giovedì 25 giugno 2015

Berserker. 18

Nuovo capitolo, buona lettura!



Per uscire dal sanatorio doveva percorrere due lunghi corridoi e una grande sala. Quando arrivò fuori, e aveva corso davvero veloce, la sparatoria era già finita. Konrad, di guardia sulla torretta, era ferito a un braccio ma era stato in grado di sparare agli assalitori; in terra, alle luci dei fari, si muovevano, forse agonizzanti tre partigiani. Il capitano si guardò intorno contando i suoi uomini. Ne mancavano solo due che erano fuori di ronda. Si avvicinò alla recinzione e guardò i feriti, tre ragazzi vestiti praticamente di stracci, armati di vecchi fucili da caccia. Era stato una specie di suicidio?
E poi, quando stava per dare l’ordine di andare a raccogliere i feriti, sentì aprire un cancello i cui cardini cigolarono alle sue spalle. Era dove addestravano quei prigionieri? Si girò a guardare e vide che i tizi dell’Ahnenerbe stavano portando fuori una cassa coperta da un telo. No, non era una cassa, era una gabbia. La aprirono davanti al cancello dopo averlo spalancato, poi infilarono dentro un bastone elettrico e diedero una scossa alla cosa che c’era dentro. Un urlo lancinante uscì da quelle sbarre che, nella notte buia, nascondevano il contenuto. E poi una cosa uscì dalla gabbia e galoppò nella notte. Era quella cosa che aveva visto il mese prima, ma gli sembrava più grande. E più, come dire, animalesca ancora.
- Fuori ci sono due miei uomini! – urlò a quei pazzi – Nel paese c’è pieno di civili! –
Gridò ancora correndo verso di loro. – Richiamate subito quella cosa, Santo Dio, ci sono due soldati e un sacco di civili, mi avete capito? –
- Capitano, - disse Bischoff – Quell’essere è assolutamente sotto controllo. –
- Quella cosa sotto controllo? Ma lei è pazzo o deficiente? –
- Si allontani, capitano, stiamo sperimentando l’arma che finirà questa guerra. Questa è l’arma che permetterà al Reich di governare il mondo per i prossimi mille anni. –
Era deficiente, questo era certo. – Bisogna far rientrare i miei uomini, e bisogna soccorrere quei feriti prima che la cosa torni. – disse ignorando volutamente la follia detta dallo scienziato.
- I suoi uomini non sono importanti, capitano, e quelli sono solo dei banditi. Immagino che se sopravvivessero li passeremmo per le armi. –
Non gli risultava che quello fosse il trattamento tipico per dei prigionieri di guerra, non nel mondo civile. E poi tra la fucilazione e essere sbranati da … - Richiami subito quella cosa, se può farlo, così andremo a cercare i miei uomini e soccorreremo quei feriti. –
- Capitano, lei sta vaneggiando. È in corso un esperimento di importanza capitale e non sarà certo lei a farcelo interrompere. – gli rispose e si girò di nuovo verso la sua radio che emetteva un continuo bip-bip che variava quando lui muoveva l’antenna ora in una ora in un’altra direzione.
Si allontanò da quei pazzi e disse ai suoi: - Ragazzi, là fuori ci sono Schauble e Steiner. Chi ha il coraggio di seguirmi là fuori per cercarli, venga con me. Non giudicherò chi rimarrà dentro. – e andò a prendere il fucile e a mettersi l’elmetto. Quando arrivò al cancello erano in tre i suoi pronti ad uscire, voleva bene a quei ragazzi, a loro e agli altri che non se la sentivano. Mise la mano sulla maniglia e sentì la voce del colonnello. – Fermo lì, capitano, è in corso un esperimento. – gli disse puntandogli contro una pistola.
- Là fuori, con quel mostro che tentate di comandare, ci sono due miei uomini e almeno un centinaio di civili. – gli rispose avvicinandosi a lui tentando di ignorare la pistola.
- I suoi uomini sono soldati e sanno di poter morire, quelli che lei chiama civili sono solo nemici. –
Deglutì la sua rabbia e il suo disprezzo per quell’uomo e per tutto quello che lui e la sua divisa rappresentavano, poi si voltò e, ignorando la pistola, andò al cancello. Lo aprì ignorando il grido di avvertimento dell’SS e uscì. Sentì uno sparo, in aria, per fortuna, e andò verso uno dei feriti. Era un ragazzo, magro e coi capelli neri e corti. Stava borbottando mentre il sangue gli usciva dalla bocca, diceva una parola che lui conosceva bene, “mamma”. Lo prese per le spalle e lo trascinò dentro, e, mentre rientrava insicuro di sé e del suo coraggio, vide i tizi dell’Ahnenerbe suonare nel loro fischietto. Dopo poco tempo, non più di un minuto, la cosa tornò, sporca di sangue e ululante e si infilò da sola nella gabbia. L’esperimento era finito, evidentemente, e purtroppo sembrava aver avuto successo.
E fu in quel momento, tenendo la mano di quel povero ragazzo che moriva e parlandogli con le poche parole di italiano che ricordava dai discorsi di sua nonna che veniva da Alba, il capitano capì che quelli non erano più i suoi compagni. Mentre il ragazzo moriva piangendo il capitano decise che nella guerra tra gli uomini e le bestie, lui stava dalla stessa parte di quei pazzi suicidi che li avevano attaccati quella notte.

mercoledì 24 giugno 2015

Berserker. 17

Nuovo capitolo, buona lettura!

Il colonnello Warner lo aveva fatto entrare dopo tre quarti d’ora di anticamera, due giorni dopo la richiesta di un incontro, e ora, dopo averlo fatto sedere davanti a lui, invece che parlargli si beveva un tè. Sorbiva piccolissimi sorsi di tè da quella grande tazza decorata da una svastica, non aveva idea che esistessero oggetti simili, si chiedeva se esistesse anche la carta igienica così decorata, e dopo aver bevuto il sorsetto borbottava dei versi di soddisfazione intramezzati a dei “Sì-sì-sì” davvero ridicoli.
Comunque rimase lì, seduto a guardarlo bere il suo buonissimo tè, deciso a non fargli il piacere di mostrare quanto era incazzato. Sarebbe stato divertente per quel porco di SS che lui si mettesse a urlare, no? E invece lui avrebbe aspettato lì, calmo e tranquillo, fin a che il bastardo si fosse degnato di ascoltare quello che gli doveva dire.
Il colonnello Warner si asciugò la boccuccia col tovagliolo, raccolse con cura le briciole dei biscotti e le versò nella tazza, si stiracchiò in maniera educata, sbadigliò coprendosi la bocca con la mano e poi, con molta calma, gli chiese: - Capitano, aveva chiesto di parlare con me? –
- Sì, colonnello. Le vorrei parlare di quello che è accaduto due giorni fa … - e qui fu interrotto dal colonnello che gli disse: - Scusi capitano, ma le devo dire subito che potrò concederle solo pochi minuti, perché stanotte ci dovrebbe essere una svolta nel nostro progetto Berserkir. –
E se aveva poco tempo doveva perderlo bevendo il tè? Ma che fosse maledetto, lui e i suoi guerrieri mitologici del cazzo! – Colonnello, quell’italiano che ci hanno affiancato … è un assassino. Ha ucciso un povero vecchio con le sue mani, lo ha torturato! E ora il corpo di quel vecchio è lì a marcire al vento e al sole senza che nessuno possa seppellirlo, pena la morte. – quasi sputò fuori queste parole che lo stavano soffocando.
Il colonnello lo guardò intrecciando le dita sul ventre, sorrise appena e disse: - Lo so, capitano. Naturalmente lo sapevo già. – si alzò e si spostò davanti alla finestra, era buio, ma da dietro al monte il cielo già si schiariva per la luna piena, di nuovo la maledetta luna piena. – Da quel che mi risulta quel vecchio, come lo chiama lei, aveva offeso il nostro Fuhrer e se ne vantava in giro per il paese.
- Era un povero vecchio innocuo che non faceva male a nessuno. – disse lui.
- Aveva chiamato Adolf il suo mulo perché così era più divertente prenderlo a legnate. Sono state all’incirca queste le sue parole, no? –
- Quello che quell’italiano e alcuni suoi uomini hanno commesso è stato un omicidio! Hanno ammazzato un uomo inerme! –
- Capitano, lei in questa guerra non ha ucciso nessuno? –
- Ho ucciso dei nemici, dei soldati con le armi in pugno, dei banditi – doveva chiamarli banditi davanti a lui – che volevano uccidere i miei soldati. –
- E quel vecchio non era forse un bandito che stava offendendo quanto di più sacro e importante ci sia nella nostra amata Patria? –
Certamente no, sacro quel nanerottolo austriaco? – Era un vecchio in un paese occupato da stranieri, colonnello. Era solo un vecchio che parlava troppo. –
- Era un vecchio che meritava la morte. – disse il colonnello in tono lapidario. Poi disse: - Ha altro da chiedermi, capitano? Dovrei andare ora. –
Lo doveva dire o no? Sì, doveva. – Quell’omicidio avrà delle conseguenze. Quei banditi che si sono nascosti sul monte reagiranno e ci attaccheranno, e qualcuno dei nostri sarà ferito o morirà. Se ne rende conto, colonnello? –
- Siamo in guerra, capitano, non a un pranzo di gala! – rise a questa sua battuta, odiava chi rideva delle proprie battute. – E poi lo spero bene, i suoi soldati si stanno inflaccidendo con questa vita borghese, e non so cosa stia aspettando per andare a stanare quei maledetti banditi. Aspetta forse il disgelo? Lo sa che siamo ancora in autunno, capitano? –
Sorrise mentre immaginava di freddarlo sul posto con una pistolettata in fronte, sarebbe caduto sul suo bel tappeto sotto alla sua fiammante svastica appesa al muro. – Lo so benissimo, colonnello. Solo che non mi sembrava il caso di mettere in pericolo i miei soldati per cercare un branco di ragazzini armati di fucili da caccia che probabilmente non sanno nemmeno usare. Non sono abituato ad ammazzare ragazzini, quando non è strettamente necessario. –
- E allora in guerra cosa fa, di solito? Ricama all’uncinetto? –
- Colonnello, io sono un capitano della Wermacht! Io pretendo rispetto! – disse scattando in piedi ed alzando un po’ la voce, non tanto da gridare, ma abbastanza da far sentire da chi fosse stato nell’anticamera ad origliare.
Il colonnello lo guardò con disprezzo e disse con voce sibilante: - Veda di pretendere cose che merita, vigliacco. – e forse lì ci sarebbe scappato il morto, ma sentirono uno sparo dall’esterno, un fucile da caccia al cinghiale, dal suono. Lui corse fuori dimenticandosi, per il momento, dell’epiteto offensivo che gli era stato affibbiato, ma il colonnello non lo seguì fuori. Chiamò al telefono qualcuno e disse: - Sono arrivati, dottore, ne approfitti per l’esperimento con l’esemplare 1. –

