giovedì 30 aprile 2015

Berserker. 5

Quinta puntata, mi sa che è un po' confusionaria coi tempi verbali, ma mi piaceva così. Buona lettura!

Da ragazzo aveva visto su un libro una serie di foto, primi piani di un attore, in un bianco e nero estremamente nitido, foto in cui l’attore faceva le varie espressioni modificando i suoi lineamenti in maniera straordinaria. Ecco, a quello aveva pensato vedendo Kastorp che prendeva in mano il portafoglio del caporale Hans Scheuble, la faccia magra e ossuta dell’internato era sembrata per un breve istante della plastilina calda, i suoi lineamenti si erano mossi come acqua di un ruscello e poi, improvvisamente, pur essendo rimasti esattamente uguali a se stessi, si erano trasformati in una qualche maniera in quelli di Scheuble. Anche la sua voce era cambiata, era passato dal suo accento austriaco a quella pesante cadenza bavarese che tanto bene lui aveva conosciuto in quegli anni di guerra.
Poi Kastorp finì di parlare e, dopo aver detto “… solido” rimase per un attimo fermo. Sembrava come spento, gli occhi spenti come uno che sta morendo di sonno. La sua mano destra, posato delicatamente in terra il portafoglio sembrò muoversi come animata da vita propria verso il secondo oggetto, un accendino di metallo che era appartenuto a Theodor Erickson, e una volta che lo ebbe afferrato si trasformò di nuovo. In un attimo aveva l’atteggiamento, l’espressione e la voce di quell’odioso soldato che gli aveva causato tanti problemi in ogni singolo posto dove erano stati. Disse:
“L’avevamo seguita per un bel po’, quella troietta, stavamo bevendo in una locanda dove servivano una specie di birra che sapeva di piscio e il mio amico Peter, lui sì che è forte, a un certo punto mi dà di gomito e mi indica, fuori dalla porta in quella stradina fangose e pidocchiosa, quella ragazzetta che avevamo già visto in giro nel pomeriggio. Era sola, girava per strada di notte, quella troietta, e sembrava ubriaca, o qualcosa di simile. Mi piace farmi le ragazze ubriache, è più difficile che poi il giorno dopo si ricordino la mia faccia e mi indichino a un padre armato di fucile.
E così usciamo da quella locanda lasciando sul tavolo qualche marco e cominciamo a seguirla in silenzio. Parlava da sola, la fighetta, si lamentava e agitava le braccia come per scacciare delle mosche, poi si grattava come se fosse stata piena di pulci. E chi se ne frega delle pulci, cazzo, di certo non mi avrebbero fermato. E così la seguiamo per quella rognosissime stradine deserte illuminate dalla luna e ridacchiamo in silenzio pregustando la cavalcata che stiamo per farci, no, ed ecco che quella povera puttana arriva alla fine del paese, si ferma un attimo come per un crampo e poi, ancora non ci credo, è andata camminando a passo veloce verso il bosco e, mentre camminava, si è tolta il vestito. Era nuda, nuda come mamma l’aveva fatta.
