domenica 15 novembre 2015

Il Mare dei Mostri. 3.

Nuova puntata, buona lettura!

3

Neto fu mandato nella stiva, dall’altro boccaporto, per prendere le armi e tornò su con le poche spade e i coltelli dalle lame sbreccate che avevano. Ognuno di loro ne prese uno e Okaka si rigirò con una strana eccitazione tra le mani quel vecchio pugnale di ossidiana che gli avevano dato. Gli avevano parlato di colpo di fulmine, riferendosi a quando incontri LA donna giusta e di colpo sai che è quella giusta. A lui le donne non interessavano ancora, era grande e grosso ma sempre un bambino di sì e no nove anni, ma quel pugnale era IL suo pugnale, lo seppe subito.
Mentre il vento continuava a soffiare molto oltre la portata delle loro vele e il mare sembrava una distesa di olio da quanto era liscio, cercarono in tutta la nave. Non sapevano cosa cercare, perché l’unico che aveva visto qualcosa, e cioè lui, diceva di aver visto Nao che però era già morto in quel momento, quindi cercavano qualunque cosa che fosse capace di smembrare un uomo decorando con il suo sangue e le sue frattaglie le pareti e il soffitto della stava. Sapevano gli dei se non c’era pieno di cose capaci di farlo, tutto intorno a loro.
Controllarono ogni singola stanza, ogni più minuscolo anfratto, ogni scialuppa e ogni vela annodata e ogni cassa di merce un numero infinito di volte, ma non c’era niente. Niente. E intanto la bonaccia continuava e la sera calava sulla nave immobile sulla tavola blu del mare.
Alla fine tornarono tutti insieme sul ponte per mangiare gallette e pesce secco, in un silenzio carico di paura e tensione. Poi, all’improvviso, Okaka si accorse che Virdu, un tizio che aveva partecipato a invasioni in tutto il grande Mare Interno e che si ostinava a portare in testa un ridicolo elmo di bronzo che culminava in un chiodo, lo guardava almeno ogni due bocconi. – Sono così bello che non puoi fare a meno di ammirarmi, Virdu? – gli chiese.
- Sei sempre il solito orrendo scimmione nero, Okaka, sempre più grosso ogni giorno che passa. Solo che … quando è che ti sei tagliato i capelli? –
- Dopo che siamo tornati dall’isola. Perché? –
- No, ti sbagli. Li avevi quando mezz’ora fa eravamo nella stiva a prua. –
- Non entro nella stiva a prua da tre giorni fa, Virdu. Quel chiodo per caso scende anche dentro all’elmo? –
- Mezz’ora fa stavo cercando quella cosa e sono entrato nella stiva di prua e tu eri già lì. Mi hai guardato e mi hai salutato con un cenno della testa. Ed avevi i capelli. –
Il cuoco disse: - Glieli ho rasati io dopo mezzogiorno, Virdu. Ti stai sbagliando. –
- Io ti ho visto. Eri giù nella stiva e … -
- E cosa? –
Dovevi aver mangiato del pesce, c’era una gran puzza di pesce. –
- Io non mangiavo da stamattina, pazzo con l’elmo, vuoi dire che rubavo? –
- No. Voglio dire che mezz’ora fa eri laggiù, coi capelli in testa e mi hai salutato così. – disse e fece un cenno col capo inclinandolo appena verso la spalla destra.
Allora Okaka capì. Così lui aveva salutato Nao quando lo aveva visto fuori dalla porta della cabina. Nao che in realtà era già morto in quel momento. La cosa che lui aveva preso per Nao lo aveva guardato e lui, in quel momento, aveva ancora i capelli. E allora.
- Oggi quando ho visto Nao ho sentito una gran puzza di pesce. – disse Okaka alzandosi in mezzo agli altri. – Ho pensato che fosse l’odore dell’acqua di mare con cui stavo lavando il ponte, ma invece … -
- Il mostro può cambiare forma. – disse allora il cuoco. – Il mostro può prendere la nostra forma, quando vuole. – e fu allora che un urlo arrivò dalla stiva a poppa. E proprio là era appena andato il capitano a controllare le scorte di acqua. Corsero tutti giù e videro il loro capitano morto e smembrato sul pavimento, vicino alla botte d’acqua dolce rovesciata in terra. E, solo i primi ad entrare e solo con la coda dell’occhio, videro una forma strana e cangiante sfuggire da un piccolo buco nel muro, lasciandosi dietro una scia di bava.
E la bonaccia non accennava a finire.

lunedì 9 novembre 2015

Il Mare dei Mostri. 2.

Seconda puntata, scritta dopo due giorni in cui ho rimuginato su quale potesse essere il mostro della storia. Ora l'ho capito e, anche se qui non lo si vede ancora, so già che bel tipino è. Buona lettura!