venerdì 19 giugno 2015

Berserker. 16

E, dopo un po' di giorni, eccovi un altro capitolo, finito di scrivere proprio un minuto fa. Buona lettura!

Secondo la gente del posto non aveva mai fatto così caldo in autunno. Meglio, dopo l’inverno che aveva passato combattendo nei Balcani, di tutto poteva avere voglia meno che di vedere muri di neve intorno a sé.
Malgrado nelle zone intorno a loro, come i tutta l’Italia dopo quella cagata di Armistizio l’8 di settembre, infuriasse la lotta contro quelli che nei loro dispacci venivano denominati banditi e che tra di loro si definivano partigiani, nella loro zona tutto era tranquillo. Sapeva naturalmente che sul monte di fronte al loro campo, da qualche parte in quelle strette vallate nascosti da boschi fitti e impossibili da attraversare per chi non li conoscesse bene, si erano nascosti alcuni ragazzi renitenti alla leva nella Repubblica Sociale, ma fino a che loro non fossero venuti giù a dare fastidio ai suoi uomini, lui non avrebbe rischiato la vita di nessuno dei suoi per andarli ad acciuffare. Volevano stare nascosti sul monte come capre? Facessero pure, lui e i suoi uomini per la prima volata da mesi avevano un tetto sopra le loro teste e un po’ di quiete dai combattimenti.
Il nostro capitano stava pensando queste cose mentre passeggiava per il giardino del sanatorio, quando gli venne incontro il tenente Schimdt, un ragazzo che sembrava essere passato attraverso 11 anni di regime nazista senza esserne minimamente toccato. Anche perché il suo unico argomento di conversazione era il Bayern di Monaco e almeno su quell’argomento i nazisti fino ad allora si erano astenuti dal dire qualcosa. Comunque era piacevole parlare con qualcuno che non rispondeva ripetendo a memoria le frasette inventate da Goebbels.
- Salve, capitano. – gli disse Schmidt salutandolo militarmente – Bella giornata, eh? –
- Caldo. Per essere la fine di ottobre è caldo. Ma dopo tutto siamo nella terra dove crescono i limoni, no? –
Schmidt lo guardò sforzandosi di non far notare che non aveva capito il riferimento, poi sorrise e disse: - Non li avevo visti i limoni, qua intorno. Belli comunque, e profumati. - Eh sì, Goethe non giocava nel Bayern in effetti.
Mentre la conversazione languiva furono richiamati da un fischio a malapena udibile. Veniva dalla zona del giardino che era stata recintata per trasformarla in Lager per i prigionieri. Andarono a vedere e rimasero per qualche minuto in silenzio a guardare cosa stavano facendo i due dell’Ahnenerbe insieme a quel sergente che avevano fatto venire dalla sezione cinofila. Stavano lanciando dei bastoni ai prigionieri e quelli dovevano andare a prenderli e riportarli. Quando lo facevano venivano premiati con un biscotto, se si rifiutavano venivano picchiati con un bastone. Altri, più in là, stavano marciando e, quando Bischoff suonava quello strano fischietto, svoltavano a destra o a sinistra oppure si fermavano a seconda di quanti fossero stati i fischi. Ogni volta che eseguivano correttamente l’esercizio, biscottino, per ogni errore, di nuovo, bastonata. Stavano addestrando dei cani, solo che erano persone.
Il capitano e il tenente si allontanarono dalla recinzione in silenzio e svoltarono l’angolo. Lì c’erano quelle reclute delle SS, quelli che avevano stampato in faccia “Io sono un bravo nazista” e che disprezzavano gli altri esseri umani all’incirca come gli Spartani disprezzavano gli Ateniesi. Questi li stava addestrando von La Salle insieme a all’assistente di quel sergente. Anche qui biscottini e fischietti, solo che questi si lanciavano anche addosso a dei pupazzi in un corpo a corpo stile lotta greco-romana. E anche qui i comandi erano dati con il fischietto quasi inudibile e c’erano gli stessi premi e punizioni.
Si allontanarono anche da lì e uscirono dal sanatorio cominciando a passeggiare per il paese. Un pastore passò con un paio di capre e li salutò con un certo astio negli occhi. Erano invasori dopotutto, non poteva dargli torto. Gli disse “Buongiorno” con la miglior pronuncia italiana di cui era capace.
- Era un fischietto ad ultrasuoni, lo usano per addestrare i cani. – gli disse all’improvviso il tenente Schmidt. Era spaventato, povero ragazzo, neanche il fischietto ad ultrasuoni aveva mai giocato nel Bayern.
- Sì. –
- Capitano, perché addestrano come cani quei prigionieri e quelle reclute? Perché mai li addestrano come cani? –
- Sono esperimenti di cui non … come dire? Nessuno ai piani alti ritiene che dobbiamo saperne più di quanto sappiamo, Schmidt. Ti va come risposta? –
- Ma, capitano! Non pensa che c’entri quella cosa che ha ucciso Johannes? E se quei matti volessero contaminare quelle persone? Capitano … -
- Schmidt, nessuno ha chiesto il nostro parere, mi pare. Però ci hanno dato degli ordini. Ciò dovrebbe bastarti, direi. – gli rispose vergognandosi come un verme, lui aveva disubbidito agli ordini, lui era andato nell’ala in cui gli era stato proibito andare, lui aveva visto la ragazza che con la luna piena diventava quella cosa, lui aveva visto che Johannes era ancora vivo e perfettamente sano. Lui era il perfetto soldato di quel regime di merda che era diventata la Germania, tra sé e sé sbraitava e, quando doveva agire, era il più fedele degli esecutori. Che schifo! – Schmidt, anche io ho le stesse idee che hai tu, è naturale, ma gli ordini che abbiamo ricevuto … - gli stava dicendo quando arrivò quell’odioso italiano che i fascisti avevano mandato ad aiutarli e affiancarli nella gestione del paese. Un cretino fatto e finito, un tizio grande e grosso che raccontava a tutti delle sue azioni eroiche nella Grande Guerra per impressionarli e non si rendeva conto che qualunque soldato, vedendolo, notava come prima cosa che aveva i piedi piatti. E con quei piedi non lo avrebbero mai arruolato, neanche nella Grande Guerra.
- Salve, podestà. – gli disse sperando che avesse da fare al sanatorio e che non li disturbasse col suo tedesco osceno. Se c’era una persona a questo mondo che per lui era classificabile come subumano, ecco, il podestà Toti era quello.
- Dovete venire con me, subito. C’è un contadino che ha fatto una cosa inaudita. – disse e corse verso la parte orientale del paese. Lo seguirono e arrivarono davanti a un contadino che li stava aspettando accanto a un mulo carico di legna. Il labbro del contadino era spaccato da un pugno e il sangue gli colava sulla barba grigia. Lo conosceva quel contadino, lo chiamavano Bartolo ed era innocuo.
- Lo ha picchiato lei questo vecchio? – chiese a Toti.
- Certo! Gli chieda come si chiama il mulo, su! – gli disse l’omone tutto eccitato. Gli piaceva picchiare, maledetto, gli piaceva picchiare i vecchi indifesi.
- Parla il tedesco il signore? –
- No. –
- E allora glielo chieda lei, per favore. – e mentre diceva questo si stavano avvicinando anche quattro di quei giovani SS che erano incuriositi dalla loro scenetta.
Toti fece una domanda al vecchio e quello, impettito, rispose: - Adolf. –
- Ha capito, capitano? Ha chiamato il suo mulo Adolf. –
- E allora? – non gli piaceva quella storia, sia Toti che i giovani SS sembravano avere una gran voglia di menare le mani.
Toti fece un’altra domanda e il vecchio li guardò tutti in faccia. Quanto odio c’era in quella faccia, peccato che stava su un corpo che definite indifeso era poco. Rispose ad alta voce e fece cenno a Toti di tradurre. Stava impettito, ma gli tremavano le mani. E poi Toti tradusse le sue parole dicendo: - Dice che lo ha chiamato Adolf perché così, quando gli deve dare delle legnate, almeno si diverte. – e qui cominciò la sarabanda.
Lo trattarono come un animale, peggio anzi, e lui non intervenne. Lui e Schmidt si guardarono e il tenente fece l’atto di poggiare la mano sulla pistola per … per fare qualcosa, ma lui lo fermò. Codardo in tutto, che schifo.
Per fortuna quel povero vecchio non durò troppo, probabilmente gli cedette il cuore dopo un po’ di botte. Toti e le SS si divertirono un bel po’ con lui, però, e alla fine l’italiano sparò anche al mulo freddandolo lì sul posto. Non riuscì ad uccidere il cane del vecchio, però, dopo un calcio scappò e continuò ad abbaiare disperato dal limite del bosco a un centinaio di metri da loro.
Lui e Schmidt si allontanarono prima che tutto finisse, disgustati. E il tenente disse: - Vorrei tornare al fronte, capitano, vorrei tornare al fronte. – e lui gli diede una pacca sulla spalla. Erano finiti dalla parte sbagliata dell’Inferno, non c’era dubbio.