Le siamo corsi dietro senza più preoccuparci di essere sentiti, oramai eravamo fuori dal paese e anche se avesse urlato … con i nostri fucili potevamo tranquillamente gestire lei e un paio di quegli zotici. Ci siamo infilati tra gli alberi e per un attimo ci siamo fermati, il buio era come una parete dipinta di nero, continuammo a passo più lento e poi, qualche decina di metri davanti a noi, intravedemmo una specie di radura illuminata dalla luce della luna.
La ragazza era inginocchiata in terra, con le mani appoggiate tra le foglie secche. Mugolava, si lamentava, qualcosa così. Gettai a terra il fucile e mi avvicinai a lei slacciandomi la cintura, ero davvero eccitato, non so se mi capite, c’avevo una Grande Berta nei pantaloni …” disse ridendo e poi riprese con uno sguardo feroce sul volto “ … e quando le arrivo accanto questa tizia si gira e …” e qui la faccia di Kastorp divenne una maschera di terrore che fece accapponare la pelle all’ufficiale che lo stava ad ascoltare con molta attenzione “ … e quando si gira … i suoi occhi erano lampi gialli, con le pupille verticali come un gatto. E fa un urlo come da animale e si mette in piedi, solo che non era una donna … cioè, lo era ma non lo era più. Stava cambiando davanti a i miei occhi, sentivo stridere le sue ossa mentre cambiava forma e poi, nel tempo di un battito di ciglia, quella bestia orrenda mi si è scagliata addosso e ho sentito i suoi artigli che mi aprivano il petto e la faccia.”
E poi … fu con un sudore gelato sulla schiena che l’ufficiale vide la mano di Kastorp andare alla medaglietta che avevano trovato stretta tra le dita di Theodor la mattina dopo quella maledetta notte di luna piena in cui lui aveva perso quattro uomini in quella maniera indegna. La medaglietta doveva appartenere alla ragazza. L’uomo prese la medaglietta e parve come gonfiarsi, per un attimo sembrò essere un abito che qualcosa, qualcosa di non umano, stava indossando. I suoi lineamenti furono totalmente stravolti e scattò in piedi lanciandosi contro di loro con le mani simili ad artigli. Stava ringhiando, ruggendo anzi, come un leone, e fu allora che l’SS più alto lo colpì alla tempia col calcio del fucile.
L’uomo cadde a terra con la faccia coperta di sangue e la medaglietta gli sfuggì di mano. Era solo un uomo quasi morto di fame adesso, uno scheletro a malapena ricoperto di pelle.
- Direi che è l’uomo che cercavamo. – disse l’SS parlando al suo camerata ignorando platealmente l’ufficiale, poi si girò verso il comandante del Campo e disse: - Lui viene con noi. – e solo dopo, voltandosi verso di lui, disse: - E anche lei, capitano, ci servirà anche lei. -

