domenica 14 giugno 2015

Berserker. 15

Nuovo capitolo, fresco fresco come un ovetto, buona lettura!


Il suo attendente gli portò un caffè e uscì dalla stanza. Lui aprì la finestra e andò a sedersi sulla sedia a sdraio per gustarsi quegli ultimi raggi di sole. Quel grosso palazzo era stato costruito proprio per quello, perché la gente potesse uscire sui terrazzini e prendersi il sole. Qualcosa di buono c’era, dopo anni di guerra passati a dormire in tende umide e fangose o in ruderi senza il tetto a causa dei combattimenti, ora aveva una stanza, una colazione, un pranzo e una cena caldi, un vero letto e un panorama.
E anche i suoi uomini avevano tutto questo, solo che stavano in due per ogni stanza. E che i suoi uomini stessero comodi, al caldo e al sicuro per lui era molto importante. Per gli alti papaveri dell’esercito i suoi uomini erano solo numeri, mandiamo mille soldati in più là, sono morti cento soldati qua, possiamo permetterci duemila caduti lì, ma per lui erano persone, ragazzi che non avevano ancora vissuto la loro vita e che dipendevano da lui per poterlo fare in futuro. I suoi uomini erano l’unica parte della Wermacht di cui ancora gli interessava; che si fottessero tutti gli altri, lui aveva i suoi uomini e loro avevano lui.
E qua gli si rovinò il piacere del caffè. Anche Johannes era un suo uomo. Avrebbe voluto sparargli un colpo in testa, quella notte di tre settimane prima, tanto soffriva per gli squarci che quella cosa gli aveva fatto. Il dottore aveva tentato di ricucirlo e gli aveva dato la morfina, ma lui aveva continuato a urlare. E poi quei maledetti dell’Ahnenerbe avevano preso Johannes e la Cosa e li avevano portati via nella loro tenda. Le urla erano continuate per un po’ e poi, all’improvviso, si erano interrotte. Lui si era avvicinato alla tenda e aveva chiesto di entrare. Un suo uomo era morto e lui doveva vederlo; era un suo dovere e lui avrebbe dovuto scrivere alla famiglia.
E invece … lo avevano cacciato in malo modo, stavano lavorando. – Devo prendere le piastrine di Johannes. – aveva detto lui e quelli gli avevano risposto che il soldato Messner non era affatto morto. Ora dormiva. Così gli aveva detto l’altro bel tomo dell’Ahnenerbe, il dottor Von La Salle. – Fatemi vedere il mio uomo. – aveva detto e quello stronzo, quel maledetto stronzo pieno di sé, gli aveva riso in faccia. – Il suo uomo adesso è al servizio dell’Ahnenerbe, non è più ai suoi ordini. Vada pure, adesso. – gli aveva detto chiudendo la porta e lasciandolo lì nella notte che cominciava ad albeggiare.
E ora erano tutti lì, sugli Appennini alle spalle di Genova, in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini che i sapientoni dell’Ahnenerbe, che bruciassero all’Inferno dal primo all’ultimo, avevano trovato con i loro potenti mezzi, probabilmente facendo oscillare un pendolino su una carta geografica del mondo. E non erano soli, c’erano gli scienziati con una squadra di medici ed infermieri, i due ufficiali delle SS con una squadra di giovani reclute SS che non facevano altro che allenarsi a tutte le ore del giorno e della notte mostrandosi evidentemente scocciati ogni qual volta che lui o uno dei suoi “semplici” soldati si permetteva di incontrarli e di scambiare due parole con loro. E poi c’erano quei venti prigionieri dei campi. Dieci uomini e dieci donne arrivati lì in condizioni pietose, pieni di cimici e pidocchi, così magri che gli si potevano contare le costole attraverso la lercia divisa da internato, tutti tra i diciotto e i vent’anni e, malgrado il trattamento subito, in buona salute. Ora, lì nel sanatorio dove si erano acquartierati, li trattavano meglio, li curavano, li lavavano, li nutrivano e li tenevano al caldo, ma li sottoponevano anche a strani allenamenti e addestramenti, roba più da cani pastore che da persone.