domenica 14 giugno 2015

Berserker. 15

Nuovo capitolo, fresco fresco come un ovetto, buona lettura!


Il suo attendente gli portò un caffè e uscì dalla stanza. Lui aprì la finestra e andò a sedersi sulla sedia a sdraio per gustarsi quegli ultimi raggi di sole. Quel grosso palazzo era stato costruito proprio per quello, perché la gente potesse uscire sui terrazzini e prendersi il sole. Qualcosa di buono c’era, dopo anni di guerra passati a dormire in tende umide e fangose o in ruderi senza il tetto a causa dei combattimenti, ora aveva una stanza, una colazione, un pranzo e una cena caldi, un vero letto e un panorama.
E anche i suoi uomini avevano tutto questo, solo che stavano in due per ogni stanza. E che i suoi uomini stessero comodi, al caldo e al sicuro per lui era molto importante. Per gli alti papaveri dell’esercito i suoi uomini erano solo numeri, mandiamo mille soldati in più là, sono morti cento soldati qua, possiamo permetterci duemila caduti lì, ma per lui erano persone, ragazzi che non avevano ancora vissuto la loro vita e che dipendevano da lui per poterlo fare in futuro. I suoi uomini erano l’unica parte della Wermacht di cui ancora gli interessava; che si fottessero tutti gli altri, lui aveva i suoi uomini e loro avevano lui.
E qua gli si rovinò il piacere del caffè. Anche Johannes era un suo uomo. Avrebbe voluto sparargli un colpo in testa, quella notte di tre settimane prima, tanto soffriva per gli squarci che quella cosa gli aveva fatto. Il dottore aveva tentato di ricucirlo e gli aveva dato la morfina, ma lui aveva continuato a urlare. E poi quei maledetti dell’Ahnenerbe avevano preso Johannes e la Cosa e li avevano portati via nella loro tenda. Le urla erano continuate per un po’ e poi, all’improvviso, si erano interrotte. Lui si era avvicinato alla tenda e aveva chiesto di entrare. Un suo uomo era morto e lui doveva vederlo; era un suo dovere e lui avrebbe dovuto scrivere alla famiglia.
E invece … lo avevano cacciato in malo modo, stavano lavorando. – Devo prendere le piastrine di Johannes. – aveva detto lui e quelli gli avevano risposto che il soldato Messner non era affatto morto. Ora dormiva. Così gli aveva detto l’altro bel tomo dell’Ahnenerbe, il dottor Von La Salle. – Fatemi vedere il mio uomo. – aveva detto e quello stronzo, quel maledetto stronzo pieno di sé, gli aveva riso in faccia. – Il suo uomo adesso è al servizio dell’Ahnenerbe, non è più ai suoi ordini. Vada pure, adesso. – gli aveva detto chiudendo la porta e lasciandolo lì nella notte che cominciava ad albeggiare.
E ora erano tutti lì, sugli Appennini alle spalle di Genova, in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini che i sapientoni dell’Ahnenerbe, che bruciassero all’Inferno dal primo all’ultimo, avevano trovato con i loro potenti mezzi, probabilmente facendo oscillare un pendolino su una carta geografica del mondo. E non erano soli, c’erano gli scienziati con una squadra di medici ed infermieri, i due ufficiali delle SS con una squadra di giovani reclute SS che non facevano altro che allenarsi a tutte le ore del giorno e della notte mostrandosi evidentemente scocciati ogni qual volta che lui o uno dei suoi “semplici” soldati si permetteva di incontrarli e di scambiare due parole con loro. E poi c’erano quei venti prigionieri dei campi. Dieci uomini e dieci donne arrivati lì in condizioni pietose, pieni di cimici e pidocchi, così magri che gli si potevano contare le costole attraverso la lercia divisa da internato, tutti tra i diciotto e i vent’anni e, malgrado il trattamento subito, in buona salute. Ora, lì nel sanatorio dove si erano acquartierati, li trattavano meglio, li curavano, li lavavano, li nutrivano e li tenevano al caldo, ma li sottoponevano anche a strani allenamenti e addestramenti, roba più da cani pastore che da persone.
E poi, nascosti nelle stanze più interne, la Cosa, Kastorp e Johannes. La loro presenza era un segreto ben custodito e quindi lo sapevano ormai tutti. Era stato il cuoco a dire che doveva esserci altra gente, almeno tre persone, e tutti avevano visto i dottori e le SS andare molto spesso nelle stanze interne e proibite. Lui se ne era fregato degli ordini e dei divieti, una mattina che quei matti erano tutti impegnati nell’addestramento delle reclute SS, e mai aveva visto addestrare dei soldati con fischietti e frustini, si era infilato nel corridoio che portava all’ala sinistra del sanatorio e aveva aperto un po’ di porte. Laboratori, sale con lettini, sale con gabbie, e alla fine, in fondo, tre stanze le cui porte, blindate, potevano essere aperte solo dall’esterno. Era entrato nella prima e aveva trovato Kastorp. Aveva messo su una decina di chili e sembrava di nuovo un uomo. Gli occhi invece erano peggiorati, erano gli occhi di un pazzo. Tutti gli spigoli presenti nella stanza erano stati imbottiti e non indossava né cintura né lacci. Il letto aveva delle cinghie pronte per contenerlo.
- Salve, signor Kastorp. – gli disse entrando.
L’uomo lo guardò e sembrò fare fatica a mettere a fuoco chi fosse, poi sorrise e disse: - Salve capitano. Anche lei qui? –
- Sì. Siamo tutti qui, nelle mani di questa gente. – gli rispose.
Kastorp sorrise, un sorriso straziante nella sua tristezza e poi gli chiese una cosa: - Avrebbe una sigaretta? –
- No. Se vuole gliela porto la prossima volta che vengo. Ma lei non fuma, mi pare. –
- Non fumo, infatti. Era per dare sbadatamente fuoco al letto per crepare e essere libero. – gli disse e sorrise. Questo era un sorriso molto più deciso, la sola idea di farla finita lo aveva rallegrato.
- Signor Kastorp … - disse e si fermò; cosa avrebbe potuto dirgli?
- Capitano, le dispiacerebbe spararmi un colpo in testa? – gli chiese sedendosi sul letto.
- Io non posso. – gli rispose vergognandosi della sua pavidità.
- Lo sapevo, capitano, ma dovevo tentare. – gli disse e poi aggiunse: - E ora vada, di là c’è un suo amico e non ha tanto tempo prima che tornino. –
Lui uscì dalla stanza e aprì la porta successiva. Sul letto dormiva una ragazza, se non si sbagliava l’aveva vista là in Transilvania … e all’improvviso capì, era quella ragazza che i suoi uomini avevano seguito nel bosco quella notte, quella era la Cosa. Ora sembrava solo una ragazzina che dormiva in una cella dopo aver pianto.
Richiuse la porta e aprì la successiva. Sul letto, intento a leggere un libro di avventure in mare, l’Isola del tesoro, c’era Johannes. Era totalmente guarito e gli era passata anche quella tremenda acne che lo deturpava. Saltò in piedi vedendolo e scattò sull’attenti.
- Riposo, Johannes. – gli disse rendendosi conto che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire così presto da quelle ferite, e che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire totalmente da quelle ferite. Rabbrividì all’idea di essere nella stessa stanza con lui, ma era sempre uno di suoi uomini, un ragazzo troppo giovane per la guerra che era stato afffidato a lui. – Come ti trattano? –
- Bene, capitano, solo che non mi fanno uscire. Come stanno i camerati? –
- Bene, Johannes, bene. Ti salutano tutti. – guardò l’orologio che portava al polso e disse: - Ora devo andare, soldato. Tornerò a trovarti appena potrò. – e uscì guardando il ragazzo che lo salutava con un Heil Hitler da antologia. Si chiuse la porta alle spalle e pensò che voleva fuggire, voleva scappare via da quel posto dove succedevano cose simili, voleva fuggire e portare con sé i suoi uomini. Poi si ricompose, aggiustò la divisa e, senza farsi notare, tornò sui suoi passi uscendo dall’ala proibita. Sarebbe tornato a prendere il sole, sì, un po’ di sole gli avrebbe fatto bene.