mercoledì 29 aprile 2015

Berserker. 4

Nuova puntata, scritta ieri. Oggi non ho tempo per scrivere il prossimo, ma ho già un po' di ideuzze che domani dovrei riuscire a sviluppare.
Buona lettura!

Fu … era di nuovo di turno a fare la guardia per tutta la notte. Di guardia, di notte, in un pidocchioso paesucolo della Transilvania che era da considerare Patria Tedesca perché abitato da Sassoni. E se erano Tedeschi, ‘sti Sassoni, perché parlavano a quella maniera? Su trecento che erano ce ne erano due che riuscivano a parlare in tedesco, il prete e il borgomastro, o come cavolo si chiamava il sindaco lì tra i monti.
Transilvania! A dire il vero lui pensava che se lo fosse inventato Stoker per Dracula quel nome, non aveva mica capito che si svolgeva in un posto davvero esistente quel romanzo.
Che poi … ecco, da solo, di notte, con la luna piena alta nel cielo, in Transilvania e circondato da casette che sembravano la scenografia di un film dell’orrore come li facevano in America prima della Guerra, quelli con Frankenstein che alla fine bruciava nel mulino inseguito dai villici, casette di legno sbilenche alle sue spalle e una foresta di abeti lugubri e striminziti davanti, pensare a Dracula non era una grande idea.
Si appoggiò al muro della sua garitta e si accese una sigaretta. Se non si sbagliava le facevano con sempre meno tabacco, sembrava di fumarsi la carta da sola.
La luna splendeva per davvero, alla faccia che luce che faceva. Si vedeva tutto come se fosse stato disegnato a china, i pipistrelli che volavano afferrando al volo le zanzare, i topi che sgattaiolavano lungo i bordi dei muri, un cinghiale che, solo per un attimo, aveva fatto capolino tra due alberi a un centinaio di metri da lui. Non era poi così male starsene lì da solo, poteva pensare e far finta di essere ancora giù in Baviera e di stare per andare a bersi una birra coi suoi amici. Altro che la guerra e gli ufficiali, altro che il Reich millenario e lo spazio vitale. Lui voleva starsene a casa, con i suoi amici, con Helga, in negozio con papà a vendere zappe e rastrelli e piantine di cavolo.
Un rumore lo strappò a queste piacevoli fantasie e lo fece ripiombare nella sua scomoda divisa troppo pesante per la temperatura ancora estiva di quell’inizio di autunno. Qualcuno stava camminando tra le case a pochi metri da lui. Voleva vedere chi era e se stava andando a incontrare qualcuno, non lo avrebbe fermato.
Si nascose dentro alla garitta in totale silenzio e la vide. Era una ragazza, aveva un nome tipo Alana, Elena, qualcosa così … stava camminando silenziosamente, ma … barcollava? Stava male? E perché usciva dal paese se stava male? Il dottore viveva a una cinquantina di metri da lì, era in paese quella sera. Forse avrebbe dovuto aiutarla. O no? non barcollava più, camminava spedita, anche se ogni tanto si fermava e si massaggiava le gambe come se avesse avuto continui crampi. Che stranezza. Gli passò praticamente davanti ma non lo vide. Era distratta, si guardava intorno e sembrava annusare l’aria.
Poi la vide accelerare, arrivò a una trentina di metri da lui e, all’improvviso, emise una specie di gemito. Aveva sentito sua madre gemere così, quando aveva partorito Hanna. Poi la ragazza prese il suo vestito e se lo sfilò dalla testa. Era nuda. Nella luce della luna fu uno spettacolo inaspettato e conturbante, anche se per i suoi gusti era un filino troppo robusta. Poi, lanciato il vestito in un cespuglio, corse verso gli alberi.
Rimase colpito, quasi tramortito, l’ultima donna nuda che aveva visto era stata quella prostituta polacca al bordello tre mesi prima. Chiuse gli occhi e tentò di ricordare quel corpo pallido nella luce nitida della luna, i glutei e la schiena muscolosi, i seni leggeri che si muovevano al ritmo del suo passo, i capelli sciolti sulla schiena che alla luce della luna sembravano d’argento.
E di nuovo, come pochi minuti prima, fu un rumore di passi a strapparlo alle sue fantasie. Conosceva il rumore di quei passi, scarponi dell’esercito. Tre soldati, gli sembrava. Passarono davanti a lui sghignazzando, così infoiati per quello che volevano fare da non pensare che se c’era una garitta doveva esserci anche un guardiano. Cosa volessero fare a quella povera pazzoide era chiaro, erano l’esercito occupante, erano tre e pure armati e lei era una bella ragazza nuda nel bosco.
Doveva avere l’età di Hanna quella ragazza, non avrebbe permesso che la toccassero, quei porci, camerati o non camerati che fossero. Lasciò il suo posto e li seguì col fucile in mano, quando dal bosco dove erano scomparsi seguendola arrivò un urlo pieno di orrore e dolore, sembrava la voce della ragazza, ma stravolta così tanto da non essere quasi riconoscibile. Accelerò il passo ed era già alle porte del bosco quando arrivarono le altre grida. Grida di uomini, grida in tedesco. Si fermò un attimo e poi, sudato di un sudore gelido e puzzolente di paura, entrò tra gli alberi dove il buio era quasi solido.

martedì 28 aprile 2015

Berserker. 3

Ed ecco il terzo capitolo che vi dicevo ieri. Per ora non c'è altro, ma ora tento di scrivere un po'. Se vi interessa, auguratemi un bel "in bocca al lupo!"

