martedì 27 gennaio 2015

I cinghiali di Marit. IX.

IX

Molti anni prima, quando era ancora un ragazzo e faceva il pirata nel Mare dei Mostri, aveva avuto l’occasione di parlare a lungo con un mercante che aveva viaggiato sulla sua nave, a detta dei suoi compagni come ospite pagante e secondo lui, invece, nelle vesti di ostaggio. Questo mercante, un uomo anziano vestito di sete preziose, gli aveva raccontato tante storie strambe su animali di terre lontane, storie che il buon Okaka, ancora giovane e ingenuo, aveva catalogato come idiozie.
Una delle storie che gli aveva raccontato, una notte che il mare era mosso e che non riuscivano a dormire, riguardava delle formiche della Terra sotto all’orizzonte, delle formiche che coltivavano. Quel vecchio mercante di cui ora non ricordava più il nome gli aveva detto che queste formiche uscivano tutti i giorni dal loro enorme formicaio e salivano sugli alberi dove, metodiche e innumerevoli, tagliavano pezzi di foglie che si portavano fino laggiù sotto terra. Ma non erano le foglie che loro mangiavano, a no; le foglie venivano messe in una camera sotterranea, calda e umida, dove un fungo cresceva su di loro macerandole. E il fungo era il cibo delle formiche.
Questo penso Okaka in una piccola parte della sua mente mentre il terrore più enorme che avesse mai provato gli invadeva la mente. I Cinghiali, quei poveri ragazzi infettati da quel liquido rossastro, erano solo il fungo mandato in giro per le Terre Emerse per incamerare vite, i Cinghiali erano il mezzo trami te cui Shaggar-San si nutriva, il Cinghiale vincitore era lo spuntino ristoratore di quella mostruosità che urlava al mondo che il peggio esisteva, l’orrore peggiore, la crudeltà peggiore, la morte peggiore e la vita peggiore erano lì, accovacciati sotto all’enorme volta del tempio, imprigionati in quella indicibile architettura che sembrava una gabbietta contenente un grifone.
Mentre urlava in preda all’orrore, vicino a lui Leka aveva camminato all’indietro coprendo sigli occhi con le mani mentre urlava e piangeva, il nubiano tentava di capire quello che aveva davanti, ma la commistione di diverse forme, l’incestuosa unione tra parti del corpo di regni diversi, la perversione delle funzioni e delle posizioni di quello che riusciva a riconoscere, il tutto unito alla quasi palpabile aura di malvagità che emanava dall’Essere, gli stavano friggendo il cervello riducendolo, se gli Dei dei Mari avessero voluto aiutarlo, in un vegetale incapace di pensare.
Ma i sacerdoti di Shaggar-San, che ora non sembravano più umani ma erano invece simili a immagini del dio riflesse in nubi di vapori, videro lui e Leka e si lanciarono loro addosso mentre l’enorme abominio accucciato sotto al tetto masticava il povero ragazzo senza ucciderlo e beandosi delle sue grida. I due furono catturati e i sacerdoti cominciarono a colpirli con delle corte mazze di legno che portavano legate al fianco.
Okaka cadde a terra e, mentre gran parte della sua mente era ancora occupata dal terrore provocato da quella cosa che non avrebbe dovuto avere posto né in un mondo né nell’altro, ma riuscì comunque a piangere per la crudeltà con cui stavano picchiando quella povera ragazza sfortunata. Non era così che sarebbe dovuta finire, non doveva proprio finire così. E poi successe una cosa, il dio sputò quello che restava del ragazzo, ormai non più cinghiale e, solo dopo essere caduto a terra il poveraccio morì. – Si nutre solo di cose vive! – urlò alla ragazza il nubiano riuscendo a divincolarsi da quei mostri che lo stavano bastonando e lei capì.
E poi fu questione di una attimo, lei lanciò via i sacerdoti che la accerchiavano utilizzando tutta la sua forza e si gettò tra le fauci di quella cosa. E, per un brevissimo attimo, il gigante nubiano vide negli occhi giganteschi dell’Essere una cosa che prima non c’era, la paura.
E poi … poi tutto crollò mentre la Cosa e i suoi sacerdoti svanivano in una fiammata di colore nero come la notte. La Torre crollò su sé stessa in un turbinio di polveri che si elevarono al cielo mentre un grido così forte da attraversare gli spazi infiniti oltre le sfere celesti emanava dalla nuvola di fumo e macerie.

E poi, chissà quanto tempo dopo, un Okaka ferito e debolissimo si trovò a lasciare quel monte immane di macerie camminando nelle nevi alla testa di un gruppo di ragazzini terrorizzati. La marcia era estenuante e la loro meta, il villaggio da cui i ragazzi erano partiti seguendo i Cinghiali, era lontano. Ma Okaka non disperava, non più almeno da quando aveva visto un lieve, graziosissimo tremito nell’aria al suo fianco.

FINE.

lunedì 26 gennaio 2015

I Cinghiali di Marit. VIII.