venerdì 12 giugno 2015

Berserker. 14

Comincia il terzo capitolo. Ecco la prima parte. Buona lettura a tutti!

Ed ecco di nuovo la luna piena. E di nuovo in quel posto maledetto dove quattro suoi uomini erano morti il mese prima. E in più adesso c’erano quei maledetti SS, fanatici assassini sadici, con quei dottori dell’Ahnenerbe che sembravano gli scienziati pazzi dei film horror.
Ma quello che proprio non sopportava, quello che davvero gli era intollerabile, era che adesso non era più lui a comandare i suoi uomini, no, era diventato solo il tizio a cui dare gli ordini, senza spiegazione, perché lui li riportasse ai soldati.
E adesso, doveva muovere i suoi uomini, mettere in pericolo i suoi uomini, senza che quei pazzi sadici avessero sentito il benché minimo bisogno di spiegargli cosa sarebbe successo. – Tenga pronti i suoi uomini, capitano! – gli aveva detto Schumacher, così, come a un fattorino, e poi l’altro, quello alto e secco come un palo telegrafico, Warner, gli aveva detto che uno dei suoi uomini avrebbe dovuto fare da esca.
- Da esca? Cosa vuol dire? –
- Uno dei suoi uomini farà da esca, ne scelga uno. – gli aveva risposto.
- I miei uomini non sono esche. – gli rispose ad alta voce e quello lo guardò con disprezzo. – Il mio era un ordine, capitano. Se il Reich vuole che un suo uomo faccia da esca, un suo uomo farà da esca. Ora vada a sceglierlo. – ed era uscito dalla stanza della casa che avevano requisito come base operativa. Dopo qualche secondo passato a far sbollire la rabbia si diresse verso l’uscita pensando a come avrebbe presentato la cosa ai suoi uomini. Avrebbe potuto dire che era un onore, una cosa rischiosa per il bene della patria … che schifo! Mica poteva dirgli: “Ragazzi, mi serve uno di voi che si infili su un amo per attirare con i suoi movimenti il pesce a cui diamo la caccia.” No, l’onestà sarebbe stata troppo anche per i suoi uomini. Avrebbe mentito. Che schifo.
Nel corridoio c’era aperta una porta, era dove tenevano Kastorp. Se pensava al Campo, a quella gente rinchiusa là a marcire … lui combatteva a fianco di quelli che bruciavano nei forni dei poveracci. Lui aveva mandato laggiù un sacco di poveracci. Che schifo! Gli faceva tutto schifo ormai, solo il suo senso dell’onore gli faceva indossare quella divisa ogni mattina, ma si faceva schifo da solo. Che onore c’era in quella divisa? Comunque gli avrebbe fatto piacere vedere Kastorp, era un brav’uomo e lui era l’unico a trattarlo da persona. Si sarebbe fermato un po’ a fare due chiacchiere con lui, lo tenevano sempre chiuso lì dentro come un animale … si affacciò e rabbrividì.
Kastorp era incatenato al muro con quella catenina appesa al polso. Stava urlando, stava ringhiando anzi. Gli facevano delle domande e quella cosa che sembrava abitarlo ruggiva, così loro gli davano una scossa e quella povera cosa rispondeva con un cenno del capo.
Ecco un altro schifo. Invece che entrare lì e ammazzare quegli orrendi aguzzini il nostro capitano uscì di corsa e vomitò nel giardino. Se non fosse stato per quel maledetto senso dell’onore … per un attimo rimase fermo a guardare la pozza di vomito e tentò di trovare in sé un po’ di coraggio, ma il soldato ebbe il sopravvento e andò verso l’accampamento dei suoi uomini. Avrebbe mentito ai suoi uomini causando probabilmente la morte di almeno uno di loro mentre quei mostri avrebbero continuato a torturare Kastorp. Era senza dubbio finito nella parte sbagliata dell’inferno, e meritava di starci.

Lo scienziato dell’Ahnenerbe stava attaccato a quel cassone di radio e scriveva su un foglio quello che gli dicevano i suoi colleghi. I suoi soldati non sapevano da dove prendessero le notizie, lui sì. Aveva visto l’altra radio nella stanza dove torturavano il povero Kastorp costringendolo a rimanere in contatto con quella maledetta catenina. Se aveva visto bene la radio e il pungolo elettrico con cui lo colpivano per permettergli di rispondere alle domande erano attaccate alla stessa batteria. Comunque lo scienziato, un giovanotto che tutti chiamavano dottor Bischoff stava ascoltando con attenzione ciò che gli dicevano in cuffia, poi scrisse qualcosa e disse: - Sta arrivando. Da destra. – e tutti si misero nella posizione che gli era stata assegnata in precedenza.
La luna era alta nel cielo, enorme nell’aria gelida e tersa, il paesaggio sembrava disegnato a china da un Gustave Dorè molto ispirato, diciamo che mancava solo l’anima di Virgilio là in fondo alla selva.
Ma non fu Virgilio a spuntare all’improvviso da dietro a una macchia di alberi, a voler citare per forza la Commedia fu più che altro la lupa, anche se non sembrava poi così tanto una lupa. Aveva un che di umano, ancora un po’, e se non altro camminava ancora su due gambe, anche se le braccia erano così lunghe da sfiorare il terreno. Era ricoperta di pelo rado, quasi a ciocche come un gatto a pelo lungo quando fa la muta, le orecchie erano enormi, quasi più da volpe che da lupo, stile dio Anubi degli Egizi e il muso … il muso era di una bruttezza inenarrabile, come una faccia umana stirata su un muso da lupo, un qualcosa che dava i capogiri solo a vederla per come era fuori posto.
I denti erano giganteschi, molto più appuntiti di quelli di un animale e così anche gli artigli. Ed era una femmina, quello si vedeva bene, due seni umani rimanevano in congruamente su quel petto affilato da cane. Comunque era enorme, spaventosa, un incubo capace di trasformare in gelatina le ginocchia di un uomo.
Questa cosa, non gli veniva in mente un’altra definizione, si stava lanciando sul suo uomo che era nella radura davanti alla buca profonda sei metri che avevano scavato in quei giorni ricoprendola poi con rami e frasche per nasconderla. Non sembrava una bestia che potesse cadere in un inganno così vecchio e banale, non con quegli occhi che brillavano gialli come fuochi nella notte. Erano occhi crudeli, orrendi, ma molto intelligenti.