Quel giorno, come accadeva molto spesso, l’appello durò di più. Non sembrava mancare nessuno, non sembrava che nessuno fosse in disordine, si erano mossi a tempo ed erano arrivati tutti lì nel piazzale in maniera ordinata. Eppure l’appello non finiva. La cosa buona era che non era inverno e non era estate, in una bella giornata d’autunno non era poi così male starsene in piedi al sole visto che le nuvole continuavano a passare avanti e indietro facendo ombra. Non era male a parte il dolore ai piedi, naturalmente.
E poi, dopo forse tre quarti d’ora, non portando l’orologio dal 1941 faceva fatica a capire queste sottigliezze, arrivò la ragione del ritardo. Due SS, due ufficiali, accompagnati da un ufficiale della Wermacht che sembrava guardarsi intorno all’incirca come Dante all’Inferno. Era da un po’ che lui non reagiva più così a quello che si trovava davanti, all’incirca dal 1941.
Comunque l’ufficiale delle SS più alto si avvicinò al capitano del Lager e gli parlò, quello prese uno schedario e scorse col dito indice un elenco di nomi. Là in mezzo c’era il suo nome che nessuno diceva più da quando Helena e Sarah erano morte, nel 1941. Il capitano lesse, rilesse, indico all’SS un punto e poi scandì un numero. Un attendente corse in un ufficio e subito dopo l’altoparlante gracchiò il 542768. 542768? E che volevano quei tre da lui? Fece un passo avanti prima che il capitano dovesse ripetere il suo numero e aspettò. Un kapò gli si avvicinò, controllò il numero sulla giacca e sul braccio e, afferratolo con violenza per la spalla lo trascinò davanti ai quattro ufficiali; cadde quasi in terra quando lo lasciò andare, si era molto indebolito lavorando al sole in quell’estate, sicuramente prima di Natale avrebbe raggiunto Helena e Sarah là nel fumo sopra al camino.
- Ecco l’haftelinge 542768! – urlò marziale il kapò e ritornò nei ranghi. Lui rimase lì in attesa, che fossero parole, legnate o una pistolettata in fronte tanto non avrebbe potuto evitarle.
- Shimon Kastorp? – gli chiese l’SS più basso e lui per un attimo molto lungo non rispose. Quello era stato il suo nome fino al 1941, ma da due anni non lo era più.
- Sei Shimon Kastorp, giudeo? – gli chiese di nuovo a una tonalità molto più alta.
- Sissignore, sono Shimon Kastorp, signore. –
- Vieni con noi. – gli disse l’SS più alto e lui li seguì dentro la baracca del capitano. Lo fecero entrare e si sedettero, i due SS, il capitano e l’ufficiale della Wermacht, che ancora non aveva parlato e sembrava essere sul punto di soffocare per la puzza che ammorbava il lager. Anche lui si ricordava di averla sentita nei primi tre giorni lì, in effetti. Si sedettero e rimase una sedia libera, una sedia … era dal 1941 che non si sedeva su una vera sedia, l’ultima volta aveva tenuto in braccio Sarah.
- Siediti, Shimon! – gli disse l’SS alto.
Si sedette facendo un fracasso spaventoso con le gambe della sedia sul pavimento. – Scusate. – disse col fare servile che aveva imparato lì al secondo giorno di internamento, ma loro sembravano non essersi accorti del rumore.
- Vuole dell’acqua, signor Kastorp? - gli chiese l’ufficiale.
- Cosa? – signore? Non stava bene quell’uomo, lui non era il signor Kastorp, era 542768. – Sì, grazie. – gli rispose e quello gli riempì un bicchiere di vetro con acqua così fresca che lo appannò. Lo prese e la bevve talmente in fretta da farsi venire una fitta di mal di testa al centro delle fronte.
- Quest’uomo ha bisogno di mangiare qualcosa. – disse allora l’ufficiale sollevandogli la manica e controllando il suo braccio. Lo aveva avuto così sottile intorno ai sette anni, probabilmente.
- Non siamo qui per dare da mangiare ai Giudei. – disse l’SS basso, ma l’ufficiale della Wermacht disse: - Io ho fame e voglio che quest’uomo mangi. - “Uomo”, che bello, sicuramente lo avrebbero ucciso, ma lo avevano chiamato uomo.
Portarono dello stufato pieno di patate e rape e gliene versarono una grossa razione in un vero piatto e lo poté mangiare con un vero cucchiaio. E poi pulì il piatto con del pane bianco. Si sforzò per non piangere davanti a loro.
