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giovedì 20 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXVII.

3

Base Luna.

Il viaggio dalla S.S.I. alla Luna fu come al solito una passeggiata. L’astronave degli alieni era schermata dalle radiazioni, dotata di gravità artificiale, calda e con l’umidità perfetta. Se ancora non avevano cominciato a usarle anche per decollare, era solo per tenere lontani dal programma spaziale tutti gli indesiderati.
- Come sta il ragazzo? – chiese all’alieno che gli stava passando accanto.
- Brian? – gli chiese telepaticamente il tappo.
- Sì. – Franco si ostinava a parlare, anche se non ce n’era alcun bisogno – Si è svegliato? –
- Sì. E adesso è calmo. Sta parlando con un suo superiore dalla base lunare. – gli disse l’inespressiva maschera grigia che lo fissava da meno di dieci centimetri dal suo naso. E Franco pensò che spesso al risveglio si era più calmi. Chissà come pasticciavano coi pensieri di un umano, quei cosi, chissà se anche lui aveva più pensato i suoi pensieri da quando li aveva incontrati anni prima.
- Bene. Quando arriviamo? – chiese all’alieno ricordandosi della collina a forma di piramide e del ragazzo esploso per una bolla di gas, che puttanata, e quelli erano senza dubbio pensieri suoi.
- Tra due ore. – gli pensò il coso, poi accennò un sorriso e un inchino e si allontanò col suo passo leggero da ballerino.
Franco prese il suo promemoria, dove i dirigenti del programma, su ordine dei loro dirigenti che avevano preso ordini dai loro dirigenti, e così via fino alla Cupola che governava l’umanità, a voler credere ai più complottisti tra loro, quelli che dopo un po’ venivano colpiti da un qualche tipo di crisi mistica e scappavano in un monastero in India o in una Meteora in Grecia, e vide che avrebbe dovuto collaborare con i cosi grigi allo sviluppo di un nuovo motore da aereo capace di superare i sei G. Ottimo davvero, così più gente avrebbe volato da un capo all’altro del pianeta.
Masticò il fondo della penna ripensando a tutto quello che avevano avuto dagli alieni dal ’69 ad allora. Praticamente tutta la tecnologia che faceva andare avanti il nostro disgraziato mondo, motori, industria chimica, cementi, trasporti su rotaia, su gomma e via aerea. Praticamente ogni invenzione dalla missione Apollo ad adesso era stato in realtà l’adattamento di tecnologia gentilmente donata dagli alieni.
Guardò la Terra che si allontanava alla sua destra e ripensò agli inverni di quando era piccolo. Praticamente tutto il cambiamento climatico era cominciato dopo l’intervento dei cari amici. Sorrise battendosi la penna sugli incisivi; stava forse diventando paranoico? Sarebbe finito con la barba lunga e una bottiglia di vino, macché bottiglia, un cartoccio di Tavernello, avvolto nella carta da pane, seduto a un angolo di strada a sbraitare contro i complotti e gli alieni? Era successo ad alcuni che conosceva, e certi tra loro, pochi sì, ma c’erano, erano morti in strani incidenti.
Un po’ perdendosi in questi pensieri da paranoico, anche se i paranoici di solito non si trovano davvero su un’astronave aliena con accanto dei veri Grigi, anche se molti paranoici ne sono convinti, e un po’ facendo il suo lavoro, le due ore passarono e l’astronave atterrò sulla base aliena sulla faccia nascosta della Luna.
L’enorme astronave era leggera come una piuma nei suoi movimenti e l’atterraggio era più simile al fermarsi della metro alla stazione che all’atterraggio di un aereo sulla pista. Alieni e umani scesero sulla rampa e come al solito Franco si chiese come cavolo facessero quei ridicoli cosetti asessuati a mantenere un’atmosfera sulla loro base senza l’ombra di un contenitore di vetro o simile, perché di certo quella era una tecnologia che i cari amici non avevano ancora passato agli umani.