Saltò sul suo uomo, Johannes, un ragazzotto di diciannove anni che non vedeva l’ora di lasciarci la pelle per la Nazione Germanica, povero cristo rimbecillito dalla propaganda. E cadde nel buco. Successero entrambe le cose, come nessuno di loro aveva previsto. E quindi cadde nel buco trascinandosi giù il povero soldato che gridò come una pecora sgozzata. Loro si lanciarono avanti con le loro reti, inutili con lui vicino, i loro fucili, egualmente inutili con lui stretto tra le zampe della Bestia, e le loro bombe a mano, ultima possibile difesa in caso la Bestia fosse stata troppo potente anche per le loro armi, ma gettarle nella buca avrebbe ucciso anche Johannes. E così arrivarono di corsa e poterono vedere solo quell’enorme mostruosità che sbranava quel povero ragazzo girando ogni tanto il suo orrido muso verso di loro in un ringhio disperato e feroce intramezzato dalle urla del ragazzo. Fece in tempo a vedere Johannes che si reggeva le budella e poi, mentre pensava di buttare una bomba per farlo almeno finire di soffrire, quel maledetto Bischoff arrivò col suo passo leggero e lanciò nella buca una bomboletta che emise del fumo grigio.
Per qualche istante la bestia reagì urlando più forte, poi cominciò, probabilmente per la frustrazione, a sballottare contro le pareti di terra l’inerme soldato e poi, da un momento all’altro, crollò a terra.
- Scendete a prenderla, le catene sono là dalla mia radio. – disse il dottor Bischoff e andò a riferire ai suoi colleghi. Non parlò del povero soldato che aveva donato le sue viscere al Reich, doveva essere l’ultimo dei suoi pensieri.

martedì 9 giugno 2015

Berserker. 13

Nuovo capitolo, diciamo che finisce qui il secondo capitolo della storia. Buona lettura!

Qualcosa aveva ululato. Qualcosa che sicuramente non era un cane, i cani non ululano così.
Aveva visitato a 9 anni il Museo di Storia Naturale, si ricordava il lupo impagliato, l’ultimo lupo della Liguria, ucciso se si ricordava bene a inizio secolo. Cosa si erano portati i crucchi, dei lupi? E quanto cazzo erano grandi i lupi in Germania? Continuò a correre tentando di fare molte cose insieme, correre più veloce che poteva, non perdere di vista gli altri, vedere dove andava, non far rimanere indietro Miriam, sfuggire ai Tedeschi, capire cosa fosse a ululare guardandosi indietro, schivare proiettili che non venivano però sparati e non sbattere in un muro o in un albero. Troppe cose, otto cose da fare insieme erano forse sei o sette di troppo per lui, tempo mezzo minuto e inciampò su qualcosa e rovinò a terra. C’era fango, se era fango, c’erano pietre e foglie marcite. Mancò una pietra appuntita di meno di un centimetro, si stortagnò un polso e picchiò rovinosamente il fianco destro a terra. Ma, soprattutto, ruppe gli occhiali.
Gli mancavano sei diottrie all’occhio sinistro e sette al destro, Talpa era il suo soprannome a scuola. I suoi genitori gli avevano insegnato ad essere previdente e aveva degli occhiali di scorta. Li aveva su alla capanna, a ottocento metri di dislivello e almeno sette chilometri di distanza. Rimase per qualche istante in terra, appoggiato sulle mani e sulle ginocchia a vedere il mondo nebbioso che gli stava fisso davanti agli occhi. Piangeva.
- Ma che diavolo stai facendo, Ettore? – gli chiese Miriam prendendolo per un braccio e sforzandosi di tirarlo su. – Alzati, merda! – e gli diede uno strattone che non lo smosse per niente ma fece quasi cadere a terra lei.
- Non vedo niente senza occhiali! – le disse guardandola e riuscendo a vedere solo una sagoma confusa nel buio.
- Ma vai a quel paese, Ettore! – gli disse e lo tirò di nuovo. Questa volta lui accompagnò il suo sforzo e si mise in piedi. Lei lo tenne per un braccio e ricominciò a correre trascinandoselo dietro. Non è che non vedesse nulla, fino a un paio di metri vedeva abbastanza, a parte l’oscurità che c’era dove passavano sotto all’ombra di un albero o di un muro, ma più in là di quella distanza diventava tutto confuso, una specie di muro grigio tendente al nero. Corse zigzagando appeso al braccio di Miriam sentendo montare dentro una paura che mai aveva provato prima, era indifeso come un bambino, non sarebbe nemmeno riuscito a trovare un muro dietro al quale nascondersi se gli avessero sparato addosso, era solo un peso che rallentava quella povera ragazza.
E, mentre pensava queste belle cose di sé quasi assordato dai battiti del suo cuore, accadde qualcosa che non riuscì a vedere abbastanza bene da capirla. Qualcosa di enorme, qualcosa di enorme, fortissimo e peloso, lo scaraventò via come lui avrebbe potuto lanciare via una bambola di pezza. Volò in quella tenebra indefinita aspettando di rompersi il collo contro una pietra e intanto sentì Miriam gridare. Erano grida di terrore e di dolore, qualcosa la stava aggredendo e quel qualcosa ringhiava e ruggiva. Atterrò facendosi male, ma non così tanto da non riuscire a rialzarsi, si mosse verso le grida e i ringhi e, dopo un po’, intravide qualcosa di enorme e indistinto che infieriva su un corpo abbandonato in terra. Si lanciò come un kamikaze su quella cosa sentendo la sua pelle che si accapponava sempre più a ogni passo che faceva, ma Miriam era in pericolo.
E poi, prima di poter vedere con chiarezza cosa fosse quell’animale, un fischio acuto echeggiò tra i muri degli orti e quella cosa, qualunque cosa essa fosse, si staccò da Miriam e corse via. Lui accelerò e si accucciò vicino alla ragazza che era priva di sensi ma ancora viva. Era ferita, tagli e lacerazioni sul viso e sul torso, le mani ferite nel tentativo di difendersi. La prese in braccio e, dolorante e quasi cieco, riprese la strada verso la salvezza. E come riuscì ad arrivare fin lassù con in braccio Miriam semplicemente è una cosa che non sapeva allora e mai seppe spiegare in futuro. Successe e basta.

lunedì 8 giugno 2015

Berserker. 12

Ed ecco un altro capitolo. Come al solito, buona lettura!

Scendevano giù per il sentiero alla luce incerta della luna piena e, dopo un po’, alcuni cominciarono ad accompagnare la loro marcia poco cadenzata con un canto corale. Forse era stato il Fascina a cominciare, era senza dubbio da lui cantare l’internazionale in quel momento. Cominciarono in pochi, poi a poco a poco si unirono gli altri. “Compagni avanti al gran partito, noi siamo dei lavorator! …” e fu dopo qualche minuto di quella idiozia che Ettore sbottò ad alta voce. – Vogliamo anche metterci dei campanacci al collo come le vacche per avvertirli del nostro arrivo? – disse parlando quasi tra sé e sé. Un silenzio carico di rancore gli rispose e così, in silenzio, continuarono a scendere.

Arrivati in paese si sparpagliarono per le vie camminando lungo i muri per non essere visti. Ogni tanto, da qualche porta socchiusa e illuminata all’interno da una piccola candela, qualcuno dava loro un fucile da caccia carico. Anche Ettore, che pensava che quello che stavano facendo fosse una cazzata che li avrebbe senza alcun dubbio portati alla morte di lì a pochi minuti, si sentì galvanizzato ogni secondo di più.
Sì, sarebbe morto facendolo, ma quei crucchi maledetti, quel Toti che gli avevano detto essere stato l’aguzzino di un vecchio innocente, sarebbero morti per mano sua. O sì, se ne sarebbe portati dietro un bel po’, ne avrebbe uccisi un bel po’ col fucile di suo padre e, se necessario, con le sue mani.