Quando ebbero finito lo stufato il giovane ufficiale disse che voleva un caffè e fu molto chiaro nel far capire due caffè. E così gli portarono una tazza di caffè che era una brodaglia orrenda, lui era vissuto a Trieste e sapeva bene cos’era un caffè, ma lo bevve e si perse quasi in quel gusto. Il caffè è una bevanda da uomini liberi, non da bestie o ubermensch.
Alla fine l’ufficiale si accese una sigaretta e gliene offrì una, ma lui rispose: - Non fumo, signore, grazie. – e pensò che era impazzito, a una domanda si risponde sempre sì, un’offerta si accetta sempre anche se ti offrono di mangiare una cacca di cane, il no non esiste; ecco l’effetto di essere chiamati signore e di aver bevuto un caffè.
- Bene, dicono che faccia molto male in effetti. – gli disse e inspirò sorridendo. Poi lo guardò e disse: - Signor Kastorp, i nostri due amici delle SS mi dicono che lei è l’uomo che può aiutarmi, ma io non lo so. Lei è un medium? –
Un medium? Era un medium lui? Da due anni a questa parte era una bestia da soma, un bue grasso prima dell’ingrassamento, un asino carico di tronchi che aspetta solo che una zampa gli ceda per essere ammazzato a legnate dal suo padrone. Ma anni prima, quando aveva avuto un nome e una famiglia, effettivamente era stato un medium. Annuì.
- Signor Kastorp, mi intenda, io sono venuto qui con un viaggio di tre giorni in treno, e ho un problema vero. Io so che lei faceva il medium, conoscevo il suo nome, ma quello che voglio sapere è se lei è realmente un medium o se non fosse piuttosto un prestigiatore o illusionista molto bravo a ingannare le persone. – gli disse continuando a fumare ma stando attentissimo a non sputargli il fumo in faccia.
Shimon ci pensò un attimo e la sua vita gli passò davanti agli occhi. – Nossignore, non sono un illusionista e non sono un truffatore. Io i poteri li avevo davvero. –
- Li aveva? –
- Sono due anni che non esercito. – gli disse evitando di dire che era molto difficile toccare gli altri e vedere qualcosa di diverso da famiglie perdute, torture subite e morti imminenti. Quando sai già tutto di un altro non puoi prevedere nulla.
- Va bene, signor Kastorp. Ora le darò alcuni oggetti e lei li toccherà. Funziona così il suo potere, no? –
- Sissignore, tocco degli oggetti e so qualcosa dei loro possessori. Quasi sempre.-
- Bene. Ecco il primo. – disse e poggiò sul tavolo una fiaschetta da liquore che tirò fuori da una borsa piena di roba. Shimon la prese e se la rigirò tra le mani, sentì una musica, un cane che abbaiava, degli spari, puzza di mostarda e odore di disinfettante, e poi gli sembrò di accarezzare la testa di un bambino. E terra, terra e alberi che frusciavano nel vento. – Questa fiaschetta l’aveva suo padre in guerra, fu contaminato dall’iprite e rimase cieco per qualche giorno, tornò a casa in Baviera e visse con la famiglia in campagna. È morto ed è sepolto sotto a una quercia. –
L’ufficiale lo guardò quasi spaventato e anche i due SS e il capitano del lager sembrarono stupirsi con lui. Poi l’ufficiale gli diede un’altra fiaschetta molto più rovinata, arrugginita, ammaccata, sporca di terra. lui la toccò e disse: - L’operaio che l’ha fatta beve troppo e pensa che la moglie lo tradisca. Lei invece l’ha comprata tre giorni fa e l’ha presa a pietrate e l’ha sporcata per fare questa prova. –
L’ufficiale sorrise, poi infilò la mano nella borsa e tirò fuori una serie di oggetti. Il primo era un portafoglio di cuoio, sporco e rotto. Glielo poggiò di fronte e aspettò.
Shimon sapeva che qualcosa non andava in quel portafoglio, come in tutte quegli altri oggetti posati in ordine davanti a lui, lo sapeva come lo aveva saputo la volta che gli avevano fatto toccare il coltello con cui era stata uccisa la donna che appariva come spettro nel castello dove era stato nove anni prima in Austria, e sapeva che come quella volta avrebbe visto in modo più chiaro delle solite visioni confuse.
Ma neanche lui era pronto a vedere in quella maniera. Tutto a un tratto Shimon smise di essere lì in quel pigiama e fu un altro da un’altra parte. Appena toccò quel portafogli fu …