VIII

Indossarono i sai dei sacerdoti che Leka aveva ucciso e scoprirono che nessuno si era accorto della loro azione; le urla delle persone o presunte tali che avevano ucciso erano state prese per le urla dei ragazzi obbligati a bere quel liquido mutante e nessuno era andato a controllare.
Oltrepassarono altre porte e si trovarono oltre le cinta di mura interne, scoprendo che i Cinghiali di Marit erano molti più di quelli che avevano stimato dalla collina dove avevano sepolto Naril, erano divisi per squadre o tribù ed erano acquartierati in caravanserragli appoggiati alle mura. Qua e là c’erano feste in cui si cucinavano su spiedi i pezzi delle persone che avevano ucciso nei loro villaggi, ed ecco perché tutti i corpi erano smembrati tra le macerie e poi si procedeva a duelli ad eliminazione diretta tra i vari cinghiali che prevedevano il duello con la spada, a mani nude e sotto forma di cinghiale. Il vincitore passava al turno successivo, il perdente, se vivo, tornava mogio tra i ranghi.
Guardarono per un po’, tenendosi al riparo di muri o tettoie cariche di neve questi edificanti spettacoli fino a che non ne poterono più di tutto quel sangue. Seguirono il corteo dei vincitori che, acclamato dagli astanti lungo una specie di via trionfale che si avvitava verso l’interno e verso l’alto guidato da alcuni sacerdoti. Cominciarono a salire e un paio di volte si rincantucciarono in delle rientranze delle mura portanti della torre per non dare troppo nell’occhio non sapendo bene cosa avrebbero dovuto fare in quanto sacerdoti del culto del luogo. Leka ne approfittò per nutrirsi un altro paio di volte, la ferita infertale dentro il cortile là in basso l’aveva un po’ indebolita, e così quando arrivarono a una prima piattaforma la giovane fantasma era più forte che mai. Non che Okaka pensasse che avrebbero potuto uscire vivi, va beh, lui vivo, lei no, da quella situazione, ma più erano forti e più danno avrebbero potuto fare.
Sulla piattaforma che si trovava a circa trecento piedi da terra i vincitori dei duelli furono spinti di nuovo a combattere, solo mani nude e zanne questa volta, e i vincitori di nuovo tra loro, fino ad arrivare ad un unico sopravvissuto, un ragazzone che continuava a oscillare tra la forma umana e quella suina senza potere più controllare la trasformazione. A dire il vero non era mai completamente né una cosa né l’altra, era un ibrido delle due. I sacerdoti inneggiarono al loro dio, Shaggar-San se Okaka aveva capito bene le loro grida, inneggiarono al vincitore e poi lo accompagnarono fino alla piattaforma successiva, posta a circa centotrenta piedi più in alto, dove si alzava imponente e minaccioso un tempio contornato da colonne. Lì il vincitore, colmo dell’energia di tutte le persone che tutti i Cinghiali di Marit da lui sconfitti avevano ucciso, avrebbe incontrato il dio per diventare la sua incarnazione. Il ragazzo-cinghiale sembrò tremare sotto al peso di questa rivelazione, ma il gigante nubiano credette di leggere un qualcosa di nascosto tra le parole altisonanti pronunciate dai sacerdoti.
Seguirono il corteo che era ripartito e si infilarono tra la selva di colonne grandi come alberi millenari che contornavano la smisurata cella del tempio. Il nubiano prese per un braccio la ragazza e le sussurrò all’orecchio: - Stai attenta e non reagire a quanto vedrai, per quanto orrendo possa essere. –
- Non sono una bambina, sono uno spettro carico di furia vendicativa. – gli rispose facendo lampeggiare i suoi occhi di una orribile luce scarlatta.
- Credimi, Leka, quello che vedremo là dentro, se il mio presentimento è giusto, va oltre tutto quello che potresti immaginare. Là dentro c’è il Male. –
- E allora andiamo a vederlo. E a ucciderlo. – disse lei e raggiunse a passo veloce i sacerdoti che stavano entrando attraverso il portone di legno di sequoia che era stato aperto da venti di loro. Okaka la seguì e, appena i suoi occhi si abituarono alla penombra illuminata dai bracieri, si trovò costretto a trattenere un urlo di terrore mentre pensava di morire. Leka si raggomitolò contro il suo petto piangendo per l’orrore e, per fortuna, nessuno notò la loro reazione. Tutti erano occupati a guardare il rito dell’incarnazione, o il rito che al malcapitato vincitore era stato così presentato.

venerdì 23 gennaio 2015

I cinghiali di Marit. VII.

VII

L’enorme nubiano era capace di camminare in modo incredibilmente veloce e silenzioso rispetto alla sua mole, Leka invece si muoveva come sfiorando la neve, senza lasciare orme ma smuovendo solo una lievissima nuvoletta di aghi di ghiaccio. Dopo neanche un’ora erano vicino al muro di cinta della torre che forava le nubi. Erano mura molto alte, una sessantina di piedi o giù di lì. Dietro ai merli vedevano spuntare guardie infreddolite che, nel turbinare della neve che continuava a cadere, sembravano, o forse erano davvero, simili a cinghiali.
- Di lì non si passa. – disse Okaka allo spettro che si era nascosto con lui dietro a una macchia di alberi e cespugli rinsecchiti dal freddo.
- A valle dovrebbero esserci le fogne. – disse Leka.
Lui la guardò stupito e lei gli disse: - Mio padre aveva vissuto nella grande città sul mare e a volte mi ci aveva portato per vedere un po’ di mondo.
- Andiamo a valle, allora. – disse lui e, nascosti dalla neve scivolarono fino a sotto al lato est delle mura. Da una grata di ferro arrugginito scorreva fuori dalle mura un orrido rivolo di liquame che fumava nell’aria fredda andando a perdersi in un fosso pieno di rovi secchi. Il gigante saltò in quella sozzura e, prese tra le sue mani due sbarre di ferro cominciò ad allargarle sotto lo sguardo sbalordito di Leka. A giudizio della ragazza nemmeno un paio di buoi di quelli che suo padre usava per arare i campi avrebbero potuto smuovere quelle sbarre di ferro spesse ognuna come un suo polpaccio, ma il nubiano tese allo spasimo i suoi muscoli e, i tendini del collo prossimi a strappare la pelle, gli occhi strabuzzati e le labbra tirate fino a mostrare i denti e le gengive rosa, spinse oltre ogni umana possibilità e alla fine le sbarre si deformarono lasciando abbastanza spazio per farlo passare al di là della grata.
Si infilarono in quel cunicolo nero e puzzolente e camminarono nel buio più solido che avessero mai visto mentre la puzza li soffocava e i ratti sfuggivano davanti a loro squittendo ovunque intorno a loro. Dopo un po’ di tempo, nessuno dei due avrebbe saputo dire se poco o tanto, arrivarono ad un’altra grata, molto più piccola dell’altra. Nessuno girava nelle vicinanze dell’entrata e, dopo aver aspettato e ascoltato per un po’ Okaka la tirò verso di sé divellendola dal muro. Uscirono e si trovarono in un cortile. Camminarono rasente ai muri e, attraversata una postierla sbucarono in un altro cortile più grande. Degli uomini coperti con pesanti sai stavano tirando fuori da una gabbia dei ragazzi uno alla volta. Li prendevano uno alla volta e poi, afferrabili per le braccia e fattili coricare su una sorta di altare di pietra, li costringevano a bere un liquido rosso nerastro da una coppa di argento. I ragazzi urlavano dal dolore e poi, dopo un breve attacco di convulsioni, si rialzavano e, coi lineamenti stravolti e di minuto in minuto più simili a quelli di un cinghiale, si andavano a mettere in fila sotto a una tettoia. In fila ce ne erano già sei, nella gabbia erano in undici.
- Ecco cosa gli fanno quando li portano via dai villaggi. – disse Leka – Anche mio fratello Sh-Nar è andato via con loro. –
- Li cresceremo come grandi guerrieri e conosceranno i segreti del mondo. Così dicevano nei villaggi, no? –
- Sì. – disse la ragazza e la sua furia la fece ondeggiare cambiando il colore della sua pelle. La rabbia può rendere un fantasma più potente, può renderlo qualcosa di altro da quello che era.
- Io i ragazzi già mutati e tu i sacerdoti? – chiese alla ragazza e lei annuì. Il suo volto non aveva quasi più nulla di umano e ricordava i demoni scolpiti sulle volte del tempio di Yog-Naggar in cui lui era stato catturato e torturato una decina di anni prima. Il pensiero che gli passò per la mente mentre lei annuiva sorridendo non gli piacque affatto, cazzo, stava diventando una di quelle cose che lui ammazzava, stava diventando un mostro. Ma il problema adesso non era certo quello, dei ragazzini innocenti stavano per essere mutati in qualcosa di malvagio, e lui lo avrebbe impedito.
Scattarono a una velocità tale che i primi due nemici erano già a terra con le teste spiccate dal collo prima ancora che gli altri se ne fossero accorti. La spada del nubiano roteava veloce sibilando nell’aria satura di fiocchi di neve, Leka saltava come un felino addosso ai sacerdoti usando le zanne e gli artigli per sbranarli. Solo un paio di loro tentarono di reagire, lei fu colpita da una pugnalata che ignorò totalmente, lui fu morso da uno dei ragazzi, la loro trasformazione in cinghiali era istantanea, ma non era certo una ferita al braccio che poteva fermarlo. Tempo cinque battiti di ciglia, non di più, e tutti i nemici erano a terra. lui strappò il lucchetto dalla gabbia e portò i ragazzi all’imboccatura della fogna. Tre saltarono subito dentro, gli altri si fermarono disgustati dall’odore, ma bastò un ringhio di Leka a farli saltare giù. Dopotutto era solo merda, per gli Dei, tra la merda e l’essere trasformato in un mostro lui avrebbe sempre e soltanto scelto la merda.