2

Ripartirono in preda alla delusione e ripresero la loro vecchia rotta fino a perdere di vista la piccola isola col suo strano relitto. Navigarono ancora per mezza giornata col vento in poppa e poi, all’improvviso, arrivò la bonaccia. Le vele si sgonfiarono di colpo afflosciandosi sui pennoni con un rumore come di stoffa bagnata sbattuta sul pavimento e la nave si fermò dopo pochi istanti in mezzo al mare piatto come una tavola. Erano fermi sotto al sole calante, in mezzo a un mondo ridotto solamente a un piano omogeneo blu ricoperto da una cupola di un azzurro appena più chiaro. Né una nuvola né una terra emersa interrompevano quella regolarità estenuante.
Non era la prima volta che il vento li tradiva e, per quanto la cosa li mettesse tutti di pessimo umore, si misero a fare tutti quei lavoretti che di solito rimandavano con mille scuse.
Okaka, dopo essere stato un po’ in cucina col cuoco a fargli vedere quei due vetri legati insieme e il loro strano effetto su ciò che si vedeva, lo aiutò a pelare quei tuberi rossi dalla polpa gialla che, grazie alla loro facile conservazione, erano quasi l’unico cibo a bordo.
- Cosa ne dici di quei vetri, vecchio? –
- Dico che li sto tenendo adesso sul naso per pelare le wat e non mi sono ancora sbucciato nessun dito, piccolo nubiano, e penso che li userò anche quando dovrò tagliarmi le unghie o esaminare una moneta per capire se è vera o falsa. –
- Allora ti servono, vecchio. –
- Direi che è quello che ti avevo appena detto, piccolo nubiano. E smettila di grattarti la testa, che cavolo! –
- Mi prude. – gli rispose Okaka.
- Mi sa che dovrò farci qualcosa, sai? –
- Cosa, vecchio? –
- Una cosa che ti piacerà poco. – disse ridendo il cuoco, poi aggiunse. – Ma tu non avevi qualcosa da fare là fuori? –
- Lavare il ponte? Ma ti sto aiutando qui, no? –
- L’ordine del capitano, se non sbaglio, era quello di lavare il ponte e non quello di aiutare il cuoco, giovanotto. Vai! – e così Okaka uscì nell’aria calda e immobile e andò a riempire il secchio con l’acqua di mare. Lì, vicino alla porta della cabina dove avevano messo Nao visto che non riuscivano a svegliarlo, vide che quell’uomo cattivo e violento si era finalmente ripreso e alzato. Lo salutò con un cenno del capo e quello gli rispose con lo stesso cenno e uno sguardo strano e incuriosito. Dopo averlo salutato Nao si infilò nella stiva dal boccaporto.
Dopo un po’ il vice comandante Crip gli passò accanto e lo guardò lavorare. – Sei bravo, ragazzo. Continua così e un giorno sarai comandante di una nave. –
- Grazie, capo. Ma io non voglio comandare proprio niente. –
- Ah! Ah! E cosa vorresti fare nella vita, ragazzo? –
- Andare in giro, fare cose, vedere gente. –
- L’esploratore? Ottimo, ragazzo, se il tuo sogno è morire giovane mangiato da bestie feroci, è un’ottima idea. Va be’, vado a vedere come sta Nao. –
- È uscito prima, l’ho visto andare nella stiva. – disse Okaka indicando con un cenno del braccio il boccaporto. –
- E com’era? –
- Brutto e antipatico, capo. – gli rispose Okaka e lo vide andare giù per la scaletta ridendo. rideva sempre il capo Crip, era simpatico. Continuò a pulire il ponte fino a che il cuoco lo chiamò.
- Cosa c’è, vecchio? –
- Ti prude ancora la testa? –
- Tu sei ancora vecchio, vecchio? –
- Vieni qua, allora. – gli disse e Okaka, gettata in mare l’acqua ormai sporca del secchio, tornò in quel cubicolo che chiamavano cucina. – E allora, vecchio? –
Il cuoco gli sorrise, spostò uno sgabello, gli indicò di sedersi e, con in mano un pennello pieno di schiuma e un rasoio di selce disse: - Sarà l’ora di eliminare quei pidocchi, no? –
- Mi vuoi rasare a zero? –
- Perché, vuoi scappare via urlando? –
Okaka ci pensò un po’ e poi disse: - No vecchio. Ma stai attento a non tagliarmi, perdo la pazienza facilmente. –
- E ogni giorno sei di mezzo pollice più alto, anche. Starò attento, giovanotto nubiano. – disse il cuoco e, dopo avergli insaponato quel casco compatto di capelli, cominciò a rasarglieli partendo dalla fronte. Quando ebbe finito gli risciacquo la pelata con una spugna e disse, tenendogli un piatto di metallo lucido in mano perché potesse specchiarsi: - Come le sembra, signor Okaka? –
Il ragazzo nubiano guardò la sua nuova faccia e si riconobbe. In quella superficie che lo rifletteva deformandolo un po’ vide, per la prima volta, la sua vera faccia. Quel cuscino di capelli crespi che aveva avuto fin da piccolo, ed in effetti, malgrado fosse alto come un uomo medio era ancora piccolo, non era mai stato parte di lui. Quella sarebbe stata la sua faccia per il resto della sua vita, che fosse durato un mese o mille anni. – Benissimo, vecchio. Benissimo! – disse sentendo che gli stavno quasi venendo le lacrime agli occhi. Poi si voltarono insieme quando entrò il capitano Feirp che chiese: - Avete visto il capo Crip? –
- È andato giù nella stiva per vedere come stava Nao. – disse Okaka continuando a guardarsi nel piatto e piacendosi ogni momento di più.
- Va bene. – disse il capitano e richiuse la porta. Dopo nemmeno un minuto udirono un urlo e corsero fuori. Il capitano, con le mani sporche di sangue, stava uscendo dal boccaporto con lo sguardo stravolto dal terrore. Era bianco come un cadavere e ansimava dal terrore.
- Cosa c’è, capitano? – gli chiese Neto. –
Il capitano lo guardò con occhi così sbarrati da sembrare sul punto di schizzare fuori dalle orbite e disse: - Il capo Crip … il capo Crip è morto. Divorato da qualcosa, lo ha … è orribile. –
- E Nao? – chiese Okaka che sperava che fosse stato quel porco a uccidere Crip, perché così lo avrebbero scannato e lui avrebbe potuto partecipare.
- Nao? – chiese il capitano che sembrava none essere totalmente presente – Nao? Non c’era laggiù. – C’era solo Crip. –
E allora il cuoco andò alla porta della cabina e l’aprì. – Nao è qui. Disse tornando fuori con una faccia molto simile a quella del capitano. – È ancora sulla cuccetta dove lo avevamo messo prima e … qualcosa gli è uscito da dentro direi. Da come è fresso direi che è morto da qualche ora. –
- E allora io chi ho visto andare giù? – disse a bassa voce Okaka.

venerdì 6 novembre 2015

Il Mare dei Mostri. 1.

Come vi avevo accennato ieri ecco la prima puntata di una nuova avventura di Okaka, un'avventura del giovane Okaka.
L'ho scritta così, di getto, rubacchiando l'ispirazione a molti film che ho visto negli anni. Non so ancora cosa ne uscirà e per ora questa storia non mi convince troppo, ma spero che andando avanti prenda velocità e mi guidi lei.
Buona lettura!

Il Mare dei mostri.