lunedì 27 aprile 2015

Berserker. 2

La storia che ho in mente è lunga, complessa, difficile da scrivere. molto probabilmente morirà in culla come quasi tutto quello che ho cominciato, ma un secondo capitolo è qui e un terzo, che dovrei pubblicare domani, è quasi completato. Speriamo bene!
Buona lettura!

I

1

Il puzzo era così forte da sembrare una parete solida che li respingeva. Chiese ai suoi due accompagnatori di fermarsi e scese dal fuoristrada per vomitare. Per fortuna aveva mangiato da molte ore e sputò solo un po’ di bava; i due SS sorridevano e sembravano non accorgersi di quella nuvola invisibile di fetore che li avvolgeva, ma si fermarono accanto a lui e gli diedero una sigaretta dicendo che forse lo avrebbe aiutato ad abituarsi. Seduto a terra con la schiena appoggiata alla portiera del fuoristrada ricordò che anche Virgilio faceva fermare per un po’ Dante dietro ad un sarcofago per dargli tempo di abituarsi all’odore dell’Inferno. Aveva sentito delle storie sui Campi e su quello che era in realtà la soluzione finale di cui parlava il Fuhrer, storie brutte, troppo orrende per crederci, ma quell’odore … Come diceva Dante? “Ecco comincian le dolenti note …” era un verso all’inizio dell’Inferno se la memoria lo aiutava.
- Ora va meglio. – disse anche se non era vero, ma non voleva fare la figura della femminuccia davanti a quei due SS. Risalì sul fuoristrada e vide quell’enorme Lager avvicinarsi nell’aria caliginosa di quell’inizio di autunno. C’era un grosso cancello di ferro, con una scritta sopra. Non diceva “Lasciate ogni Speranza o voi ch’entrate”, no. Se le storie che aveva sentito erano vere, quel “Il lavoro rende liberi” era peggio della scritta di Dante, era anche una presa in giro. Quanta gente aveva mandato lì da quando era cominciata la Guerra? Duemila? Tremila? Di più? Ingoiò una boccata di fumo mentre quella puzza gli entrava fin dentro il cervello e guardò quel filo di fumo nerastro che si alzava da una ciminiera un po’ distante. Un velo di cenere grigia e soffice copriva tutto, l’erba, gli alberi, le garitte delle guardie.
Quando entrarono i due SS lo guidarono verso la baracca del comandante, lo lasciarono fuori e poi tornarono da lui ignorandolo. Un capitano della Wermacht evidentemente non era al loro livello e non meritava di parlare in prima persona.
Suonò una sirena, un suono lugubre e poi, all’improvviso, una specie di stridio di cicale gli rispose. Non erano cicale, le cicale non marciano. Girarono dietro all’angolo della baracca e le vide, le cicale destinate a morire dopo una stagione. I loro sandali di legno facevano quello strano suono, centomila sandali di legno sbattuti in terra come scarponi militari.
Per un attimo pensò che avrebbe urlato, avrebbe urlato così forte da svegliare i morti e poi sarebbe fuggito via. Scheletri ricoperti da pelle grigiastra, luridi pigiami a righe appoggiati a corpi che li riempivano meno di grucce in un armadio. I loro occhi, spenti, occhi di morti che sono obbligati a camminare. Un ufficiale della Wermacht non urla, non fugge. Rimase fermo, sull’attenti, zitto, mentre il comandante e i due SS parlavano e ridacchiavano come se davanti a loro ci fosse stato un paesaggio noioso.
Un attendente portò un voluminoso schedario e il comandante cominciò a scorrere l’elenco di nomi col dito guantato. A ogni nome che passava faceva come un piccolo schiocco con la lingua, poi girava una pagina e guardava con attenzione i nomi seguenti. Nomi seguiti da numeri, date, numeri di matricola, annotazioni. Disse all’attendente un numero e quello corse a dirlo a una persona dentro a un ufficio.
L’altoparlante gracchiò una o due volte, poi una voce stentorea urlò un numero. -542768 - disse.
Per qualche istante non successe nulla, poi uno di quei morti viventi fece un passo avanti, un suo simile un po’ più in carne si mosse marziale verso di lui, gli esaminò il pigiama e il braccio e lo trascinò davanti a loro.
Eccolo, l’uomo che lo avrebbe aiutato a prendere l’assassino dei suoi uomini. Ecco il medium.

