gara per fargli costruire qualcosa, tentava di capire cosa desiderassero da lui, qualcosa di moderno e strabiliante, naturalmente, e lui scarabocchiava qualcosa su un foglio, mettendo delle pareti inclinate dove la logica le avrebbe volute dritte e dei vetri dove cinquemila anni di esperienza ci dicono volerci dei mattoni. Più quello che disegnava era illogico, e più andavano in visibilio.
Assonnato, più stanco della sera prima quando si era coricato accanto a Beverly come sempre un po’ puzzolente di Whiskey, con delle occhiaie che avrebbero potuto contenere più spiccioli del suo portamonete, Ben Hanscom camminava a passo spedito per la piazza antistante il Pantheon che torreggiava su di lui dall’alto dei suoi quarantatre metri. Le vie di Roma erano ancora semideserte, erano le sette e venti e l’aria era già incandescente. Salendo gli scalini al di sotto del frontone, M. AGRIPPA L. F. COS III FECIT diceva l’iscrizione che stava lì da una sessantina e più di generazioni della sua famiglia, vide il custode che stava ad aspettarlo. Era una delle poche cose che amava del suo essere il famoso Ben Hanscom, se chiedeva di visitare un monumento in orario di chiusura, la risposta era sempre “Sì, certo, è un piacere”.
Il custode lo salutò sorridendo, evidentemente doveva avere visto le sue foto durante un telegiornale, mentre stringeva la mano a Obama o a Putin o a chissà chi altro, armeggiò con la serratura e gli aprì la porta, una porta in quercia e bronzo che stava lì a girare su quegli stessi cardini da milleottocento anni e gli fece cenno di entrare. Poi gli chiuse la porta alle spalle. Per almeno un’ora, alle otto e mezza l’enorme tempio consacrato un tempo a tutti gli dei e ora alla Madonna sarebbe stato aperto ai turisti e ai fedeli, avrebbe avuto il tempio tutto per sé.
Solo in quella enorme sala circolare, mentre il sole faceva capolino nell’occhio in cima alla cupola, qualcosa come una quindicina di piani sopra di lui, Ben Hanscom ebbe uno di quegli attacchi di malinconia che aveva imparato ormai a conoscere come sintomi dell’incipiente senilità. Mentre all’altro capo del mondo una cosa non meglio identificata emergeva da una tomba chiedendosi chi era, particolare che per quanto lui non ne fosse cosciente era ben noto alla sua mente, una delle più note archistar del mondo piangeva vedendo quanto un architetto di milleottocento anni prima, Apollodoro di Damasco, che lavorava solo con matite, fogli di papiro, righe e squadre, fosse infinitamente più bravo di lui. Tutta quella bellezza, quella perfezione che si riversava nei suoi occhi da ogni lato, lo riempivano di inquietudine e meraviglia, forse anche di terrore, perché si rendeva conto di quanto il suo contributo alla storia dell’umanità fosse inutile e fastidioso.
Ben girava per la sala assorbendo ogni particolare, ogni costolone che formava la volta con i suoi cassettoni, ogni singolo disegno del pavimento policromo, sentendo qualcosa dentro di sé che si atrofizzava e moriva, l’orgoglio per il suo lavoro. Piangeva ormai a dirotto senza alcun ritegno, era solo, cacchio, terrorizzato e felice, non rendendosi conto che parte di quel terrore, o forse tutto quel terrore, venivano invece dalla cosa informe che stava in quel momento sfrecciando nelle fognature di una cittadina totalmente scomparsa dalla sua memoria ma che era stata fondamentale per lui. Più quella cosa si avvicinava alla sua tana, una tana che lui aveva visitato due volte con i suoi più cari amici tentando inutilmente di ucciderla, più Ben Hanscom si raggomitolava nel suo terrore impotente.
E fu alle otto, le due del mattino a Derry, proprio quando le zampe di un enorme ragno, che non era solo un ragno, cominciavano a muoversi, che Ben Hanscom realizzò con orrore che quella splendida sala, quel capolavoro, lo colpivano così tanto perché gli ricordavano una sala ipogea che aveva visitato. Mentre il ragno diventava clown e sorrideva, quanto malignamente, a un bambino, Ben ricordò dove questa sala si trovasse e nel momento stesso in cui il clown, che sembrava però adesso il non compianto Philip Stone, afferrava il bambino, Ben Hanscom ricordò tutto, ma proprio tutto e, emesso un urlo strozzato di dolore e paura, crollò al suolo perdendo i sensi su un pavimento vecchio di milleottocento anni. – IT – disse prima di chiudere gli occhi.

mercoledì 18 luglio 2012

Capitolo VI:

