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venerdì 30 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XVIII.

7

Carla

Seduta sul coperchio del water scossa da brividi incontrollabili, Carla pensò che Camilleri avrebbe saputo descrivere benissimo la sua situazione. “Nuttata fitusa” avrebbe scritto “tutta curcarsi e susirsi, e con continui arrizzatuni di friddu lungo la schiena.” L’unica differenza con Montalbano, il suo commissario preferito, che occupava con i romanzi di cui era protagonista un bel pezzo della sua libreria in camera, è che lei non stava male per una “quintalata di puripetti alla strascinasali”, ma per quel cabaret di paste che si era mangiata con Amalia nel pomeriggio, mentre l’altro se l’era sbafato la sua nuova amica.
Guardò l’orologio, le tre, cazzo!, e continuava a sbadigliare e a ruttare con un gusto acido in bocca come neanche dopo una sbronza, con lo stomaco pesante come se avesse per sbaglio ingoiato un’incudine.
Si alzò nel suo pigiamino rosa con disegni di farfalle, così vecchio da essere oramai sforacchiato qua e là come un vestito di Bruce Willis in un film della serie Die Hard, e andò in cucina per fare una cosa che aveva tentato di rimandare finché possibile, e anche un po’ dopo. Prese il pentolino e lo riempì d’acqua, lo mise sul fuoco e prese dallo sportello a destra in alto una bustina di camomilla.
- Che schifo! – disse alla stanza vuota mettendo la fetida bustina nel bicchiere con Shrek, evidentemente un ex barattolo di Nutella, poi aprì il frigo e si accucciò per cercare un pezzo di limone. Accucciandosi le scapparono contemporaneamente un rutto e una scorreggia. Scoppiò a ridere così forte che dovette sedersi a terra appoggiando la schiena allo sportello del frigo, mentre l’aria gelida le scendeva addosso.
Asciugandosi le lacrime che le scendevano dagli occhi ruttò di nuovo e il riso divenne assolutamente incontrollabile. Pensò ai vicini, cazzo, rideva così forte che sicuramente rischiava di svegliarli, ma il solo tentativo di fermarsi aumentò ancora di più la forza delle sue risate.
Si immaginò la vicina del piano di sotto, l’aveva vista il giorno prima, assomigliava a un cubo di settanta centimetri di spigolo, se la immaginò che veniva a bussare urlando con quella sua voce acuta e fastidiosa “La smetta di fare rumore, signorina!” avrebbe guaito, e lei le avrebbe risposto con un rutto cavernoso alla Barney che l’avrebbe pettinata come una punk colorandole i capelli di verde elettrico. E così continuò a ridere mentre la pancia le faceva sempre più male, coricata in terra con la faccia nascosta tra le mani, mentre rutti e peti srumorazzavano allegramente dal suo corpo.
Dopo un po’, quanto?, dieci minuti?, un’ora?, boh!, riuscì a smettere di ridere e si rialzò poggiando un quartino rinsecchito di limone sul tavolo accanto al bicchiere. Versò l’acqua bollente nel bicchiere e la guardo diventare sempre più gialla, mentre l’odiato odore di camomilla si diffondeva nell’aria. Tolse il filtro, schiacciò il limone ottenendo cinque gocce, tre solamente caddero nel bicchiere, però, e poi condì il tutto con un robusto cucchiaino di zucchero. Mescolò almeno trenta volte, tentando di ritardare il momento fatale, ma una altro rutto la convinse all’insano gesto. Buttò giù la camomilla per quello che era, una medicina schifosa, tutta d’un sorso tentando di non sentirne il gusto, e quasi si ustionò.
Mentre risciacquava il bicchiere la camomilla fece effetto e digerì ruttando per l’ennesima volta. – Questa volta i vicini l’hanno sentito. – disse sogghignando, poi spense la luce e andò alla finestra. Fuori c’era la luna piena, e non faceva per niente freddo. I palazzi sembravano diversi da come erano di giorno, quasi disegnati da geometrie lovecraftiane, e ripensando al racconto di Amalia le venne voglia di vedere la collina alle sue spalle e la villa là in cima. Con la luna piena chissà come le sarebbero apparse. Sorrise di questi pensieri infantili e si disse che alle tre e mezza di notte, in pigiama e pantofole a forma di orsacchiotto, sì, erano comode e usava quelle, non poteva certo uscire sul pianerottolo ed entrare nell’appartamento della vicina.
Se l’avessero sentita avrebbero chiamato la polizia per i ladri, nessun adulto avrebbe fatto una cazzata simile. Assaporando la sua avvenuta digestione sorrise nella stanza buia, disse: - Ma vai! – e prese le chiavi di casa. Accanto alle sue tre chiavi c’erano le due della vicina. – Ma sì, dai! – si disse per farsi coraggio.
Aprì la sua porta con una lentezza estenuante, poi zampettò nel pianerottolo come Wil E Coyote e aprì la serratura dell’altra porta maledicendo quei clic che le sembrarono assordanti. Entrò nell’appartamento buio, rischiarato solo dalle persiane sollevate in bagno, andò quasi alla cieca alla finestra della sala e la aprì. Uscì sul poggiolo e guardò fuori rimanendo senza fiato.
- Cazzo! – disse guardando la collina. La luce della luna tagliava con angoli nettissimi tutte le sagome, e gli alberi e le case sembravano scomparsi. La collina era enorme, si stagliava davanti a lei come una minacciosa Moby Dick che stesse emergendo dal mare per trascinarla giù con lei, con i lati tagliati con l’accetta come una antica piramide. Ecco, sembrava proprio una antica piramide assira o azteca, e sulla cima, come il tempio dove il re sposava la dea Ishtar, la casa del ricchissimo padre di Alessandro, quel Filippo Malerba che secondo Amalia doveva essere più potente del Presidente degli Usa.
Sembrava il tempio dove nasceva il potere del re, e Alessandro sembrava avere il carisma di un re. C’era una luce accesa, lassù, qualcuno come lei non dormiva.
E mentre guardava la collina e pensava questi pensieri, un ululato risuonò nel silenzio della notte. Scossa dai brividi, evidentemente non doveva avere ancora digerito così bene, chiuse in fretta le persiane e tornò in casa sua. Se ne tornò a letto e si coprì la testa con le coperte, pensando a quella casa e a quell’ululato. L’ululato di quel cane, pensò mentre si addormentava, anche se in effetti sembrava proprio l’ululato di un grosso lupo sorridente.

giovedì 29 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XVII.

6

Carla

- E questa è la storia dell’attentato alla chiesa della Pigna, dove ho visto vaporizzare i miei amici e la mia prof di italiano, mi sono guadagnata queste belle cicatrici, e ho perso un anno di scuola. – disse Amalia.
Carla rimase in silenzio con il mento appoggiato alle nocche della mano destra e con l’unghia del mignolo tra le labbra. Quando ascoltava qualcuno, quando ascoltava davvero qualcuno, in un modo o nell’altro finiva sempre per ciucciarsi un dito come Maigret avrebbe fatto con la pipa. Non disse niente mentre vedeva l’amica ritornare la stessa donna tranquilla di prima, perché mentre raccontava le era sembrata come ringiovanire e tornare simile alla ragazzina che era stata sbalzata via dall’esplosione. – Chi era Roberto? –
- Quello che chiamava quel tizio? Suo figlio, era morto in un incidente d’auto un mese prima. –
- Ah! – disse, poi dopo un po’ aggiunse: - E prima, mentre raccontavi mi è sembrato che … quando mi hai detto dell’esplosione, mi è sembrato che stessi per dire qualcosa. Hai detto di aver visto che ... e sei passata ad altro. Cosa avevi visto? –
Amalia sorrise, si guardò le dita che teneva intrecciate, poi disse: - Niente. Penso che sia stato lo shock, è stato lo shock. Mentre quelle fiamme mi venivano addosso, mi è sembrato che dal pavimento uscisse qualcosa. Ma era la mia mente che cedeva. –
- E cosa avevi visto? –
- Ti metterai a ridere. –
- No. –
- Un lupo. Non l’avevo mai detto a nessuno, cazzarola, ho visto un lupo. È come evaporato fuori dal pavimento della chiesa e l’ho visto dentro all’esplosione. Un enorme lupo bianco. –
- Un enorme lupo bianco? – chiese Carla.
- Sì. Buffo no? –
- No. Strano. E che faceva ‘sto lupo? –
- Si guardava intorno, e si scrollava come se si fosse appena svegliato. E poi mi ha guardato e mi ha sorriso. –
- Mentre l’esplosione ti scagliava dall’altra parte della piazza? –
- Sì. Si è scrollato, si è guardato intorno con occhi un po’ assonnati e poi mi ha sorriso. –
- Strano. –
- È stato orribile. – disse Amalia velocemente, la cosa più orribile del mondo. -
- Posso immaginare. – disse Carla sapendo che non era vero. Come quando vai dall’amico a cui è appena morta la madre dopo un tumore di anni e gli dici che capisci cosa prova. Non è vero. Lo sai te, lo sai lui, dà fastidio a te e ne dà a lui, ma lo dici lo stesso. E così lei disse – Posso immaginare. – e tutte e due capirono che il bel pomeriggio insieme era finito. Ci furono altre frasi, altri discorsi, anche altre risate, ma solo perché tutte e due non volevano finire quelle che erano state due belle ore con un momento di finzione e imbarazzo.
Mangiarono delle altre paste, senza dubbio di troppo, si fecero un bel caffè con panna montata, di quello che ti si posiziona precisamente sopra allo stomaco e che non va più né giù né su neanche a pagarlo, e infine Carla andò a prendere la giacca di Amalia. La aiutò a indossarla, la accompagnò alla porta, e solo quando l’amica fu sul primo gradino delle scale si girò e le disse: - Ci sono due cose che non ti ho detto. –
- Cosa? –
- La prima è chi abita in quella bellissima villa che hanno costruito al posto della chiesa. Ma magari se ci pensi un po’ ci arrivi. –
Carla fu sul punto di dire un nome, uno dei pochi che conosceva lì intorno, l’unico di una persona che la avesse in qualche modo colpita, ma non era mai stata una di quelle persone che tirano a indovinare, anche nelle interrogazioni a scuola aveva sempre detto solo quello di cui era assolutamente sicura. E così scosse la testa per dire che non lo sapeva.
- Ci abita Alessandro, il tuo allievo. Suo nonno costruì la villa l’anno dopo l’esplosione, penso che dovette ungere un bel po’ di ruote per devastare così un bene culturale di tale importanza. Ora la villa appartiene a suo padre Filippo, che se non lo sai è il padrone della Falanx, una delle più potenti multinazionali al mondo, dal petrolio ai satelliti, dall’agricoltura alle armi, cerca in giro e li producono loro. A dire il vero quella stupenda villa è molto modesta rispetto alla loro ricchezza e al loro potere. –
- Cavolo. – disse Carla. E poi chiese: - E l’altra cosa che non mi hai detto?
Amalia sorrise, ma gli occhi non sorridevano, anzi erano molto tristi. – Oh, niente. È per prima, quando ti ho detto che era stato orribile e tu mi hai detto che potevi immaginare. –
- Orribile frase di circostanza, eh? –
- No. non è quello. È solo che penso che tu abbia capito male. Veder morire tutte le mie amiche, essere ustionata, essere sbalzata via e schiantarmi rompendomi tutte le ossa, senza dubbio è stato orribile.
Ma io non parlavo di quello. – disse. – Io mi riferivo a quando il lupo mi ha guardato e ha sorriso. Avrei preferito altre mille esplosioni a quel sorriso. E credimi, non puoi capire. – e cominciò a scendere le scale salutandola con un cenno della mano.

mercoledì 28 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XVI.