martedì 13 gennaio 2015

I Cinghiali di Marit. VI.

VI

In quelle ere lontane le estati erano roventi, ma gli inverni erano glaciali e, soprattutto, improvvisi. Le temperature calarono repentinamente e presto il gigante nubiano e il ragazzo talpa si trovarono ad arrancare tra muri di neve alti almeno un paio di braccia sopra la testa dell’uomo. La pelliccia di smilodonte divenne quasi subito un vestito del ragazzo talpa e Okaka dovette darsi da fare per procurarsi altre pellicce, ma il ragazzo non era certo della sua tempra e, dopo pochi giorni di nevicate e temperature polari cominciò a stare male e ad avere congelamenti alle dita dei piedi.
Il vantaggio dei Cinghiali su di loro era già grande a causa della lunga convalescenza di Okaka, ma ora sicuramente si stavano allontanando sempre di più. La notte il gigante stringeva a sé il ragazzino cercando di passargli un po’ del suo calore, ma ogni notte di più sentiva il gelo crescere dentro alle sempre più gracili membra del povero talpa.
E poi, in un giorno che era diverso dalla notte che lo aveva preceduto solo perché tutto intorno a loro appariva bianco invece che nero, Okaka superò il crinale di una fila di colline e vide un’enorme costruzione di pietra grigia cinta da mura. Uomini e cinghiali si aggiravano indaffarati intorno all’immane costruzione la cui vetta spariva tra le nuvole bianche e compatte.
- Guarda, ragazzo talpa. Eccoli! – gli disse prendendolo in braccio e sentendo distintamente l’odore di marcio che usciva da quei fagotti informi di pelliccia che contenevano i suoi piedi.
- Almeno li ho visti. Si vede che era destino che morissi prima della loro fine. Perché finiranno, vero gigante del sud? –
Okaka lo guardò indeciso su cosa fare, un uomo normale gli avrebbe mentito e gli avrebbe detto che stava bene, era solo il freddo, con un bel fuoco sarebbe stato meglio, domani ci sarebbe stato il sole e così via, ma il nubiano era ricoperto di cicatrici sia sulla pelle che sul cuore e quel povero ragazzo non era un bambino cresciuto nel caldo di una casa amorevole e conosceva fin troppo bene la morte. – Certo che finiranno, ragazzo talpa, dovessi morire facendolo li massacrerò dal primo all’ultimo. –
- Appena io sarò morto? –
- Sì, piccolo mio, dopo che sarai morto e ti avrò sepolto sotto il più bel cumulo di pietre che si sia mai visto dal temo dei Re di Kenar. –
Il ragazzo sorrise malgrado il dolore alle gambe, poi guardò l’uomo con i suoi occhi ciechi e disse: - C’è la tua amica? –
Okaka si guardò intorno e vide un’ombra grigiastra tra i fiocchi di neve. – Sì, è qua. –
- È forte adesso? –
- No, deve nutrirsi, andremo a cercare un animale. –
- Il sangue umano è più forte, vero? Avrai bisogno d’aiuto laggiù, è vero? –
- Non devi dire queste cose … - cominciò a dire il gigante, ma poi guardò giù e stimò il numero dei nemici in qualcosa che stava tra gli 80 e i 100. Era forte, molto forte, ma così sarebbe stato un suicidio inutile, non ne avrebbe potuto uccidere nemmeno un terzo prima di soccombere. Ma Leka, lei nel pieno delle forze sarebbe stata una furia scatenata. – Avrò bisogno d’aiuto, sì. –
- Leka! – disse il ragazzo chiamandola per la prima volta col suo nome – Aiutalo laggiù. – aggiunse. Poi, piangendo disse ancora una cosa: - Naril. –
- Cosa? –
- Naril. È il mio nome. Dillo solo una volta e poi lasciami qui per lei. –
- Naril. – disse il gigante con l’affetto con cui avrebbe chiamato un figlio.
- E un’altra cosa, Okaka. – aggiunse il ragazzo.
- Dimmi, Naril. – gli rispose accucciandosi su di lui per sentire meglio. –
- Dopo, quando lei avrà finito, decapita il mio corpo. Lei è simpatica, ma non voglio … capisci, no? –
- Capisco. Addio Naril. – e si allontanò per non sentire quell’orrendo risucchio che sapeva lei avrebbe fatto. Dopo un po’, non sapeva quanto, una mano piccola e calda gli si appoggiò sulla spalla. Era Leka, solida come una donna viva, letale come una dea della notte. – Vai! – gli disse singhiozzando. Anche dopo la morte c’era del buono, allora. Meglio così.
Andò verso il ragazzo i cui occhi bianchi si stavano riempiendo di neve e, con un solo colpo della sua spada, fece quanto promesso. Scavò una fossa profonda e ve lo seppellì avvolto nella pelliccia di smilodonte e poi tirò su un tumulo che avrebbe fatto invidia a un re. solo dopo aver fatto questo, mentre il cielo da bianco diventava velocemente nero, lui e Leka cominciarono a scendere per il fianco della collina. La morte dei Cinghiali camminava con loro.