VI

Il mondo che ci appare omogeneo, è in realtà percorso da finissime linee di faglia che lo rendono fragile e basta che una forza venga applicata abbastanza a lungo e prima o poi, in un momento ben preciso, ci sarà una frattura.
Per esempio la diga del Vajont fu svuotata e riempita molte volte senza che il monte Toc vi franasse dentro e solo una volta, quella volta, il movimento dell’acqua scatenò la frana tanto famosa.
Un pugile può prendere molti pugni in faccia, anche molto forti, senza accusarne le conseguenze, quando poi ne basta uno, quello dato al momento giusto, per farlo crollare a terra senza speranza di rialzarsi.
Per secoli due zolle si spingono centimetro dopo centimetro e sopra di loro nascono e crescono città, e poi, senza che sia accaduto qualcosa di diverso dal solito, tutto cede e il terremoto abbatte tutto quello che si trova alla sua portata.
Quella notte, alle ore due del mattino di una domenica di luglio, fuso orario di Derry, una forza che aveva lavorato sotterraneamente per ventisette anni riuscì finalmente a spaccare la crosta che la imprigionava e tutto quello che su quella crosta era stato costruito crollò. Tutto avvenne contemporaneamente, ma noi lo dovremo raccontare un fatto alla volta.
Le prime avvisaglie della scossa furono dei granelli di terra che caddero giù da un basso cumulo. Era la terra che il becchino Jim Dufresne aveva accumulato sulla tomba del ben poco compianto Robert Gray. I suoi resti alquanto malridotti, per usare un eufemismo, erano stati sottoposti a una sbrigativa autopsia e poi, rigettati alla come viene viene dentro alla bara, erano stati consegnati alla madre Luella Okstetter che li aveva poi fatti inumare nel lotto di famiglia. Nessun prete aveva voluto dire qualcosa per il defunto e nessuno, a parte i becchini che avevano portato la bara, era stato vicino alla anziana donna in lacrime. La terra era stata buttata sulla bara, insieme a un cospicuo numero di sputi e poi il buon vecchio Bob Gray era stato lasciato a marcire da solo al buio.
E al terzo giorno dalla sua morte fu proprio la terra accumulata sulla sua bara che muovendosi preannunciò il terremoto che di lì a poco avrebbe sconvolto i protagonisti della nostra storia. Piccoli grumi di terra nera franarono giù lungo i bordi, un specie di frattura si formò nel monte di terra, un qualcosa di simile a un fuoco fatuo illuminò la notte sopra alla tomba. Qualcosa uscì dalla terra, un qualcosa di confuso e non ben definito, una luce che sembrava anche un’ombra, se mi passate il controsenso. Poi questo qualcosa si raddensò, prese una forma, parve cambiarla indeciso su cosa esso fosse, fino a raggrumarsi poi in una forma umana, la forma di Bob Gray. Questa cosa, perché non saprei come altro definirla, mosse dei passi incerti giù dal tumulo e sull’erba ingiallita dal sole di luglio, guardandosi intorno e tentando di capire che cosa essa fosse.
Vide il cimitero, i lumini, le lapidi ricoperte di nomi oramai staccati dalle persone che li avevano portati. Vide la notte intorno a sé e pensò di essere un vampiro. Forse lo pensò perché questo avrebbe pensato chiunque in questa situazione, forse fu una voce dentro di lei a suggerirglielo. Ma comunque fu questo quello che pensò e fu un vampiro quello che essa divenne.
Quei sentimenti inespressi che la percorrevano divennero fame, o sete di sangue, sarebbe meglio dire e la notte divenne il suo ambiente. Si mosse volando nel cimitero alla ricerca di una vittima e la trovò appena fuori dal muro di cinta. La voce dentro di lei disse alla cosa che era stata Bob Gray che quella ragazzina in piedi sotto a un lampione, un giovane prostituta romena che si vendeva per venti dollari a botta per pagarsi la dose di colla, ricordava con grande affetto un gattino di nome Bibì, e la cosa che era stata Bob Gray si trasformò subito in esso. Miagolò da dietro a un cespuglio per richiamare l’attenzione della ragazza e quest’ultima, sentendo quel miagolio, ritornò per un attimo bambina, se non nell’aspetto e nell’abbigliamento, almeno nel cuore. Questo voleva la cosa che parlava nella sua mente, perché i bambini hanno paure più genuine. Quando la ragazza si infilò tra i cespugli chiamando Bibì non fu il gattino ad apparirle davanti, ma il grosso cane che l’aveva aggredita a solo tre anni mordendole una gamba.
Inciampò per fuggire, urlò senza che nessuno la potesse sentire e si ferì le mani sui cocci di vecchie bottiglie che molte persone avevano negli anni buttato tra i cespugli al lato della strada. E fu mentre strisciava sui vetri urlando che la cosa che era stata Bob Gray la abbrancò. La morse, la succhiò, si nutrì di lei, mentre la voce dentro di lui si nutriva del suo terrore. Quando il povero corpo della ragazza fu solo una cosa quell’essere che credeva di essere un vampiro sentì la voce dentro di lui dire che era il momento di tornare a casa e afferrato il povero corpo che si stava raffreddando ai suoi piedi, volò verso il più vicino tombino.
Nessuno potrebbe descrivere il viaggio che fece nelle fogne inabissandosi verso la tana, perché non si muoveva come una cosa di questo mondo, ma cambiava forma e dimensioni a seconda del tratto di tubatura che stava percorrendo. Si mosse a velocità inaudite, trascinandosi dietro come un treno in corsa in un tunnel i topi e i pipistrelli così sfortunati da trovarsi sulla sua strada, fino a che arrivò davanti a una porta. Era una vecchia piccola porta, qualcosa dentro alla sua mente confusa gli diceva di averla già aperta una volta, e quando la toccò essa sembrò riprendere colore, tornare al suo stato naturale, mentre un segno di forma cangiante riappariva sulle assi laccate di rosso che la componevano.
Man mano che avanzava nell’enorme stanza questa si illuminava fino a rivelarsi un enorme antro dal pavimento ingombro di scheletri impolverati e ricoperti di ragnatele. In fondo, dentro a un cunicolo, la carcassa rinsecchita di un qualcosa che a Bob, o a quello che ne rimaneva, sembrò un enorme ragno. E fu allora che accadde. Il terremoto che avrebbe scosso le vite dei nostri protagonisti avvenne dentro di lui. Fu scosso dalle fondamenta stesse del suo essere e gli sembrò di somigliare a dell’acqua frizzante versata dalla bottiglia. Da ogni suo singolo poro, dagli occhi, dal naso, dalla bocca, qualcosa uscì gorgogliando e presa la forma di un ruscello di liquame andò a finire sul ragno. La luce nella stanza aumentò e Bobby vide il ragno fondersi con quel liquido denso e viscoso, riprendere vigore e forza, alzandosi infine sulle otto zampe.
Non era più un vampiro quello che guardava il ragno tornato alla vita, ma era un bambino di dieci anni, terrorizzato e affamato, sull’orlo del collasso nervoso. Il ragno sembrò ridere, la sua immagine tremolò come un riflesso sull’acqua e cambiò in quella di un clown. – Salve Bobby! – disse con un enorme sorriso irto di denti, offrendogli un mazzo di palloncini colorati – Voglio proprio ringraziarti per avermi aiutato in questi anni! – disse ridendo, ma fu allora che Bobby si accorse che non era un clown. Indossava una tuta arancione e scarpe da lavoro e lui lo conosceva.
- No! – urlò il piccolo Bobby tentando di scappare, mentre una cosa truccata da Philip Stone lo afferrava per dimostrargli tutta la sua gratitudine.