1

Il vento gonfiava le vele e la nave filava veloce sul mare ondulato. Se avesse continuato così sarebbe rimasti in mare aperto solo per un paio di giorni, e questo lo rendeva molto felice. Come tutti i più bravi marinai l’unica cosa a cui pensava quando era per mare era la terra e se odiava una cosa era quando l’orizzonte piatto e blu del mare si chiudeva tutto intorno a lui isolandolo dai posti dove gli uomini vivono.
In piedi sulla gabbia in cima all’albero Neto guardava il mare tutto intorno a sé in cerca di qualunque cosa che rompesse la monotonia. Una terra, una nave, delle balene, qualunque cosa. Dopotutto la loro nave era solita fare tante cose diverse, portava passeggeri, se pagavano, portava schiavi, se altri pagavano, portava merci se qualcuno pagava e rubava merci ad altre navi se nessuno aveva pagato, e cacciava balene per vendere il prezioso olio nei porti dove attraccava. Nulla si muoveva in quel cerchio di orizzonte che vedeva da lassù e così si mise a guardare cosa accadeva sulla nave. Era l’ora più calda e tutti dormivano, tranne Van che stava al timone e, intento a lavare il ponte, quel ragazzetto nero tutto braccia e gambe lunghe che avevano preso a bordo a Kainua. Gli altri pensavano che avesse quattordici anni o giù di lì, vista l’altezza, ma a lui sembrava molto più piccolo. Però lavorava come un mulo ed era forte come un bue. E aveva un caratterino notevole, come sapeva quel porco di Nao che aveva tentato di toccarlo di notte nella stiva, confondendo il suo culetto glabro di ragazzino con il bel sederotto di una signorina, da allora quel maiale pieno di tatuaggi e muscoloso come un gladiatore se ne andava in giro con un naso tutto storto che sibilava ad ogni respiro e con uno spazio vuoto corrispondente a tre denti sotto al labbro superiore. Okaka si chiamava quello strano ragazzino, Okaka il nubiano aveva detto presentandosi quando era salito a bordo, ma da qualche giorno lo aveva sentito dire Okaka del Mare dei Mostri. Era un bel nome, per un ragazzo, soprattutto quando quel ragazzo era solo come un cane e oltre al nome aveva ben poco.
Il ragazzo spazzava il ponte con metodo e pazienza, tirando poi su con uno sforzo irrisorio secchi d’acqua salata che pesavano più di lui e sciacquava dove aveva pulito. Andava per mare da anni e, oltre ad essere stato lui un mozzo, ne aveva visti davvero tanti all’opera, ma nessuno si era mai impegnato tanto come quel ragazzetto nero come l’ebano e con un casco di capelli ricci in testa che lo faceva sembrare sempre uno col berretto.
Mentre si perdeva in questi pensieri per passare il tempo, con la coda dell’occhio vide una cosa. Ci mise qualche istante a rendersene conto, tanto erano distanti. Un filo di fumo, un minuscolo filo di fumo che, trascinato dal vento, si piegava sulla superficie delle acque svanendo dopo poche decine di metri. E, sotto al fumo, una quasi impercettibile strisciolina nera che poteva essere solo un’isola all’orizzonte. Isola più fumo, secondo al sua esperienza, voleva dire che era un’isola abitata, e questo significava cibo fresco, acqua fresca, frutta, merci e donne. Sì, effettivamente per prima cosa aveva pensato alle donne, in effetti. Batté il suo pugnale sulla campana che pendeva dal’albero e urlò: - Terra! A dritta, a venti miglia da noi, terra!!! – e vide la nave prendere vita sotto di lui. Anche il ragazzo si alzò e, come tutti, guardò inutilmente nella direzione che aveva detto, perché il fumo era quasi impossibile da vedere anche dalla cima dell’albero. Poi, mentre tutti si agitavano e parlottavano tra loro, il ragazzino, dopo essersi dato una vigorosa grattata a quel casco di ricci neri, si rimise a lavare. Incredibile il ragazzetto.
Van mosse la barra del timone e il vento, da babordo, li spinse velocemente verso l’isola, poi calarono una scialuppa e, a remi, si diressero verso l’isola, che era poco più che un banco di sabbia che emergeva dal mare in mezzo a una zona di secche.
Il fumo proveniva da una nave come non ne avevano mai viste, enorme, con tre alberi e incredibilmente robusta. Era arenata sull’isola e sulla fiancata, che era alta circa due terzi del loro albero maestro, stava una scritta in uno strano alfabeto che non avevano mai visto. Dalla nave, che era antica e rovinata da decenni di intemperie, uscivano degli alberi che riconobbero subito, erano mangrovie e sembravano nascere dentro alla nave. Scesero dalla barca, erano quattro, Neto, Van, il comandante Feirp, Nao e Okaka, e si diressero a un punto della fiancata dove le mareggiate avevano aperto una falla alta otto piedi e larga quattro da dove sarebbero potuti entrare. Le mangrovie erano davvero nate dentro alla nave, che evidentemente aveva portato un carico di giovani piante, dato che alcune erano morte e, secche come sterpaglie pronte per appiccare il fuoco, fuoriuscivano da pani di terra avvolti in teli di stoffa. Una decina di quelle piante ce l’aveva fatta a sopravvivere dopo il naufragio e aveva gettato le radici nella sabbia attraverso le falle nello scafo.
Non trovarono persone a bordo, né vive né morte, ma alcune macchie scure sul legno marcio dello scafo sembravano essere state delle vere e proprie pozze di sangue. Poi, saliti sul ponte grazie a una scaletta molto pericolante, trovarono l’origine del fumo; due pezzi di vetro lisci e curvi, tenuti insieme da un filo metallico, stavano appoggiati sulle tavole di legno e il sole, colpendo il vetro, aveva acceso un piccolo fuoco. Van, con una pedata, spense il fuoco e lanciò quello strano oggetto a Okaka. – Tieni ragazzo! – gli disse e Okaka guardò attraverso i vetri stupendosi di come le immagini venivano deformate. Gli venne un’idea e si appoggiò i due fili più lunghi e curvi sulle orecchie e i due vetri andarono a posizionarsi con precisione davanti ai suoi occhi. Dovevano essere fatti per quello, ma vedeva tutto distorto attraverso quei vetri, ripiegò i due fili, c’era uno snodo apposito, e se li infilò nella veste pensando di farli vedere al cuoco in seguito.
Poi, a poppa, trovarono finalmente un occupante della nave. Era legato a una ruota grande come quella di un carro e ricoperta di punte arrotondate. Neto la toccò e, con un cigolio straziante, ruotò su un perno. Si guardarono senza capire cosa si trovavano davanti. Il corpo legato alla ruota era mummificato dal sole e dalla salsedine e indossava degli strani vestiti, dei calzoni scuri, una camicia bianca e una giacca scura sopra a questa. I nodi erano strani, sembrava che li avesse stretto da solo, con i denti.
Si divisero per cercare qualcosa di utile sul relitto e, dopo un po’, sentirono un urlo dalla stiva, proprio in mezzo alle mangrovie. Scesero di corsa e trovarono Nao privo di sensi, in terra, una ferita sul collo ricoperta di una specie di bava. Cercarono intorno, non c’era nulla, e, dato che Nao sembrava solo addormentato e sulla nave e sull’isola non c’era assolutamente nulla di utile, ritornarono alla nave per riprendere il viaggio.
Qualcosa arrivò però a bordo con loro, dentro al loro compagno che ronfava tranquillo sul fondo della scialuppa.