lunedì 12 gennaio 2015

I Cinghiali di Marit. V.

V

Entro sera lasciarono la città in rovina, le grida degli avvoltoi e i latrati degli sciacalli erano assordanti, raccolsero del cibo e si diressero sulla collina che sovrastava la città. Il ragazzo cieco lo dovette aiutare a camminare nei tratti più duri della salita e comunque dovettero fermarsi tre volte. Il dolore alle ferite era orrendo e la botta che aveva preso in testa gli faceva venire la nausea a ogni più piccolo movimento, molto probabilmente quella madre pazza doveva avergli fratturato il cranio oltre alle due dita che aveva già provveduto a steccare con l’aiuto del ragazzo.
Non si ricordò mai troppo bene i sette giorni successivi, li passò a dire il vero in un ininterrotto stato di dormiveglia dolente e confuso, ma sapeva bene di dovere la vita e la salute al piccolo ragazzo talpa e a Leka che cacciava per loro e che teneva lontane le belve.
Quando infine superò il trauma esaminò le ferite e le fratture; si stavano cicatrizzando, la sua collezione di segni spaventosi si era arricchita di qualche altro bell’esemplare, ma ciò non lo preoccupava. Quanto alle fratture … malgrado la sua forza sovrumana, per quelle poteva solo aspettare che guarissero. In due settimane sarebbe stato di nuovo in piedi e tempo un mese sarebbe stato di nuovo abbastanza forte da combattere. E aveva voglia di combattere, o se ne aveva, dopo aver visto cosa facevano i Cinghiali di Marit alla povera gente. Lo avevano preso in un momento in cui non poteva difendersi e lo avevano quasi ucciso, ma era quel “quasi” a fare davvero la differenza. Appena fosse stato di nuovo sé stesso li avrebbe cercati, li avrebbe trovati e poi, con immenso piacere, li avrebbe sterminati dal primo all’ultimo.
Fu come nascere e crescere di nuovo, doloroso, lento, ripetitivo e però, in un qualche modo, divertente. Dovette ricominciare a camminare e a correre, dovette riallenare il suo corpo a mangiare molto, all’inizio se mangiava più di un pugno di riso vomitava, dovette rinforzare i suoi muscoli atrofizzati dalla malattia e dall’insufficiente alimentazione. Il ragazzo talpa e Leka erano sempre con lui, e anche loro fremevano dalla voglia di vendicarsi. Lui era simpatico e lei … beh, che dire, in lei c’era ancora abbastanza della ragazzina che si era appesa alle sue braccia da piccola per non uccidere immediatamente la cosa che era diventata.
E poi ricominciò a cacciare e i suoi muscoli si gonfiarono di nuovo trasformandolo in quella statua di bronzo, striata di cicatrici in ogni parte del corpo, che i suoi nemici avevano imparato a temere. Due lune erano passate dalla morte di Leka, una e mezza dalla distruzione del villaggio che già sembrava riempirsi di erbacce e rampicanti davanti ai loro occhi. Okaka era di nuovo pronto a vendicarsi e a distruggere le forze del male che infestavano la terra degli uomini.
E così, una mattina presto, il sole nascosto da una lieve nebbia che inumidiva tutto, diedero l’addio alla capanna che li aveva accolti e partirono per un viaggio di vendetta e di morte. Come sempre nella sua vita, pensò tristemente Okaka che a volte, poco prima di risvegliarsi nel suo mondo di mostruosità, ricordava i primi anni della sua vita, vicino a sua madre e a suo padre che lo avevano amato.

domenica 11 gennaio 2015

I cinghiali di marit. IV.

IV

La famiglia che gli aveva affittato una camera era formata da un padre calzolaio, una madre lavandaia, un figlio andato con i Cinghiali, uno di cinque anni che combinava guai per le vie della città e uno di un paio di mesi che non si staccava mai dal seno della madre. Il ragazzino che due giorni prima era partito con i Cinghiali ora era tornato e, nel profondo della notte, bussava alla porta implorando la madre e il padre di farlo entrare. Il gatto di casa soffiava con la coda così gonfia da mostrare la pelle rosea sotto al pelo nero e il cane si avventava contro alla porta con una violenza tale da ferirsi il naso e le unghie. I bambini piangevano e i due genitori litigavano,
- Fammi entrare, mamma, ti prego! Ho freddo! – diceva il bambino con una voce che strideva nelle orecchie come una pietra che scivoli malamente su un’altra e il padre strigeva a sé la donna dicendole che quello non era più il figlio. Dalle case vicine, dalle vie lì intorno arrivavano già grida di gente ammazzata e versi di belve.
- Mamma! Ho paura e ho tanto freddo! – diceva la voce fuori dalla porta e la donna urlava strappandosi i capelli.
- Ci penso io. – disse il gigante nubiano mettendosi tra i due e la porta col suo pugnale di ossidiana in mano, e mai nelle sue peregrinazioni aveva trovato un nemico dotato di un corpo che non potesse essere ferito da quella lama. Le grida fuori dalla casa erano intanto sempre più forti.
- Ci può difendere? – gli chiese l’uomo che ora aveva preso in giro lo scugnizzetto che piangeva urlando a livelli da spaccare i timpani.
- Peso di sì. – disse Okaka e solo allora vide Leka. Gli stava indicando qualcosa alle sue spalle, si girò e fece appena in tempo a vedere il tronco nodoso che la madre gli stava scaricando addosso. Alzò una mano per intercettare il colpo e ottenne solo di rompersi un paio di dita prima di essere colpito alla tempia destra. Cadde a terra afflosciandosi come uno straccio e solo una parte periferica della sua mente si accorse della spinta che la donna gli diede facendolo rotolare in una specie di vano semi interrato che doveva essere una specie di carbonaia. Rotolò andando a fermarsi contro un muro e, prima di partire definitivamente per l’altro mondo sentì le grida di dolore di una donna e vide Leka fermarsi sulla botola da cui era caduto.