Dirigendosi verso la vera e propria base, che era formata da una serie di piattaforme di dimensioni via via decrescenti poste una sopra all’altra Franco notò ancora una volta l’incredibile somiglianza tra quella base e la collina che sorgeva accanto alla casa di Carla. Persino le dimensioni erano simili, per non parlare della costruzione posta sul cucuzzolo, qua il centro di comando e là un villone. Erano come i casi di convergenza evolutiva, pensò guardando la costruzione posta a un centinaio di metri sopra di lui, come il triceratopo che assomiglia al rinoceronte o al cervo volante, o come il delfino e l’ittiosauro. Cose diverse ma evidentemente uguali. Entrarono dall’ingresso principale, che sembrava un po’ un tempio egizio alla Karnak, con colonne tozze e una pesante architrave. Vicino a lui camminava il povero Brian, che aveva l’espressione di uno che si fosse appena fatto un paio di dosi di LSD, ma bisogna anche dire che nessun chimico sarebbe mai riuscito a creare delle visioni incredibili come quello che il ragazzo texano aveva appena vissuto davanti agli occhi esperti di Franco.
- Capito perché ci fanno firmare quel documento? –
Brian annuì senza parlare, roteando di qua e di là gli occhi come un pazzo, poi chiese: - Da quanto va avanti ‘sta storia? –
- Da quel che ne so, dalla missione dell’Apollo 11. O almeno noi sappiamo che sono qua da allora. Ma io penso che gironzolassero tra noi già da un po’. –
- E come fai a dirlo? –
Franco gli indicò l’entrata monumentale che stavano oltrepassando proprio allora e gli disse: - Non hai come un senso di dejà vu? -
- Perché? –
Mannaggia agli americani e alla loro ignoranza pensò sorridendo, poi pensò a cosa potesse aver visto al cinema e disse: - L’ antico Egitto, tipo Indiana Jones? –
- Non li ho mai visti quei film, sono vecchi. –
- Stargate l’hai visto? –
- Ah sì, bello. – disse, poi fece un paio di passi indietro e riguardando l’entrata disse: - Ah! È vero, sembra quella piramide. –
Franco gli sorrise e pensò che se quegli alieni stavano complottando contro gli umani e a governare gli umani c’erano i compatrioti di quel ragazzo, gli alieni potevano anche farla breve, avevano già vinto. Guardando con una nuova attenzione quel posto che aveva già visto almeno una decina di volte, e notando per la prima volta le iscrizioni sui muri, che gli ricordarono una forma davvero estrema di corsivo o anche le scritte in elfico del Signore degli Anelli, entrò nel salone da cui partivano i vari corridoi.
- Un caffè? – chiese al ragazzo che sembrava camminare a un palmo da terra, e non solo per la bassa gravità lunare, ma quello fece cenno di no e seguì il cicerone alieno che stava portando i nuovi arrivati a un giro turistico della base. Già visto, è tutto già visto, pensò entrando nel bar dove c’erano una decina di persone. Erano quasi tutti astronauti e li salutò con un cenno della mano, ma un paio di tizi erano in giacca e cravatta ed erano fuori posto come una mucca al parlamento. Uno dei due aveva all’incirca la stessa espressione di Brian. Era alto e magro, con capelli corti e occhiali. All’anulare destro portava un anello che aveva già visto al dito di molti tizi che sapevano degli alieni. Si sedette accanto a lui e disse, tanto per rompere il ghiaccio: - Prima volta qui? –
L’uomo dallo sguardo stravolto riconobbe l’accento e gli rispose in italiano: - Si vede eh? –
- Sembra uno che ha appena visto gli alieni. –
- Buona questa. – disse l’uomo accennando una risatina nervosa, poi gli porse la mano e disse: - Sono Filippo Malerba. –
- Quel Filippo Malerba? – gli chiese Franco rendendosi conto di essere seduto accanto a uno di quegli uomini che avrebbero potuto parlare da pari a pari con Barack Obama dall’alto di una montagna di soldi. E si rese conto anche che la maggior parte delle invenzioni gentilmente donate dagli alieni erano ora in possesso di quell’uomo e di un’altra manciata di miliardari in tutto il mondo.
- Sì. – l’uomo parve davvero imbarazzato, poi disse: - Quando il mio assistente, che lavorava già per mio padre, mi ha detto che oggi avrei conosciuto dei soci di mio padre di cui non sapevo ancora niente, mi sono immaginato un po’ di tutto, ma a questo non c’ero proprio arrivato. –
Franco sorrise e si apprestò a sentire qualche bella storiella interessante da uno degli uomini più ricchi del mondo, che solo quella sera, mentre si apprestava ad andare a dormire, capì essere anche l’uomo che abitava nella villa in cima alla piramide che aveva visto accanto alla casa di Carla. Ma allora ascoltò solo quello che l’uomo gli avrebbe raccontato.

mercoledì 19 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXVI.