martedì 17 luglio 2012

Scritto fresco fresco ieri, il V capitolo:

V

Stan pensava che non ci fosse nulla di più noioso della scuola, quando ti beccavi due ore di letteratura inglese e la prof si metteva a spiegare Milton o Melville, ma non le parti divertenti, quelle pallose per davvero. E invece c’era di peggio. L’ospedale. Coricato in un letto scomodo, ma con tutti quei bozzi e quelle fratture gli sarebbe sembrato scomodo anche un materasso di piume d’oca, dopo una giornata di merda e dopo aver dovuto consolare tua madre che piange perché sei in ospedale, cazzo, dovrebbe essere lei a consolarti, sapendo che non potrai uscire per molti giorni e dovrai startene lì coricato a contare i secondi, i minuti, le ore, i giorni.
Era notte, le due pensava, ma non riusciva a raggiungere il suo orologio sul comodino verde pisello. Riuscì a prendere invece il telecomando, accese la tv e abbassò il volume fino a renderlo pressoché inudibile. E scoprì che c’è qualcosa di peggio dell’ospedale di notte quando non riesci a dormire. C’è la tv estiva di notte. Televendite, repliche, televendite, repliche di repliche, televendite, horror italiani degli anni ’70, televendite. Era quasi ipnotizzato da tanta schifezza dispiegata gratuitamente di fronte a lui.
- Non dovrebbe dormire? – chiese una voce dalla porta. Si voltò e rimase senza fiato.
- Ma allora non era una allucinazione. – disse.
- Cosa? – chiese la bella donna in camice bianco con un cartellino appeso al taschino e lo stetoscopio attorno al collo.
- Eh … È che quando mi hanno portato qui c’ero e non c’ero, perdevo i sensi e non sapevo bene cosa ero vero e cosa me lo immaginavo. E, ecco, ero convinto di essermi immaginato Rachel Weisz davanti al mio letto. –
- E sarei io? – gli chiese sorridendo la dottoressa, era un sorriso lusingato, molto molto gradevole.
- Beh, sì. Ero un po’ confuso, ma la somiglianza c’è tutta. –
- Rachel Weisz è molto più bella di me. – disse la dottoressa avvicinandosi e continuando a sorridere, bellissimi denti, oltre a tutto il resto, tirò fuori una piccola torcia e gliela puntò nell’occhio sinistro, poi gli forzò un po’ il sopracciglio destro ancora molto tumefatto e la puntò nell’altro. – Bene, bene. – disse.
Stan rimase per un attimo come immerso in una nebbia verde, poi ricominciò a vedere bene. La dottoressa gli stava controllando i bernoccoli, era china su di lui e un suo seno era a sì e no a cinque centimetri dal suo naso. Si rese conto di non aver subito alcun danno all’apparato riproduttivo, proprio nessuno. Profumava di rose.
- Dottoressa Uris? – le chiese aguzzando l’occhio sul cartellino. Era bella anche in quella microfoto.
- Rachel Uris. –gli rispose tendendogli una mano e stringendo la sua con infinita delicatezza. – Non scherzo. Mi chiamo davvero Rachel. –
- Comunque sbaglia. – disse lui.
- In cosa? –
- Lei è più bella della Weisz. Lei non è truccata per girare una scena, lei è al naturale e sta facendo il turno di notte in ospedale. –
La bella dottoressa arrossì e si sfiorò distrattamente il naso graziosamente aquilino. – Certo che lei non si fa fermare da qualche frattura, agente Hanlon. –
- Stan. –
- È un bel nome. Si chiamava così mio padre. – disse lei.
- Un ricco possidente di New Orleans? – chiese lui ridendo – L’accento, sa? –
- Commercialista di Atlanta. – disse lei, ma forzò volutamente l’accento e disse “’Tlana”, vengo dalla città di Rossella O’Hara. –
- E che ci fa qua tra gli Yankee? –
- Mio padre è nato qui. C’era un posto in questo ospedale e volevo vedere dove era cresciuto. –
- Ah … - disse lui – Capisco. – e rimase in silenzio non sapendo bene come continuare.
Fu lei a parlare. – E ha avuto allucinazioni anche su Michael Jackson? –
- Non mi dica che c’è un dottore con quella faccia, che se no me ne frego delle fratture e scappo via. –
- No. È solo che quando la curavamo al pronto soccorso continuava a dire: “Ha ragione Michael Jackson.” –
- Dicevo così? –
- Ah - a! –
- O mamma! – poi ricordò. – Ho capito. Quando mi stavano menando, mentre linciavano Gray … Lo sa che è stato un linciaggio, no? –
- Sì. E so anche del rapporto che le hanno fatto firmare. –
- Ecco. È che quando lo stavano … va be’, lo sa … io ero strisciato lontano dall’auto in fiamme, vicino alla vetrina del negozio che vende elettrodomestici, sa, quello in fondo alla Witcham? –
- Sì, lo so dov’è. –
- E mentre ero lì che vedevo quell’orrore, mentre ero lì che tentavo di capire cosa avevo di rotto, ho guardato dentro alla vetrina e c’erano tutti quei televisori a schermo piatto accesi, una parete intera, e c’erano su tutti le immagini di quella conferenza stampa di Jackson, l’avrà vista anche lei, quella di quando è morto. –
- La presentazione dei concerti. – disse lei con lo sguardo interessato.
- Sì, quella. E quel che restava di Michael Jackson continuava a ripetere ossessivamente “This is it” una volta, due volte, tre volte, non so quante volte l’ha detto. E sarà stato per le botte in testa, sarà stato per la paura matta che avevo, non so, mi sembrava che Jacko parlasse di quello che avevo intorno, mi sembrava che parlasse a me e che mi dicesse “Questo è IT!” e mi faceva paura, una paura fottuta, se mi permette. “Questo è IT!” mi diceva, e io sapevo che parlava di quegli uomini che stavano facendo a pezzi il mio prigioniero, quelli che avevano quasi fatto a pezzi anche me. –
- Capisco. – disse Rachel Uris e sembrò che per un attimo quelle parole avessero detto qualcosa anche a lei. Le avevano fatto paura, le avevano ricordato il volto della madre quando, un’unica volta in vita sua, le aveva parlato della morte del padre, della morte di quel padre che si era suicidato il giorno dopo il suo concepimento rendendola orfana ancor prima di cominciare a esistere. Le sembrò che il Jacko descritto da Stan avesse parlato in realtà anche di quello. Scosse la testa e sorridendo disse: - Capisco. Cosa cercava in tv? –
Stan rimase un attimo interdetto, in realtà stava girando a vuoto col telecomando, solo per passare il tempo, ma la sua bocca parlò da sola. – Il Richard Tozier show. Lo ha mai visto? –
- Sì. – disse lei. – Lo guardo spesso durante i turni di notte. Dovrebbe cominciare proprio tra cinque minuti. – e prendendogli il telecomando cambiò canale mettendo sul 58.
- Anzi … - disse spostando la sedia accanto al suo letto – Se non le dispiace, avendo finito il mio giro, lo guarderei con lei. – e naturalmente Stan non disse no a quel sorriso. Fratture o non fratture non avrebbe mai detto di no a quel sorriso.