giovedì 5 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 7.

Ultima puntata, finisce questa seconda ultrapulp avventura del gigante nubiano. Buona lettura e buona vita.
p.s. Ho già in mente un'altra avventura, questa volta, come si fa nei prequel cinematografici, protagonista sarà Okaka ragazzino, quando girava per il Mare dei Mostri che tante volte ha nominato. Dovrebbe arrivare già da domani o dopodomani.

7

Il sole stava sorgendo sulla vallata che circondava come una enorme aiuola la montagna coronata di nubi in tempesta, gli uomini uscivano dalle loro capanne per andare a coltivare la terra e i Critton, infreddoliti dalla lunga notte, stavano coricati a terra a scaldarsi al sole del mattino. Nessuno notò qualcosa che, volando ad alta quota, stava sorvolando la vasta foresta che, ancora avvolta dalle tenebre, contornava la pianura. L’ora per quel volo era stata scelta con cura, i grossi animali da guardia avevano abbastanza del rettile per essere meno reattivi nelle primissime ore del mattino. Era una delle tante cose che erano state studiate e preparate a lungo, in quei tre mesi che erano passati dalla sera in cui Okaka si era tuffato nel turbinoso torrente sotterraneo.
Il mondo, visto da lassù, era stano, come un gioco da bambini, un modellino di mondo per muoverci su dei soldatini di piombo. Malgrado il suo coraggio sovrumano il gigante nubiano ci aveva messo almeno un paio di settimane a imparare a tirare le frecce dalla groppa dell’animale che aveva catturato allora nella foresta. E quelle due settimane erano da sommare ai dieci giorni che ci aveva messo a domarlo, ma da ragazzino aveva aiutato un falconiere per qualche mese e aveva semplicemente attuato la stessa tattica di addomesticazione. Ora quel feroce sauro piumato gli era più attaccato di un cane o di un cavallo e proprio lui era la parte fondamentale del suo piano, perché non avrebbe mai potuto scalare quel monte dalla cima persa tra le nubi e, contemporaneamente, combattere con i Bousi e le loro guardie bestiali.
Arrivato a qualche centinaio di metri dalla parete inclinata del monte finalmente uno dei Critton lo notò e si avvicinò per dare un’occhiata. Il nubiano fu così veloce a scoccare la freccia dalla punta avvelenata con veleno di rana della foresta che l’animale non fece nemmeno in tempo a emettere un grido. Gli altri si accorsero di quello che era successo solo quando la carcassa bianca e piumata si schiantò a terra.
Okaka vide gli altri Critton che si alzavano e cominciavano a correre per decollare, li aveva osservati e sapeva bene quanto era difficoltoso per loro prendere il volo, e così ebbe tutto il tempo di preoccuparsi di quelli che si stavano lanciando da in mezzo alle nubi che cingevano il monte. Erano dodici quelli che spuntarono dalle nubi e solo uno di loro riuscì ad avvicinarsi abbastanza a lui da riuscire a guardarlo negli occhi. Le sue frecce li uccisero tutti. Poi, con calma, uccise i venticinque che, lentamente e distaccati gli uni dagli altri, arrivarono fino alla sua quota. Da quel che ne sapeva dovevano essercene un’altra decina, ma o non si erano svegliati o la loro fedeltà ai Bousi non era così cieca e assoluta. Meglio.
Lui e il suo destriero si infilarono tra le nubi e furono subito avvolti dalla cappa di caligine, però almeno non pioveva. Anche per quello aveva scelto quell’ora, la pioggia avrebbe reso tutto molto ma molto più difficile. Vide i primi Bousi e , dopo un paio di giri intorno al monte, ne aveva già abbattuto una ventina con le frecce prese dall’altra faretra e che aveva preparato con grande cura nella città in riva al mare a una decina di giorni di cammino da lì.
Quando capì che non sarebbero più usciti dai loro cunicoli si decise ad atterrare; sapeva che avrebbe dovuto farlo, era pronto a farlo. Rischiare la vita non era mai stato un problema per lui.
Atterrò nella stanza dove avevano divorato la ragazza e lì, nascosti negli angoli più bui, vide sei Bousi. Non erano in agguato, anche se avevano le loro asce in mano, erano terrorizzati. Incatenata al muro, semidivorata come la ragazza che era stata uccisa davanti a lui, una donna che avevano appena finito di scarnificare. Incoccò una freccia e colpì il più lontano al collo. Il mostro cadde a terra urlando fino a che dalla bocca e dalla ferita cominciarono a sgorgare enormi quantità di schiuma che lo soffocarono ancora prima che il suo collo e la sua testa finissero di sciogliersi.
Due dei Bousi nascosti si lanciarono contro di lui e li colpì prima ancora che avessero fatto cinque passi. La schiuma consumò anche loro, poi Okaka scese dal suo destriero, che aveva chiamato Pekahs e, la prossima freccia già appoggiata sul cordino di tendine teso, disse: - Sale. Vi piace il mio sale? – e scoccò in rapida successione le frecce per ucciderli. La punta di sale delle frecce li uccisero così rapidamente che Okaka non lo trovò nemmeno soddisfacente.
Uscì dall’edificio e corse verso la scala che scendeva giù nel monte e nel tragitto uccise a colpi di freccia altri dieci nemici. Erano così abituati ad avere a che fare con uomini ridotti a bestiame pigro e mansueto che non sapevano nemmeno difendersi. Quando arrivò all’imboccatura del sotterraneo lasciò l’arco, perché tanto nella stretta scala a chiocciola non avrebbe avuto spazio per maneggiarlo. Impugnò i suoi due pugnali e slacciò il cordino che assicurava l’ascia che teneva di traverso sulla schiena. Cominciò a scendere e, con le sue armi che aveva bagnato nell’acqua salata fino a farle arrugginire in superficie, uccise tutti i nemici che si trovava di fronte. Scese per molte rampe di scale, vide i prigionieri nella grande sala e, qualche livello più sotto, i novizi che si stavano trasformando. Erano così deboli che non perse tempo a ucciderli, anche perché, se aveva ragione, non ne avrebbe avuto alcun bisogno.
Alla fine arrivò alla sala che precedeva l’enorme caverna dove stava la Grande Madre. Lì alcuni Bousi più antichi, non resi inermi dallo scarso valore degli uomini che erano stati, lo aggredirono, ma scoprirono dolorosamente che l’armatura e il mantello che indossava erano totalmente ricoperti e intrisi di sale, non ebbe nemmeno bisogno di colpirli, bastò che lo toccassero. Con un colpo d’ascia decapitò gli ultimi due che si erano messi davanti alla porta ed entrò.
I Bousi che ormai non avevano più nulla di umano, enormi ma lenti, lo attaccarono, ma con pochi colpi d’ascia e di pugnale se ne liberò. Poi andò verso la mostruosità grigia e molle che riempiva il fondo della caverna e si fermò a guardarla. Gli enormi occhi bulbosi dell’essere demoniaco lo guardarono e, perso in millenni di trasformazione in lumaca, Okaka colse quel che restava di un’espressione umana, era terrorizzata e stava implorando pietà. Non l’avrebbe avuta, non dopo quello che avevano fatto a quelle persone per migliaia di anni, non dopo quello che quella povera ragazza aveva subito davanti a lui, non dopo la morte di Leka. Colpì il mostro con l’ascia in mezzo agli occhi e rimase assordato dal suo grido di dolore mentre il sale la consumava trasformandola in una massa ribollente di schiuma. Rimase fermo fino alla fine, fino a che nulla rimaneva di quella cosa abominevole.
Quando uscì dalla stanza nessuno lo attaccò, nessun mostro fuggì davanti a lui e nessuno gli tese degli agguati. Le uniche persone che trovò furono i novizi, morti e come mummificati sotto a un velo di schiuma, e i prigionieri che liberò accompagnandoli all’uscita. Tutti i Bousi erano morti, erano stati un’unica cosa con la grande Madre in vita e così lo erano stati nella morte.