Qualcosa lo colpì a una gamba, non sapeva cosa, poi ci furono dei versi e qualcosa gridò vicino a lui, con gli occhi annebbiati vide qualcosa che lo mordeva su un braccio, una sorta di enorme muso peloso, il dolore lo raggiunse come da mondi distanti, ma lo fece risvegliare abbastanza da fargli sferrare un pugno poderoso contro l’animale. Sentì il rumore di ossa che si spezzavano e lo vide cadere lontano. Dopo qualche istante lo vide rialzarsi e, prima che potesse anche solo pensare di reagire, Leka fu addosso all’animale. Grida, rumori di colpi, quel risucchio si confusero nella sua mente col dolore alla testa e quello al braccio e alla gamba e al rimbombo cupo del suo cuore. – Dormi gigante, - gli disse Leka mentre lui scivolava di nuovo nel sonno dei feriti – Leka si prenderà cura di te nelle oscure ore della notte. – e lui si spense di nuovo.

Almeno un altro paio di volte lo svegliarono forti rumori, una volta lottò di certo con un altro mostro, sentì grida e sognò così chiaramente l’odore del fumo da sapere, in una qualche parte della sua mente, che il fumo doveva avercelo davvero intorno. Ma per la maggior parte del tempo fu come non esserci.

Si svegliò che il sole era già alto, la puzza di fumo e di morte tutto intorno a lui. Nella penombra di quella cantina vedeva tre corpi di vittime di Leka, ragazzini di poco più grandi di lei. Ignorando il dolore si alzò e, puntellandosi a una parete per le vertigini uscì dalla botola. La casa non c’era più, rimanevano solo il camino e alcune travi annerite. La città non era ridotta meglio. Cadaveri ovunque come nel villaggio da cui era cominciata la sua caccia, persone e animali morte e smembrate. Sulla sua gamba una ferita da taglio poco profonda e sul suo braccio un morso di un animale dai denti spaventosamente grandi. Si avvicinò a un legno che ancora bruciava, lo staccò con un movimento del braccio buono e poi se lo appoggiò sulla gamba e sul braccio. Urlò stupendosi per come la sua voce rimbombava tra le vie vuote e poi fu di nuovo tutto nero. Non si accorse nemmeno di cadere.

- Sei forte, Gigante del sud, pochi sarebbero ancora vivi. – gli disse la voce di un ragazzino svegliandolo. Gli stava dando da bere. Succhiò avidamente quell’acqua che sapeva di cenere e sentì quel liquido entrargli dentro dandogli forza.
- Bevi piano che se no la rigetti. – disse ancora la voce.
- Ragazzo talpa. Sei vivo? –
- Non avendo una casa dormo nelle fogne. Quelle cose non mi hanno cercato e io mi sono tenuto lontano da loro. –
- Cos’erano? – gli chiese rimettendosi a sedere e guardando con una certa soddisfazione le sue ferite. Orrende, davvero, ma non infette. –
- I ragazzi partiti due giorni fa. Ma anche no. Erano cose, bestie. –
- Non c’è nessun altro? –
- Solo la tua amica che va a caccia di topi. Ogni tanto sento che si avvicina per controllarti. Hai strani amici, gigante del sud. –
- Un fantasma succhiatore di sangue e un ragazzo cieco. –
- Sì. Non stai messo troppo bene. – e rise.
- Sai dove sono andati? –
- A est, direi. Sono partiti quando è sorto il sole. –
- Devo seguirli. – disse Okaka alzandosi, ma la debolezza gli fece piegare le gambe. Era quasi morto quella notte e per la sua vendetta sarebbe dovuto passare del tempo.
- Mi sembri un po’ debole, gigante. –
- Diciamo che la fine dei Cinghiali di Marit è rimandata di qualche giorno. – disse sedendosi – Pensi che sia rimasto cibo? –
- Sì. – gli disse il ragazzo cieco.
- Non ci serve altro. Tra qualche giorno partirò e la farò finita. –
- Tu, la ragazza vampiro e io partiremo e la faremo finita. Quei maledetti hanno ucciso la mia città. – disse il ragazzo alzandosi e andando a prendere dell’altra acqua. – Era la mia città, cavolo! -

sabato 10 gennaio 2015

I Cinghiali di Marit. III.