domenica 15 luglio 2012

Ed ecco il quarto capitolo. Buona lettura!

IV

Quando si svegliò per un attimo rimase con gli occhi chiusi a galleggiare sul letto. Dovevano essere gli antidolorifici. Poi cominciò a sentire i dolori, al volto, all’occhio destro, al braccio destro, a quello sinistro, a ogni respiro alle costole, al fianco e alla gamba sinistra. Ringraziò Dio per gli antidolorifici, ringraziò i chimici per averli sintetizzati, ringraziò i contadini che andavano a incidere i frutti del papavero, perché anche intontito come era stava soffrendo come un cane.
- Agente Hanlon? – gli chiese una voce sopra di lui – È sveglio, agente? –
- Sì. – disse, ma doveva sembrare più che altro un mugolio. Tossicchiò sentendo un male atroce alle costole e lo ripeté. – Sì. Sono sveglio. – aprì gli occhi, l’occhio, anzi, il destro era proprio chiuso, e vide di chi era la voce. Un nero enorme e magro, sembrava quello di Spartacus, quello che lasciano appeso a testa in giù. Moriva anche in un film di Leone, se non si confondeva.
- Sono l’agente Welsh. – disse l’uomo mostrando un tesserino dell’FBI.
- E non è gallese. – disse Stan che non sapeva bene quali pensieri gli rimanessero in testa e quali venissero invece emessi dalla sua boccaccia.
- No. Vengo del New Jersey. – disse l’omaccione e rise. Poi aggiunse: - Torno dopo. Quando starà meglio dovremo parlare un po’ di alcune cosette. –
- Ho colpito qualcuno? – chiese afferrandogli una manica con la mano sinistra, aveva due dita ingessate anche lei.
- No agente Hanlon. Ha ferito un tizio, ma non ha ucciso nessuno. –
Stan tentò di dire qualcosa, parve risprofondare nel sonno e poi disse: - Come Mussolini. –
- Cosa? –
- Lo hanno appeso come Mussolini, lo ha mai visto quel filmato? –
L’agente Welsh annuì e disse: - Dorma, agente, ora chiamo sua madre. –
E così, mentre Carole Danner entrava nella stanza dalle pareti bianche e blu e si sedeva accanto a suo figlio che era stato quasi linciato, Stan ripiombava nel torpore sognando di essere di nuovo in strada. La luna illuminava tutto e …

