domenica 1 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 4.

Nuovo capitolo fresco fresco, e questo è davvero molto pulp, pure troppo! Buona lettura!

4

Si assopì per qualche minuto, mentre l’enorme ragazza gli dormiva addosso schiacciandolo col suo grosso corpo sudato. La stanchezza e la tensione lo avevano stremato negli ultimi giorni e quella ragazza era stata davvero all’altezza della sua taglia. E così si accorse del rumore di passi vicino alla porta un istante troppo tardi. Fu troppo educato con lei per togliersela di dosso con violenza e quei pochi istanti persi nello spostarla su un fianco lo persero. Cinque enormi uomini vestiti di nero si scagliarono addosso a lui, ombre tra le ombre, e delle mani incredibilmente forti lo afferrarono per le braccia e le gambe. Riuscì a sollevare il braccio destro e strinse la sua grande mano colore dell’ebano sul collo di uno dei cinque, ma le sue dita slittarono su una pelle fredda e viscida che lo disgustò. Poi fu colpito con dei bastoni e sulla sua testa calò un sacco che lo rese cieco e inerme.
Lo sollevarono e lo portarono via caricandolo su un grosso animale. Capì dall’odore che era uno dei “cani” da pastore. Li aveva visti volare molte volte verso la cima del monte avvolta da nubi e capì cosa stava per succedere. Quello che lo stupì fu sentire anche le grida di una donna. Avevano catturato anche quella povera ragazza. Legato, stordito e incappucciato non era assolutamente in grado di aiutarla, ma avrebbero pagato tutto il terrore che lei stava provando in quel momento.
Poi la bestia decollò e lui sentì l’aria gelida della notte che gli sfrecciava addosso. Stavano salendo, stavano salendo davvero un bel po’, tanto che l’aria si fece sottile e lui, stordito per le botte e legato in una posizione scomoda, perse i sensi.

Si svegliò in una stanza molto grande, fredda, con l’umidità che si addensava sui muri e sul pavimento facendo crescere qua e là soffici cuscini di muschio. Era sempre notte e la luce veniva da poche, distanti torce.
Era legato con le mani appese ad un gancio che gli permetteva di appoggiare appena i piedi a terra. vicino a lui, nuda e piangente, la ragazza che avevano catturato insieme a lui. Vista così non era sensuale, malgrado le sue forme, no. Era una bambina spaventata che rabbrividiva in una stanza buia con i polsi appesi al muro. Il gigante nubiano sentì il sangue ribollirgli nelle vene, voleva aiutarla, voleva liberarla, voleva farla smettere di tremare e piangere, ma era legato troppo stretto e la cinghia di cuoio che gli stringeva i polsi era troppo resistente.
- Stai tranquilla, cara. – le disse non ricordandosi sul momento il suo nome – Ti libererò e ti riporterò dai tuoi genitori. –
- Non erano umani. – disse lei fissandolo con occhi enormi e terrorizzati – Non erano umani. –
- Cosa vuoi dire? – le chiese ricordandosi quella pelle fredda e viscida che aveva stretto tra le dita. Gli aveva ricordato qualcosa ma ora, in quella situazione … la testa gli faceva male per una bastonata e l’aria, oltre che terribilmente sottile, puzzava di marcio come una palude e gli dava la nausea. – Come erano? –
- Lei continuò a piangere per un po’, tentando di incrociare le gambe per la vergogna di essere così nuda e indifesa, poi lo guardò e disse: - Gli occhi. I loro occhi … - ma un rumore la interruppe. Quattro uomini incappucciati in un saio nero entrarono e si fermarono di fronte a loro. Erano enormi come gli uomini di Dagshepan e puzzavano di acqua marcia.
- Io sono Okaka della Nubia e del Mare dei Mostri. – disse loro con tutta la dignità che la sua condizione di prigioniero nudo, bastonato e infreddolito gli concedeva – Presentatevi. –
Loro risero con voci gorgoglianti e poi abbassarono i cappucci. Per un attimo sembrarono normali, poi successe una cosa che lo disgustò e che fece urlare dal terrore la povera ragazza. I loro occhi uscirono dalle orbite rimanendo ritti su delle antenne lunghe una decina di centimetri e le loro bocche, quando parlarono, si aprirono come orifizi privi di ossa. La loro pelle era grigia e rugosa e i loro sai erano inzuppati di bava. – Noi siamo i Bousi, Okaka dalla Nubia, e tu sei prigioniero. –
- Liberate la ragazza. – disse loro con voce decisa – Lei non c’entra nulla con me. –
Uno di loro, quello che sembrava meno umano fra tutti, rise di nuovo e poi disse: - Gigante nubiano, lei porta in sé un figlio tuo. – e si chinò ad annusarle in ventre inspirando con un suono di foglie marce – e il tuo seme coraggioso e indomabile rovinerebbe la razza di animali che abbiamo selezionato con tanta fatica. –
- Liberatela! – urlò.
- No, gigante, non la libereremo. Però potrà esserci utile in un altro modo. – disse, e poi, guardandolo con aria di scherno, si avvicinò a lei appoggiandole addosso alla coscia quella bocca sul cui labbro superiore si muovevano due piccole antenne simili a quelle su cui portava quegli occhi bulbosi. La ragazza urlò tentando di allontanarsi da lui e scalciò sulla sua faccia che sembrava priva di ossa da come assorbiva i colpi, poi le sue grida cambiarono, dal terrore al dolore più acuto. Fu allora che anche gli altri tre la aggredirono. Okaka si ferì i polsi fino all’osso tentando di liberarsi, urlò e scalciò appeso a quel gancio e bestemmiò tutti gli dei che conosceva, ma non poté liberarsi e fu costretto a vedere quei mostri che, con quelle bocche dotate di una lingua irta di piccoli denti affilati, la mangiavano leccata dopo leccata arrivando fino all’osso mentre il sangue colava sui loro volti.
Fu una cosa lunga, la ragazza urlò mentre le sue gambe venivano scarnificate e non finì di tremare e mugolare prima che i quattro fossero arrivati ai fianchi e al ventre. Quando di lei non rimase che un torso sopra alle ossa delle sue gambe i quattro mostri, gonfi di cibo e lordi di sangue, si staccarono da lei guardandolo con un sorriso marcio come loro sul volto. Poi uno di loro fischiò e una di quelle bestie saltò giù da un’apertura nel tetto e, con pochi morsi, finì quanto rimaneva della ragazza che solo poche ore prima lui aveva amato. Poi di lei non rimase che una chiazza di sangue sul pavimento e sul muro.
La bestia uscì e lui rimase da solo, legato al muro, davanti a quelle cose immonde. Uno di loro gli si avvicinò e gli diede una leccata sul petto portandogli via una striscia di pelle con un dolore così forte che mai ne aveva sentito uno simile.
Quella sarebbe stata dunque la sua morte? Incatenato e mangiato vivo da degli uomini lumaca? Non avrebbe urlato, quello non lo avrebbero avuto da lui. Li guardò con tutta la sua fierezza e aspettò che continuassero, ma tutti e quattro insieme dissero, come se il pensiero fosse sorto in loro contemporaneamente, - Lui no. Ci serve in un altro modo. – e, sollevatolo dal gancio, lo trascinarono fuori da quella stanza, giù per una scala che scendeva nella montagna per molte decine di braccia di profondità. L’odore di marcio e corruzione che aumentava ad ogni gradino non prometteva certo un destino migliore di quello a cui era appena sfuggito.

Nessun commento:

Posta un commento