2

Nello spazio.

Sarebbe potuta anche andare peggio. Avrebbe potuto decidere di aprire la porta stagna per lanciarsi nel vuoto depressurizzando la stazione spaziale internazionale. Avrebbe anche potuto riuscirci, cavolo, sarebbero morti tutti, umani e alieni, se quegli alieni potevano morire, naturalmente.
E sì, sarebbe potuta andare peggio. Non che non fosse andata male, certo, ma essere ottimista era nella sua natura. Guardando il povero Brian McNamara, sì, non ridete voi, si chiamava davvero McNamara, addormentato, anzi sedato, legato a una barella mentre il russo e il tedesco controllavano i suoi segni vitali, Franco se ne stava al suo monitor aspettando che il satellite si liberasse per controllare la sua posta. Perché la vita va avanti, questo aveva imparato, tutto a un tratto ti si parano davanti degli alieni, scopri che quello che hai sempre saputo sul programma spaziale, programma spaziale di cui tu fai parte, era falso, e che sulla famosa Stazione Spaziale Internazionale, la grande conquista dell’umanità, in realtà non ci starai più di un paio di giorni, perché in realtà il tuo lavoro è andare con quei buffi cosi che ti parlano dritti nella testa, ma la tua vita va avanti.
E sarebbe andata avanti anche per Brian, povero ragazzo che se ne era stato bravo per tre giorni, compiendo esperimenti di varie università eseguibili solo in assenza di gravità, che aveva ammirato la Terra dall’orbita, che aveva combattuto con la nausea e con i dispositivi per evacuare in quella innaturale situazione, capendo benissimo che qualcosa stava per accadere, che c’era qualcosa in arrivo, e sapendo benissimo che nessuno dei suoi compagni gliene avrebbe parlato se non sotto forma di enigmatici accenni.
E poi, ricordò mentre si collegava alla sua casella di posta elettronica, su cui venivano convogliate anche le telefonate ricevute dal suo cellulare, tutto a un tratto loro erano arrivati. Si erano accostati alla S.S.I. col loro enorme shuttle ed erano saliti a bordo. Saliti a bordo avevano salutato i presenti con quel loro fare gentile e mellifluo, facendoti scivolare i loro pensieri dentro alla mente in quella maniera sottilmente disturbante e Brian, che aveva bombardato pericolosi terroristi afgani che nella stragrande maggioranza dei casi erano solo dei poveracci a un matrimonio, Brian che aveva fatto appontaggi sulle portaerei durante delle tempeste, si era messo a urlare.
Lo capiva, poveraccio, lo capiva benissimo. Perché quegli alieni che dal 1969 collaboravano con Americani e Russi, quei tipetti grigi alti sì e no come un bambino di nove anni, quegli alieni dalla testa grossa e le gambette corte e secche che avevano una base sulla Luna che, gentilmente, avevano aperto anche agli umani, avevano qualcosa di sottilmente sbagliato e sgradevole, l’equivalente mentale di un’unghia passata sulla lavagna, che anche a Franco aveva sempre dato fastidio.
E così Brian si era messo a urlare, e quando i Grigi avevano tentato di parlargli dentro dicendo di calmarsi, di stare calmo perché loro venivano in pace ed erano amici, le sue urla erano diventate un incontrollabile attacco di panico, e aveva perso totalmente il controllo vomitando e urinandosi addosso e aveva cominciato a sbattere contro le pareti tentando di fuggire e loro erano stati costretti a sedarlo per il suo bene.
Guardò un’ultima volta quel povero ragazzo legato con delle cinghie al lettino e effettuò l’accesso alla sua mail. E lesse della telefonata di Carla. Delle telefonate di Carla, a dire il vero, perché erano otto. Selezionò la modalità telefono e la chiamò. Sentì gli squilli, e al terzo lei rispose.
- Ciao Carla, mi hai cercato? – le chiese con voce allegra.
- Franco? – disse lei con voce affranta. Era la voce di una persona che aveva pianto, e pianto molto.