La luna illuminava tutto, ma passava attraverso i vetri del giardino botanico e tra le foglie degli alberi, così che tutto sembrava maculato come il mantello di un dalmata e Stan non era affatto sicuro di quello che vedeva.
Avanzò camminando piano, le suole che crepitavano appena sul vialetto di ghiaia fine e compatta, passando attraverso la zona della foresta pluviale, con le farfalle notturne che gli passavano accanto con quel loro ronzio appena accennato, poi attraversò la zona del deserto, a destra quello africano e a sinistra quello di Sonora o qualcosa di simile, cactus e roba simile da ogni lato, fino ad arrivare alla zona della macchia mediterranea.
I vetri sul soffitto erano stati rimossi come sempre nella bella stagione, per permettere alle povere piante, tanto lontane dal loro clima abituale, di prendersi almeno un po’ di sano sole del Maine. Passò tra ginepri, allori, rosmarini e altre piante aromatiche, vedendo finalmente, a una decina di metri da lui, una forma non meglio identificata riversa in terra. Si avvicinò tentando di non fare rumore mentre calpestava il suolo ricoperto di erba e foglie di ulivo, trattenne il respiro girando su sé stesso con la sua Beretta stretta tra le mani, e si accucciò accanto alla bimba. Era morta, alla luce della luna piena il sangue che la ricopriva sembrava nero come il petrolio. Non aveva la faccia. Sentì nella bocca il sapore acido della sua cena di un’ora prima, un hot dog davvero indegno del suo non già degnissimo nome. Avanzò ancora stando per quanto possibile dietro a una pianta, ligustro diceva un cartellino che pendeva da un ramo e che la luna illuminava perfettamente.
Qualcuno parlava, un po’ più avanti. Camminò ancora più lentamente, in un silenzio che era in realtà solo uno stormire di foglie nella brezza della notte. C’era un altro corpo in terra. Era Allison, respirava ancora. Bolle di sangue le uscivano dallo squarcio che aveva nel collo, proprio sotto a dove avrebbe dovuto esserci la faccia. Uscirono un paio di bolle, poi vi fu un tremito e poi basta. Era morta in terra, sotto a un ligustro. Per quanto sapesse di non doverlo fare si accucciò per guardarla. Le ferite sulla faccia, sul davanti della testa, in effetti, erano morsi. Non sembravano morsi umani, non esistono denti umani così grandi. Ripensò a quello che aveva detto Paniska, J. D. Paniska che adesso se ne stava sul sedile posteriore della sua auto di servizio, con il braccio sinistro ammanettato alla maniglia sopra alla portiera: - Aveva le zanne lunghe e gli occhi gialli. Ed era peloso come un lupo. Non sono matto, mi creda. Era così. – per un attimo non gli sembrò così assurdo. Sentiva ancora la voce davanti a sé. Era in mezzo a degli alberi di olivo, formavano come un cerchio del diametro di una decina di metri e quello che parlava vi stava inginocchiato in mezzo. Parlava alla luna.
- Ti prego. – disse, poi rimase fermo in silenzio ad ascoltare una risposta. – Ho paura, ho molta paura. Ti prego! – disse di nuovo e la sua voce sembrava tremare per trasformarsi in pianto.
- Ti prego di evitarlo, se puoi. – e di nuovo rimase in silenzio, poi abbassò la testa, respirò profondamente e infine disse: - Come tu desideri, mio Signore. – alzò le braccia come un sacerdote dell’antichità e ripeté: - Avvenga quello che tu desideri, mio Signore. – poi rimase fermo a guardare la luna ancora per cinque o sei secondi.
- Salve agente! – disse all’improvviso senza voltarsi – Agente Stanley Edward Hanlon, figlio del bibliotecario Michael Hanlon detto Mike. I figli degli amici di mio padre, sono miei amici. – disse e si alzò tenendo le mani in alto. Si voltò lentamente e Stan per un attimo pensò di essere impazzito. Era Hannibal Lecter. Da piccolo aveva visto il Silenzio degli innocenti e aveva avuto gli incubi per dei mesi, appena si addormentava si vedeva accanto Hannibal, non Anthony Hopkins, proprio il vero Hannibal Lecter, di cui il bravo attore era solo un’approssimazione. Si svegliava sempre urlando un attimo prima che quello gli mangiasse la faccia. Alzò la pistola per sparargli e si accorse del suo abbaglio. Era Gray, simile a come lo aveva visto nelle foto segnaletiche. Un po’ più grasso, forse. Era truccato da clown, con una grande bocca sorridente rossa e la faccia bianca.
- Mani alto, Robert Gray! – disse mettendosi in posizione di tiro, la pistola tra le due mani e le gambe larghe con la destra più avanzata – Sei in arresto per l’omicidio di Allison e Louise Chambers. –
Gray rise e disse: - Stanley, ragazzo mio … ho già le mani in alto. – e rise di nuovo.
- In ginocchio, mani dietro alla schiena! – disse guardandosi intorno per essere sicuro che non vi fosse nessun altro con loro, mentre l’assassino obbediva al suo ordine continuando a ridere.
- Mio padre mi aveva detto che saresti venuto te. – disse mentre Stan lo ammanettava.
- Tuo padre lavora in una segheria in Rhode Island e dubito che sappia della mia esistenza, Gray. – gli disse chiudendo il secondo braccialetto di acciaio nichelato e tirandolo in piedi senza troppa gentilezza. – Hai il diritto di non parlare e hai diritto ad un avvocato … - gli stava dicendo mentre si ricordava di non aver letto i suoi diritti a Paniska, cazzo, quando Gray disse: - Stai tranquillo, Stanley, niente di quello che ti dirò potrà essere usato contro di me in tribunale. Io morirò stasera. –
- Tu marcirai in cella, Gray, e ogni detenuto del tuo carcere verrà a visitare il tuo culo prima di andare a dormire, se esiste un po’ di giustizia a questo mondo. –
- Mio padre non lo permetterà. Mi ha salvato già una volta tanti anni fa e stasera, dopo che gli donerò me stesso, mi terrà per sempre con lui. –
Stan lo guardò chiedendosi come quell’ometto precocemente calvo e tendente alla pinguedine avesse potuto spaventarlo tanto solo pochi minuti prima e lo spinse avanti di malagrazia.