III

Dormì bene quella notte, malgrado i pericoli, ma se i pericoli in agguato avessero dovuto impedirgli di dormire, sarebbe morto pazzo molti anni prima.
Smontata la tenda e mangiati gli avanzi del coniglio raccolse le sue poche cose e si rimise in cammino. Le tracce dei cinghiali erano chiarissime, e lo portavano verso delle basse colline che si stagliavano all’orizzonte. Camminò per tutta la mattinata dando sempre un’occhiata dietro alle sue spalle per guardare se il fantasma lo seguiva, ma sapeva che il sole era un nemico delle creature della notte; ma di certo c’era, lui era stato con lei quando era morta e difficilmente lo avrebbe abbandonato. Avrebbe dovuto occuparsene, per gli Dei, avrebbe dovuto fare qualcosa.
Superato un passo inaspettatamente ripido malgrado la dolcezza delle colline che stava attraversando, si trovò di fronte a un problema. I cinghiali, quella torma di maledetti animali assassini che stava inseguendo, giunti a un bivio si erano divisi. Alcuni erano andati ad est, la maggior parte a basarsi sulle orme, ma alcuni, i loro piedi erano tutti umani, erano andati a ovest. E verso il tramonto, in fondo a una vallata, spiccava come la gemma su un anello una piccola cittadina cinta da mura. C’era stato anni prima, era uno schiavo allora e lottava nelle arene per mettere insieme il pranzo con la cena e per non essere frustato da quel ciccione del suo padrone. Aveva fatto uno strano verso quando gli aveva piantato la sua lama di ossidiana nel cuore, come un otre pieno d’aria che si sgonfia troppo in fretta.
Scendendo per il sentiero acciottolato attraversò una macchia di alberi fitti e subito alla sua sinistra vide una sorta di vortice nell’aria, e i brividi gli incresparono la pelle della schiena, il fantasma era lì con lui, era sempre stata con lui.
Arrivato alla porta della città coprì la sua testa rasata con il mantello e tentò di fingersi un tranquillo mercante, ma le guardie non lo guardarono neanche. Entrò e dopo pochi passi si trovò in una piazza dove si stava tenendo il mercato del bestiame e delle verdure. Passò tra piccoli cavalli dal manto bianco grigiastro con una striscia nera sulle spalle, oltrepassò gli enormi uri dalle corna alte almeno un braccio più della sua testa, e non gli era mai capitato di passare da una porta senza doversi abbassare per non colpire lo stipite, vide i conigli e i polli e addirittura un venditore di serpenti.
Comprò una manciata di nocciole arrostite e si mise a esaminare chi aveva intorno. Gente semplice, pacifica, mercanti della regione limitrofa e, ma davvero rari, mercanti di terre più lontane. Lui era l’unico nubiano e non c’era nessuno dell’etnia di Leka e di suo padre Ca-Zan. E poi vide il suo uomo, un ragazzino cieco che chiedeva l’elemosina, una persona che nessuno notava e, quindi, l’unica persona in città a sentire tutti i discorsi, anche i più segreti. Si avvicinò a lui e tirò fuori di tasca una moneta di rame.
- Quella moneta è per me, uomo gigante? – gli chiese il ragazzino.
- Vedo che senti tutto, piccolo uomo talpa. – gli disse lanciando la moneta nel suo cestino di vimini intrecciati.
- Non c’è cosa in questa città che avvenga senza che io la senta, uomo gigante. Parli strano, tu, non ho mai sentito il tuo accento, da dove vieni? –
- Da un posto e dall’altro. Diciamo che vengo da sud. –
- Capisco. – disse il ragazzino nascondendo la moneta nella manica, perché nessuno butta in un cestino dell’elemosina qualcosa se c’è già una moneta di valore. Lasciò all’interno gli spiccioli, quelli invitano ad aggiungere. – Tu sei strano, gigante del sud, le bestie hanno paura di te. Gli uri hanno sbuffato quando passavi e un cavallo ha scalciato appena ti sei avvicinato. –
- Vedi meglio di molti con gli occhi, ragazzo. –
- Le cose grosse le vedo anche con le orecchie, e tu sei bello grosso. – e rise.
- Diciamo che qualcosa mi segue. –
- L’aria fredda, i brividi nel collo, più che seguirti ce l’hai attaccata alla schiena, non ti fa paura? –
- E a te? –
- Mi fanno più paura i Cinghiali. – disse il ragazzo sputando.
- I cinghiali di Marit? – gli chiese Okaka soddisfatto del suo intuito, quel ragazzo cieco era stato la scelta giusta.
- Quelli. Li conosci? –
- Diciamo che li ho sentiti nominare. Potresti dirmi qualcosa di loro? –
- Che dire? Sono un gruppo di giovanotti e ragazzi. Camminano dietro a un’effigie che portano in alto, una testa di cinghiale. Vera, se vuoi saperlo, sentivo da qui il ronzio delle mosche. Arrivano nelle città e fanno il loro discorso, prenderemo i vostri figli, li cresceremo come grandi guerrieri, vedranno il mondo e conosceranno segreti e meraviglie, loro sarà il potere e loro sarà la ricchezza ed altre cretinate simili. –
- La gente di qui gli ha dato ascolto? – chiese Okaka.
- Almeno venti ragazzini sono andati con loro, erano tutti frementi dalla gioia, loro perché avrebbero vissuto un’avventura e i genitori perché avevano una bocca in meno a tavola. –
- Tu non sei andato con loro? –
- Non me lo hanno chiesto, e poi … io ho sentito il loro odore, più forte ancora di quello di quella testa marcia che portano in cima a un bel palo, ho sentito il loro odore e la paura che mettevano agli animali. –
- Come quella cosa che mi porto dietro? –
- Sì. – disse il ragazzo, poi si girò verso il nubiano e per la prima volta lo guardò negli occhi con i suoi occhi bianchi e vuoti. – Anzi, no. Quella cosa è pericolosa ma non è malvagia, quei Cinghiali erano falsi e cattivi. –
- Grazie ragazzo. – disse Okaka lanciandogli un’altra moneta che valeva il triplo della prima; anche questa sparì subito all’interno della manica.
Quella notte dormì in una stanza e in un letto, la cosa che era stata Leka si accontentò di un gatto e si tenne alla larga da lui e dalla sua spada e lui si addormentò.
Si svegliò nell’ora più buia della notte, in preda al terrore e ai brividi, i ragazzini che erano partiti erano tornati e stavano bussando alle porte delle loro famiglie e il suo istinto plasmato da anni di terrori gli fece capire subito che andava davvero male.

venerdì 9 gennaio 2015

I Cihnghiali di Marit. II.