- Cosa c’è bellissima? –
- Mio fratello. È morto ieri. –
- Cosa? – le chiese sobbalzando. Se non si sbagliava gli aveva detto che il fratello era un ingegnere che lavorava al deposito di scorie nucleari.
- Il cantiere del deposito, ci hanno fatto sapere che scavando hanno beccato una sacca di gas naturale e … c’è stata un’esplosione, non ci hanno detto molto, ma pare che siano morti almeno in cinquanta, e lui era lì vicino all’imboccatura. –
- Un’esplosione? – le chiese. Negli ultimi anni aveva fatto parte di una mega balla raccontata come copertura e sapeva riconoscerne un’altra a prima vista. E questa ne aveva tutto il profumo.
- Pare che stessero facendo il rifornimento alla trivella, c’era anche un’autobotte lì accanto, e così … pare che non potranno neanche restituirci il corpo. –
- Dove sei adesso? – le chiese cominciando a rimpiangere di essere al telefono con lei. Le telefonate, tutte le telefonate, sono intercettate ai piani alti.
- Sono a casa dei miei, nelle Marche. –
- O Carla … - le disse senza sapere come continuare. Ci sarebbe voluto un abbraccio, ma è difficile abbracciare una persona quando lei è a terra e tu sei in orbita.
- Franco … - gli disse – Mio fratello mi aveva detto una cosa … Una cosa strana. –
Lui si girò a guardare il ragazzo sedato con un simpatico amico alieno che gli controllava i segni vitali, approfittandone anche per dargli una bella sbirciata alla mente e pensò che ce ne erano di cose strane al mondo, e alcune anche molto vicine alla ragazza che gli stava parlando. Sperando che fosse una puttanata, una di quelle puttanate che passano inosservate agli intercettatori, le chiese: - Cosa? –
- Andrea mi aveva detto che avevano trovato una cosa là sotto. Ma non era gas, era un qualcosa di antico, qualcosa di metallico sepolto sotto a chilometri di sale. –
- In che senso qualcosa di metallico? – e intanto sperava che non fosse niente, niente di niente al cubo.
- Qualcosa come un’enorme astronave, sepolta laggiù dai tempi dei dinosauri. E se avessero voluto mettere il tutto a tacere? –
- Forse ti prendeva in giro, Carla. Non esistono le astronavi aliene, credimi. – e si sentì davvero il più infimo degli stronzi di questo infimo mondo abitato da stronzi. Aveva mentito a una ragazza che piangeva suo fratello, una ragazza che lo aveva chiamato in preda alla disperazione. Una ragazza che se si fosse messa in testa idee strane sarebbe diventata un altro problema da risolvere. – Ti prendeva sicuramente in giro, Carla. –
- Io lo conosco mio fratello. – disse lei, poi aspirò un singhiozzo col naso e disse: - Lo conoscevo, non stava scherzando. Aveva trovato qualcosa là sotto. Ho paura. –
- Mi dispiace, Carla. Appena potrò ti chiamerò di nuovo. – le disse e interruppe la telefonata. –
L’alieno lo stava guardando con quegli enormi occhi che facevano l’effetto Ray-Ban da poliziotto americano. Ti ci vedevi riflesso e ti era assolutamente impossibile capire cosa stessero pensando.
- È morto un suo amico? – gli chiese parlandogli proprio dentro alla testa e piegando il suo capoccione calvo da un lato.
- Il fratello di una mia amica. C’è stato un grosso incidente ed è morto in un’esplosione. –
- L’esplosione del deposito delle scorie. Lo so. – disse la mente del grigio, poi piegò di nuovo la testa da un lato e accennò un sorriso con quella sua boccuccia a culo di gallina. Quindi sapeva, il nanetto alieno. Sapevano tutto perché, penso Franco sperando di riuscire a proteggere i suoi pensieri dal loro scandaglio mentale, quella cosa scoperta là sotto doveva essere una loro cosuccia come quella piramide vicino a cui viveva Carla. Anche Franco gli sorrise e tornò alle sue occupazioni. Avrebbe indagato, cazzo, avrebbe indagato.

martedì 18 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXV.

1

Franco.