5

1974

Sembrò loro di passare dal giorno alla notte. La luce entrava solo dalle finestre a est che erano molto in alto e il buio era quasi spesso. Al centro, tra le due schiere di panche, una lunga striscia di pietre tombali chiare, dove erano sepolti i frati che erano vissuti lì nei secoli passati. Con le centinaia di luci tremolanti delle candele che brillavano in costellazioni disordinate ai lati, sembrava una via lattea nel cielo notturno.
La Amantini zampettava allegra davanti a loro, indicando con le sue mani magre i quadri e gli affreschi che li contornavano da ogni parte.
- Lo vedete quello? – chiedeva ai ragazzi che parlottavano annoiati tra loro – Lo vedete quel San Giorgio che uccide il drago? Si dice che sia un Caravaggio. –
Passò in un corridoietto tra le vecchie panche di legno scuro e si andò a posizionare sotto al quadro. Sembrava che la spada di San Giorgio la indicasse come la freccia dell’angelo nell’Estasi di santa Teresa. E effettivamente lei era quasi in estasi, non solo per quel quadro, ma per tutta la storia che si ammassava in quelle pietre che da si ergevano su quella tozza collina da qualcosa come milleseicento anni.
- Vi rendete conto, ragazzi, che questa è una delle prime chiese del mondo? Fu l’imperatore Costantino a farla costruire, prima ancora di San Pietro. –
Su ventitre ragazzi che la stavano seguendo, forse solo tre o quattro la stavano a sentire. E anche il professor Giunti si allontanava, girava tra i banchi con fare svagato tentando di non fare capire alla collega quanto si stesse rompendo le balle.
Amalia invece seguiva la prof, i quadri le piacevano, e soprattutto quello lì, quel Caravaggio, le dava un’idea di sicurezza, sembrava che la luce che illuminava San Giorgio e il suo cavallo, quella luce che solo marginalmente lambiva quello strano rettile che per il pittore doveva essere un drago, a essere sinceri le sembrava che illuminasse anche il mondo esterno alla tela, così come il buio da cui emergevano il santo e il cavallo le sembrava originarsi dal buio in cui lei stessa si muoveva.
- Caravaggio non dipinse nessun altro quadro raffigurante mostri o altre stranezze, sai Amalia? È anche per questo che molti dicono che non è suo ma di un suo allievo.
- E lei che ne dice, prof? –
La Amantini la guardò e sorrise, e fu solo in quel momento che Amalia si rese conto che sotto a quel muccio quaresimale, dietro a quegli occhiali spessi, c’era una donna ancora giovane, una donna anche bella, a modo suo. – Per me? – le chiese.
- Sì. Per lei è di Caravaggio? –
La Amantini si girò e allungò una mano verso il grosso dipinto che incombeva su di loro, parve quasi sfiorarlo da distante, poi disse: - Per me sì. Ci giurerei,davvero, ci scommetterei qualunque cosa. –
Amalia rimase in silenzio, aveva colto una sincerità assoluta e commovente nelle parole della severa prof e sentì di essere stata trattata, forse per la prima volta, da adulta da un altro adulto. E fu allora che la Amantini riprese a parlare e disse: - Per me è il capolavoro di Caravaggio, mai più né prima né dopo Caravaggio ha dipinto qualcosa di così incredibilmente vivo e necessario. –
Amalia fu quasi spaventata dalla sincerità della donna che le stava parlando, ebbe l’impressione di aver visto il suo cuore pulsare nel buio davanti a sé, ma qualcosa la distrasse da quel pensiero.
Fu l’uomo seduto sulla panca alle loro spalle a distrarla, così come anche la Amantini si girò a guardarlo. Si erano già accorte del suo sommesso borbottare, naturalmente, ma lo avevano preso per una preghiera. Ma allora l’uomo alzò la voce e cominciò a pronunciare frasi sconnesse urlando. Tutti nella chiesa si voltarono verso di lui.
- Perché? – urlava l’uomo in piedi davanti alla panca, intabarrato in un giaccone troppo pesante per la stagione – Perché il mio Roberto? Perché hai preso il mio Roberto? Maledetto Dio! Rispondimi! – urlò alzando le braccia al cielo come un orante antico, mentre Amalia e la prof si allontanavano da lui di un paio di passi con la pelle increspata dal terrore.
- Dimmi perché, stronzo maledetto! Dimmi perché! – urlò, poi infilò la mano sotto al giaccone e ne estrasse una pistola che dava l’idea di essere vecchia di mezzo secolo almeno. La Amantini si mosse come un felino, andandosi a mettere tra l’uomo e Amalia, ma l’uomo fu più veloce di lei e quando si infilò la pistola in bocca e fece fuoco Amalia riuscì a vederlo perfettamente.
Il rumore fu assordante e rimbombò tra gli archi della chiesa diverse volte, ma quello che colpì Amalia fu l’incredibile quantità di sangue che uscì dall’uomo. L’intera calotta cranica fu scaraventata in aria in una nuvola di sangue e cervello vaporizzati, mentre dalla bocca e dal naso il sangue usciva in due fiotti che nel buio della chiesa sembravano neri.
Passò almeno un secondo prima che l’uomo cadesse, forse due, e Amalia poté vedere gli schizzi di sangue arterioso che venivano spruzzati fuori dalla testa scoperchiata del suicida arrivando a qualcosa come tre metri di altezza. Uno spruzzo di sangue investì lei e la professoressa mentre l’uomo rovinava a terra e anche il bellissimo quadro del Caravaggio fu lordato da quel liquido caldo che odorava di rame surriscaldato.
Amalia cadde a terra con gli occhi sbarrati, vedendo come a trecento sessanta gradi quello che avveniva intorno a lei. Tutti guardavano l’uomo che sussultava sul pavimento mentre il sangue, ormai quasi del tutto privo di pressione, allagava il lastricato di marmo e ardesia. Due sue amiche, Annalisa e Marina, piangevano abbracciate una all’altra, mentre Marco vomitava stando appoggiato a una panca con il braccio sinistro.
Un prete anziano correva verso il moribondo in un ridicolo svolazzare della tonaca, mentre la Amantini, il volto sporco di rosso come quello di un indiano sul piede di guerra, si accucciava a controllare il suicida.
- Cos’è questo rumore? – disse a bassissima voce, ma Amalia in quel momento avrebbe sentito anche il battito d’ali di una farfalla all’altro capo del mondo, e poi aprì il giaccone dell’uomo. Quello che indossava sembrava uscito da un fumetto, in un altro momento Amalia vedendo quelle cose sarebbe forse scoppiata a ridere. Intorno al petto aveva legati dei candelotti di esplosivo, lei ne vedeva una decina, ma sembravano continuare anche sul dorso, e attaccata a questi con dei cavi e del nastro adesivo, una sveglia ticchettante. Una bomba da fumetto, come l’avrebbero disegnata in Topolino, ma non rise allora Amalia, e neanche la Amantini.
- Mio Dio! – disse la professoressa, nota a tutti per il suo ateismo militante, e si girò verso Amalia mentre si alzava. – Via! – le urlò e la sollevò quasi di peso, lei che pesava sì e no quarantadue chili bagnata, correndo verso l’uscita.
E furono così veloci da riuscire a uscire dalla chiesa, si trovarono fuori sotto a quel sole caldo, contornate dalle mostruose e grottesche figure del portale, e se Amalia fosse stata anche minimamente in possesso delle sue facoltà mentali, avrebbe continuato a correre fino all’altro lato della piazza, o anche fino in Cina, se il fiato l’avesse aiutata. Ma Amalia non sarebbe stata neanche in grado di arrotolarsi i pollici in quel momento e, quando la Amantini si voltò a guardare all’interno, vedendo che i suoi allievi erano ancora tutti all’interno, poté solo rimanere lì ferma a guardarla tornare all’interno per salvare i suoi ragazzi. Anzi, a essere sinceri, il suo corpo reagì al movimento della professoressa facendole muovere un paio di passi verso l’interno, fino ad avere solo una spalla illuminata dal sole.
La Amantini raggiunse Marco, un ragazzo alto e magro, uno dei più grandi rompiballe versione simpatica che avesse mai frequentato le aule di una qualunque scuola della Penisola, e cominciò a trascinarlo verso l’esterno come già aveva fatto con Amalia, urlando nel frattempo alla ragazzina di tornare indietro.
E allora avvenne qualcosa alla povera Amalia, qualcosa che forse è paragonabile all’effetto di potenti sostanze stupefacenti tipo LSD o altre diavolerie simili, perché la sua percezione si ampliò fino a diventare totale. Vide l’espressione di terrore stampata sul volto di ogni suo singolo compagno, vide la goccia di merendina appena vomitata sul giaccone di Marco, vide chiaramente le dita della Amantini stringere il braccio del ragazzino fino a infilargli un’unghia nella pelle del polso. E vide la tonaca del prete svolazzare intorno ai suoi calzini blu mentre il povero ometto calvo si allontanava dal corpo del suicida, che sembrava essere percorso ancora da lievi tremiti. E vide una suora alzarsi dalla sua panca con il viso bianco come il gesso e alzare la mano destra con l’indice puntato alla fronte, per fare il gesto iniziale del segno della croce, riuscendo a percepire anche l’inizio della ridiscesa della mano verso il basso, e pur sapendo che quella mano sarebbe dovuta arrivare a toccare lo sterno, quel gesto si interruppe lì, con l’unghia dell’indice all’altezza della gobba del naso.
E, ma credetemi di questo fatto non riuscì a convincersi davvero neanche lei in tutto il resto della sua vita, Amalia riuscì a vedere l’esplosione dei candelotti legati sul petto dell’uomo. Vide il terzo di loro, che toccava con la sua parte terminale la cintura di cuoio marrone con fibbia color acciaio, lo vide trasformarsi istantaneamente in luce, seguito da tutti gli altri, e vide questa luce allargarsi in un alone abbagliante prima che lo spostamento d’aria, l’onda d’urto dell’esplosione stessa, annichilisse il corpo del suicida invadendo tutta la navata e poi tutta la chiesa in un’enorme fiammata.
Mentre accadeva tutto questo il suo corpo, perché era il suo corpo ad agire, essendo il suo cervello totalmente annullato dal terrore, le fece fare un paio di passi indietro, ponendola così all’esterno della chiesa, dove l’esplosione non l’avrebbe dilaniata, ma solo sbalzata via come una piuma, andando a sbattere contro un’auto a qualcosa come trenta metri dal portale.
E mentre l’onda d’urto la sollevava lasciandole a terra le scarpe, mentre l’aria incandescente la investiva dando fuoco alla manica dell’avambraccio destro che aveva alzato davanti al viso per difendersi, mentre la stessa aria le penetrava in bocca e nelle narici ustionandola, mentre i suoi capelli prendevano fuoco trasformandosi in una sorta di aureola come quelle che aveva visto pochi minuti prima in un mosaico posto alla sinistra dell’altare, proprio in quel momento Amalia, la cui percezione sensoriale era oramai totalmente fuori scala, vide qualcos’altro.
Dal pavimento della chiesa, dagli interstizi tra le pietre del pavimento, dalla spaccatura che divideva in due triangoli irregolari la lapide di frate Maurilio Scattini morto nel 1619, Amalia vide emergere qualcosa. Fu qualcosa di così insolito, di così inaspettato, che la sua mente fece fatica a incasellarlo.
Si dice che gli indiani di San Salvador, all’arrivo delle caravelle di Colombo, non riuscirono a vederle avvicinarsi all’isola, perché il loro cervello non era preparato a vedere barche così grosse. E così Amalia, che per tutta la sua vita aveva visto, e di lì in avanti avrebbe continuato a vedere, cose fisicamente normali, non poté comprendere totalmente quello che vide uscire dal pavimento della chiesa, finendo poi per decidere che si era trattato di un’allucinazione del suo povero cervello shoccato.
Ma quello che vide, quello che i suoi occhi percepirono con chiarezza inumana, fu una luce. Una luce buia, che sembrava aspirare da tutto quello che aveva intorno la luce normale.
Vide questa luce allargarsi in mezzo alle fiamme dell’esplosione che stavano avvolgendo i corpi scaraventati per aria della Amantini e di Marco, e la vide prendere come una forma, la vide consolidarsi in un qualcosa che per un istante, prima di cedere al trauma e di spegnersi per i successivi tre giorni, il suo cervello credette di riconoscere come un lupo.
E poi le fiamme l’avvolsero scagliandola sull’auto e tutto quello che accadde dopo per lei cessò di esistere. Sarebbe tornata a vedere e a sentire solo tre giorni dopo in ospedale, e nei mesi successivi avrebbe visto e sentito soprattutto tristezza e dolore.

martedì 27 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XV.

4

Amalia

- Non so se te, così giovane come sei, te ne sei già accorta, ma la memoria è una strana bestia. Tutto quello che ti sembrava più importante, gli amici, lo studio, i professori odiosi, i ragazzi che ti piacevano, tutto … si perde, come una persona che si allontana nella nebbia, come un tuo amico che ti parla dall’altro lato della strada nel pieno del traffico. Ti sembra di ricordare qualcosa, ma si confonde tutto. È come un albero, se lo guardi da vicino lo vedi che è unico, ma se ti allontani, c’è poco da dire, non vedi più quell’albero ma il bosco.
È così anche per la nostra infanzia, non me li ricordo neanche più i nomi delle mie compagne di classe che erano lì con me, anche se li ho letti e riletti, e se a volte li ricordo è perché li ho visti sulla targa che hanno messo là dove è esplosa la bomba. Eppure erano le mie amiche più care, quelle a cui raccontavo tutto di me, quelle di cui mi fidavo per davvero.
E così quel giorno, che allora fu all’inizio solo uno dei tanti giorni della mia vita, si staglia evidente e iperrealistico in quel mare oscuro di ricordi che ha preso il posto della mia giovinezza.
Era una gita come tante altre, sai, una di quelle che dopo mezzora in classe si esce con gli zainetti sulle spalle e si cammina in fila per due dietro alla professoressa chiacchierando con quelle che hai vicino, passando per le strade della città prendendo in giro quel tizio per i capelli lunghi, quell’altra perché è grassa e quella ragazza perché è vestita da scema. E l’ultima cosa che vorresti fare è entrare in una chiesa fondata qualcosa come mille e più anni fa e sentire la prof che ti racconta di imperatori, condottieri e pittori del cavolo che sono morti da secoli.
E così, forse non sai quanto è strano, mi sorprendo a ricordare le parole che abbiamo detto in quel tragitto, che non contava nulla allora, come cose importanti, perché dopo è successo quello che è successo, quando invece vorrei ricordare altri momenti passati con quelle ragazze … ma non ci riesco. E continuo a ricordare quei momenti stupendomi di quanto poco mi interessasse di quella visita di studio che invece fu così disastrosa.
Comunque salimmo su per la strada che hai fatto te stamattina per arrivare a scuola, superando la scuola, che io avevo frequentato fino a all’anno prima, e continuammo a salire sotto a quel bel sole di aprile arrivando per le dieci davanti a quell’edificio pieno di guglie e col portale fittamente scolpito con figure assurde e orrende che popolarono i miei incubi per tutti i mesi successivi, mentre guarivo con incredibile lentezza dalle ustioni.
Eravamo 23 in classe, maschi e femmine, e alcuni stavano con me fin dalla prima elementare, e con noi c’erano due professori.
Il professor Giunti, di matematica, un ridicolo ometto che per quel che mi ricordo pesava meno della metà dei miei compagni e zoppicava per una ferita dei tempi della guerra, diceva lui, e che comunque stava lì solo per arrivare alla pensione, e la professoressa Amantini. Era un nome strano, te lo ricordavi facilmente, ma lei era una donnina semplice e minuta, con quei capelli a muccio e gli occhiali, allora le avrei dato qualcosa come cinquantacinque anni, ma ho scoperto dopo che ne aveva trentaquattro … era una cara donna, sai, gentile ma inflessibile, ti interrogava e voleva che sapessi tutto quello che ti aveva spiegato. Una donna infelice, senza alcun dubbio, e la vidi davvero sorridere solo in due occasioni. Quando ci portò al museo della cattedrale e quel giorno lì. Lei ci spiegava i poeti e Dante, e bene, credimi, ma amava l’archeologia e l’arte. C’erano dei bei quadri lì, sai, uno o due si diceva che fossero di Caravaggio, storie bibliche di leviatani e giudizi universali, ma anche loro … PUFF! Un attimo e sono volati via per sempre.
Comunque siamo arrivati davanti a quel portale enorme e bellissimo, e c’era il sole caldo che ti ho detto, e siamo entrati tra quei battenti di legno scuro e dentro c’era buio, e freddo, quasi, e la prof Amantini camminava davanti a noi …

lunedì 26 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XIV.