Erano quasi al sanatorio, era una ventina di minuti che camminavano in mezzo al paese svoltando di qua e di à per quelle stradine tortuose. Fu allora che sentirono il rumore dei passi. Passi di soldati, passi di scarponi pesanti. Si nascosero dietro agli angoli, nelle rientranze delle porte, alcuni dietro ad alberi che li coprivano a malapena come nei cartoni animati.
Erano due soldati, due ragazzi di una ventina d’anni, e stavano venendo verso di loro. Si mossero il Walter, che aveva fatto la campagna di Russia, e il Fascina. Li presero alle spalle e li sgozzarono. Ci misero un bel po’ a morire, e anche se non riuscirono a gridare fecero un sacco di versi, di gorgoglii, di pianti soffocati dal sangue che sgorgava nella loro gola.
Walter si allontanò in fretta e ricominciò ad avanzare verso il sanatorio, ma il Fascina ebbe una crisi di tremiti e cadde in terra piangendo. Una cosa è cantare a pieni polmoni che si inzupperanno di sangue degli invasori i nostri campi, un’altra è sgozzare con le proprie mani un ragazzo di vent’anni mandato lì probabilmente contro la sua volontà. La Guerra fa queste cose, ti trasforma in un assassino, ti mostra i tuoi limiti, appiana le liti. Ettore, non riuscendo a smettere di fissare gli occhi di quel povero ragazzo che visti da vicino mentre moriva non sembrava un crucco ma solo un poveretto che chiamava la mamma, si avvicinò al Fascina e lo abbracciò. Il Fascina tremava e continuava a ripetere come un indemoniato “No No No No No …” e lui lo stringeva a sé chiamandolo Stefano con il tono di una madre. E intanto, fissandolo da terra il ragazzo tedesco moriva. Dopo un minuto o due il Fascina riuscì ad alzarsi e raggiunsero gli altri.

Erano intorno al sanatorio, all’ombra degli alberi. Era stata eretta una recinzione, di rete metallica e filo spinato, c’erano delle torrette di avvistamento con guardie armate, c’erano fari elettrici che illuminavano la fascia di terreno spianato davanti a loro. Ettore pensò che era un suicidio ancora più inutile di quello che aveva pensato su alla capanna. Tutto l’ardore di prima lo abbandonò in fretta e gli rimasero la paura e lo schifo per la morte di quel povero ragazzo. Tra pochi minuti, probabilmente, sarebbe morto sputando sangue come lui.
Guardò il Cinese e gli fece cenno di no agitando la mano. Non potevano attaccare, sarebbe stata una follia inutile. Il Cinese lo guardò con disprezzo e, forte della sua idiozia piena di sé, si lanciò allo scoperto sparando una fucilata al soldato sulla torretta davanti a lui. Lo prese di striscio, a un braccio, ci volle più o meno un secondo, forse due, prima che quello rispondesse al fuoco con il suo mitra.
Intanto si erano lanciati tutti verso la recinzione e tre di loro, Walter, il Balilla e Pippo detto Tersite furno falciati dal fuoco della mitraglietta. Poi cominciarono a sparare anche gli altri. L’attacco durò ancora qualche secondo, poi cominciò la fuga. E infatti fu alla schiena che fu colpito Nostromo, il più incredibile raccontatore di barzellette sconce del mondo. Ettore lo superò e passò di corsa vicino a Pippo che agonizzava a terra, stava chiamando la mamma mentre il sangue gli usciva dal lato sinistro della bocca.

Mentre fuggiva in mezzo agli alberi sentendo i proiettili sibilargli accanto Ettore controllò che Miriam fosse vicina a lui. C’era, ed era illesa per fortuna. Intanto si chiedeva chi fossero quei poveracci che aveva visto in un recinto all’aperto, dei tizi magri e smunti vestiti con dei pigiami a righe. E poi, quando ormai fuggivano da un bel po’, sentirono il rumore del cancello e un suono che non si sarebbero mai aspettati di sentire. Un ululato.

domenica 7 giugno 2015

Berserker. 11

Nuovo capitolo, appena scritto! Buona lettura a tutti!

- Si può sapere che cavolo stai facendo la sopra? – gli chiese Miriam guardandolo da sotto in su con le mani sui fianchi e un’espressione a metà tra il divertito e l’indispettito.
- Non si capisce? – le chiese lui di rimando piantando un altro chiodo col martello.
- No. Sembri uno scimmione che dà martellate su un tetto per sfogarsi. –
- Grazie. – le rispose lui e posizionò un’altra scandola sulle travi.
- No, davvero, che stai facendo? –
- Rifaccio il tetto, che l’altra sera pioveva dentro. – le rispose continuando a lavorare.
- Non servirebbero le tegole per farlo? –
Lui la guardò poggiando in equilibrio precario il martello. – Uso le scandole. –
- Che sarebbero … -
- Tavolette di legno, si inchiodano l’una sull’altra in modo che l’acqua ci scivoli sopra, come le tegole. Le usano su sulle Alpi. –
- E dove le hai prese le scandole? –
- Con l’accetta, ho tagliato a fette un po’ di tronchi. – le rispose e ricominciò a posizionare quelle fettone un po’ storte di legno sul tetto. Naturalmente erano poche.
- E lo avresti fatto quando sei andato via? – gli chiese lei appendendosi alla trave e tirandosi su con l’agilità di una scimmietta. Era piccola e magra, ma agile come una gatta.
- Sì. Ero senza dubbio più utile quassù che là nel soviet. – e dicendo soviet alzò gli occhi al cielo e fece una specie di fischio o sibilo con le labbra.
- Non mi chiedi cosa abbiamo deciso? –
- Attacco in forze alle truppe occupanti. Useremo tutte le nostre armi e li danneggeremo tanto da renderli innocui e indifesi. Giusto? –
- Sì, le parole sono state all’incirca quelle. –
Lui sorrise e si sedette sul tetto che cigolò in maniera preoccupante. – Sono state le parole che ha detto il Cinese quando ho finito di raccontare quello che avevo visto. Era naturale che si sarebbe votato così. –
- Hai ragione. A te non piace il Cinese, vero? –
- Penso che sia un uomo coraggioso che si lancerebbe contro il nemico senza paura. Penso che sia un uomo onesto che combatte per i suoi ideali. Penso che se gli lasciassi i miei soldi e lui stesse morendo di fame, tornando da lui me li renderebbe tutti. – le rispose.
- Però non ti piace lo stesso. – disse ancora lei.
- No. Parla bene, è più anziano di noi, argomenta le sue idee con calma e sembra così autorevole, perché ha fatto la guerra, perché è stato in Russia, perché lui ha esperienza, ma … -
- Non ti piace lo stesso. –
- No. Perché fondamentalmente è un cretino. Pensa di avere ragione, sa di avere ragione, anzi. E quindi è un cretino.
Crede di sapere come è fatto l’uomo e vuole cambiare gli uomini che ha intorno perché combacino con la sua idea di uomo, ma la sua idea è sbagliata. La sua idea è bella, l’uomo può migliorare, se educhi l’uomo sarà perfetto, la società con la sua proprietà privata e la sua religione ci corrompe, ma il Cinese ha solo sostituito una religione con un’altra, un Paradiso nell’aldilà con una Rivoluzione nell’aldiquà, un profeta morto in croce con un Marx morto in Inghilterra. E ti dirò di più, il Cinese è talmente convinto, talmente sicuro delle sue idee che sarebbe capace di uccidere chi non le condivide, lui non ascolta, non chiede, non si mette in dubbio, lui sa e purtroppo è così serio e calmo quando parla che tutti gli danno ragione. –
- Quindi non ti piace perché è comunista? –
- No. Non mi piace perché è cretino. I Tedeschi hanno ucciso a quella maniera indegna Bartolo? E allora lui vuole attaccarli, perché c’è la guerra, perché noi siamo la Resistenza, perché vanno puniti. Sono le sue idee, quindi sono di per sé stesse giuste. E invece non lo sono, perché quei bastardi sono più di noi, sono meglio armati di noi, sono meglio asserragliati di noi e, soprattutto, sono meglio addestrati di noi, e attaccarli così, tutti insieme, in un battaglia campale potremmo dire, servirà solo a farci ammazzare dal primo all’ultimo, se qualcuno non sarà così sfortunato da finire nelle loro grinfie per finire nei Campi su in Germania. –
- E perché non le hai dette laggiù queste cose? - Gli chiese lei sedendosi accanto a lui e dandogli una mela che aveva tirato fuori da una tasca.
Lui sorrise di nuovo, poi rise e le mise una mano sulla spalla. – Miriam, tu mi chiedi perché non ho detto queste cose? Perché non sono un eroe, Miriam, queste cose le sanno tutti, ma sono dei ragazzi, ragazzi con un ideale, la razza peggiore del mondo. Cosa vogliono quei ragazzi? Combattere, uccidere o essere uccisi e chi avesse detto loro quello che già sapevano, non solo non avrebbe cambiato minimamente la decisione che sarebbe stata presa, ma durante l’attacco, chissà come, chissà perché, sarebbe stato ucciso da un colpo di fucile proveniente dalle sue spalle, perché codardo, perché antirivoluzionario, perché fascista. Loro sanno di avere ragione e chi non gliela dà è contro di loro, e io, che non sono un eroe, andrò con loro all’attacco e quando ci sarà da sparare sparerò e quando ci sarà da scappare inseguito dai crucchi, scapperò. –
Lei lo guardò per qualche secondo, lo sguardo un po’ stupito, e si vedeva che stava rimuginando su quello che aveva detto. Dio, quanto la amava, Dio!
- Non è molto coraggiosa come scelta. – gli disse alla fine. Sembrava delusa.
- No. Potevo difendere la libertà contro una massa soverchiante di idioti o potevo andarmene a rifare il tetto lasciandoli a loro stessi. Ho scelto la seconda possibilità e lo rifarei altre mille volte. Sei delusa? –
Lei non gli rispose, prese un legnetto caduto da un albero sul tetto e lo lanciò via. Stava ancora pensando, era anche lei giovane e pronta a combattere e le parole di lui erano troppo … adulte? Non gli rispose, ma gli poggiò un mano sulla gamba e continuò a guardare lontano, verso la vallata dove stano i Tedeschi.
Lui si godette quella mano, era bello quel contatto fisico ed era bello che lei stesse pensando così a lungo alle sue parole. Anche lui ci stava pensando ancora, poi le chiese: - E quindi, quando si va all’attacco del nemico? –
- Dopodomani sera, ci sarà la luna piena. –
- Bene. – disse lui sorridendo, poi si rimise ad aggiustare il tetto e disse di nuovo: - Bene. –