- E così dopo averlo ammanettato l’ho condotto attraverso il giardino botanico verso l’auto di servizio. – disse all’agente Welsh, che era tornato dopo un paio d’ore trovandolo molto più sveglio e impegnato in una discussione con la madre che gli diceva che doveva mangiare. Quando lei era uscita dalla stanza aveva ringraziato l’agente dell’FBI per averlo salvato.
- Bene Hanlon, ho capito. Ora mi spieghi bene cosa è successo dopo. –
- Allora … - disse grattandosi il naso con una delle poche dita ancora intere che aveva – Mentre camminavamo Gray canticchiava una qualche canzoncina da bambini, non ho capito quale perché la cantava a bocca chiusa. A un certo punto mi ha detto qualcosa di strano, come , non so, ecco: “Sarà dura per tutti e due, Stan. Ma per Derry andrà meglio.” –
- Derry? La città? –
- Penso di sì. Non ho capito cosa intendesse. – comunque siamo usciti dal giardino botanico e ci siamo avvicinati all’auto, e ho visto subito che c’era qualcosa di strano nel modo in cui era seduto Paniska. –
- Cosa aveva notato? –
- Era appoggiato al vetro, non so, come se stesse tentando di sfondarlo con la spalla. Così ho detto a Gray di inginocchiarsi e mi sono avvicinato al’auto. E l’ho visto. Aveva infilato in qualche modo la testa tra la portiera e il braccio ammanettato e, non so proprio come abbia fatto, Dio, si era impiccato usando il suo braccio come cappio. –
- Il suo braccio? –
- Sì, lo so. Non so davvero come abbia fatto. Mi era sembrato incredibilmente calmo quando lo avevo lasciato lì, forse avrei dovuto capire … -
- E poi? – chiese Welsh.
- E poi Gray ha detto … -

Gray disse: - povero J. D. era un caro ragazzo, ma non ha mai capito niente di quello che facevamo. –
Stan si girò verso di lui con gli occhi sbarrati e gli chiese: - E cosa facevate? Uccidevate bambini, e prima li stupravate. –
Gray rise, con quella faccia sporca di sangue, sotto la luce arancione dei lampioni, sembrò davvero un clown per un attimo. – Tutto quello che abbiamo fatto serviva per il ritorno di mio padre. Anche il tradimento di J. D. è servito a quello. Anche il mio arresto da parte sua, agente Hanlon. Anche la morte di suo padre è servita a quello. –
Stan lo afferrò per un braccio e lo gettò nell’auto, accanto al corpo di Paniska. Poi chiamò via radio la stazione di polizia e parlò direttamente col capo Gardener raccontandogli tutto. Finì la chiamata dicendo che rimaneva lì in attesa di rinforzi. Gray rise sentendo quest’ultima frase.
– Spero che non ti dia fastidio averlo vicino. – gli disse Stan.
- Ah, no di certo. Ho già viaggiato con dei morti, e sono già stato vicino a Paniska dopo che aveva pisciato sul sedile. Quando me lo sono fatto quindici anni fa, era un così bel bambino, pisciò sul sedile di dietro e farlo lavare mi costò trenta dollari. –
- Sarà un bel prezzo per averti preso. – disse Stan.
- Il prezzo del tradimento. – disse Gray ridendo, poi aggiunse – Ma nessuno pagherà per far lavare quest’auto. Non si lavano le carcasse bruciate. –
- Ma che cazzo stai dicendo? – gli chiese.
- Tra poco lo vedrà. Ancora un attimo di pazienza. Tutto per mio padre. – e si voltò a guardare la luna sorridendo. – Fu mio padre a segnalarmi J. D., sa? Ed è stato sempre lui a parlarmi di te, di tuo padre e di quei perdenti dei suoi amici. –
- Di chi parli? –
- Ah sì, tu non lo sai ancora. Leggi il quaderno di tuo padre, quello in biblioteca. Li troverai molte risposte. –

- Eh quale sarebbe questo quaderno? – gli chiese Welsh.
- È lì. – rispose Stan – Ho chiesto a mia madre se ne sapeva qualcosa e lei lo ha fatto portare dal suo vice. Era in cassaforte in biblioteca, mio padre ha lavorato lì per una quarantina d’anni. –
Welsh prese il vecchio quaderno dalla copertina nera e lo sfogliò. – Ma è totalmente vuoto. – disse l’agente sfogliandolo in avanti e in dietro – Tutte pagine bianche. –
- Sì. Ma guardi bene. Gli angoli sono sciupati, i fogli sono consumati, qua e là vi sono anche delle cancellature che hanno assottigliato il fogli. Sembra un quaderno molto usato. –
- È vero. – disse Welsh poggiandolo di nuovo sul comodino accanto al letto. – E poi cos’è successo? –
- Ho visto un paio di persone che arrivavano dalla Witcham, due uomini armati di mazze da baseball. Prima che potessi scendere per identificarli, Gray mi ha distratto per dirmi una frase davvero strana. Sudava moltissimo, moriva dalla paura ma sembrava anche incredibilmente felice, elettrizzato, direi. –
- E cosa le ha detto? –
- Ha detto: “Arrivederci, Stanley Edward Hanlon. Ci vediamo dall’altra parte.” Poi ha aggiunto una cosa che non ho capito: “Ricordati del Richard Tozier show!” –
- Quello che danno in tv? –
- Penso di sì. Quando ho smesso di guardarlo, mi aveva così stupito che gli occhi mi stavano per cadere in terra, solo allora ho visto che l’auto era circondata. Saranno stati cento o poco più, tutti con mazze e asce in mano. E allora sono sceso e …