II

Attraversò foreste e savane, guadò paludi e nuotò attraverso le acque torbide di fiumi infestati di coccodrilli e pesci-denti, scalò una montagna che gli sbarrava il passo e attraverso un deserto lungo tre giorni di cammino. Sempre, davanti a lui, i suoi occhi allenati alla caccia e alla vendetta trovavano le tracce dei cinghiali di Marit, ora umane, ora animali, ora uno e l’altro.
Era di nuovo nel folto di una foresta quando si fermò per la notte. Piantato un bastone in terra vi legò una corda di papiro tendendola fino al basso ramo di un albero, vi stese sopra il suo mantello ricavato dalla pelle dello smilodonte che, appena tredicenne, aveva strangolato con le sue mani e guardò soddisfatto la sua tenda. Ora mancava solo la cena. Cominciò a camminare in silenzio e, dopo pochi minuti, vide quello che cercava, un grosso coniglio dal pelo rossiccio. Lo seguì con calma e, quando il suo istinto gli disse che il piccolo animale stava per scartare violentemente verso una qualunque direzione, si lanciò a caso verso sinistra; la povera bestia aveva scelto proprio quel lato e il nubiano fu così veloce a spezzargli il collo che ancora le sue zampe scalciavano mentre l’uomo si rialzava tenendolo tra le robuste dita della mano destra.
Mentre tornava alla tenda tirando nel contempo fuori da una tasca il suo acciarino intravide qualcosa muoversi appena dietro di lui. Era stato poco più di una increspatura dell’aria, come un’onda che avesse spostato di un niente l’immagine delle foglie e dei rami. Il sangue del coraggioso gigante nubiano parve gelare nelle sue vene, perché già altre volte aveva visto cose simili, a Sagat nei sotterranei del Mausoleo di T-nor, a Medira sulla piramide di Klar-Th e molte, forse troppe, altre volte. Era un fantasma, un anima dannata che, nella maggior parte dei casi tornava nel mondo per vendicarsi su chi non le aveva fatto alcun torto.
Okaka sapeva però cosa fare, l’unica cosa da fare per potersi battere con un fantasma che per sua natura era incorporeo e invulnerabile. Bisognava ridargli, almeno per il tempo necessario a colpirlo, un corpo. Per fortuna aveva il coniglio il cui collo era stato spezzato da così poco tempo che ancora il cuore palpitava tra le costole.
Presa dalla sua sacca di cuoio una ciotola vi versò il sangue del coniglio aprendogli un taglio sul collo e facendo sgocciolare quella che fino a pochi istanti prima era stata la sua vita. Sollevò la ciotola in tutte le direzioni borbottando parole prive di senso e invocando nomi di divinità inventate sul momento. Poi, posata a terra la ciotola, cominciò a sfregare la pietra focaia sulla lama della spada per accendere l’esca poggiata sui rametti secchi che aveva disposto in un cerchio di pietre grigiastre. Mentre il fumo cominciava a salire dall’esca vide di nuovo l’increspatura vicino alla ciotola e sentì l’osceno risucchio che aveva imparato a conoscere nei sotterranei di Sagat. Ancora pochi istanti e il fantasma avrebbe avuto una forma e un corpo che lui avrebbe potuto colpire. Poggiando un rametto appena più robusto sul focherello che appena cominciava a divampare sull’esca vide l’aria sopra alla ciotola scurirsi e prendere delle sembianze umane. Impugnò meglio la spada e lanciandosi sulla forma accovacciata sul sangue sentì sibilare qualcosa vicino al suo orecchio. Un piccolo dardo nero e sottile lo aveva quasi colpito alla guancia. Cadendo a terra vide chi lo aveva lanciato, un piccolo aborigeno dalla pelle dipinta di rosso che indossava solo una corta gonnellina di paglia. Conosceva gli uomini di quella tribù, li aveva già incontrati. Quei dardi erano avvelenati e le loro vittime, dopo una morte breve ma comunque molto dolorosa, diventavano di solito la portata principale del banchetto del villaggio. Aveva solo qualche istante prima che il minuscolo selvaggio infilasse un altro dardo nella cerbottana, troppo poco tempo anche per un guerriero straordinario come lui, ma di certo non si sarebbe arreso, non Okaka del Mare dei Mostri. Ma non fece in tempo a reagire, non ne ebbe alcun bisogno. Quella evanescente figura che era sorta dalla ciotola di sangue fu più veloce di lui e aggredì il lanciatore di dardi lacerandogli il viso con le unghie e affondando il suo volto nel collo dalla pelle delicata. Il risucchio fu ancora più forte, questa volta, accompagnato dai gemiti del morente e dallo scalpiccio dei suoi piedi mentre moriva.
E fu solo quando i piedi dell’uomo che aveva tentato di ucciderlo si fermarono che quella figura divenne solida come un corpo in carne e ossa e si voltò verso di lui. Malgrado il sangue che le lordava il viso, malgrado gli occhi dalla pupilla verticale, nonostante la sensualità mortale che emanava dal suo nuovo corpo, riconobbe subito in lei la piccola Leka che aveva sepolto solo pochi giorni prima. Lei lo guardò piegando la testa da un lato e gli sorrise con i suoi denti aguzzi. – Ciao gigante, mi devi un favore. – disse e poi, prima che lui potesse risponderle con una parola o un colpo di spada, fuggì con un’agilità sovrumana sparendo tra gli alberi.
Con un colpo di spada spiccò la testa del piccolo uomo dal suo corpo che andava raffreddandosi, meglio esser sicuri che non potesse più tornare a camminare tra i vivi e poi, i suoi sensi sempre vigili e attenti a quanto si aggirasse tra gli alberi nell’oscurità della notte che stava calando, cominciò a cuocere il coniglio su uno spiedo ricavato da un ramo. I cinghiali di Marit erano a giorni di cammino davanti a lui, gli indigeni, se altri avevano seguito il povero cadavere che giaceva a pochi metri da lui, dovevano essere scappati via in preda al terrore e la piccola Leka non avrebbe avuto fame per qualche giorno. Poteva dormire, per quella notte, stando attento a lupi e tigri dai denti a sciabola. Sarebbe stata una notte tranquilla, per il suo metro.

giovedì 8 gennaio 2015

La gioia della leggerezza. (I Cinghiali di Marit. I)

Mi piace scrivere cose mie, che abbiano un certo significato, almeno per me; ma a volte, semplicemente, le idee non vengono e questo è molto triste per chi ama scrivere.
L'altra sera leggevo qua e là e mi è capitato sotto mano Conan di R. E. Howard, pura letteratura d'intrattenimento, roba leggera e priva di significato, uomini muscolosi ed eroici, donne belle e, prima possibilità, innocenti e in pericolo, o, seconda possibilità, mostri nascosti in corpi da urlo. Il tutto condito da mostruosità e crudeltà inaudite. Uno spasso.
E così mi sono messo a scrivere un'imitazione, e viene giù che è un piacere. La sto ancora scrivendo, ma comincio a pubblicarla un capitoletto alla volta. Potrete notare nel nome del protagonista un mio omaggio a un giocatore della mia squadra (Forza Samp!)
Il titolo è:

I cinghiali di Marit.