Scese a valle con Pekahs e trovò la gente in preda al terrore, i pochi Critton rimasti stavano attaccando le persone che fino a pochi minuti prima avevano protetto e già dalla foresta alcuni predatori selvatici, simili al suo destriero alato, si erano infilati nella pianura uccidendo e distruggendo. Nessuno aveva la minima idea su come difendersi, e nessuno era armato in alcun modo, a non voler considerare armi delle zappe. Andò alla capanna dove lo avevano curato e trovò l’uomo che gli aveva salvato la vita e che aveva già perso, per causa sua, una figlia adorata. La casa era distrutta e c’era sangue ovunque, l’uomo agonizzava a terra con uno squarcio che andava dal petto all’anca e, afferrato Okaka per un piede disse: - Perché? Ho visto i miei compagni andare via … Perché? –
Okaka pensò che gli aveva dato la libertà e capì che a volte quello che è fondamentale e irrinunciabile per un uomo per un altro è una maledizione. Appartenere ai Bousi era stato tutto per quelle persone, senza di loro, finalmente liberi, erano Nulla. Guardando quell’uomo buono che stava morendo Okaka disse solo: - I tuoi Dei sono morti. – e gli tenne la mano mentre agonizzava.
Poi, vittorioso e disperato, volò via con Pekahs lasciando che l’apocalisse di Dagshepan avvenisse.

Era morta per lui, glielo doveva. Se ne sarebbe sicuramente pentito, un giorno, ma tra rimorso e rimpianto in quel caso sceglieva il primo. Scavò la tomba fino a ritrovare il corpo semimummificato di Leka, vide il monile a forma di scarabeo che le aveva posto tra le mani e, feritosi il palmo della mano col suo pugnale di ossidiana, afferrò quelle dita scheletriche bagnandole della sua vita. Vi fu come un lampo, un odore di fulmine nell’aria e poi, come se fosse stato il vento a sussurrare al suo orecchio, la voce squillante di Leka gli disse grazie.

FINE.

martedì 3 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 6.

Nuovo capitolo, un po' più breve di quello di ieri. La lunghezza dei capitoli, cari forse inesistenti lettori, non è decisa da me, perché, liberissimi di non crederci, queste storie si scrivono davvero da sole. Io ho una vaga idea di cosa accadrà e mi metto a scrivere e quello che ne risulta è sempre diverso da quello che mi aspettavo all'inizio.
Comunque, buona lettura anche oggi, e, se volete commentare quanto avete letto, sarò ben felice di rispondervi. Ciao!