Stan scese dall’auto aprendo la fondina e appoggiando la mano destra sulla Beretta. C’erano un centinaio di persone intorno all’auto, forse di più. Erano armati di mazze, asce, alcuni anche fucili e pistole, ma la maggior parte avevano armi bianche. Stavano disposti su un cerchio del diametro di una quindicina di metri, tipo zombie dei film, sapete no, tipo Notte dei morti viventi.
Stan girò su sé stesso facendo notare chiaramente che aveva una pistola e che poteva tirarla fuori prima che potessero raggiungerlo. Finito il giro sbirciò un attimo nell’auto, J. D. era sempre morto e Robert Gray guardava fuori dal finestrino con gli occhi sbarrati mormorando qualcosa, forse una preghiera a quel suo famoso padre.
- Tra poco arriveranno i rinforzi. – disse ad alta voce sperando che le sue parole risultassero calme e sicure. – Li abbiamo presi. È tutto finito. –
Nessuno gli rispose, ma fecero un passo in avanti. Il cerchio era più stretto adesso, gli sembrava che cominciasse a mancare l’aria.
- Gray ha confessato. Andrà in galera per sempre. – disse guardando un uomo che teneva in mano un’enorme ascia. Era il consigliere comunale Smithson. – tra pochi minuti lo porteremo in centrale.-
Ancora nessuna risposta, ma quelli alle sue spalle si avvicinarono di un altro passo. Quando si voltò verso di loro estraendo la pistola e armandola, anche gli altri fecero lo stesso. Erano molto più vicini.
Fece un passo indietro fino ad appoggiare le natiche alla portiera dell’auto muovendo la testa da un lato e dall’altro per controllarli tutti. Muovendosi all’unisono fecero un altro passo verso di lui. Vide il padre delle bambine alla sua sinistra, aveva una mazza da baseball di legno, doveva essere molto vecchia, come molte cose lì a Derry.
- Signor Chambers, è finita, lo abbiamo preso. Paniska è morto e non farà più male a dei bambini. È finita. – e si asciugò con la manica sinistra il sudore che gli scendeva sulla fronte. Mentre lo faceva fecero un paio di passi verso di lui. Poteva sentire il rumore dei loro respiri, la puzza di sudore di un centinaio di uomini che hanno girato per dieci ore sotto al sole estivo con armi in mano e il terrore nel cuore.
Sollevò la pistola sopra alla testa poggiando vistosamente il dito sul grilletto. Non sparò, qualunque rumore avrebbe potuto scatenare la rabbia. – Andate a casa. È finita, i due rapitori sono stati presi. – Tornate alle vostre case! – e mentre diceva così il signor Chambers si avvicinò di un altro passo.
- Signor Chambers, capisco cosa prova, ma si allontani subito! – disse stringendo di più la pistola e appoggiando il manganello sul tetto dell’auto. Gray continuava a mormorare le sue preghiere e le lacrime, o il sudore, gli avevano scavato dei solchi nel sangue che gli incrostava il viso.
- Ci faccia passare, Hanlon. Non abbiamo nulla contro di lei. – disse Chambers fissandolo con uno sguardo che era però tutto meno che indifferente nei suoi confronti – Se ne vada e ci faccia fare il nostro dovere. –
- Sa bene che non posso, Chambers. – gli rispose vedendo che tutti avevano fatto un altro passo verso di lui. Erano a sì e no tre metri, forse tre metri e mezzo. Allungando una di quelle mazze lo avrebbero quasi sfiorato – Dovrò sparare, se non vi allontanate. E lo farò, credetemi. Tornate a casa e facciamola finita, non deve finire per forza così. –
- Me le ha uccise, Hanlon, le ha fatte a pezzi. – disse Chambers – Togliti di mezzo e fammi fare quello che va fatto. –
- No, Chambers. No! – e alzò la pistola verso il cielo pronto a sparare in aria, sperando che i soccorsi mandati dal capo Gardener arrivassero prima di subito.
- Togliti di mezzo, Hanlon. Non metterti tra me e quello schifo. –
- No. –
- Vattene, ora! –
- No. –
- Togliti dal cazzo, negro di merda! – urlò un uomo alla sua destra, Harlan Bowers, se aveva riconosciuto la voce, e tutti fecero un altro passo avanti alzando le loro mazze. Schiacciò il grilletto e lo sparo risuonò nelle vie deserte intorno a loro. Mentre abbassava la pistola puntandola ad altezza d’uomo li vide finalmente indietreggiare di un paio di passi. Gli sembrò di respirare meglio. – E ora andatevene via tutti. – disse e gli sembrò che nei loro occhi fosse cambiato qualcosa, lo sparo li aveva come scossi da una sorta di autoipnosi collettiva. Alcuni di loro si allontanarono ancora, mazze e asce si abbassarono andando quasi a sfiorare il suolo. Fu allora che Gray urlò fuori dal finestrino semiaperto.
- Gridavano quelle due troiette! Uh, se gridavano, mentre gli mangiavo la faccia. Gridavano e piangevano! – più che una voce umana sembrava il raglio di un asino, pieno di gioia folle e di terrore.
- Cazzo! – borbottò tra sé e sé Stan deglutendo, poi quei cento uomini partirono all’attacco e lui sparò nel mucchio, vedendo che il colpo era andato a segno, il braccio di un tizio in camicia a scacchi gli sembrò, forse il vecchio Andrew Gordon, l’ubriacone dei giardini della ex cisterna. Lo sparo non li fermò, e in meno di un secondo almeno tre mazze da baseball lo colpirono sul braccio destro alzato. Cadde a terra e perse i sensi per qualche istante. L’ultima cosa che sentì prima di andarsene per un po’ in un posto più tranquillo fu la risata folle di Robert Gray.