Due notti dopo avrebbero scoperto che laggiù non c’erano solo soldati tedeschi, ma qualcosa di peggio.

giovedì 4 giugno 2015

Berserker. 10

Nuovo capitolo, in 'sto periodo scrivo un bel po'. Buona lettura!

La lite col Politburò, i due crucchi litiganti e gesticolanti, quel cavolo di sanatorio circonfuso di luci e contornato di reticolati come un carcere, e poi la fame che gli stava venendo e il freddo. Se a questo si univa il poco tempo che avrebbe avuto una volta giù in paese per fare una grande quantità di cose, il suo umore era sempre peggiore. Non riusciva nemmeno a ripensare a Miriam, ci provava ad immaginarsela mentre mangiavano insieme delle patate lesse, mentre giocavano a carte, mentre lei si cambiava per la notte e lui aspettava fuori dalla baracca che lei lo richiamasse dentro sforzandosi per non sbirciare dalle fessure tra le assi, ma proprio la sua mente non voleva concentrarsi su di lei. Era come se si stesse preparando per qualcosa, come se si aspettasse da un momento all’altro qualcosa di molto brutto.
E invece vide arrivare un cane. Era Carlomagno, il cane di Bartolo. Era di razza carlomagna probabilmente, era alto circa come un bracco e peloso all’incirca come una pecora un mese dopo la tosatura. Era un cane buono e pauroso, un grosso batuffolone di pelo innocuo. Si spaventò vedendolo scendere al buio per il sentiero, ma quando lui lo chiamò caracollò allegro verso di lui. Aveva una macchia nera sul muso, lo toccò e capì subito che con una luce diversa quel nero sarebbe stato rosso. Il cane era macchiato di sangue, qualcuno gli aveva dato una botta molto forte sul muso facendogli saltare un paio di denti. Si sentì ribollire il sangue, per quanto la metafora sia orrenda e abusata, gli sembrò proprio di avere del liquido bollente dentro. Perché chi maltratta un cane buono deve essere proprio marcio dentro, e perché, ci pensava solo ora, Bartolo non avrebbe mai permesso che gli toccassero il cane senza reagire.
Scese giù col cane e, dopo pochi minuti, vide una strana forma in mezzo alla strada carrabile in cui andava a sbucare il sentiero. Una specie di grossa X, come uno spaventapasseri. Accelerò e capì quasi subito che non era fatto di paglia, quel fantoccio. Era Bartolo. Avevano incrociato due legni lunghi un paio di metri, lo avevano legato a braccia e mani aperte sui quattro bracci della croce e poi … ringhiò alla notte intorno a lui come un animale, lo avevano ucciso a colpi bastone, forse avevano usato il retro del fucile. E poi, scritto col suo sangue, gli avevano messo un cartello appeso al collo, con su scritto, in italiano corretto “Ha imparato a non chiamare come il Fuhrer il suo asino. Chi toccherà questo corpo prima di un mese imparerà a sua volta a non farlo”.
Si guardò intorno e, guidato dal ronzio delle ultime mosche che non erano ancora state uccise dal freddo, vide anche Adolf. Con lui erano stati magnanimi, una fucilata alla tempia. Si sedette in terra piangendo, un uomo buono era stato ucciso come lui non avrebbe ammazzato un cane rabbioso, un uomo buono a cui lui voleva bene era morto attaccato a una croce ucciso da degli animali, da umani peggiori degli animali. Prese una pietra e la scagliò lontano, nel campo buio, continuando a piangere.
- Non sono stati i Tedeschi da soli. È stato quel fascista che è venuto con loro, lo chiamano Toti. – gli disse una voce dal buio sotto a un albero. Era Mirella.
- C’è un italiano con loro? –
- Un uomo sulla cinquantina, alto e robusto, il più cattivo di tutti. Ha voluto che stessimo a guardare mentre lo ammazzavano con i cani dei fucili. C’è voluto tanto, più di cinque minuti. Poi, mentre stavano andando via, si è girato e ha sparato all’asino. –
Ettore non le rispose, non avrebbe saputo cosa dire. Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto strappare quel corpo martoriato da quel patibolo e seppellirlo, ma qualcuno avrebbe pagato al suo posto se lo avesse fatto. Poi dal buio uscì anche il prete, Don Andrea, un vecchio prete tranquillo che camminava col bastone. Arrivò vicino al corpo e lo asperse con l’acqua santa dicendo delle parole in latino a bassa voce. Poi Mirella, quando lui si fu allontanato, prese un pugno di terra e la gettò sul corpo. Anche Ettore lo fece e poi pensò che se lui era Niso, o Ulisse, Mirella era Antigone. Sorrise suo malgrado e poi andò verso il paese con i due anziani. Gli raccontarono quanti erano i crucchi, gli dissero dove stavano e gli riferirono il poco che sapevano su cosa i crucchi stessero facendo nel sanatorio di Santa Lucia. Pare che avessero dei prigionieri, dei poveracci in pigiama a righe che sembravano dei morti viventi, e che ci fossero molti dottori che giravano in camice, camice con gradi da SS.
Poi, rifornitolo di pane, salami e caciotte, lo lasciarono al suo viaggio di ritorno. Arrivò su che albeggiava e dopo meno di un’ora erano tutti in assemblea per decidere cosa fare. Naturalmente, e purtroppo, tutti seguirono l’idea del Cinese. L’idea peggiore.

mercoledì 3 giugno 2015

Berserker. 9

Ecco un altro capitolo. Buona lettura a tutti!