giovedì 23 aprile 2015

Una nuova storia. Di mostri, naturalmente. (Berserker. 1)

E' da un po' che c'è una storia che mi gira per la testa, una storia di quelle lunghe, arzigogolate e complesse, e ho già provato ad attaccarla da varie parti, venendone sempre respinto senza pietà.
Ieri mi è venuto in mente questo inizio e oggi l'ho scritto. Scriverlo è stato divertente, rilassante anzi. da qui, forse, potrei andare avanti con meno difficoltà.
Non sapendo ancora se andrò oltre queste prime mille parole, eccovi l'incipit della mia nuova storia. Si intitola:

BERSERKER.

“Mai così tanto fu dovuto a così pochi.”
Winston Churchill.


Ci sono momenti che cambiano il corso di una vita, lo sappiamo tutti, no?
Molti anni fa, all’università, il mio migliore amico mi disse che andava a un colloquio di lavoro a una multinazionale dei trasporti marittimi e mi chiese se volevo andare anch’io; pensai che non sapevamo le lingue, non sapevamo “bene” le lingue, se mi capite, che studiavamo lettere antiche e che non avevamo un curriculum adatto e gli risposi di no. Logico, direi. E ora lui è un quadro di quella grande azienda, è sposato con una splendida donna e ha un meraviglioso bambino. Io … nessuna di queste cose.
Anni dopo mio nonno ebbe dei problemi di salute, aveva 85 anni, e che cavolo, e dato che non avevo nulla da fare, nulla di redditizio da fare avendo risposto di no a quel mio amico anni prima, andai a vivere da lui lassù in paese per non farlo stare solo e ricordargli che medicine prendere. E così quel simpatico vecchietto ebbe qualcuno a cui raccontare le sue assurde storie dei tempi della Guerra, si capiva da come pronunciava la parola che ci voleva la maiuscola, e io ebbi un sacco di assurde e divertentissime storie da ascoltare.
Per essere onesti mio nonno non ci stava più tanto con la testa, come ho già detto aveva 85 anni, e non è che dessi tanto peso al fatto che quello che raccontava non stesse né in cielo né in terra. la maggior parte delle volte i nomi dei suoi compagni d’arme, diceva così, cambiavano da un giorno all’altro e avvenimenti accaduti il martedì sul monte su a nord finivano per accadere il giovedì nella vallata a sud.
Raccontava queste corbellerie, parola che già secoli fa definì l’Orlando Furioso, a me e a chi gli passava accanto, e tutti mi dicevano che già da giovane era famoso per essere un incredibile contaballe. Però era bello ascoltarlo, una volta che si fosse superata la barriera dei termini dialettali con cui condiva i suoi sproloqui era davvero bello e interessante. Non ho mai creduto a nessuna parola che fosse uscita da quella boccaccia sdentata, naturalmente.
Poi peggiorò, l’unico cambiamento prevedibile quando dagli 85 anni navighi velocemente verso i 90, credo. Cominciò a ridere meno, quando raccontava dei nazisti dell’Ahnenerbe e dei suoi amici partigiani, si vedeva che aveva paura, che si trasformava in molta paura quando calava la notte. Eh sì, non furono molto belli per lui quegli ultimi due anni, anche se io gli stavo vicino e lo aiutavo a fare l’orto e a stare dietro alle galline.
E poi morì, la fine è nota, no? Morì e io rimasi in questa vecchia casa che pensai di trasformare in un agriturismo. L’ho fatto, nei mesi estivi e in quelli con clima decente in primavera e autunno mi dà da vivere, d’inverno ci sto da solo. Parlo un po’ di lingue, non bene ma tanto da farmi capire, e mi piace conoscere gente nuova, quasi quanto mi piace starmene da solo quando fuori la neve copre tutto di un manto bianco che pare nascondere il resto del mondo.