6

Leka era al colmo della sua potenza e sapeva utilizzare al meglio i suoi poteri. Si muoveva nell’enorme sala con la velocità di un turbine, solida come un essere umano e fortissima nel momento in cui con i suoi artigli sventrava un nemico e impalpabile e simile a un soffio di vento quando qualcuno tentava di colpirla con le proprie mani o con un’arma. Uccise dodici nemici nel tempo in cui Okaka fece otto respiri e arrivò di fronte a lui sotto forma di un frenetico ribollire dell’aria stagnante e nebbiosa. Ricomparve in tutto il suo splendore e, gli occhi illuminati dall’interno da una luce che doveva essere quella che riscalda il punto più profondo degli Inferi, gli sorrise e disse: - Serve aiuto, gigante? – e calò un’artigliata sulla cinghia che gli stringeva i polsi. La strappò quasi del tutto, ma per farlo rimase ferma un istante di troppo. Uno dei Bousi più potenti, alto almeno un palmo e mezzo più del gigantesco nubiano, le calò addosso un’ascia bipenne aprendola dalla spalla destra al seno sinistro.
Leka guardò per il tempo di un battito di ciglia il suo amico e poi, gridando come un’aquila, colma di rabbia e terrore, si girò per attaccare il nemico mentre una enorme quantità di sangue sgorgava dallo squarcio che la deturpava. Ma non riuscì nemmeno a finire il movimento, un’altra ascia la colpì alla sinistra del collo e le portò via la testa che volteggiò per un brevissimo istante prima di trasformarsi in una nuvola di sangue e cadere a terra. Leka non c’era più, era morta per sempre.
Okaka approfittò di quel breve momento di soddisfazione dei mostri per essersi salvati e strappò l’ultimo lembo di cuoio che gli legava le mani. Si lanciò verso quello che aveva decapitato la sua amica e, strappatagli l’ascia che aveva usato, lo colpì alle gambe tagliandogliele di netto. Mentre quello rovinava a terra urlando, senza interrompere il movimento dell’arma, la piantò nel ventre di quello che aveva colpito Leka alla spalla. In mezzo ai due mostri agonizzanti il gigante nubiano si guardò intorno e fece un rapido calcolo. Erano troppi, troppi anche per lui. Con l’ascia in mano corse più veloce che poteva verso quell’immane mostruosità che, grigia e stillante bava, si ritraeva terrorizzata nel profondo della caverna. La evitò e saltò nell’acqua turbinante che andava fragorosamente a cadere in un imbuto di roccia e trattenne il respiro finche poté mentre la corrente lo sbatacchiava contro le lisce pareti di roccia del budello.
Riemerse nella notte, nel lago in fondo alla cascata che sgorgava dal monte a qualche migliaio di passi dalla casa dove era stato ospitato e curato. In cielo, nel buio enorme e trapuntato di stelle che ricopriva quel mondo di orrori, le bestie da guardia dei Bousi volavano in cerchio intorno al cappuccio di nubi di Qasrdag-nor, ma erano bestie diurne e non riuscivano a distinguerlo nel buio. Ringraziando la sua pelle dal colore così simile a quello della notte Okaka nuotò a grandi bracciate fino alla riva ricoperta di alberi e, l’ascia sempre stretta in mano, corse fino alla foresta. Vi entrò dopo essersi dato un’ultima occhiata alle spalle e, per un po’, scomparve dalla vista dei Bousi e delle loro guardie volanti.
Il loro grave errore fu credere che il gigante nubiano fosse fuggito. Okaka non fuggiva, mai. Okaka era andato ad armarsi e loro avrebbero assaggiato la sua vendetta.

lunedì 2 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 5.

Quinto episodio, un viaggio nella melma e nell'orrore. Che schifo! Buona lettura, comunque!