3

Carla

Seduta a capotavola, sì, va be’, due sedie c’erano, seduta a tavola, Carla si guardava intorno cercando difetti. I quadri, regalati dal papà che si riteneva un intenditore, erano dritti. Le tende erano pulite, il pavimento spazzato e lavato, con una abbondante mano di cera, tra l’altro, e aveva pulito con cura anche sotto ai mobili, dove non le pareva che si annidassero orrendi riccioli di povere.
Amalia sarebbe stata la prima persona a essere ospite in casa sua, sua!, e voleva fare una bella figura.
Tirò fuori dal frigo i pasticcini che aveva comprato, bignè, cannoli e tortine strambe ma piene di creme appetitose, controllò che il tè fosse ancora caldo e posò la caffettiera, pronta per metterla sul fuoco, sui fornelli. Mancava qualcosa? No, non le sembrava.
Si alzò e fece un giro della casa, tutte e tre le camere le sembravano in ordine e il bagno, lo aveva lavato due volte per sicurezza, pensava davvero che fosse come uno di quei bagni delle pubblicità dove un bambino, evidentemente deficiente, sta coricato in terra a giocare con le macchinine. Ma non ce l’ha una stanza sua, cazzo, ma sul pavimento del bagno? Con il suo fazzoletto tentò di togliere un alone dallo specchio, ottenendo solo un alone più vasto e sfumato, controllò di non avere pezzetti di insalata nei denti, il che sarebbe stato difficile essendosi lavata i suddetti denti per tre minuti e non avendo mangiato insalata da tre giorni.
Tornò in cucina, guardò l’orologio, erano le cinque e ventisei e Amalia doveva arrivare per le cinque e trenta, prese il giornale e cominciò a scorrere le notizie in prima pagina per fare passare i minuti. Obama qua, Romney là, E il Berlusca si ritira, e il Berlusca rilancia, Renzi dice questo, Bersani risponde quello. Ogni volta che leggeva quelle notizie le sembravano di più un teatrino dei pupi, dove ogni personaggio arrivava sul palco e diceva le sue battute. “Io sono il Cavaliere e le donne fo godere.” diceva il pupo basso e color mattone, e saliva l’altro e diceva “Io sono il segretario e non sto qui a smacchiar il giaguario”, sì, lo sapeva, le rime non erano mai state il suo forte, e il prode presidente nero, e l’infido pretendente miliardario … che vincesse uno o l’altro, chissà perché, andava sempre a finire che c’erano guerre, più tasse ai poveri e più inquinamento.
- Mah! – disse chiudendo il giornale e rimettendolo al suo posto sul mobiletto, - Sto proprio diventando una vecchia brontolona. - e mentre controllava di nuovo l’orologio, ore cinque e trenta minuti e sedici secondi, sentì suonare alla porta. Corse a rispondere e disse al citofono, sorridendo, come se Amalia avesse potuto vederla, - Chi è? –
- Sono Amalia. – disse la voce allegra della bidella.
Carla schiacciò il tasto e sentì il rumore del portone che si apriva. – Sono al terzo piano. Vengo a prenderti con l’ascensore? –
- No grazie, cara, risparmio sulla palestra. – le rispose Amalia e Carla aprì la porta che dava sulla scala più anonima e triste che avesse mai visto. Dopo meno di un minuto Amalia sbucò sul pianerottolo con un pacchetto in mano. Era una confezione di dolci artigianali, una di quelle dove si è soliti stipare vari tipi di bignè, cannoli e tortine strambe piene di creme appetitose.
- Ho portato qualche dolcetto. – disse sorridendo Amalia e Carla, facendola entrare con il sorriso sulle labbra, le indicò lo stesso medesimo pacchetto, pure il fiocco del nastrino dorato era uguale, già posato sul tavolo. Le due donne si guardarono e scoppiarono a ridere incontrollabilmente. Quando riuscirono di nuovo a guardarsi senza essere sopraffatte dalle risate, erano ormai amiche.
- Io riesco a mangiarne moltissime. – disse ridendo ancora Carla.
- Io non ho mai avuto un fondo, se è per questo. – le rispose Amalia, e posò sul tavolo il suo cabaret di dolci accanto all’altro. Due bellissimi gemellini, non c’è che dire.
Carla prese la giacca di Amalia, che vestita da donna e non da bidella era una graziosa signora di cinquant’anni che ne dimostrava forse cinque di meno, e andò a posarla sul letto, poi tornò in cucina e trovò l’amica che guardava dalla finestra. – Strada abbastanza anonima, vero? –
- Niente a che fare con l’altro lato. –
- Eh sì. – disse Amalia. Poi si girò e le chiese: - Abiti qui da tanto? –
-Una settimana. Giusto il tempo di portare qualche mobile, alcuni c’erano, sai?, e dare una pulita. –
- È strano vivere in una casa nuova, no? Ci si sente come estranei, e al risveglio, non si sa bene dove si è, vero? –
Carla annuì sorridendo e poi disse: - Per non parlare di quando ci si alza di notte per andare in bagno. Se accendi la luce ti passa il sonno, ma … -
- Ma se tieni le luci spente picchi in tutti gli spigoli. – finì la frase Amalia e di nuovo risero.
- Pasticcino? – le chiese Carla prendendo la sua confezione.
- Sì grazie. –
- Caffè o tè? –
- Caffè, grazie. –
Carla si alzò, accese il fornello e tenne la manopola schiacciata per qualche secondo perché rimanesse acceso. Provò, non ancora, aspettò altri due o tre secondi, ora sì, e mise su la caffettiera. – Tra tre minuti avrai il tuo caffè. Sappi che non mi è mai venuto buono in vita mia. –
- Non c’è problema. Ci metto sempre una goccia di latte. –
Carla aprì il frigo e tirò fuori una confezione di latte da mezzo litro. La posò sul tavolo accanto alla tazzina di Amalia. Poi vicino alla tazzina a e al latte posò un piattino da dolci con vezzosi disegni di animaletti saltellanti che nella fantasia del ceramista dovevano essere coniglietti.
- Latte intero? – le chiese Amalia.
- Volevi il latte scremato? –
- Neanche pagata. Temevo che fossi una da latte scremato o da latte di soia, - e la sua faccia si arricciò in un’espressione di disgusto quando disse “latte di soia” – Sai, sei così in forma. –
- Grazie. Non è merito mio, quando mangio sono abbastanza simile a una fogna. Quando il metabolismo mi molla … - e fece un cenno allargando i gomiti e facendo un verso come di qualcosa che cede sotto al suo stesso peso – Divento una sfera. – e rise.
Amalia sorrise e disse: - Basta sposarsi prima. Tanto dopo un paio di anni di matrimonio, e io sono ormai a ventuno, che tu sia Cameron Diaz o Katie Bates, per tuo marito sarai sempre quella cosa voluminosa che gli russa accanto. –
- Mi hai fatto venire voglia di sposarmi, sai? –
- Dovere. Tra amiche ci si aiuta. – e tutte e due risero. Poi Carla si alzò, controllò la caffettiera e spense il fornello quando fu piena. Tornò al tavolo, riempì la tazzina di Amalia che completò il caffè con una goccina di latte, si sedette anche lei, mise anche lei un po’ di latte nel caffè e, quando tutte e due ebbero un paio di bignè nel piatto, Amalia disse: - Vorrai sapere dell’attentato, no? –

domenica 25 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XIII.

2

Amalia

Diede una scorsa al modello e sorrise. Si ricordava bene, rovescio, rovescio, togliere un punto, dritto, dritto e ancora rovescio. Fece velocemente i punti, si aggiustò con cura il gomitolo accanto alle ginocchia e allontanò la maglia. Così più da lontano si vedeva già bene il disegno. – Sì. Sì, sì, sì, sì! – disse e fece per ricominciare a sferruzzare, quando vide che la giovane maestra era di nuovo lì davanti alla finestra.
La squadrò con spietatezza femminile e, tranne le gambe forse appena un po’ corte, la trovò bella. E quel caschetto un po’ disordinato che continuava a arruffare con le dita era davvero adatto alla sua faccia simpatica. Appoggiò i ferri sul tavolo, spostò il gomitolo accanto a loro stando attenta che non rotolasse a terra, e si alzò per andare a vedere cosa stesse guardando la ragazza.
- Salve. – le disse mettendosi in piedi accanto a lei.
- Salve! – le rispose la ragazza sorridendo. – Io sono Carla Damiani. – e le piazzò davanti una manina dalle dita lunghe e sottili.
- Amalia Fascia. – disse lei stringendogliela. – È la nuova maestra della terza C.? –
- Sì. – guardò fuori i bambini che correvano e si passavano una palla, forse il mitico supertele della sua infanzia al mare. – Quelli sono i miei ragazzi. –
- Li conosco. Quasi tutti loro due anni fa venivano periodicamente a piangere al mio tavolo perché volevano tornare a casa. –
- Quasi tutti? –
Amalia ci pensò su, poi disse: - Tutti meno uno. –
- Alessandro? – chiese la maestrina.
- Sì. – la guardò un po’ stupita, e poi: - Sa già tutti i nomi? –
La ragazza fece una smorfia buffa mordendosi il labbro, poi indicò col dito un ragazzino dopo l’altro. - Alessandro, Miguel, Tatiana, Samantha, Christian e Mario. –
- E gli altri? –
- X, Y e Z. più altre lettere varie. –
- Ma Alessandro lo sapeva, e? –
- Lo si nota subito, no? –
- Sì. – disse Amalia. Poi guardò cosa stavano facendo i bimbi e disse: - Guardi un po’ cosa stanno facendo. –
Due ragazzini stavano litigando, poi quello un po’ più alto diede uno spintone all’altro, al che quello si rialzò e gli si gettò contro. Carla stava già per correre giù a fermarli, senza ricordarsi assolutamente i loro nomi tra l’altro, ma Amalia la fermò. – Aspetti un attimo. – e così Carla poté vedere una scena davvero inaspettata. Alessandro si alzò dall’angolo in cui era seduto e si andò a mettere in mezzo ai due litiganti. Carla si ricordò uno dei detti famosi di suo padre “Chi sparte ha la meglia parte” e si aspettò di vedere anche lui finire a terra, ma gli altri due si fermarono subito.
- Ma che il diavolo … - disse Carla mentre i suoi occhi si spalancavano fino a farla sembrare la protagonista di un manga, mentre Alessandro si metteva a parlare a quei due che non solo non gli rispondevano male, ma stavano a testa bassa e annuivano. Poi lui prese le loro mani e gliele fece stringere. Poi si allontanò con le mani in tasca guardando verso la finestra. Quando i suoi occhi incrociarono quelli di Carla le sorrise e fece un minuscolo cenno col capo.
- Cazzo! Mai visto una cosa simile. –
Amalia sorrise e disse: - Impressionante, eh? È così fin dall’asilo, se c’è lui non ci sono mai liti. Arriva e li ferma. E se hanno problemi di qualunque genere, vanno da lui che li ascolta e li consiglia. –
- Mio Dio. –
- Eh sì. Però è buono. Il bambino più buono del mondo. –
Carla la guardò tentando di capire quanto quella bidella fosse affidabile, poi disse: - Piace molto anche alla Gomez. –
Amalia la guardò e sorrise ammiccando. – Sì. È l’unico bambino di cui le interessi, gli altri li potrebbe anche cucinare al forno. –
- Ah! Ah! –
- Le ha già parlato? –
- Sì. Penso che avrebbe preferito parlare con una cacca di mucca, se mi permette il termine. –
- Certo lei non è la Traverso. – disse la bidella.
- Anche lei pensa che si trattasse di una donna davvero straordinaria? –
Amalia la guardò, poi controllò che fossero sole e disse: - Le dà fastidio sentire parlare male di una morta? –
- Vada pure. Io amo parlare male dei morti, tendono a non offendersi. –
Amalia sorrise con almeno trecentoventi denti e disse: - Penso che fosse una cagna. Una schifosa cagna bastarda. Dicono che la sua auto si sia ribaltata perché un cane le ha attraversato la strada. Se incontro quel cane gli offro del filetto.
Avrebbe dovuto vedere quelle due, la Gomez e la Traverso, sempre attaccate a quel bambino, c’era da avere paura che se lo mangiassero, sembrava che fosse coperto di miele ai loro occhi. –
- Capisco. –
- O no. Mi creda, non può capire. Se lo mangiavano con gli occhi, avevo paura per lui. –
(15-10-2012)Carla pensò che il discorso stesse davvero degenerando e pensò bene di cambiare argomento. – Bello ‘sto posto però, dalla strada del bus là in fondo non lo si vede proprio. –
Amalia sorrise e disse: - Eh sì. Anche quando ci sono arrivata a sette anni, mi era sembrato un regno incantato, tipo quei film strambi che fanno adesso, che uno entra in un armadio e si trova in un mondo pieno di bestie strane. –
- Effettivamente l’effetto è un po’ quello. Quando ho aperto la finestra stamattina, dovevo innaffiare le piante a una vicina, ho pensato di vederci male. –
- Una bella collinetta piena di alberi. –
- E in cima la villa ultra lusso. –
- Quella quando sono arrivata io non c’era. –
Carla guardò un attimo l’orologio, mancavano ancora cinque minuti alla fine dell’intervallo. C’era tempo per ancora un po’ di chiacchiere con la persona più simpatica che avesse conosciuto da quando era arrivata a Genova. – E cosa c’era? –
Amalia la guardò con espressione sinceramente stupita, poi le chiese: - Non lo sa? –
- No. –
- Strano. Pensavo che si sapesse in tutta Italia. C’era una grande chiesa, la chiesa della Pigna. Stava lì da qualcosa come 1500 anni, la fondò Costantino, pare. –
- E perché dovrei saperlo? –
- Perché esplose per un attentato. Morirono una quarantina di persone. –
- Quando? Io non l’ho mai sentito. –
- Nel 1974. Io andavo in prima media allora. –
- E stava già qui? –
In quel momento suonò la campanella e i bambino cominciarono a sciamare verso la scuola. Carla doveva rientrare, ma aspettò la risposta di Amalia. Questa le sorrise, si sollevò la manica mostrando una cicatrice dalla pelle rosea e apparentemente molliccia che le occupava gran parte dell’avambraccio. – Io ero a due metri dalla porta quando quel tizio si fece esplodere. Fui l’unica a salvarmi della mia classe.
Carla si diresse verso la porta dell’aula mentre i bambini si affacciavano nel corridoio dalle scale, si voltò a guardare Amalia e sperò che la bidella capisse dal suo sguardo cosa le chiedeva. E Amalia le fece un cenno con la mano, come se stesse arrotolando un filo col dito. Ne parliamo dopo, voleva dire quel gesto, dopo ti racconterò tutto.