Ed è proprio quando c’era la neve che è successo, c’è stato un altro di quei momenti che vi dicevo prima, uno di quelli che cambiano il corso di una vita.
Stavo leggendo Repubblica, un articolo su un processo a un vecchio nazista, sembrano immortali quei bastardi, non so se lo avete notato. Era un nazista strano, ammetteva le sue colpe e chiedeva scusa per i suoi crimini. E quel nazista disse una frase, era all’incirca così: - E quel giorno capii di essere finito nella parte sbagliata dell’Inferno. – mi bloccai col giornale in mano, in mezzo alla stanza surriscaldata dalla stufa a legna. Mio nonno la diceva sempre, a un certo punto dei suoi racconti diceva sempre che aveva capito di essere finito nella parte sbagliata dell’Inferno.
Mi vennero dei dubbi, mi vennero delle curiosità, e nulla prude più di un dubbio infiocchettato di curiosità. Cercai vecchi giornali, cercai negli schedari dell’epoca, cercai nel cimitero. Molte cose che aveva detto mio nonno erano vere. Allora cercai altro, andai nei boschi a cercare di trovare i luoghi di cui mi aveva parlato, io e il mio cagnetto in mezzo ai boschi rinsecchiti dall’inverno, e molte cose c’erano. Cose che era normale trovare, cose che era strano trovare e cose che assolutamente uno non dovrebbe trovare, non nel mondo reale, almeno.
Trovai la vecchia colonia, un rudere ormai, trovai le celle, trovai i laboratori, trovai le gabbie e trovai degli schedari mezzi bruciati in cui molti documenti erano ancora leggibili. Documenti più folli dei racconti di un vecchio in stato confusionale.
Viaggiai un po’, in quella stagione potevo, trovai persone descritte dal nonno e le convinsi a parlare. È facile far parlare i vecchi, nessuno li ascolta mai e basta fargli capire che si vuole starli ad ascoltare e loro partono in quarta. Non tutti confermarono quanto detto dal nonno, alcuni sì, però. Gli altri probabilmente non volevano passare per matti oppure avevano passato tutta la loro vita a dirsi che erano solo ricordi sbagliati, sogni presi per verità, follie giovanili.
Ricostruii le parti mancanti, un po’ a Roma, un po’ ad Amburgo, un po’ a Tel Aviv. Tutto tornava.
E poi, tornato a casa, cercai le ultime cose. Trovai la tomba, so scavare una tomba, è il lavoro che ho studiato, trovare e scavare vecchie tombe, e dentro … dentro c’era qualcosa che non dovrebbe esistere. E poi mi feci coraggio e andai a cercarli. Sapevo dove andare, in mezzo a quei boschi che nessuno cura più da settanta anni, su per vallate travolte da frane e incuria. Fu un viaggio lungo e difficile, rischiai di farmi male, rischia di cadere giù per un baratro e delle pietre franarono giù a pochi metri da me. Ma andai avanti, vallata dopo vallata, crinale dopo crinale. E … e li trovai.
Vidi dove vivevano, li vidi da lontano, li sentii parlare. E tornai a casa senza disturbarli.

Cosa avevo in mano? Storie assurde? I vaneggiamenti di alcuni vecchietti? Dei macchinari in rovina e una fossa piena di cose troppo strane per essere vere? E infine dei poveracci dimenticati dal mondo?
Non avevo nulla in mano, se non una storia. Dei pezzi di storia, con più buchi che pieni. E allora farò l’unica cosa che si può fare con una storia, raccontarla inventando dove manca un pezzo.
Eccola.