E poi, nascosti nelle stanze più interne, la Cosa, Kastorp e Johannes. La loro presenza era un segreto ben custodito e quindi lo sapevano ormai tutti. Era stato il cuoco a dire che doveva esserci altra gente, almeno tre persone, e tutti avevano visto i dottori e le SS andare molto spesso nelle stanze interne e proibite. Lui se ne era fregato degli ordini e dei divieti, una mattina che quei matti erano tutti impegnati nell’addestramento delle reclute SS, e mai aveva visto addestrare dei soldati con fischietti e frustini, si era infilato nel corridoio che portava all’ala sinistra del sanatorio e aveva aperto un po’ di porte. Laboratori, sale con lettini, sale con gabbie, e alla fine, in fondo, tre stanze le cui porte, blindate, potevano essere aperte solo dall’esterno. Era entrato nella prima e aveva trovato Kastorp. Aveva messo su una decina di chili e sembrava di nuovo un uomo. Gli occhi invece erano peggiorati, erano gli occhi di un pazzo. Tutti gli spigoli presenti nella stanza erano stati imbottiti e non indossava né cintura né lacci. Il letto aveva delle cinghie pronte per contenerlo.
- Salve, signor Kastorp. – gli disse entrando.
L’uomo lo guardò e sembrò fare fatica a mettere a fuoco chi fosse, poi sorrise e disse: - Salve capitano. Anche lei qui? –
- Sì. Siamo tutti qui, nelle mani di questa gente. – gli rispose.
Kastorp sorrise, un sorriso straziante nella sua tristezza e poi gli chiese una cosa: - Avrebbe una sigaretta? –
- No. Se vuole gliela porto la prossima volta che vengo. Ma lei non fuma, mi pare. –
- Non fumo, infatti. Era per dare sbadatamente fuoco al letto per crepare e essere libero. – gli disse e sorrise. Questo era un sorriso molto più deciso, la sola idea di farla finita lo aveva rallegrato.
- Signor Kastorp … - disse e si fermò; cosa avrebbe potuto dirgli?
- Capitano, le dispiacerebbe spararmi un colpo in testa? – gli chiese sedendosi sul letto.
- Io non posso. – gli rispose vergognandosi della sua pavidità.
- Lo sapevo, capitano, ma dovevo tentare. – gli disse e poi aggiunse: - E ora vada, di là c’è un suo amico e non ha tanto tempo prima che tornino. –
Lui uscì dalla stanza e aprì la porta successiva. Sul letto dormiva una ragazza, se non si sbagliava l’aveva vista là in Transilvania … e all’improvviso capì, era quella ragazza che i suoi uomini avevano seguito nel bosco quella notte, quella era la Cosa. Ora sembrava solo una ragazzina che dormiva in una cella dopo aver pianto.
Richiuse la porta e aprì la successiva. Sul letto, intento a leggere un libro di avventure in mare, l’Isola del tesoro, c’era Johannes. Era totalmente guarito e gli era passata anche quella tremenda acne che lo deturpava. Saltò in piedi vedendolo e scattò sull’attenti.
- Riposo, Johannes. – gli disse rendendosi conto che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire così presto da quelle ferite, e che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire totalmente da quelle ferite. Rabbrividì all’idea di essere nella stessa stanza con lui, ma era sempre uno di suoi uomini, un ragazzo troppo giovane per la guerra che era stato afffidato a lui. – Come ti trattano? –
- Bene, capitano, solo che non mi fanno uscire. Come stanno i camerati? –
- Bene, Johannes, bene. Ti salutano tutti. – guardò l’orologio che portava al polso e disse: - Ora devo andare, soldato. Tornerò a trovarti appena potrò. – e uscì guardando il ragazzo che lo salutava con un Heil Hitler da antologia. Si chiuse la porta alle spalle e pensò che voleva fuggire, voleva scappare via da quel posto dove succedevano cose simili, voleva fuggire e portare con sé i suoi uomini. Poi si ricompose, aggiustò la divisa e, senza farsi notare, tornò sui suoi passi uscendo dall’ala proibita. Sarebbe tornato a prendere il sole, sì, un po’ di sole gli avrebbe fatto bene.

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