lunedì 8 giugno 2015

Berserker. 12

Ed ecco un altro capitolo. Come al solito, buona lettura!

Scendevano giù per il sentiero alla luce incerta della luna piena e, dopo un po’, alcuni cominciarono ad accompagnare la loro marcia poco cadenzata con un canto corale. Forse era stato il Fascina a cominciare, era senza dubbio da lui cantare l’internazionale in quel momento. Cominciarono in pochi, poi a poco a poco si unirono gli altri. “Compagni avanti al gran partito, noi siamo dei lavorator! …” e fu dopo qualche minuto di quella idiozia che Ettore sbottò ad alta voce. – Vogliamo anche metterci dei campanacci al collo come le vacche per avvertirli del nostro arrivo? – disse parlando quasi tra sé e sé. Un silenzio carico di rancore gli rispose e così, in silenzio, continuarono a scendere.

Arrivati in paese si sparpagliarono per le vie camminando lungo i muri per non essere visti. Ogni tanto, da qualche porta socchiusa e illuminata all’interno da una piccola candela, qualcuno dava loro un fucile da caccia carico. Anche Ettore, che pensava che quello che stavano facendo fosse una cazzata che li avrebbe senza alcun dubbio portati alla morte di lì a pochi minuti, si sentì galvanizzato ogni secondo di più.
Sì, sarebbe morto facendolo, ma quei crucchi maledetti, quel Toti che gli avevano detto essere stato l’aguzzino di un vecchio innocente, sarebbero morti per mano sua. O sì, se ne sarebbe portati dietro un bel po’, ne avrebbe uccisi un bel po’ col fucile di suo padre e, se necessario, con le sue mani.

Erano quasi al sanatorio, era una ventina di minuti che camminavano in mezzo al paese svoltando di qua e di à per quelle stradine tortuose. Fu allora che sentirono il rumore dei passi. Passi di soldati, passi di scarponi pesanti. Si nascosero dietro agli angoli, nelle rientranze delle porte, alcuni dietro ad alberi che li coprivano a malapena come nei cartoni animati.
Erano due soldati, due ragazzi di una ventina d’anni, e stavano venendo verso di loro. Si mossero il Walter, che aveva fatto la campagna di Russia, e il Fascina. Li presero alle spalle e li sgozzarono. Ci misero un bel po’ a morire, e anche se non riuscirono a gridare fecero un sacco di versi, di gorgoglii, di pianti soffocati dal sangue che sgorgava nella loro gola.
Walter si allontanò in fretta e ricominciò ad avanzare verso il sanatorio, ma il Fascina ebbe una crisi di tremiti e cadde in terra piangendo. Una cosa è cantare a pieni polmoni che si inzupperanno di sangue degli invasori i nostri campi, un’altra è sgozzare con le proprie mani un ragazzo di vent’anni mandato lì probabilmente contro la sua volontà. La Guerra fa queste cose, ti trasforma in un assassino, ti mostra i tuoi limiti, appiana le liti. Ettore, non riuscendo a smettere di fissare gli occhi di quel povero ragazzo che visti da vicino mentre moriva non sembrava un crucco ma solo un poveretto che chiamava la mamma, si avvicinò al Fascina e lo abbracciò. Il Fascina tremava e continuava a ripetere come un indemoniato “No No No No No …” e lui lo stringeva a sé chiamandolo Stefano con il tono di una madre. E intanto, fissandolo da terra il ragazzo tedesco moriva. Dopo un minuto o due il Fascina riuscì ad alzarsi e raggiunsero gli altri.

Erano intorno al sanatorio, all’ombra degli alberi. Era stata eretta una recinzione, di rete metallica e filo spinato, c’erano delle torrette di avvistamento con guardie armate, c’erano fari elettrici che illuminavano la fascia di terreno spianato davanti a loro. Ettore pensò che era un suicidio ancora più inutile di quello che aveva pensato su alla capanna. Tutto l’ardore di prima lo abbandonò in fretta e gli rimasero la paura e lo schifo per la morte di quel povero ragazzo. Tra pochi minuti, probabilmente, sarebbe morto sputando sangue come lui.
Guardò il Cinese e gli fece cenno di no agitando la mano. Non potevano attaccare, sarebbe stata una follia inutile. Il Cinese lo guardò con disprezzo e, forte della sua idiozia piena di sé, si lanciò allo scoperto sparando una fucilata al soldato sulla torretta davanti a lui. Lo prese di striscio, a un braccio, ci volle più o meno un secondo, forse due, prima che quello rispondesse al fuoco con il suo mitra.
Intanto si erano lanciati tutti verso la recinzione e tre di loro, Walter, il Balilla e Pippo detto Tersite furno falciati dal fuoco della mitraglietta. Poi cominciarono a sparare anche gli altri. L’attacco durò ancora qualche secondo, poi cominciò la fuga. E infatti fu alla schiena che fu colpito Nostromo, il più incredibile raccontatore di barzellette sconce del mondo. Ettore lo superò e passò di corsa vicino a Pippo che agonizzava a terra, stava chiamando la mamma mentre il sangue gli usciva dal lato sinistro della bocca.

Mentre fuggiva in mezzo agli alberi sentendo i proiettili sibilargli accanto Ettore controllò che Miriam fosse vicina a lui. C’era, ed era illesa per fortuna. Intanto si chiedeva chi fossero quei poveracci che aveva visto in un recinto all’aperto, dei tizi magri e smunti vestiti con dei pigiami a righe. E poi, quando ormai fuggivano da un bel po’, sentirono il rumore del cancello e un suono che non si sarebbero mai aspettati di sentire. Un ululato.

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