Il giovanotto che sembrava appena uscito dall’accademia di West Point gli si avvicinò senza dire nulla e si sedette accanto a lui aspettando che terminasse la telefonata. Dato che lui e Carla stavano parlando in italiano non dovette neanche fare finta di non ascoltare. Come tutti gli Americani era stato cresciuto nella convinzione che le lingue straniere fossero qualcosa di assimilabile a una malattia infettiva di quelle forse non pericolose ma comunque molto fastidiose.
- Bella cosa da dire a un uomo che ti chiama per sapere se pensavi a lui, proprio bello. “Io amavo Mulder.” E di me che dici? – le chiese sorridendo, al solo sentire la sua voce si ricordava della bella serata, e della ancora migliore nottata che avevano passato insieme e il sorriso gli veniva spontaneo.
- Ti accontenti se ti dico che ti ho pensato tanto? – disse la donna che si trovava a Genova, a centinaia di chilometri da lui, vicino a quella strana collina che gli aveva fatto tanta impressione vedendola nella luce incerta della luna calante. Ecco, ora il sorriso gli era sparito, cazzo, quella collina gli aveva davvero fatto montare l’inquietudine.
- E quando? – le disse continuando quella lotta di fioretto di battutine tra quasi innamorati.
- Mah! Stamattina alzandomi, quando parlavo con una mia amica. Ti ho pensato un sacco di volte. – che voce che aveva, quasi da lolita sexy, ora sorrideva di nuovo. – Così va meglio. E come mi immaginavi? – le chiese sperando in una di quelle risposte solleticanti sotto alla cintura, una di quelle risposte che ti fanno sentire fiero di come ti sei comportato con una donna.
- Come sono io adesso. – fu la risposta di lei, detta con voce ancora più maliziosa.
- Non capisco. – disse lui mentre il ragazzo con i capelli tagliati a barattolo come nei film sui marines gli indicava la scritta nel tabellone luminoso. Il loro aereo per Mosca, da dove sarebbero poi partiti per la città dello spazio, era in partenza. – Devo andare, mi parte il volo. –
- Va be’! Salutami gli alieni. – disse lei con la voce che sorrideva.
Franco pensò a quelli che sarebbero state le sue prossime cinque settimane, guardò il ragazzo immaginandosi quello che avrebbe vissuto, poveretto lui, di lì a tre giorni, e immaginarlo era fin troppo facile, avendolo sperimentato lui stesso solo quattro anni prima, e poi pensò a quella collina vista al buio dalla finestra di un appartamento in cui si erano infilati senza permesso dopo aver fatto l’amore e le disse: - Con quella collina che c’hai vicino, forse puoi salutarli da sola. –
E poi, rendendosi conto di averle detto una cosa che non avrebbe assolutamente dovuto dirle, mannaggia a lui e alla sua boccaccia, cambiò discorso per distrarla: - Ma che voleva dire che mi immaginavi come sei adesso? –
- Nuda. – gli rispose lei con una vocina sexy che avrebbe dato fastidio persino alla doppiatrice di Meredith Grey in Grey’s Anatomy e lui ridendo chiuse la telefonata e rimise il cellulare in tasca.
- Andiamo? – gli chiese il ragazzo che probabilmente sotto agli abiti civili doveva portare una divisa da marine come Superman porta la calzamaglia.
- Certo.- gli rispose passando senza neanche rendersene conto all’inglese, ma dopo tanti anni in aeronautica e all’ESA parlare in inglese gli veniva più che naturale. Sbrigarono tutte le pratiche d’imbarco, salirono a bordo, si accomodarono sui loro sedili business class e, dopo il decollo che ormai non faceva loro né caldo né freddo, guardarono quasi con noia la terra che si allontanava velocemente sotto di loro. Di lì a tre giorni l’avrebbero vista da molto più in su.
- Quante volte è andato su? – gli chiese il ragazzo, che sembrava facesse una gran fatica a non aggiungere la parola “signore” in fondo a ogni frase.
Franco pensò per un attimo alla risposta che avrebbe dovuto dargli. Il ragazzo ancora non sapeva, anche se già era stato sottoposto al giuramento segreto di riservatezza, quello che quando te ne parlavano prima di arrivare su pensavi che fossero tutti pazzi dal primo all’ultimo. E sì, per lui la risposta era ancora quella standard, quella da dare anche a parenti, amici e giornalisti. – Tre volte, Brian. –