sabato 24 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XII.

1

Carla

Uscì di casa alle nove meno dieci, meno nove a voler essere brutalmente sinceri, e l’appuntamento con la preside Gomez, ma che cacchio di nome ha?, era per le nove e un quarto.
Ventiquattro minuti, non pochi di sicuro, se non fosse stato che Carla non aveva la minima idea della strada che da quella casa l’avrebbe portata alla scuola. E se fosse stata in salita? Era ottobre, ma col sole faceva ancora abbastanza caldo, e arrivare al lavoro con i goccioloni sulla fronte e le ascelle pezzate odorando come una stalla non le sembrava una grandissima idea.
E in più, porcaloca!, bagnando le piante della vicina, si era fatta cadere dell’acqua fangosa sulla gonna e le era rimasto un alone di umido che sicuramente, da asciutto, avrebbe assunto una gradevolissima colorazione grigiastra. Si affrettò per la strada che le avevano detto al telefono due giorni prima, via della Pigna, guardando intorno a sé per scorgere i numeri degli edifici e se, da qualche parte, spuntasse per caso un qualcosa di anche lontanamente simile a una scuola.
Continuò a salire per quella strada tortuosa che aveva visto poco prima dalla finestra, sentendo il rumore del traffico cittadino affievolirsi sempre più mentre al naso le arrivava un inconfondibile odore di bosco. C’erano alberi lì, alberi e prati, e tanta terra lasciata al naturale. Boh! In mezzo alla città!
Svoltò all’ennesima curva, e pensando di avere ormai sorpassato la scuola, era stata sul punto di tornar più volte volta, ma proprio allora vide davanti a sé un grande palazzo massiccio e severo, probabilmente una villa ottocentesca, che incombeva su di lei da dietro a un muro di cinta con tanto di cocci di bottiglia, muro che nascondeva molto male degli alberi dalle foglie ormai tendenti al giallo.
Si avvicinò al cancello e vide l’insegna che diceva “Scuola elementare Giuseppe Garibaldi”. Suonò il campanello e una bidella dalla bruttezza quasi mitologica la venne a prendere facendola entrare in un giardino che, doveva essere davvero di cattivo umore per vedere tutto così nero, sembrava in tutto e per tutto il bosco dei film horror, quello vicino al cimitero, sapete, proprio quello in cui di notte c’è sempre una nebbia fitta e bianca, alta sì e no quindici centimetri.
In mezzo agli alberi c’era una statua dedicata a Peppino Garibaldi, lo aveva sempre chiamato così suo padre, come se fossero stati compagni di scuola, e l’unica dicitura sotto al nome era: “Eroe dei Due Mondi”, con maiuscole la D di due e la M di mondi. Boh!
Seguì la bidella, bassa, grassa, con una faccia da tartaruga stitica e le braccia lunghe quasi come le gambe, o erano le gambe che erano corte quasi quanto le braccia?, ed entrò nell’edificio che almeno era molto ben illuminato. Un po’ caldo, ci saranno stati cinque gradi più che all’esterno, e non è che fuori si tremasse. salirono al primo piano e la bidella le indicò la porta della preside.
Specchiandosi nella porta, appena appena lucida, potrete capire, si riaggiustò come meglio poteva il caschetto. Sorrise e tacchete!, di nuovo la testa si inclinò, borbottò a mezza voce una bestemmia, poi bussò.
- Avanti! – disse una voce severa, una voce con i capelli raccolti a crocchio e gli occhiali dalle lenti a mezzaluna, una voce alta e magra e con gonna sotto al ginocchio e tailleur grigi o marroni. Aprì ed entrò e, per un breve istante, temette di scoppiare a ridere in faccia alla preside Gomez.
Era alta, magra, con gonna sotto al ginocchio grigia, tailleur grigio, capelli castani percorsi da fili grigi raccolti a crocchio e occhiali a lunetta. Solo che aveva anche una notevole faccia da stronza, una vera e propria signora Rottermaier senza possibilità di riscatto, una rompicoglioni cosmica insomma.
- Salve, preside Gomez. Sono Carla Damiani, e si accorse che la sua testa si era mossa nel suo solito infido inchino laterale mentre lei si sforzava di allargare la bocca in un sorriso gioviale ma serio. “Cazzo!” pensò continuando a sorridere e porgendo la mano alla donna in grigio.
La Gomez le guardò la mano come se fosse stata uno strano animale di quelli un po’ disgustosi, serpenti, vermi, tarantole, sapete, e gliela strinse con evidente e per nulla malcelato fastidio. – Lei è la supplente. – disse e la parola supplente in bocca a lei sembrò una medicina disgustose e, probabilmente, inutile.
- Sì. Sono qui per sostituire la signorina Traverso. – disse sedendosi sulla sedia che la Gomez le aveva indicato con un furtivo gesto della mano.
- Dottoressa Traverso. – disse la Gomez con la sua voce fredda e sibilante. – La dottoressa Traverso era laureata in Scienze dell’Educazione. Era molto titolata per il suo lavoro, e la sua morte è stata una vera tragedia. –
Se prima aveva avuto caldo, la freddezza di quelle parole le aveva fatto venire i brividi. – Anche io sono laureata in Scienze dell’Educazione. 110 e lode. –
La Gomez la ignorò facendo molta attenzione a farglielo notare, se mi capite, e disse: - La dottoressa Traverso era molto amata dai suoi alunni e stava ottenendo da loro ottimi risultati. Era un’insegnante davvero straordinaria. Sotto molti aspetti. – disse la Gomez volendo evidentemente farle intendere che lei invece era tutto il contrario, ma di più. Quello che ottenne fu invece di fare apparire chiarissima alla mente di Carla una immagine in 3D e Dolby surround della Gomez e della Traverso, che lei visualizzò come una quarantenne un po’ molliccia con la faccia da cagna, che avevano un animalesco e sudaticcio rapporto lesbico sulla scrivania che si trovava davanti. Sorrise sperando di non essere presa da uno dei suoi irrefrenabili attacchi di ridarella e annuì dicendo: - Spero di continuare a ottenere ottimi risultati dai miei alunni. Non dovrebbe essere impossibile riuscirci dopo l’ottimo lavoro svolto dalla mia collega. –
- Speriamo che succeda, signorina Damiani, speriamolo davvero per quei poveri bambini. – e tutte e due notarono che per lei il titolo di dottoressa, malgrado la laurea che se ne stava appesa in una bella cornice a casa dei suoi a Fabriano, non era per ora adoperabile.
Allora la Gomez si alzò e le disse, come lo si sarebbe potuto dire a un cane disubbidiente: - Mi segua, andiamo dai suoi ragazzi. – e Carla la seguì potendo apprezzare la secchezza dei polpacci della Gomez. Come sempre quando odiava qualcuno che le era superiore, se la immaginò nuda, e quell’immagine di vecchia lucertola avvizzita la fece sorridere. Salirono al terzo piano e camminarono per un largo corridoio pieno di piante. Sembrava il salotto della vicina, più simile a una foresta del triassico che a un ambiente pubblico. La Gomez si fermò davanti a una porta, 3a C vi stava scritto sopra, e si voltò a guardarla con severità. Avrebbe evidentemente preferito affidare quei poveri bambini affranti a Erode, piuttosto che a lei, ma tant’è. Carla le sorrise con un’espressione placidamente bovina e si aspettò che quella faccia secca e incartapecorita le avrebbe risposto con un sibilare da serpe, ma la Gomez si girò di nuovo e aprì la porta.
- Ragazzi. – disse entrando e tutti i bambini si alzarono scattando su un attenti proporzionato alla loro età di novenni. – Questa signorina è la vostra nuova maestra, la signorina Carla Damiani. Voi dovrete chiamarla “signora maestra” o “signora Damiani”. Avete capito? –
Carla si sentì come una vacca esposta in una di quelle fiere dove i compratori in cappello da cow boy valutano le vacche con una palpatina alle poppe e una alle cosce, era quasi sicura che uno dei bambini avrebbe alzato una mano facendo una offerta in euro, offerta che sarebbe stata naturalmente molto più bassa di quelle che sarebbero state fatte per la compianta e ottima dottoressa Traverso. Invece i bambini risposero in coro – Buongiorno signora maestra! – e, malgrado tra di loro vi fossero alcuni dei bambini più brutti che avesse avuto l’occasione di vedere in vita sua, le parvero simpatici. Notò soprattutto uno di loro, nel primo banco vicino alla finestra. Era alto e aveva le spalle larghe, sembrava più grande della sua età, ma aveva enormi occhi verdi e la pelle ambrata da mediorientale. Se non si era sbagliata, ed era sicura di non averlo fatto, tutti si erano alzati dopo di lui e anche il saluto era partito da lui.
Guardò la Gomez sorridendo e la vide guardare il ragazzetto bello e alto, sembrava che se lo mangiasse con gli occhi. Le bastò quella breve occhiata per capire che gli ottimi risultati della straordinaria insegnante che l’aveva preceduta lì prima di ribaltarsi con la sua auto, venivano soprattutto da lui. O che almeno solo i suoi risultati erano importanti per quella vecchia cariatide rinsecchita.

venerdì 23 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XI.