- E dopo cosa è successo? – gli chiese Welsh salutando con un cenno della mano il Capo Gardener che era appena entrato.
- Salve Capo. – disse Stan.
- Salve Hanlon. – disse Gardener che non riuscì a guardarlo negli occhi per più di un istante. Abbassò lo sguardo tossicchiò e disse: - Mi fa piacere vederla non troppo ammaccato. –
- Fratture e contusioni. Poteva andarmi molto peggio. –
- Lo so, Hanlon. – disse il Capo – Lo so, mi creda. Risponda all’agente Welsh, cosa è successo dopo? –
- Sarò un po’ vago, mi dispiace, ma devo aver perso i sensi un po’ di volte mentre … mentre lo linciavano.
Comunque mi sono svegliato mentre un tizio mi stava prendendo a calci nelle costole, Harlan Bowers direi, ma non potrei giurarlo in tribunale. Per fortuna Gray ha urlato a qualche metro di distanza e quello stro … il tizio che mi stava picchiando ha preferito andare a sfogarsi su di lui. Lo stavano prendendo a calci e mazzate, nessuno usava l’ascia, forse solo per spingerlo qua e là colpendolo di punta. Sanguinava dal viso e dalla tempia destra, forse anche una gamba era ferita. Poi buio, mi sono perso per un po’. –
- Poi cos’altro ricorda? – chiese Welsh.
- Mi stavo trascinando lontano dall’auto di servizio. Era in fiamme e sentivo il calore. Avevano tirato fuori il corpo di Paniska e lo avevano legato per i piedi. Lo trainavano urlando e ridendo. Anche Robert Gray era legato per i piedi, lo trascinavano qua e là e lo prendevano a calci. Mi sembra che lui ridesse. O forse gridava. Poi si sono assiepati e non ho più visto nulla. E poi penso di avere perso di nuovo i sensi. –
- Ricorda qualcos’altro, Hanlon? – chiese Gardener.
- Li ho visti che li appendevano per i piedi a uno di quei lampioni, si era arrampicato su in cima un ragazzo, quello col nome francese, un attimo … Duchamp, ecco. Li hanno issati per i piedi. Gray era ancora vivo, si divincolava come quei bruchi quando fanno la crisalide, anche se proprio non vorrei vedere che razza di farfalla … scusate, divago.
Sembrava quel vecchio filmato di Mussolini e della sua donna, avete presente, no? Che li issano su legati per i piedi mentre la folla li prende a calci, e la testa di Mussolini non sembra neanche più una testa. Ecco, era così.
E poi, quando erano lì appesi, si sono messi a colpirli con le mazze e con le asce, e Gray era ancora vivo, e rideva e urlava, e lo colpivano e non faceva neanche più un rumore di ossa rotte, sembrava come se uno schiaffeggiasse un budino, non so. Quando gli hanno buttato addosso la benzina rideva ancora e quando Chambers gli ha dato fuoco ha urlato qualcosa, qualcosa come “Per te padre” ma non potrei giurarlo. Poi basta, mi sono svegliato in ospedale anche se dovevo essere strafatto di morfina, perché mi è sembrato che ci fosse Rachel Weisz accanto al mio letto. –
- Ci sono modi peggiori di svegliarsi. – disse Welsh a bassa voce, poi guardò Gardener e disse: -Capo. –
Gardener si incurvò come un vecchio, si avvicinò a Stan e disse dopo essersi schiarito la voce: - Avremmo qua una cosa … potrebbe leggerla Hanlon? –
Stan aguzzò l’occhio buono, l’altro non riusciva ancora ad aprirlo, lesse le poche righe scritte sul foglio, le rilesse e poi le lesse ancora una volta.
- Paniska si è ucciso, Gray mi ha fatto uscire di strada e io ho perso i sensi nell’auto che stava prendendo fuoco, lui è morto nell’impatto. E Chambers mi ha tirato fuori dall’auto ustionandosi una mano? – rise guardandoli, poi vide i loro sguardi e smise di ridere – Cosa sarebbe, il film giallo del sabato sera? –
Nessuno dei due rispose. Guardando di nuovo il foglio vide che in fondo c’era scritto a macchina “agente Stanley Edward Hanlon. Matricola 19571985.” E sotto una riga tratteggiata per la firma.
- Sarebbe il mio rapporto? Succede ‘sta cosa da Sud degli anni ’20, con la gente bruciata viva per strada e tutto finisce con Chambers che si prende un encomio per avermi salvato la vita? Mi hanno quasi fatto fuori, Cazzo! Mi hanno preso a mazzate! Lo hanno ucciso quello stronzo, lo hanno fatto a pezzi! – e agitandosi mentre urlava sentì un dolore lancinante in ogni singolo osso rotto.
- Hanlon. – disse Gardener – Gray aveva ammazzato a quella maniera due bambine, oltre a molti altri negli ultimi otto o nove anni, e Paniska lo aveva aiutato. Lei piangerà per quello stronzo? –
- Era sotto la mia custodia, aveva dei diritti. –
- Chambers tre giorni fa ha perso due figlie, e ieri sua moglie si è gettata giù da un ponte di testa andando all’altro mondo. Vorrebbe anche arrestarlo quel pover’uomo? –
- La legge non dice che si può linciare un uomo, mi pare. – disse Stan, poi si rese conto di una cosa. Quella gente era arrivata quando lui aspettava i rinforzi. Lui aveva parlato solo con Gardener, e loro sapevano tutto quello che gli aveva detto.
Era stato Gardener a ordinare il linciaggio. Quindi, se non c’era stato alcun linciaggio, Gardener ne usciva pulito. Tra Gardener e la pensione c’era solo uno stronzo, lui. –
- Anche lei pensa che dovrei firmare questa bella fiction, agente? – chiese a Welsh.
L’enorme uomo nero annuì con la faccia seria.
- Va bene. – disse Stan, afferrò la penna che Gardener gli porgeva, la avvicinò al foglio stringendola tra le dita rotte e fasciate, fece un piccolo sgorbio sulla riga tratteggiata e disse: - Spero che le basti come firma. Chambers non ce l’ha fatta a salvarmi anche le dita. – disse, poi si voltò su un fianco e disse: - Avrei sonno, ora. – e li sentì uscire mentre piangeva per la prima volta da quando suo padre era morto.