I

L’odore di carne bruciata era nauseante. Il villaggio, una ventina di capanne di paglia e fango che sorgevano sulle rive di un sorgente dalle acque scintillanti, era ridotto a pochi mozziconi di pali anneriti. Corpi, pezzi di corpi anzi, sporgevano dalla cenere che ancora fumava. Erano quasi totalmente carbonizzati, ma si notavano bene i segni delle zanne che li avevano dilaniati.
L’enorme nubiano che nelle terre del Mare dei Mostri aveva avuto il nome di Okaka girava tra le macerie che covavano ancora l’incendio sotto di loro tentando di capire da quale parte fosse arrivato l’attacco e chi, o meglio cosa, lo avesse sferrato. In quel villaggio abitavano alcune persone che lo avevano sfamato anni prima, amici, se nel mondo mostruoso e spietato di quelle lontane ere poteva esistere qualcosa di simile all’amicizia.
Svoltò a sinistra e si trovò di fronte alla capanna del suo vecchio compagno Ca-Zan, quello con cui era andato a caccia di bradipi giganti riportando la cicatrice che gli segnava la guancia sinistra. Riconobbe nel teschio ricoperto di carne carbonizzata il suo vecchio amico, gli incisivi erano sovrapposti e mancava il canino che aveva perso prendendosi al suo posto una zampata dell’enorme preda. La testa era spaccata da un colpo d’ascia e il braccio sinistro era staccato dal morso di un predatore. Uomini e animali insieme, o esseri che erano insieme uomini e animali. Possibile, a suo avviso e basandosi sulle sue esperienze.
Entrò nella capanna, restava ancora un tetto di paglia anche se bruciacchiato, e nel buio intravide un movimento. Portò la mano alla lama di ossidiana che portava al fianco, ma il lamento che gli ferì l’orecchio con la sua disperazione lo convinse a lasciarla lì. Era una ragazza a lamentarsi, e purtroppo doveva essere Leka. Prese in braccio quel corpo tremante e, borbottando parole prive di senso come si fa con i bambini piccoli, la portò alla luce.
Quella povera fanciulla dai capelli biondi come le messi prima della mietitura e dagli occhi color delle foglie in maggio, quella povera bimba che sì e no da un paio di mesi doveva aver sanguinato per la prima volta, era stata infilzata da un colpo di lama lunga che l’aveva aperta dallo sterno all’ombelico. Gli intestini occhieggiavano grigi dallo squarcio che aveva smesso di sanguinare e l’odore del sangue, della morte e di escrementi accompagnavano ogni suo lamento e movimento.
Le sue gambe, povera bimba sopravvissuta chissà perché fino ad allora, erano state divorate fino a qualche dito sopra le ginocchia. Spuntoni acuminati di osso sporgevano tra brandelli di carne ormai annerita dall’aria mentre poco, acquoso sangue, gocciolava dalle sue arterie ormai svuotate.
- Piccola mia, dormi. – le disse accarezzandole il viso sporco di terra, sangue e fuliggine, - Gli Dei del Tramonto si prenderanno cura di te nei grandi giardini del Nord. – disse ripetendo parole ascoltate chissà quanti anni prima da quella donna a lui sconosciuta che era stata sua madre.
Leka aprì gli occhi e, gemendo come un animale che sta affondando nelle sabbie mobili, lo guardò e, solo per un attimo, parve riconoscerlo; - Gigante! – disse con un filo di voce inudibile, ma fu solo un attimo, purtroppo, perché poi il suo corpo lacerato si inarcò e lei urlò: - I cinghiali! I cinghiali di Marit! – e, urlate queste parole, si accasciò tra le sue braccia, morta e come svuotata di quello che era stata.
L’enorme uomo del colore dell’ebano rimase un po’ di tempo lì in ginocchio davanti alla capanna bruciata con quel povero corpo che andava raffreddandosi tra le sue braccia, incapace di muoversi, mentre le mosche ronzavano intorno a lui posandosi voraci sui resti delle persone che anni prima lo avevano aiutato.
Dopo un po’, il sole aveva già cominciato ad abbassarsi verso il Mare di Sangue, scavò con la sua spada di bronzo una buca abbastanza profonda da scoraggiare gli sciacalli e le iene dai denti a sciabola e vi adagiò, dopo averla avvolta in una delle sue vesti che addosso a lei sembrava una coperta, la piccola Leka a cui aveva messo al collo il piccolo ninnolo d’oro a forma di scarabeo che portava con sé da quando era stato solo un giovane pirata e che lei anni prima, bimbetta che non gli arrivava nemmeno al ginocchio, aveva dimostrato di trovare bellissimo. Ci mise poco a coprirla, piccola com’era, ma ogni palata di terra era un rinforzo alla promessa fatta davanti al suo corpo e al teschio di suo padre Ca-Zan. Qualunque cosa fossero quei maledetti cinghiali di Marit e chiunque fosse a comandarli, lui li avrebbe trovati e li avrebbe sterminati. Un taglio della lama di ossidiana sul palmo della sua mano e alcune gocce di sangue lasciate cadere sulla tomba della povera bimba suggellarono in eterno la sua promessa di vendetta.
Ribattuta con cura la terra Okaka partì verso Est, da dove provenivano le impronte di piedi umani e zoccoli fessi. Le lacrime per i suoi amici le lasciò dietro di sé insieme alle sue orme, portava con sé solo la sua rabbia e la sua ferma volontà di vendetta. Sangue sarebbe schizzato dai colli tagliati dei suoi nemici, sangue avrebbe inzuppato la terra che avesse osato accoglierli per nasconderli al suo furore.