Nisus erat portae custos, acerrimus armis. Niso era di guardia alla porta, minacciosissimo con addosso le sue armi, traducendo a memoria. Con queste parole, se si ricordava bene, Virgilio introduceva nell’Eneide il personaggio di Niso, quello che con Eurialo si infiltrava nottetempo nell’accampamento dei Rutuli di Turno. Eurialo e Niso erano un calco di Ulisse e Diomede nell’Iliade ed erano poi serviti come modello per Cloridano e Medoro nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. Ecco quello che lui sapeva di missioni segrete, infiltrazioni in campo avverso, spionaggio e raccolta informazioni: pagine di libri vecchi di secoli, pagine di libri scritti in versi.
E ora, al chiaro di una luna che sarebbe stata piena di lì a due notti e che, tra i rami coperti ancora da rade foglie e mossi dal vento capriccioso di quella notte fredda, sembrava fare buio con quelle chiazze di ombra in movimento più che rischiarargli la strada, lui, Ettore Parodi di Genova, nome di battaglia Bimbo, stava scendendo giù dalla sua scomoda ma abbastanza sicura catapecchia che divideva con quella sagoma di Miriam, per andare a vedere con i suoi occhi cosa stessero facendo i crucchi giù in paese, scoprire perché avessero requisito e attrezzato per i loro scopi il vecchio sanatorio vicino a Santa Lucia, riallacciare i contatti con i loro collaboratori giù in paese, la Quinta Colonna li avevano definiti quei tre scemi, recuperare un po’ di vettovaglie e tornare su all’alba per ragguagliare il soviet.
Naturalmente tutte queste assurde parole non erano farina del suo sacco. Piuttosto che dire ragguagliare avrebbe baciato il culo di Adolf, come gli veniva anche da ridere a sentire parlare di soviet. Soviet? Ma che cavolo! Era antifascista lui, e certo che lo era! Era liberale lui? Certo che sì. Era democratico? E che cavolo, e se non che ci stava a fare lassù, a curarsi il mal sottile? Ed era anche di sinistra, certo che lo era, voleva che tutti avessero diritti, che tutti avessero possibilità, che nessuno fosse lasciato indietro e che tutti avessero un lavoro, cure mediche, istruzione e assistenza, ma da qui a volere un soviet … gli veniva da ridere, ma …
Ma fare la guerra, come avrebbe detto di lì a pochi anni a proposito della Rivoluzione un altro che combatteva contro i suoi stessi nemici a migliaia di chilometri di distanza, non è un pranzo di gala. E di ventidue partigiani che se ne stavano nascosti là in mezzo alle sempiterne nubi che avvolgevano il monte Odino, ce ne erano solo tre che sapessero imbracciare un fucile e solo due che fossero stati in guerra, Alfonso detto Boris che era tornato dalla campagna di Russia con tre dita di meno nei piedi e Sergio che aveva combattuto dal ’16 al ’18 tra il Piave e Trento. Erano quasi tutti studenti, ragazzi inesperti in tutto tranne che nel leggere libri e credere in ideali assurdi e così a comandarli erano naturalmente venuti a trovarsi gli unici che avessero un minimo di inquadramento e di disciplina, i comunisti. Erano tre, come ho già detto prima, il piccoletto che gli aveva dato uno spintone, Stefano, nome di battaglia il Fascina, Pippo di Milano, nome di battaglia Tersite perché non era mai d’accordo con nessuno e, capo dei capi perché più vecchio e perché aveva combattuto nella Grande guerra, Sergio detto il Cinese, un uomo tranquillo e carismatico che parlava sempre con calma e che era in grado di convincere tutti a seguirlo. A suo giudizio, dato che lui amava ascoltare il significato delle parole e non il tono di voce con cui venivano dette, il più cretino di tutti.
E quei tre, avendo deciso che era ora di smetterla di stare lì rintanati come vigliacchi e che bisognava partecipare alla lotta di insurrezione con azioni di sabotaggio e guerriglia, avevano messo ai voti nel soviet chi dovesse andare giù. Ed era stato votato lui, probabilmente perché stava antipatico al Fascina.
E così stava scendendo giù per il sentiero, mezzo intirizzito dall’aria fredda, sicuro che sarebbe finita male, con lui morto in terra senza nemmeno aver dato un bacio a Miriam. Perché … e sì, si era preso una cotta per quella ragazza intelligente e sarcastica che era capace di metterlo al tappeto dicendo qualche monosillabo e che oramai si sognava di notte. Era stato nella prima notte passata lassù, sì, avevano acceso un mozzicone di candela per mettersi a letto, nascondendolo dietro a un pezzo di carta perché dalla finestra non si vedesse troppo la luce. Che poi, essendo almeno ottocento metri sopra ai Tedeschi, che quelli distinguessero la luce di una candela sarebbe stato davvero una iella incredibile, ma tant’è … comunque si stavano infilando sotto alle coperte e lui sapeva che quella ragazza carina dal sorriso bellissimo era lì a pochi passi da lui. Erano giovani, sani, in fuga e probabilmente destinati a una fine prematura e drammatica, e così si era messo a fantasticare sul fatto che lei avrebbe potuto alzarsi dal suo materasso e andare da lui, e poi si sarebbero spogliati e … e allora lei, nel buio totale che li avvolgeva dopo che lei aveva spento il moccolo, aveva detto: - Non pensarci neanche, Ettore. –
- A cosa? – le aveva detto arrossendo nel buio.
- A quelle cose, lì, lo sai. Siamo da soli, magari domani moriremo, io sono un uomo e lei è una donna … quelle cose lì, lo sai benissimo. Non pensarci neanche. – e si era voltata dall’altra parte ridacchiando. E lui, la testa nascosta sotto le coperte, le guance così arrossite da avvertirne il calore, il cazzo dolorosamente duro nei pantaloni di fustagno che indossava anche sotto alle coperte, aveva capito di essere perdutamente innamorato di lei.
E ora, scendendo giù per la stradina ripida e scivolosa su cui a volte si affacciavano cinghiali e gatti dagli occhi che luccicavano nel buio, Ettore fantasticava su azioni eroiche che avrebbe compiuto, avrebbe lottato con i Crucchi ammazzandone un paio, avrebbe strappato il fucile a uno di loro e con la baionetta, ce la avranno avuta ancora la baionetta o no?, con questa maledetta baionetta ne avrebbe accoppato anche altri tre e poi, ferito a una coscia da una pugnalata di un crucco morente, sarebbe risalito su portandosi i loro fucili e le loro munizioni. Tutti lo avrebbero acclamato alla capanna grande, ma poi Miriam lo avrebbe portato su e, abbassatigli i pantaloni avrebbe cominciato a pulirgli la ferita con un panno bagnato. E, malgrado il dolore della ferita avrebbero cominciato a … a fare delle cose che non è che lui conoscesse troppo ben, vergine e inesperto com’era, ma sapeva che … insomma, come doveva andare a finire, quello lo sapeva. E così camminava giù per il sentiero, lo sguardo distratto e il pisello duro contro i bottoni della patta, quando un rumore forte e cadenzato lo aveva strappato violentemente dalle oniriche cosce sudate della bella Miriam per ricacciarlo in quella fredda, pericolosa e buia notte in cui si trovava a camminare.
Lo conosceva quel rumore, o sì. Rumore di stivali, rumore di Tedeschi che camminavano. Erano in due, camminavano sbattendo violentemente a terra i piedi e parlavano ad alta voce. Si precipitò giù per il pendio e si nascose tra le frasche rinsecchite dall’autunno sperando che i due non si girassero a guardare da quella parte. Erano due soldati, fucile in spalla ed elmetto piatto in testa, sembravano litigare in quella loro bella lingua che è così simile al clangore di un disastro ferroviario e non sembravano proprio in vena di mettersi a guardare nel fosso per cercare la sua faccina. Meglio, non aveva certo voglia di morire con le ginocchia nel fango, cavolo, non aveva nemmeno detto a Miriam che gli piaceva.
Comunque i due crucchi passarono vicino a lui senza vederlo continuando a parlare a voce altissima, e quello più alto, crucco A, tentava di calmare quello un po’ ciccione, crucco B, che invece agitava le braccia come un napoletano e continuava a urlare in faccia al camerata. Cosa stesse dicendo lo ignorava, aveva studiato francese al liceo, ma una parola riuscì ad afferrarla perché la urlò almeno tre volte, scandendola come se fosse stata di importanza capitale. “Berserkir” era la parola, ne era quasi sicuro, ma non aveva la minima idea di cosa potesse significare.
Comunque i due tedeschi lo superarono e andarono su per un sentiero che si dipartiva da quello principale pochi metri più in alto e che, dopo un giro che si faceva in un’ora e mezza, riportava in paese per il lato opposto a quello che avrebbe raggiunto lui in una decina di minuti. Risalì sul sentiero, si ripulì i pantaloni infangati e, oramai con l’umore rovinato, si rimise a camminare giù per la stradina acciottolata.
Si fermò per qualche istante a guardare il sanatorio che avevano requisito i tedeschi, risplendente nella notte come la Ville Lumiére a causa dei riflettori che avevano installato tutto intorno a una recinzione appena montata e, incuriosito e spaventato, continuò a camminare. Di lì a poco avrebbe scoperto cosa era successo al suo amico Bartolo e la sua vita sarebbe cambiata per sempre.