5

Le costruzioni sorgevano tutte sul bordo di un cratere che formava la cima del monte. Come sempre la vetta era avvolta da nubi in tempesta e l’acqua che cadeva incessantemente sui pendii scoscesi della bocca dell’antico vulcano spento si riuniva in rivoli e poi in ruscelli e infine in fiumi che vorticavano fino alle acque agitate di un lago giallastro che finiva poi per infilarsi in un’apertura nella roccia che sembrava la bocca di un mostro. Lì, accanto alla cascata dal rumore assordante, cominciava la ripida scala su cui gli uomini lumaca lo stavano trascinando. Scesero per un bel po’, alla luce tremolante di torce che sembravano sempre sul punto di cedere alla eterna umidità che saturava l’ambiente facendo stillare gocce limacciose da ogni superficie.
Passò in una grande stanza dove vide, incatenati ai muri su uno strato di lurida paglia semimarcita, alcuni abitanti dei villaggi nella vallata, evidentemente gli anziani e i fortunati prescelti tra i maschi adulti che erano stati chiamati a sé dagli Dei. Molti erano i poveri sfortunati che giacevano tremanti attaccati alle catene rosse di ruggine, ma molti di più erano i posti vuoti. Vedendo quei posti vacanti Okaka si ricordò che di lì a pochi giorni i sacerdoti sarebbero dovuti scendere a valle per un’altra infornata di beati e fortunati chiamati all’Ascensione.
Di guardia ai poveri sventurati destinati al macello e sparsi un po’ ovunque qua e là, gli orrendi guardiani, che, lontani dal gregge che amichevolmente proteggevano là in fondo, passavano il tempo a sgranocchiare tranquilli ossa umane.
Lo trascinarono ancora più giù, sempre più a fondo in quella terra maleodorante e viscida, in scale e cunicoli sotterranei grondanti di muffe e bave, e vide, dentro a un’altra stanza, degli altri uomini che si aggiravano in stato catatonico evitando appena le pareti. La loro pelle era ricoperta di chiazza grigiastre e, a volte, i loro occhi sembravano sporgere dalle orbite. Erano i più grandi tra gli abitanti della grande pianura, alti più di lui anche di un palmo, ed evidentemente erano i novizi del culto degli Dei Bousi.
Poi arrivarono in fondo alle scale, in un corridoio il cui pavimento era ricoperto di un’orrida guazza che puzzava di morte e paludi, e, liberatisi di quei sai neri, i suoi carcerieri lo trascinarono fino a una porta. Quando questa si aprì lo portarono all’interno.
Era una immensa caverna rischiarata non da torce ma da pietre debolmente fluorescenti che stavano incassate un po’ ovunque nelle pareti e nel soffitto. Il buio era quasi totale e il poco che si vedeva sembrava di colore verde marcio. Lì c’erano i Bousi, senza alcun dubbio, e, in fondo alla stanza là dove rombava la cascata del fiume che, fuoriuscito in un tranquillo laghetto ai piedi del monte, irrigava la pianura con le sue pigre e ampie anse, un qualcosa di enorme che sembrava ronzare e vibrare muovendo quell’atmosfera marcia e puzzolente tutto intorno a sé. Quel qualcosa, che i suoi occhi tentarono di non vedere, era un’enorme lumaca priva di guscio, più grande di dieci olifanti messi insieme, intenta a divorare con la sua oscena bocca il corpo ancora caldo di una donna ritenuta evidentemente troppo vecchia per essere utile a quei demoniaci allevatori.
- Eccolo! – disse il capo dei suoi aguzzini, quello che gli aveva assaggiato il torace e lo gettò in mezzo a quelli che dovevano essere i suoi capi. In alcuni di loro traspariva ancora, semisommersa nella forma della lumaca che erano diventati, un’ombra degli uomini che erano stati, ma in quelli più vecchi, o forse antichi, dell’uomo che erano stati non rimaneva nulla.
Uno dei più mostruosi, una lumaca grande almeno come un toro, lo guardò con i suoi occhi bulbosi e disse: - Okaka del Mare dei Mostri. Benvenuto! –
Lui si alzò malgrado la cinghia che gli stringeva i polsi feriti, sollevò la catena e si deterse per quanto possibile il corpo da quella bava fetida che ammorbava e ricopriva tutto là sotto, guardò quella cosa che secoli prima doveva essere stata una faccia e disse: - Potete mangiarmi, se volete, ma non avrete le mie grida, bestie schifose! –
Da quell’orifizio stillante bava uscì uno strano suono sincopato che solo dopo un po’ il gigante nubiano capì essere una risata, poi quella voce gorgogliante riprese a parlare e gli disse: - Da te, gigante del colore dell’ebano, non vogliamo nutrimento.
Da millenni ormai selezioniamo con cura quegli animali che hai visto brucare il terreno giù alle falde del nostro monte, e abbiamo ottenuto delle ottime bestie da carne, grasse, robuste, fertili e docili; ma, proprio perché buoni per il macello, pochi di loro sono adatti a ricevere il nostro seme. Non sopravvivono al cambiamento o, se lo fanno, ne escono fuori dei deboli esseri che non sono degni di esistere accanto alla Grande Madre che vedi là in fondo.
Quelli che ti hanno catturato sono i pochi che riescano a servirla dignitosamente e io e i miei fratelli che vedi qui intorno a te esistiamo ormai da almeno un paio di millenni. –
- Aspetto con impazienza la vostra estinzione, mostri immondi. – disse Okaka ridendo in faccia alla morte.
- Tu, gigante nubiano, tu che hai battuto la morte e i demoni, tu che hai combattuto per tutte le terre di questo mondo contro nemici di ogni genere, tu sarai un ottimo ospite per il nostro seme e da te, tra qualche secolo, nascerà finalmente un compagno adatto per la Grande Madre. –
- Mai! – urlò lui.
- Nessuno ha chiesto il tuo permesso, bestia, quello che noi Bousi vogliamo, noi Bousi lo facciamo. – e i suoi carcerieri lo presero per le braccia e, malgrado i suoi tentativi di liberarsi, lo trascinarono davanti a quell’immonda mostruosità che riempiva il fondo della caverna.
Lui sputò addosso a quella parete di carne marcescente che pulsava di fronte a lui e uno dei carcerieri reagì dandogli una bastonata nel retro delle ginocchia. Crollò a terra e due di loro gli afferrarono la faccia aprendogli a forza la bocca. Intanto il loro capo si avvicinò alla Grande Madre e, con un pugnale d’argento, staccò un lembo di pelle dal suo fianco. Quando lo fece accaddero due cose, quel frammento di pelle si trasformò immediatamente in una minuscola lumaca identica alla Madre e tutti loro sussultarono per il dolore. Quindi tutti loro erano un unico essere, e presto anche lui sarebbe stato parte di loro. Il capo gli si avvicinò con quella piccola lumaca schifosa che gli si agitava stillando bava tra le dita e gli disse: - Ora questa piccola meraviglia entrerà in te attraverso la bocca e si discioglierà nel tuo corpo, dove, granello dopo granello, comincerà a crescere prendendo il totale controllo di quello che, ancora per poco sei tu, e poi, tra pochi secoli, sarai il nostro Re! – e si avvicinò alla sua bocca che gli altri tenevano spalancata.
E fu allora, proprio in quel momento che sembrava l’ultimo della sua vita, che delle grida arrivarono dall’esterno della stanza. Qualcuno stava uccidendo gli uomini lumaca e i loro guardiani pennuti, qualcuno che sembrava incazzato e potente.
Okaka non si stupì affatto vedendo che quel qualcuno era Leka, così colma del sangue dei nemici che aveva ucciso da sembrare davvero una dea della vendetta.
Non era ancora finita.

domenica 1 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 4.

Nuovo capitolo fresco fresco, e questo è davvero molto pulp, pure troppo! Buona lettura!

4

Si assopì per qualche minuto, mentre l’enorme ragazza gli dormiva addosso schiacciandolo col suo grosso corpo sudato. La stanchezza e la tensione lo avevano stremato negli ultimi giorni e quella ragazza era stata davvero all’altezza della sua taglia. E così si accorse del rumore di passi vicino alla porta un istante troppo tardi. Fu troppo educato con lei per togliersela di dosso con violenza e quei pochi istanti persi nello spostarla su un fianco lo persero. Cinque enormi uomini vestiti di nero si scagliarono addosso a lui, ombre tra le ombre, e delle mani incredibilmente forti lo afferrarono per le braccia e le gambe. Riuscì a sollevare il braccio destro e strinse la sua grande mano colore dell’ebano sul collo di uno dei cinque, ma le sue dita slittarono su una pelle fredda e viscida che lo disgustò. Poi fu colpito con dei bastoni e sulla sua testa calò un sacco che lo rese cieco e inerme.
Lo sollevarono e lo portarono via caricandolo su un grosso animale. Capì dall’odore che era uno dei “cani” da pastore. Li aveva visti volare molte volte verso la cima del monte avvolta da nubi e capì cosa stava per succedere. Quello che lo stupì fu sentire anche le grida di una donna. Avevano catturato anche quella povera ragazza. Legato, stordito e incappucciato non era assolutamente in grado di aiutarla, ma avrebbero pagato tutto il terrore che lei stava provando in quel momento.
Poi la bestia decollò e lui sentì l’aria gelida della notte che gli sfrecciava addosso. Stavano salendo, stavano salendo davvero un bel po’, tanto che l’aria si fece sottile e lui, stordito per le botte e legato in una posizione scomoda, perse i sensi.