II

Primo giorno di scuola

Carla si alzò dal letto con gli occhi estremamente cisposi. Arrancò sui piedi indecisi di un morto di sonno fino al bagno, accese la luce maledicendo chi l’aveva inventata e si risciacquò la faccia. Quel fresco la svegliò, almeno un po’, e poté guardarsi allo specchio. Sulla guancia c’erano i segni delle pieghe del lenzuolo, vedeva persino l’impronta del bottone automatico della federa.
I capelli, che portava tagliati in uno sbarazzino caschetto, erano adesso sparati per aria come dopo l’esplosione di una bomba a mano. Lo sguardo era senza dubbio quello di una fattona di canne varie ed eventuali, e così sarebbe rimasto fino a dopo la doccia. Strinse gli occhi e si guardò male. – Non mi piaci. – si disse, poi atteggiò la faccia in un sorriso e disse: - Così mi piaci. Ora hai la faccia da maestrina dalla penna rossa. – scosse il capo, fece un ghigno e poi si fece da sola una pernacchia. Non avendo mai imparato a farle per bene, sputacchiò un bel po’ di saliva sullo specchio e, tentando di asciugarlo con la mano, lo riempì di aloni.
- Perfetto. – disse. Si sfilò la maglia del pigiama e slacciò il cordoncino che reggeva i pantaloni, si sfilò le mutandine rosa e le fece cadere a terra, si sedette sul water e pisciò mentre si controllava lo sporco sotto alle unghie. – Ma come cazzo fa? – disse a bassa voce ripensando alle mani di sua madre, sempre perfette e linde come quelle di un chirurgo. Le sue unghie, anche dopo il bagno e dopo averle tagliate, avevano sempre un po’ di sporco. – Cavolo! – disse alzandosi e asciugandosi con un paio di fogli di carta igienica.
Allungò una mano e aprì la doccia e, mentre l’acqua si scaldava, si esaminò la faccia alla ricerca di punti neri. Allargò bene la bocca, si fece una linguaccia, rise, si grattò il collo dicendo: - Cane da canile! – e poi infilò la mano sotto l’acqua. Andava bene, che fortuna.
Entrò nella doccia e si fece una doccetta veloce, lavandosi i capelli e insaponandosi sbadatamente. Cinque minuti dopo era già fuori ad asciugarsi con l’asciugamano grande, quello che mamma le aveva regalato quando si era trasferita lì per insegnare. Doveva lavarlo, cazzo, cominciava a puzzare di animaletto.
Camminando a piedi nudi, si era dimenticata le ciabatte, tornò in camera e andò a guardare attraverso le persiane chiuse. Palazzi grigiastri e tristi, negozi dalle vetrine pretenziose, utilitarie e autobus che passavano. e qua e là, sul marciapiede, panchine di cemento e alberetti striminziti. – Bel panorama del cavolo! – disse cominciando a vestirsi.
In mutandine e reggiseno posò sul letto due o tre possibili mise. Le guardava con l’occhio critico, chiedendosi quale fosse la migliore per presentarsi alla scuola. Maestra di terza elementare. Si specchiò tenendo ogni vestito davanti a sé, come quando da bambina ritagliava i vestiti da attaccare sulle sagomine di donne. Ogni volta sorrideva e diceva: - Salve! Sono Carla Damiani! – e piegava da un lato la testa. Per quanto tentasse di non farlo, quando diceva salve non poteva impedirselo. – Cazzo! Sembro una ritardata! –
Scelse la camicetta bianca con fiorellini blu, la gonna nera al ginocchio e la giacchettina di cotone blu. Si infilò le scarpe con cinque centimetri di tacco, nere ma serie, mezze da suora e mezze da vamp, e si guardò di nuovo nello specchio dell’armadio.
- Salve! – ed ecco di nuovo la testa che si abbassava, cazzo! – Sono Carla Damiani, la nuova maestra. –
Andò in cucina a farsi un caffè, erano almeno dieci anni che la sua colazione era sempre e solo un caffè con una goccia di latte, e vide il bigliettino appeso al frigo.
- Cazzo! – disse ricordandosi della vicina che era andata in Perù. – Le piante della vicina! – disse trangugiando il caffè, che le era venuto da schifo, tra l’altro, poi prese le chiavi che la vicina, Samantha con la H, le aveva dato la sera prima e uscì per andare nell’appartamento a fianco. Avrebbe finito di prepararsi dopo, c’era tempo.
Aprì la porta, tre mandate per tre serrature, e che cazzo c’hai qui dentro, Fort Knox, ed entrò nell’appartamento buio. Cercò a tentoni l’interruttore e accese la luce. – Bell’arredamento. Adatto a una Samantha con la H. – disse, poi andò alla cucina. L’innaffiatoio verde da sei litri era già nel lavandino, brava Samantha.
Lo riempì e poi cominciò a girare per il salotto innaffiando le piante d’appartamento. Kenzie, Pothos, Dracene, - Jurassic Park. – disse mentre cominciava a fischiettare la nota colonna sonora, poi andò alla finestra e la aprì per andare sul poggiolo. Quando aprì le persiane rimase senza fiato.
L’appartamento di Samantha dava sull’altro lato del palazzo, costruzione anonima che faceva parte di una muraglia di altrettanto anonime costruzioni di tutte le sfumature del grigio, tutte affacciate sull’anonima via cittadina che lei aveva appena visto. Ma qua, cazzo di Buddha, era tutta un’altra cosa. Davanti a sé Carla vide una collina alta forse un centinaio di metri, totalmente nascosta al resto del quartiere dai palazzi in cui si trovava, tutta ricoperta da piccole casette a due o tre piani, fino alla cima dove si trovava una dimora principesca, o almeno così le appariva da lì. E vedeva giardini, alberi, foglie tendenti al rosso per l’autunno appena cominciato. – Cazzo, ma che posto è? – disse bagnando le piante nei vasi, ammirando quel paesaggio bucolico totalmente inaspettato in mezzo a quel quartiere operaio e cittadino in cui era andata ad abitare.
Là, in mezzo a quel paesotto incantato, c’era la scuola in cui sarebbe andata a insegnare. Là in mezzo c’era il suo futuro.

giovedì 22 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. X.

8

Filippo.

Lo svegliò il sole. Le tende erano rimaste aperte, come anche le persiane, e la stanza dava a est. Il sole lo andò a illuminare meno di un’ora dopo l’alba. Sbatté le palpebre tentando di capire dove fosse, mentre i sogni che aveva fatto quella notte svanivano una scena alla volta dalla sua mente. Gli sembrava di ricordare tutto, di sapere tutto, ma già quando si trovò seduto sul letto si rese conto di non sapere bene cosa avesse sognato.
Scese dal letto e si stiracchiò facendo scricchiolare ogni singolo osso che aveva in corpo. Andò alla porta della madre e la vide che dormiva. Meglio, pensò, almeno non piange. Andò in bagno e si fece una lunga doccia, che si portò giù nello scarico tutti i ricordi dei sogni e anche la sensazione di terribile disagio che aveva provato al risveglio. Si lavò con cura le mani facendo andare via tutto il sangue che aveva ancora sotto alle unghie, poi si fece la barba, si pettinò e vedendo la fronte che si stava allargando, stava in realtà diventando un inizio di stempiatura, fu sicuro di doversi andare a tagliare i capelli.
Messosi dei vestiti puliti gironzolò ancora un po’ per casa, aspettando che si facesse un’ora decente, e si trovò di nuovo nella stanza dove era morto il padre. Non sentì nulla, come non sentì niente neanche per il suo cane. Quasi niente, al pensiero di quel povero corpo insanguinato abbandonato sul marciapiede in realtà gli venne quasi il groppo in gola. Ma niente in comune con la sera prima.
Sul comodino del padre vide le poche cose che gli avevano lasciato a portata di mano, e che fino a pochi giorni prima aveva usato. Telefono, agenda, penna, orologio e, ma questo glielo avevano tolto solo da morto, perché sulla mano rinsecchita che aveva usato per togliersi la maschera dell’ossigeno lo aveva visto, l’anello di famiglia.
Lo aveva sempre divertito vedere quell’anello sulle mani dei suoi antenati, fin dal primo, un Filippo Malerba suo omonimo vissuto nell’800 che si era fatto ritrarre in giacca, cravatta e baffoni d’ordinanza da milionario dell’epoca. Suo padre lo aveva indossato per venticinque anni, fin dalla morte del nonno. Lo prese e lo guardò.
Sembrava una vera, sennonché era un po’ più largo e spesso e portava uno stranissimo fregio, come dei graffi ravvicinati, quasi una scritta araba. – Un anello per trovarli … - disse a bassa voce mentre se lo rigirava tra le mani, sembrava davvero della sua misura, - Un anello per domarli … - aggiunse sorridendo, poi fece una faccia crudele e disse: - Il mio tessoro! – e rise di sé stesso. Poi si infilò l’anello e sentì una puntura.
Lo tolse in fretta e lo guardò con cura. Niente. Nessuna scalfittura, nessun graffio, nessuna punta. Era liscio come la pelle di una quindicenne, cazzo, eppure sul suo anulare destro c’era una minuscola goccia di sangue. Si avvicinò il dito alla bocca e succhiò quel puntino rosso. Guardò di nuovo e la ferita era sparita, tanto era piccola. Si rinfilò di nuovo l’anello stando molto attento, ma naturalmente non lo punse. Gli stava proprio bene, cazzo. Sembrava disegnato sul suo dito.
Si guardò allo specchio con l’anello bene in vista, e pensò di nuovo che quei capelli lunghi facevano davvero schifo sulla sua faccia ormai adulta. Mentre si tirava indietro i capelli con le mani per vedere come stava senza la zazzera, gli sembrò di vedere qualcosa. Una cosa così veloce da averla appena avvertita, un qualcosa sull’anello. Lo guardò di nuovo e gli parve che fosse diverso. Il fregio sembrava diverso. Non avrebbe saputo dire in cosa fosse diverso, ma ora gli sembrava più chiaro. Come quando intravedi una scritta e non fai in tempo a leggerla, ma sai se era in italiano o in inglese.
Mentre guardava ancora l’anello, sentì la madre che si alzava. Ora sarebbe cominciata la tragedia greca, ma come farò, ma perché sono ancora viva, quel santo di tuo padre, ma perché Dio ha preso lui, presto me ne andrò anch’io e così via. Dimenticò l’anello, ormai infilato al suo dito, come i sogni della notte prima, e andò ad ascoltare sua madre armandosi di tutta la pazienza che aveva.
Quando finalmente la madre se ne andò in bagno a lavarsi, dopo averlo rintronato per un’ora buona con tutto il repertorio della disperazione vedovile, lui entrò nello studio del padre.
Sulla scrivania c’erano i libri mastri dell’azienda, suo padre era molto all’antica e non aveva mai voluto usare il computer, costringendo i suoi assistenti a stampargli ogni singolo documento per farglielo leggere. Si sedette dove aveva sempre visto il padre, le rare volte che gli aveva permesso di entrare nel sancta sanctorum del suo lavoro, e cominciò a scorrere le paginate di dati. Lo avevano costretto a studiare economia e legge, due al prezzo di uno, e così capiva al volo tutte quelle paginate di numeri e termini astrusi. Negli ultimi tempi, prostrato dalla malattia, suo padre era stato molto disattento e sbadato. Cominciò a saltare da una pagina all’altra notando errori ed ammanchi sospetti, riuscendo quasi ad istinto a ricollegare ogni errore, o furto, a una persona ben precisa, come se avesse curato da sempre quegli affari.
- Cazzo che ladri ‘sti qua. – disse tra sé e sé, e finì in fretta di esaminare i libri segnando su un foglio di carta tutto quello che non andava. Cercò l’agenda del padre e trovò il numero della sua segretaria. – Anna. – disse, e poi fece il numero.
Le parlò per una decina di minuti, scoprendosi ogni secondo più sicuro, mettendosi infine d’accordo con lei per un giro della sede centrale per quel pomeriggio. La salutò con garbo e mise giù la cornetta.
Poi prese l’elenco telefonico e cercò il numero dell’ospedale Pastorino.
- La signorina Aisha Hafez? – chiese all’impiegata, ascoltò per un po’ e rispose: - Sono il signore che l’ha accompagnata ieri sera, i dottori lo sapranno. – ascoltò di nuovo annuendo due o tre volte, e poi chiese: - E in che stanza è la signorina? –
Ascoltò sorridendo la risposta della donna, scrisse un numero sullo stesso foglio di prima, salutò e mise giù. Strappò con cura la parte del foglio con il numero di stanza e se lo mise nel taschino della camicia. Uscì dallo studio e salutò la madre che era al telefono con una persona che stava evidentemente alluvionando con tutto il suo dolore come aveva fatto prima con lui.
Prima di prendere l’auto del padre in garage passò dal barbiere e si fece un bel taglio corto e professionale. Guardandosi nello specchio si piacque. A Kevin non sarebbe piaciuto, ma era morto e quasi non lo ricordava più. Era solo una cosa del passato.

mercoledì 21 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. IX.

7

Elena.