Si svegliò in una stanza molto grande, fredda, con l’umidità che si addensava sui muri e sul pavimento facendo crescere qua e là soffici cuscini di muschio. Era sempre notte e la luce veniva da poche, distanti torce.
Era legato con le mani appese ad un gancio che gli permetteva di appoggiare appena i piedi a terra. vicino a lui, nuda e piangente, la ragazza che avevano catturato insieme a lui. Vista così non era sensuale, malgrado le sue forme, no. Era una bambina spaventata che rabbrividiva in una stanza buia con i polsi appesi al muro. Il gigante nubiano sentì il sangue ribollirgli nelle vene, voleva aiutarla, voleva liberarla, voleva farla smettere di tremare e piangere, ma era legato troppo stretto e la cinghia di cuoio che gli stringeva i polsi era troppo resistente.
- Stai tranquilla, cara. – le disse non ricordandosi sul momento il suo nome – Ti libererò e ti riporterò dai tuoi genitori. –
- Non erano umani. – disse lei fissandolo con occhi enormi e terrorizzati – Non erano umani. –
- Cosa vuoi dire? – le chiese ricordandosi quella pelle fredda e viscida che aveva stretto tra le dita. Gli aveva ricordato qualcosa ma ora, in quella situazione … la testa gli faceva male per una bastonata e l’aria, oltre che terribilmente sottile, puzzava di marcio come una palude e gli dava la nausea. – Come erano? –
- Lei continuò a piangere per un po’, tentando di incrociare le gambe per la vergogna di essere così nuda e indifesa, poi lo guardò e disse: - Gli occhi. I loro occhi … - ma un rumore la interruppe. Quattro uomini incappucciati in un saio nero entrarono e si fermarono di fronte a loro. Erano enormi come gli uomini di Dagshepan e puzzavano di acqua marcia.
- Io sono Okaka della Nubia e del Mare dei Mostri. – disse loro con tutta la dignità che la sua condizione di prigioniero nudo, bastonato e infreddolito gli concedeva – Presentatevi. –
Loro risero con voci gorgoglianti e poi abbassarono i cappucci. Per un attimo sembrarono normali, poi successe una cosa che lo disgustò e che fece urlare dal terrore la povera ragazza. I loro occhi uscirono dalle orbite rimanendo ritti su delle antenne lunghe una decina di centimetri e le loro bocche, quando parlarono, si aprirono come orifizi privi di ossa. La loro pelle era grigia e rugosa e i loro sai erano inzuppati di bava. – Noi siamo i Bousi, Okaka dalla Nubia, e tu sei prigioniero. –
- Liberate la ragazza. – disse loro con voce decisa – Lei non c’entra nulla con me. –
Uno di loro, quello che sembrava meno umano fra tutti, rise di nuovo e poi disse: - Gigante nubiano, lei porta in sé un figlio tuo. – e si chinò ad annusarle in ventre inspirando con un suono di foglie marce – e il tuo seme coraggioso e indomabile rovinerebbe la razza di animali che abbiamo selezionato con tanta fatica. –
- Liberatela! – urlò.
- No, gigante, non la libereremo. Però potrà esserci utile in un altro modo. – disse, e poi, guardandolo con aria di scherno, si avvicinò a lei appoggiandole addosso alla coscia quella bocca sul cui labbro superiore si muovevano due piccole antenne simili a quelle su cui portava quegli occhi bulbosi. La ragazza urlò tentando di allontanarsi da lui e scalciò sulla sua faccia che sembrava priva di ossa da come assorbiva i colpi, poi le sue grida cambiarono, dal terrore al dolore più acuto. Fu allora che anche gli altri tre la aggredirono. Okaka si ferì i polsi fino all’osso tentando di liberarsi, urlò e scalciò appeso a quel gancio e bestemmiò tutti gli dei che conosceva, ma non poté liberarsi e fu costretto a vedere quei mostri che, con quelle bocche dotate di una lingua irta di piccoli denti affilati, la mangiavano leccata dopo leccata arrivando fino all’osso mentre il sangue colava sui loro volti.
Fu una cosa lunga, la ragazza urlò mentre le sue gambe venivano scarnificate e non finì di tremare e mugolare prima che i quattro fossero arrivati ai fianchi e al ventre. Quando di lei non rimase che un torso sopra alle ossa delle sue gambe i quattro mostri, gonfi di cibo e lordi di sangue, si staccarono da lei guardandolo con un sorriso marcio come loro sul volto. Poi uno di loro fischiò e una di quelle bestie saltò giù da un’apertura nel tetto e, con pochi morsi, finì quanto rimaneva della ragazza che solo poche ore prima lui aveva amato. Poi di lei non rimase che una chiazza di sangue sul pavimento e sul muro.
La bestia uscì e lui rimase da solo, legato al muro, davanti a quelle cose immonde. Uno di loro gli si avvicinò e gli diede una leccata sul petto portandogli via una striscia di pelle con un dolore così forte che mai ne aveva sentito uno simile.
Quella sarebbe stata dunque la sua morte? Incatenato e mangiato vivo da degli uomini lumaca? Non avrebbe urlato, quello non lo avrebbero avuto da lui. Li guardò con tutta la sua fierezza e aspettò che continuassero, ma tutti e quattro insieme dissero, come se il pensiero fosse sorto in loro contemporaneamente, - Lui no. Ci serve in un altro modo. – e, sollevatolo dal gancio, lo trascinarono fuori da quella stanza, giù per una scala che scendeva nella montagna per molte decine di braccia di profondità. L’odore di marcio e corruzione che aumentava ad ogni gradino non prometteva certo un destino migliore di quello a cui era appena sfuggito.