Erano ormai tre giorni che stava pronta per quel momento. Sarà stata una settimana che il pensiero che potesse accadere da un momento all’altro si era presentato alla sua mente, ma da tre giorni viveva nell’attesa del Biip prolungato della macchina.
Erano otto anni che assisteva i malati terminali, ottima cura per la gioia di vivere tra l’altro, e il signor Malerba secondo la sua esperienza aveva oltrepassato il limite già da tre giorni.
Il limite. Era la prima volta che dava un nome preciso a quella cosa che aveva visto tante volte, troppe, negli ultimi otto anni. Si può sopportare il dolore, si può sopportare la progressiva paralisi, si può sopportare di non essere più in grado di essere autonomi, neanche per deglutire la propria saliva, e si può sopportare anche un tumore che ti attacca un organo dopo l’altro facendoli morire piano piano, ma esiste un limite, un punto oltre al quale anche la persona più forte cede. Resisti, combatti, ti fai forza, ridi, scherzi, la prendi in ridere, oppure piangi e ti disperi, ma arriva quel punto oltre al quale semplicemente cedi.
E così, mentre la signora Malerba parlava col figlio, lei studiava quella piccola cosa sofferente che gonfiava appena le coperte da ospedale che la coprivano. Vicino a lei c’era il comò e sul comò la foto del matrimonio dei Malerba, una trentina di anni prima. Sarà pesato quaranta chili più di adesso, e sarà stato di quindici centimetri più alto. Il tumore lo aveva rosicchiato ormai del tutto, c’erano solo le ossa. Eppure continuava a vivere, appeso a quelle gocce della flebo che fissava ininterrottamente dalla sera prima.
Riguardò la foto. Erano giovani, ma brutti. Avevano un che di animalesco, delle facce infide. Lei soprattutto, le dava l’idea di un rettile pronto a morderti. E ora era uguale, solo più vecchia.
Il figlio invece era bello, alto e ben fatto. Certo che … mio Dio come si era presentato. Coperto di sangue come un macellaio, e in lacrime. Aveva detto alla madre che aveva aiutato una ragazza che era stata aggredita, l’aveva accompagnata all’ospedale e per quello era arrivato tre ore dopo quanto avesse detto al telefono.
E invece a lei, quando gli aveva portato una maglia per cambiarsi, lo aveva trovato che piangeva su una sedia con la faccia tra le mani, aveva detto che il sangue era soprattutto del cane. Gli avevano investito il cane mentre era all’ospedale con Aisha. Bel nome, come in una canzone molto ritmata che aveva sentito alla radio anni prima.
- Era il suo cane da molto? – gli aveva chiesto senza sapere bene cosa dire.
- Undici anni. L’ho lasciato legato a un palo, non potevo portarlo con me. – pianse di nuovo, ma emise un gemito, da anima dannata avrebbero detto in un romanzo ottocentesco, che la fece davvero sentire male per lui – L’ho abbandonato ed è morto. L’ho tradito. –
Elena lo guardò ancora per qualche secondo, un uomo quasi sulla trentina sporco di sangue, e con gli occhi di chi sta per cedere al dolore. E di là lo aspettava il padre moribondo. Senza quasi rendersene conto gli fece un’altra domanda. – Perché non ha detto del cane a sua madre? –
Lui alzò lo sguardo verso di lei, fece una cosa che assomigliava a un sorriso e disse: - Avrebbe detto che era solo un cane, magari avrebbe fatto un sorriso. L’avrei uccisa con le mie mani. –
Non scherzava. Se lei avesse sminuito la morte del suo amico l’avrebbe uccisa. Non stava piangendo per il padre, ma per il cane. L’unica sua foto in tutta la casa in cui sorridesse, era quella in cui era un diciassettenne con un cucciolo nero focato in braccio. Nelle altre, quelle con mamma e papà, non sorrideva mai. E neanche loro.
- Capisco. – gli disse.
Lui sorrise di nuovo, forse un po’ meglio. Poi disse: - Non può. Non può, mi creda. – e lei uscì lasciandolo da solo a cambiarsi. Tornò dal vecchio pensando di trovarlo morto, ma fissava ancora quella piccola goccia. Quando cadde lo vide gonfiare il petto mentre sulla fronte gli si formavano delle gocce di sudore enormi. Così doveva sudare Gesù nell’orto di Getsemani, pensò, e poi sentì il ragazzo che entrava. Si ritirò nel corridoio per lasciarli soli, ma nel grande specchio li vedeva bene.
Il ragazzo si mise in piedi davanti al letto in cui moriva il padre, ma questi non parve vederlo, stava fissando la flebo. Cadde una goccia e il poveretto gonfiò di nuovo il petto sembrando sforzarsi ancora più di prima.
Il figlio lo vide soffrire così orrendamente e strinse i pugni. Poi disse: - Papà. Dovevi dirmi qualcosa? –
Il vecchio voltò la testa lentamente, mise a fuoco il figlio e parve sorridere. Sollevò una mano ridotta ormai a un grumo di ossette rinsecchite e rattrappite, la usò per togliersi la mascherina, aprì la bocca per parlare e … fece uno sguardo strano, quasi divertito. Allargò gli occhi e la bocca in tre O perfette e Elena fu sicura, sicura per davvero, che si stesse chiedendo cosa avesse voluto dire di tanto importante al figlio. Rimase così per un breve istante, poi riappoggiò la testa al cuscino e i suoi occhi andarono a cercare il soffitto. Non lo trovarono, perché quasi subito si persero senza vedere più nulla.
E allora, dopo tre giorni che lo aspettava, Elena sentì quel biip e corse verso il letto scansando il ragazzo che continuava a fissare il padre. Se c’era davvero stata una cosa che il vecchio avesse voluto dirgli, proprio in quel preciso istante si stava perdendo nei neuroni morenti dell’uomo nel letto.
Elena gli prese il polso, non sentì la minima pulsazione, poi gli poggiò una mano sul petto e non sentì alcun movimento. Sollevò la mano e chiese gli occhi del vecchio. E come prima era stata totalmente sicura di quello che era stato l’ultimo pensiero di quell’uomo, in quel momento seppe che non c’era mai stato nulla che lui avesse voluto dire al figlio. Nulla.

martedì 20 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. VIII.

6

Il padre.

La gocciolina si gonfiò come una gemma su un albero a primavera, superò la dimensione che le permetteva di rimanersene su appesa e … PLIC cadde nel contenitore dove formò quattro cerchi concentrici. Fu solo quando si stava formando un’altra goccia, gonfiandosi lentamente sulla bocca del tubicino, che lui riuscì finalmente a respirare. Fu come riemergere da un abisso, come la volta che a sette anni era caduto nel lago ghiacciato quando il sottile strato bianco si era rotto e l’acqua gli aveva subito rubato tutto il calore corporeo. Aveva dovuto nuotare verso la superficie, ma era come muoversi con un vestito di piombo, i muscoli non volevano flettersi per riportarlo su.
Gonfiò il torace, non aveva mai imparato a respirare di diaframma e forse ora lo rimpiangeva, riuscì a gonfiarlo facendo uno sforzo tipo Ercole che soffoca Anteo, e sentì l’aria infilarglisi giù per la gola stretta come i cordoni della borsa di un avaro quando gli chiedi dei soldi, e poté ascoltare con le sue vecchie orecchie il gorgoglio di quello schifoso liquido che lo stava annegando da dentro.
Buttò fuori l’aria che doveva sapere di morte come lui adesso, e si preparò allo sforzo necessario per il prossimo respiro. Avrebbe aspettato altre tre gocce nella flebo, mentre il mondo attorno a lui si faceva più buio e confuso e il mormorio dell’ossigeno che lo aiutava a vivere riempiva la stanza.
Aveva avuto un nome, una volta, ma non lo ricordava più. Aveva avuto una moglie, e l’aveva ancora perché ogni ora veniva da lui a parlargli e a tenergli la mano, ma ricordarsi di lei sarebbe stato uno sforzo troppo grosso. Doveva respirare, e già quello era quasi impossibile.
Fino al giorno prima ce l’aveva fatta a pensare a quello schifoso cancro maligno che gli stava invadendo i polmoni, oltre che una buona metà di tutti gli altri suoi organi, ma ora era come un alpinista che abbia superato gli ottomila metri. Ogni singolo passo era come una parete di roccia, ogni respiro era come un giro di campo a tutta velocità. Cadde la terza goccia e lui gonfiò il petto. Il male seduto sul suo sterno rise dei suoi sforzi, lo vide quasi cedere, ma alla fine un piccolo soffio d’aria fresca riuscì ad entrare. I polmoni gli bruciavano incredibilmente quando respirava, ma subito tutto fu più chiaro, il soffitto ritornò bianco e il mormorio dell’ossigeno riprese il suo ritmo.
Espirò mentre una lacrima gli scendeva sulla guancia fino all’orecchio. Si rimise a contare le gocce. La vide alla bocca del tubicino, la seguì mentre sembrava ingravidarsi ogni secondo di più, la vide cadere. Uno. ancora due e avrebbe di nuovo respirato.
A questo si era ridotto il suo mondo. A contare le gocce e a gonfiare a fatica il petto che gli sembrava gravato da un masso a ogni goccia più pesante. Ma Filippo stava per arrivare.
Non ricordava il suo nome, non ricordava la moglie, non ricordava neanche più quando il respiro era stata una cosa innata, di cui neanche si accorgeva. Ma ricordava Filippo. Più il mondo si restringeva attorno a lui, prima la casa e l’ospedale, poi quella stanza e il bagno, e poi quella stanza e poi il letto, e ora, proprio ora, una goccia e uno spicchio di soffitto sopra di lui, più quel figlio per nulla amato risaltava tra le altre cose.
Si era reso conto di dovergli parlare, poteva sopportare quell’agonia all’infinito, pur di potergli parlare. Non ricordava neanche cosa dovesse dirgli, lo avrebbe ricordato al momento, con un po’ di fortuna, ma sapeva, la sua mente lo urlava in quel silenzio mormorante che era diventato il suo mondo, che doveva vederlo lì davanti a sé, per potergli dire … cadde la terza goccia. Raccolse tutte le sue forze e spostò il monte di roccia che gli stava appoggiato sul petto, un monte di roccia che rideva di lui, gonfiò il petto e sentì l’aria fredda della bombola che gli si infilava giù come acqua su un terreno spaccato dalla siccità, e per un attimo vide meglio il viso del figlio.
Sputò fuori quell’aria dai suoi polmoni allagati e si rimise a fissare la flebo. La goccia si stava appena cominciando a formare. Presto sarebbe sbocciata in un PLIC che si sarebbe perso nel gorgogliare dell’ossigeno. E dopo di lei ci sarebbe stata un’altra goccia, e poi un’altra. E così fino all’arrivo di Filippo. Gli avrebbe parlato, gli avrebbe detto quello che doveva quando lo avesse visto lì davanti al letto e poi, poi avrebbe potuto chiudere gli occhi e fregarsene di spostare quel masso. La goccia cadde.

lunedì 19 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. VII.

5

Il guidatore.

Naturalmente aveva preso la strada sul lungo torrente, era diretta e quasi totalmente priva di traffico. Di giorno si doveva vedere il greto del torrente, l’acqua quasi mai, se non pioveva forte, e arbusti e cespugli vari tra le pietre, e forse graffiti privi di senso e di valore artistico sui muri di cemento degli argini. Ma a quell’ora, col buio, sembrava quasi di andare in una galleria, sparati in un tubo buio rischiarato solo dai lampioni e dai fari dell’auto.
Stava tornando a casa, lì ci sarebbero stati la moglie e i figli. Due chiacchiere con i figli, come andata a scuola, cosa hai imparato, cosa ti ha detto poi quel tuo amico, l’hai fatta ginnastica o ti faceva male la gamba? E due chiacchiere con Elsa, come è andata al lavoro, ma hai visto quel politico cosa non si è rubato, hai cambiato pettinatura, cosa devo comprare dall’edicola, anche la settimana enigmistica, no, solo il giornale.
E poi, cosa c’è per cena, buono, e abbiamo del dolce, no, ne hai un po’ da parte solo per me, ce l’ho anche io qualcosa per te, sì ma in silenzio che mi sa che i bambini ci hanno sentiti l’altra volta, e potremmo fare quella cosa che , sai, è un po’ che non la facciamo, eh sì caro, mi sa tanto che la faremo.
E infine lavarsi i denti, mettere la sveglia, dormire. E domani, di nuovo al lavoro.
E mentre pensava alla sua vita passando in rassegna una giornata normale con le sue normalissime cose, mise la freccia a sinistra. Svoltò e si infilò nella strada tra i palazzi. Fischiettava un motivetto che non ricordava bene, qualcosa di un film di azione, e si vedeva passare in testa delle immagini, roba tipo Steve McQueen che guidava in città sgommando tra i passanti, e quel film del tizio che trasportava roba per la mala, mica male la cinesina di quel film, se la sarebbe ripassata ben volentieri, e intanto svoltava ancora a sinistra, su per una stradina tutta curve che sembrava uscita dalla campagna per andare a incunearsi in mezzo alla città
Aggredì la strada a velocità molto alta, sbandando un po’ alla seconda curva a sinistra, e per poco non picchiò nell’ambulanza che scendeva. Aveva le sirene, cazzo, e non l’aveva sentita. Li lasciò passare e intravide dentro , un ragazzo coi capelli lunghi, chino su una barella che lui non poteva vedere. Avevano fretta, molta fretta, qualcuno si era fatto davvero male. E non avrebbe più potuto correre in auto, si sorprese a pensare, avrebbe avuto una vita noiosa. Ma che diavolo di pensiero ho fatto? Pensò, e che ci faccio qua su? Era tardi, sarebbe arrivato con la pasta già in tavola, Elsa si sarebbe incazzata, niente dolce poi, allungò la mano per mettere la freccia, avrebbe dovuto fare un’inversione a U, la mise, guardò alle sue spalle, mise la prima e … ricominciò a salire. Boh! Ma perché cavolo si era rimesso a salire, che era tardi. Ricominciò a fischiettare quel motivetto, si immaginò di portare i guanti di pelle come quel tizio calvo nel film, quello della cinesina nella borsa. Sorrise a questo pensiero insulso da quattordicenne, poco ci mancava che si mettesse a fare Wroom-wroom con la bocca. Accelerava a ogni curva, un paio di volte riuscì anche a fare stridere le gomme, rise come un bimbo sentendo quel rumore, svolta a destra, a sinistra, di nuovo a destra, e …
- Cos’era? – disse dopo la frenata. Stava tremando dal terrore, non riusciva neanche a tenere il volante. Dopo un paio di tentativi riuscì a far scattare il meccanismo della cintura. Respirò a fondo vedendo la macchia di sangue sul parabrezza. E se non fosse stato un animale, e se avesse messo sotto un bambino. Aprì la portiera rimanendo per qualche istante con la maniglia ben stretta in mano. Nessuna luce si stava accendendo, una paese di morti. Scendendo dall’auto fu sicuro che avrebbe visto un bambino morto, un bambino investito da lui, un bambino come Andrea. Pensò che le gambe gli avrebbero ceduto e si appoggiò all’auto, poi si fece forza e camminò verso la discesa. Lo vide subito. Un cane nero.
Più sicuro sulle gambe fece i pochi metri che li dividevano a passo quasi veloce e sicuro. Non era nero, era nero focato. Respirava ancora, e perdeva sangue dal naso e dalla bocca. Gli si era spezzato un canino, e le costole sembravano incavate in un punto. Allungò una mano per accarezzarlo e il cane guaì guardandolo. – Che occhi dolci che hai, piccolo. – gli disse mentre il cane tentava di alzare la testa per leccargli la mano. Le gambe di dietro sembravano totalmente abbandonate, già le zampe di un morto. Si stava pisciando addosso, come un sacco che perde.
- Mi dispiace piccolo, tanto. – gli disse sfiorandogli con le nocche il naso, il cane lo guardò, guaì di nuovo e tirò fuori la lingua riuscendo quasi a leccarlo. Aveva lo sguardo intelligente, sembrava che sapesse che stava morendo. Guaì un’ultima volta e poi i suoi occhi si persero, da un momento all’altro sembrarono diventare opachi. Il petto non andava più su e giù, era un cane morto.
Alla pena si sostituì il ribrezzo, quel cane stava già andando a male, pensò rabbrividendo, le mosche si erano già messe in moto per raggiungerlo. Morto. Lo aveva ucciso lui facendo lo scemo. Morto.
Si guardò intorno pensando che tutti lo stessero guardando, ma tutte le luci erano spente. Eppure avevano fatto un bel botto, si alzò e guardò le case intorno a lui. Un paese di morti, pensò di nuovo, ricordando con terrore un romanzo che aveva letto da adolescente. Un paese invaso dai vampiri, e la gente ci passava di giorno in macchina e vedeva tutto chiuso, tutto sbarrato. Che mortorio pensavano e andavano via in fretta.
Anche lui se ne sarebbe andato in tutta fretta, ma quel povero cane non meritava di stare in mezzo alla strada, cazzo, no. si fece forza e infilò le man sotto a quel corpo che gli si abbandonò flaccidamente addosso quando si alzò. Lo spostò di un paio di metri, sul marciapiede. Lo appoggiò e gli chiuse gli occhi. – Scusa. – gli disse, poi tornò all’auto. L’ammaccatura non era un granché, prese da vicino al sedile la bottiglietta d’acqua che teneva sempre a portata di mano e la versò sul sangue. Con il fazzoletto venne subito pulito. No, l’ammaccatura non era un granché. Risalì in auto e si accorse che mani e gambe non gli tremavano quasi più. Fece l’inversione a U che aveva pensato di fare prima, guardò un’ultima volta quella povera cosa abbandonata sul marciapiede, le case con le finestre come occhi neri, e ripartì per la discesa, stando ben attento a non accelerare troppo, ma anche a non rimanere per troppo tempo lì.
Tornò sula strada principale, e poi sul lungo torrente. Ancora dieci minuti e sarebbe stato a casa. I soliti discorsi, la solita cena. Un abbraccio ai figli e poi, a essere fortunato il dolce notturno con Elsa. Si riavviò il ciuffo sulla fronte, il sudore gelato di prima si era riasciugato, accelerò fino quasi al limite e si allontanò per sempre dal luogo del delitto. Quando parcheggiò sotto casa faceva davvero fatica a ricordare il perché del suo ritardo. E la mattina dopo, sotto alla doccia, non sapeva più di avere ucciso il piccolo Kevin.

domenica 18 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. VI.

4

Kevin

L’odore di quel posto non gli piaceva. Due anni prima, una notte che pioveva troppo forte e con troppo vento per usare la tenda, avevano dormito in un grosso stabile abbandonato. Filippo aveva detto qualcosa sulla scritta là in alto, “Macello” aveva detto che c’era scritto, ma questo naturalmente lui non lo aveva capito. Ma l’odore di quel posto, le grida che continuavano a rimbombare tra quelle mura scrostate e che Filippo come tutti gli umani non poteva sentire, quelle cose le aveva sentite e capite benissimo.
Non aveva dormito quella notte, non avrebbe potuto, e se non fosse stato per Filippo che lo aveva costretto a stare con lui sul sacco a pelo, se ne sarebbe stato sotto alla pioggia. Quel posto puzzava di morte e gridava ininterrottamente.
E ora, in questo paese che Filippo chiamava casa, era ancora peggio. Le finestre delle case li fissavano, sembrava che anche i lampioni si girassero al loro passaggio per spiarli.
La puzza che sentiva, non col suo sensibilissimo naso, ma proprio dietro agli occhi, gli trapanava la testa. Avrebbe preferito la puzza di morte del macello, perché quella puzza di due anni prima era una puzza morta. Questa era come i vermi che una volta gli erano cresciuti sotto a una crosta di un taglio, quei vermi che Filippo e un veterinario gli avevano tolto con le pinzette. L’odore di questo posto ti mangiava vivo da dentro, l’odore di questo posto tentava di pensare per te.
Il Male e il Bene non erano alla portata del suo piccolo cervello di cane, ma li poteva avvertire intorno a sé. Filippo era sempre stato il Bene, ne era sicuro, ma quella puzza risuonava su una vibrazione che corrispondeva a quella di Filippo. E poi c’erano tanti pensieri. Li poteva avvertire come un tremito dei suoi baffi, come odori portati dal vento. Il dolore di una donna, la rabbia e la cattiveria gratuita di un branco di bestie. Lui non era mai stato cattivo, ma poteva avvertire l’impulso che muoveva quei tre lupi. E non c’è animale al mondo che un cane odi più di un lupo.
E Filippo sembrava non accorgersi di tutto ciò, e andava avanti ignorando i suoi segnali e la sua paura, come quella volta che li aveva fatti finire su una frana e si erano quasi ammazzati. Filippo poteva leggere, poteva parlare, cose che lui sì e no poteva appena afferrare come concetti, ma era cieco e sordo più di un neonato alle sensazioni e all’energia dei luoghi.
Ma lui era il cane, e Filippo era il suo umano. Se si fosse buttato nel fuoco, lui lo avrebbe seguito per tentare di tirarlo fuori.
Poi passarono davanti a una rientranza, un vicolo disse Filippo, boh!, e Kevin avvertì di nuovo, e più forte, il dolore e la paura di quella donna. E seppe, meglio di come sapeva di dover camminare su quattro zampe, che quel posto bastardo voleva che Filippo la trovasse. Il suo istinto gli diceva di correre dal bidone e piangere per segnalargliela, ma contemporaneamente gli urlava di fuggire trascinandosi via il suo umano.
E lei gemette, gemette e si mosse nel bidone. Filippo si gettò come un cucciolo su una vipera, guardò nel bidone e vi saltò dentro. Kevin ebbe l’impressione che fosse saltato su un piano inclinato unto e insaponato per bene, e che avesse cominciato a scivolare giù.
Non potendo gridargli di fermarsi, non potendo assolutamente spiegargli il pericolo che avvertiva perché il suo piccolo cervello istintivo non concepiva neanche i concetti di discorso e spiegazione, fece l’unica cosa che gli sembrò giusta e possibile. Rimase lì accanto al suo padrone, come sempre aveva fatto, per dividere il suo destino con lui.
Filippo uscì dal bidone con la donna in braccio, era coperta di sangue e di liquidi schifosi, oltre che di fluidi maschili, e quegli odori disgustarono Kevin. Erano l’odore di quel posto, marciume, dolore, cattiveria, sopraffazione. Filippo urlava verso quelle finestre che, ma come faceva a non accorgersene, lo spiavano ridendo di lui e di quella povera donna, e poi una vecchia donna totalmente impregnata della puzza di morte di quel posto, fatta per davvero di quel posto orrendo, si affacciò e parlò con Filippo. Kevin non capiva le parole, ma la falsità sì. Quella donna era falsa come lo strato di ghiaccio sottile su un lago in inverno, come una buca in un torrente su sui stai giocando a lancia i sassi e riportali.
E poi … poi il povero Kevin sentì il legame tra lui e Filippo assottigliarsi sotto alla forza di trazione di quel posto marcio, lo sentì sfilacciarsi come il telo di una cuccia che hai grattato troppe volte. E sentì tutta la malvagità di quel posto stringersi intorno a loro.
Quel posto lo voleva morto, proprio quella sera, e senza l’aiuto di Filippo non ce l’avrebbe proprio fatta a salvarsi.
Ma ancora di più quel posto bramava Filippo. E Kevin non sarebbe stato lì con lui per difenderlo.
Ma questi concetti erano troppo difficili per lui, il povero cane poté solo accucciarsi con il muso sulle zampe anteriori e guardare il suo padrone che si allontanava da lui stretto a quella povera donna, mentre una nebbia oscura sembrava nasconderli ai suoi occhi.
E quando arrivò quella grossa macchina, - Ecco l’ambulanza. - Disse sorridendo Filippo, quando dovendo scegliere se stare con lui o accompagnare la ragazza che non voleva staccarsi dalla sua mano, Filippo scelse lei, Kevin aveva già capito di essere sconfitto. Quello che venne dopo, non cambiò molto per lui. Il suo umano aveva ceduto al male di quel posto e lui era stato abbandonato.

sabato 17 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. V.

3

Filippo

Scese dall’autobus con una certa difficoltà, dovendo spostare il suo grosso zaino e dovendo tenere allo stesso tempo al guinzaglio Kevin. Sarà stata la quarta volta che portava il guinzaglio in vita sua, povero ca-ne, e non è che fosse mai sembrato molto portato per farlo.
- E vieni giù! Cazzo! – gli disse strattonandolo e, quando il cane fu a terra e l’autobus fu ripartito, si guardò finalmente intorno. Casa. Quel posto dove quando ci arrivi, non puoi fare a meno di volere scappare. Alzò lo sguardo verso sud est, là in alto a un centinaio di metri di altezza. La collina c’era ancora, e anche la sua casa. La casa sulla collina dove era cresciuto, la casa che era stata costruita sui resti della chiesa della Pigna, la chiesa che un tizio aveva fatto saltare in aria pochi anni prima della sua nascita.
La casa dove suo padre stava morendo proprio in quel momento.
- Vieni, bestia. – disse al cane dopo avergli tolto il guinzaglio, poi si aggiustò lo zaino sulle spalle e comin-ciò a salire. C’erano una settantina di metri di dislivello, su un paio di chilometri di strada. Un camion della spazzatura svoltò dalla curva davanti a lui e se ne andò sferragliando verso la periferia a nord. Se nulla era cambiato nei dieci anni della sua assenza, e gli sembrava che nulla lo avesse fatto, quel camion era passato davanti a casa sua una ventina di minuti prima. Dovevano esserci i pannoloni di suo padre morente, in quel camion. – Cazzo! – disse sottovoce, poi si girò e vide che il suo cane lungo e ossuto lo stava fissando.
- Niente, Kevin, niente. – e gli sorrise. Il povero cane rispose solo con un breve e furtivo scodinzolio. Non aveva mai amato i centri abitati, e si era sempre comportato come un deficiente quando erano passati in mezzo alle città, ma stasera sembrava davvero di pessimo umore.
Era come se con quella sua espressione seria e quello scodinzolio svogliato e brevissimo gli avessero voluto dire che lì c’era qualcosa di sbagliato, che quel posto era sbagliato, e che loro due avrebbero dovuto fare solamente una cosa: scappare a gambe levate senza guardarsi indietro una sola volta. – Lo so, Kevin, lo so anche meglio di te. – gli disse stupendosi dello sguardo pieno di comprensione del cane, come se davvero in quella piccola testa più simile a un sellino di bicicletta che a al contenitore di un cervello pensante, fossero passati quei pensieri. – Lo so meglio di te. – gli ripeté continuando a salire verso casa sua, verso suo padre che aveva implorato i aprenti di riportargli lì suo figlio perché doveva dirgli qualcosa, e in realtà verso la parte restante della sua vita.
Vita che sarebbe cominciata meno di un minuto dopo quelle parole che aveva detto al suo cane, quando passando davanti a un vicolo, quello dove da bambino andava a tirare i petardi, avrebbe sentito dei tonfi e dei gemiti strozzati arrivare da un bidone della spazzatura. Camminava a passo lento, guardan-dosi intorno mentre tentava di far combaciare con quello che vedeva i suoi ricordi. Aveva ragione Fellini, pensò, quando volendo ricreare la Rimini della usa infanzia la ricostruì tutta a Cinecittà. Nei suoi ricordi di bambino e ragazzo le strade erano più larghe, le case più alte e belle. Ora gli sembrava di passare in uno stretto sentiero infilato a forza tra casette a due piani, con curve così strette da non avere i marciapiedi proprio dove sarebbero serviti di più.
- Vieni mostro. – disse al cane che contrariamente al solito stava indietro e sembrava non avere alcuna voglia di camminare. – Ma si può sapere che cacchio c’hai stasera? – e gli indicò con un cenno del braccio di andare avanti, cosa che il cane fece guardandolo di sbieco e tenendo la coda tra le zampe.
- Certe volte sei proprio incomprensibile … - stava dicendo al cane, quando sentì i gemiti cui avevamo appena accennato. Si fermò a guardare il vicolo alla sua destra, quello sotto alle finestre dei Rossi, gente davvero odiosa, e sentì di nuovo un verso che sembrava il lamento di un gatto ferito.
- Micio? – disse entrando nel vicolo che rispetto alla strada era molto buio – Micio, dove sei? – e di nuovo sentì quel gemito. Ora però gli sembrò di più un pianto. E ci fu anche un altro rumore. Qualcosa si muoveva nel bidone, qualcosa di grosso, molto più di un gatto.
- Ma chi cazzo ha buttato un cane nella spazzatura! – disse correndo mentre gettava a terra lo zaino. Aprì il bidone e guardò dentro. – O cazzo! – urlò – O Madonna santa! – e si arrampicò sul bidone che si inclinò fino quasi a cadere, ma poi tornò a posto. Saltò dentro venendo investito dalla puzza, puoi lavarlo finché vuoi un bidone, ente comunale dei rifiuti, ma sempre di quello saprà, e si accucciò vicino alla donna che giaceva in posizione fetale sul fondo, immersa in due dita di marciume che aveva resistito al lavaggio mec-canico.
- Signorina! – le disse muovendole la testa per guardarla – signorina! Mi sente? –
La donna aprì un occhio, l’altro, se c’era ancora, era affondato in un orrendo gonfiore rossastro, aprì la bocca tumefatta per parlare, mostrando almeno un paio di spazi vuoti tra i denti rossi di sangue, gorgogliò qualche parola tentando di metterlo a fuoco e poi, tremando come un cucciolo allontanato dalla madre in una notte d’inverno, si raggomitolò stringendo nella sua mano sporca di sangue quella di Filippo.
- Se la prendo in braccio, posso tirarla fuori dal bidone? –
- Gahhah! – disse lei e non aggiunse altro. In quell’occhio c’era più terrore di quanto Filippo avesse mai immaginato potesse esisterne al mondo.
- Ha qualcosa di rotto? Se la sollevo le faccio male? – e davvero gli sembrò farle più male di quanto gliene avessero appena fatto. Sui seni e sulle braccia vedeva segni di morsi. Ottime dentature umane, di quelle che sono costate molto in cure dentistiche. Dal sangue che le aveva intravisto tra le gambe, e aveva davvero cercato di non guardare, quegli animali dovevano essersi dati molto da fare anche lì.
- Allora, ci proviamo? – le disse sorridendo mentre le passava le braccia sotto alle spalle e alle gambe. Fe-ce fatica a staccare la sua mano che gli stringeva forte le dita.
- Ahh! – disse lei annuendo e Filippo la sollevò. I suoi piedi scivolarono un po’ in quel liquame orrendo, ma riuscì ad alzarsi. E ora come cacchio la porto fuori? Pensò tra sé e sé, poi tentò di scavalcare il bordo con la gambe sinistra e, misericordiosamente, riuscì a scendere dal bidone senza cadere in terra e, ancora più importante, senza fare cadere lei. La posò sull’asfalto e si tolse la giacca di jeans, l’aiutò a sollevarsi e con un po’ di fatica gliela fece infilare. Lei si raggomitolò fino a diventare minuscola, le gambe strette tra le braccia, mentre piangeva a dirotto.
Appena poteva riafferrava la mano di Filippo, senza lasciargliela allontanare, mentre il buon Kevin stava a un paio di metri di distanza a osservarli in silenzio. Aveva sempre lo sguardo preoccupato, e seguiva con i movimenti degli occhi ogni mossa di Filippo.
- Stia tranquilla, signorina, stia tranquilla. – le disse stringendola a sé mentre si guardava intorno per ve-dere se il rumore che aveva fatto urlando e tirandola fuori dal bidone avesse svegliato qualcuno, ma le finestre erano tutte sbarrate e buie.
- Ora chiamo aiuto, va bene signorina, non si spaventi. – le disse a bassa voce, poi urlò: - Aiuto! C’è una donna ferita! Aiuto! – e mentre lo faceva lei si strinse a lui singhiozzando. Kevin fece un altro passo indietro, odiava le urla e i rumori forti che non fossero il suo perpetuo abbaiare, e dopo qualche istante si aprì una finestra. Era la signora Rossi, vecchia adesso come lo era stata vent’anni prima. – Cosa c’è? – gli chiese stringendo gli occhietti miopi.
- Chiami un’ambulanza, signora Rossi, questa ragazza sta molto male? –
L’anziana donna li fissò per un attimo, un ragazzo coi capelli lunghi che abbracciava una donna nuda spor-ca di sangue; si notò il disprezzo e lo schifo, a Filippo sembrò quasi di vedere un fugace sorriso su quella faccia da carpa, come di soddisfazione per tutto quel dolore e poi, dopo quel breve istante di verità, la donna mise su una faccia preoccupata e disse: - O mio Dio! Corro! O mio Dio! – stava ancora urlando mentre richiudeva la finestra alle sue spalle.
- Troia maledetta! – disse Filippo immaginando di bastonarla con una clava, poi si voltò verso la ragazza e le sorrise. Era bella anche così, cazzo, quel poco di faccia che non era gonfio o sporco di sangue, sembrava un angelo. Le sorrise e disse: - Ora arrivano, signorina, ci sto io con lei. –
Lei abbozzò un sorriso, più che altro sollevò gli angoli della bocca, e poi sussurrò: - Aisha. – e poi si ad-dormentò. Quando l’ambulanza arrivò dopo otto minuti, lei era ancora tra le sue braccia con gli occhi chiu-si. Non gli aveva mai lasciato la mano.

venerdì 16 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. Parte IV.

2

Il branco.

Avevano sedici anni, le orecchie rintronate dalla musica della discoteca, una discreta quantità di alcol, a cui non erano affatto avvezzi, in corpo, e vedevano ancora i lampi residui delle luci stroboscopiche nel buio della strada intorno a loro.
Insomma, erano una sorta di malriuscito anello di congiunzione tra il senso di onnipotenza di un dio e la ferocia priva di pietà di un predatore. Come ho già detto, avevano sedici anni.
Stavano camminando per le strade del loro vecchio quartiere che li avevano visti giocare a pallone e a ga-vettoni mentre tornavano dalla serata in discoteca con i compagni di classe. Parlavano a voce troppo alta con la sensazione di camminare a un paio di dita dal suolo. Parlavano di donne, naturalmente.
- Vi dico che non le aveva. – disse il primo.
- E io ti dico che dovresti cambiare gli occhiali, talpa. – rispose il secondo.
- O smettere di farti le seghe ogni santo giorno. – si intromise il terzo.
- Più volte al giorno. – disse allora il primo, era uno di quegli adolescenti che pensano che menarselo all’infinito sia una prova di maturità.
- E con tutte le pippe che ti fai non sai riconoscere una fica? – gli chiese il secondo.
- Le conosco meglio della mia faccia. – disse il primo.
- Che sembra un culo, in effetti. – commentò il terzo.
- E allora, cazzo, Ste’, ma non l’hai vista che c’aveva le mutande? – era di nuovo il secondo.
- Non le portava. Cazzo, raga’, quella cubista stava proprio sopra a me, mi sculettava in faccia. Quando si muoveva di più e si scopriva, vi dico che non le portava. – e dalla sua espressione sembrava che il reveren-do deretano della cubista in questione fosse ancora lì ad agitarsi a un palmo dalla sua faccia. Estasi.
- Perché io ero distante, Ste’? Credimi, eravamo tutti lì ad annusargliela a quella troia, ma portava delle mutande color carne. Un tanga. – disse il terzo. – Gran culo, comunque. Davvero un gran culo. –
- Concordo. – disse il secondo – Davvero un gran culo, ma portava il tanga rosa. –
- Le ho visto lo spacco! – disse il primo con voce cantilenante e allora gli altri risposero con altre frasi a-mene e altri apprezzamenti sulle forme dell’ignota cubista, passando poi a giudicare le forme, la bellezza, la chiavabilità, per dirla col loro gergo, delle loro compagne di classe, dalla improponibile Berardi alla super chiavabile in excelsis coelis (facevano il classico) Todini, che aveva avuto la bella pensata di andare in disco-teca senza reggiseno e con la minigonna lunga sì e no otto centimetri.
E continuarono così per un bel po’, che dalla fermata dell’autobus alle loro case, erano vicini da sempre, c’erano dieci minuti buoni di salita. E mentre i fumi dell’alcol cominciavano ad evaporare, ma non così i loro effetti eccitanti, questo parlare e riparlare di donne e sesso li stava eccitando molto più del solito, (29-9-2012)e il solito in quanto sedicenni maschi era il fatto di pensare al sesso 61 o 62 volte all’ora.
Camminavano ridendo, sghignazzando anzi, facendo pesanti apprezzamenti che avrebbero fatto cadere dalla sedia le loro madri, i padri no, sarebbero forse rimasti stupiti, ma sbalorditi no di certo, e camminando si davano spintoni e pugni sulle braccia, muovevano le mani nell’aria a mimare le forme di ragazze che avevano visto dal vero o in foto, quando il terzo, appena passato un vicolo pieno di bidoni della spazzatura, si fermò come un computer impallato.
- Che c’hai? Hai finito la carica? –gli chiese il primo che cominciava ad avere una certa voglia di pisciare e non vedeva l’ora di andarsene a casa a svuotare la vescica dalla birra che la stava affogando.
- Ohoo! – gli disse il secondo – C’è qualcuno in casa, Mcfly? –
Il terzo sorrise, un sorriso un po’ ebete e un po’ cattivo. Il sorriso di un truffatore che ha appena visto una vecchietta svanita uscire dalla posta, il sorriso di una iena che ha scorto un piccolo cerbiatto nell’erba alta. Il sorriso di un ragazzo che sta pensando a una cosa molto molto piacevole che non vorrà mai raccontare a casa. – Là dentro. – disse accennando con un movimento del capo al vicolo che aveva appena sorpassato – Cosa non c’è la dentro! –
- Cosa hai visto? – gli chiese il secondo tornando indietro, ma lui gli fece segno di stare zitto col dito da-vanti alla bocca. Il suo sorriso si era allargato ancora e sembrava ora quello di uno squalo bianco dei film.
- Roba buona. Roba sopraffina. – disse sorridendo ancora, poi tornò indietro e sbirciò di nuovo nel vicolo. Gli altri due sentirono il rumore di un bidone della spazzatura che veniva aperto e chiuso. Si girò di nuovo verso di loro e sghignazzò in silenzio. Il primo, quello che sosteneva che la cubista non portasse le mutande, ebbe paura del suo sguardo e del suo sorriso. Sembravano una maschera da mostro. E gli sembrava che portare quella maschera fosse troppo divertente per non essere pericoloso.
- Che figa! – disse il terzo sottovoce ai due amici che lo avevano raggiunto – Ragazzi che figa! Nuda prati-camente. –
- Chi? –
- Una tizia, non so chi sia. Un puttanone da antologia, credetemi. –
E il primo guardò ancora quel sorriso, quegli occhi cattivi, ma l’idea di una ragazza seminuda da sola con loro, da sola con loro di notte in un vicolo, loro in tre e lei da sola … quella faccia faceva paura, certo, ma forse l’aveva messa su anche lui adesso. –
- Zitti, raga’, aspettiamo che esca e … - disse il terzo ghignando come un satiro, gli occhi che sembravano brillare alla luce arancione del lampione.
E il primo si avvicinò pensando che il terzo scherzasse, perché erano tre(30-9-2012) bravi ragazzi, tre di quei ragazzi che se vedono una vecchietta sull’autobus le lasciano il posto, e così una donna incinta, tre di quei bravi figlioli che raccolgono la moneta caduta a un tizio e lo chiamano per ridargliela, tre di quegli ot-timi ragazzi che non si apposterebbero mai allo sbocco di un vicolo per aggredire una ragazza. Lui li seguì perché sapeva che non lo avrebbero fatto, non c’era neanche bisogno che lo dicesse. Si sarebbero fermati da soli e non voleva fare la figura dello scemo che non capisce lo scherzo, non voleva passare per quello che li aveva davvero presi per animali.
E poi, sì, è vero, voleva vederla ‘sta tizia, voleva sapere cosa si provava a tendere un agguato a una donna e a vederla sobbalzare, a essere crudelmente sinceri lo eccitava l’idea di essere lì ad aspettarla quando lei ne era totalmente ignara, lo inebriava totalmente la consapevolezza di poterlo fare, (1-10-2012)l’idea che la vita di questa donna, da quella sera in poi, sarebbe dipesa da loro. Non le avrebbero fatto niente, questo no, ma sarebbe stato perché loro lo avevano deciso.
E le stesse cose all’incirca le stava pensando anche il secondo, circa con le stesse parole, ma aveva anche voglia di vederla ‘sta tizia seminuda, e aveva voglia di toccarle le tettine, di strizzargliele forte, e nei panta-loni aveva un’erezione non indifferente, perché anche se non l’avessero toccata, loro tre non l’avrebbero mai fatto, no, ma pensare di farlo era la cosa più eccitante che avesse mai provato.
E poi lei uscì, camminando veloce sulle sue infradito, con indosso solo degli shorts minuscoli e una canot-tiera vecchia e sformata che mostrava molto più di quanto riuscisse a nascondere. E il fatto che non li avesse visti, il fatto che avesse fretta, il lieve odore di sudore che si sentiva nell’aria che aveva attraversato, li colpirono con una forza inaspettata. E fu il terzo a muoversi dietro di lei, mentre una parte della sua mente, una parte lontana e difficile da ascoltare come un’eco, gli diceva che loro lo avrebbero fermato.
E il secondo lo seguì con l’odore di quella pelle liscia che gli solleticava le narici, fissando l’ancheggiare in-volontario di quei fianchi così desiderabili e vicini, certo che il primo li avrebbe fermati.
E il primo li seguì, in silenzio come loro, la mente piena di pensieri di sesso, pensando che fosse uno scherzo, che loro si sarebbero girati ridendo e che sarebbero tornati a casa scherzando su quello che era successo.
E poi … in realtà non ricordarono mai troppo bene cosa fosse successo poi, se non nei sogni. Per tutta la vita avrebbero avuto incubi su quella serata, sempre più orribili col passare degli anni, svegliandosi nel cuore della notte urlando, e dimenticando subito cosa avevano sognato, ma non la paura che avevano provato facendolo. La paura per i mostri che abitavano il sogno. E i mostri erano loro.
E quando anche fossero riusciti a ricordare qualcosa di quel sogno, nelle ore più buie della notte, quando ti rigiri nel letto tra le lenzuola sudate implorando il sonno di tornare da te, quel qualcosa sarebbe stato un branco di lupi, un piccolo branco di lupi feroci che assalgono una cerbiatta, tre belve sanguinarie che aggrediscono una povera cerbiatta indifesa e la sbranano sghignazzando, divertendosi a lasciarla fuggire per poi riacchiapparla e morderla di nuovo.
E, ma questo nessuno di loro lo avrebbe mai ricordato, una voce nelle loro menti a suggerire cosa fare, una voce acuta e melliflua, come l’ululato del capobranco, la cosa più orrenda del loro sogno.