- E come è? L’addestramento che si fa a Houston prepara davvero a quello che si troverà lassù? –
Franco ripensò a quel giorno di quattro anni prima in cui si era ritrovato per la prima volta in assenza di gravità, con le budella che tentano di uscirti dalla bocca non sapendo più bene quale sia il loro posto, mentre la faccia gli si gonfiava di sangue spinto dal suo cuore scombussolato, mentre Dimitri e Jones, bisognava usare il cognome di lui, odiava il suo nome che era Wentwort, gli spiegavano che c’era una piccola sorpresina per lui lassù, degli strani amichetti dalla pelle grigia e dalle mani fornite di quattro sottili dita flessuose. E lisci come una bambola sotto la cintura, che era poi la cosa che colpiva di più tutti loro.
- Quante volte hai volato sulla vomito Airlines? – gli chiese riferendosi all’aereo su cui tutti gli astronauti effettuavano l’addestramento all’assenza di gravità, quel simpatico aereo puzzolente di succhi gastrici di generazioni di astronauti che amava andare su e giù in cielo facendoti galleggiare per una trentina di secondi.
- Ventidue voli, signore. – ed ecco che questa volta gli era sfuggita, la parolina magica.
- Franco, non signore, prego. Diciamo che allora sai quanta nausea si può avere, ma non quanta ne avrai. Ci vorrà qualche giorno prima che tu ti ci abitui. –
- Bene, Franco. – disse correggendosi mentre parlava.
Stava diventando bravo a mentire alla gente, erano quattro anni che lo faceva, quasi non ci faceva manco più caso. – Vuoi sapere altro, Brian? –
Il ragazzo lo guardò con un’espressione che lo faceva sembrare ancora più giovane, ma è anche vero che spesso gli Americani sembrano bambini anche a sessantenni, - Anche lei ha fatto quel giuramento? –
- Quale? – domanda inutile, sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma voleva che fosse lui a chiedere.
- Quello sulle cose che si verranno a sapere lassù, su quello che si potrebbe vedere. Il giuramento in cui si dice che non se ne parlerà mai se non con altri astronauti o con i propri superiori autorizzati. –
- Non lo ricordi bene, mi sembra. – gli disse ricordandosi quando era stato lui a farsi, e a fare, quelle domande.
- Come? – ebbe paura che gli occhi del ragazzo cadessero in terra, probabilmente il suo cuore batteva a duecentoquaranta al minuto.
- Non dice che ne potrai parlare agli astronauti, mi pare. –
- Agli astronauti che abbiano già passato un po’ di tempo in orbita. –
- Ecco. –
- E allora? Non mi dice niente? –
Lo guardò con severità, povero ragazzo, la curiosità lo divorava. Presto l’avrebbe saziata, anche troppo. Ma per ora: - Te devi ancora andarci in orbita, Brian. Riparliamone quando vedrai anche tu. – e anche il ragazzo capì che l’argomento, per ora, era chiuso. Quando avessero di nuovo affrontato l’argomento, sarebbe stato senza dubbio di visione molto più ampia.
E anche lui non vedeva l’ora di vedere gli “amici” di lassù, e la loro base, perché voleva proprio scoprire se per caso i cari “amici” si fossero dimenticati di accennare a una loro presenza in un lontano passato in quel di Genova. Perché lui l’aveva già vista una piramide di quel genere, ci era anche stato dentro, ed era sul lato nascosto della Luna.

lunedì 17 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXIV.

V

Luna

Buzz finì di pisciare nel tubo aspiratore e espulse l’urina fuori dalla astronave. Aveva freddo, aveva la nausea, e aveva paura.
- Come va, Buzz? – gli chiese Collins.
- Vorrei starmene coricato su un covone di fieno a guardare la luna in cielo. – gli rispose galleggiando nel minuscolo abitacolo e andando a mettersi accanto a lui – Lo odio ‘sto trabiccolo. –
- Lo sapevamo che sarebbe stato così, no? –
- Saperlo e viverlo non sono la stessa cosa. E poi cos’è ‘sta roba luminosa che c’è ogni tanto? –
- Houston dice che sono raggi cosmici. –
- Quante radiografie ci stiamo facendo ogni giorno che stiamo qua dentro, cazzo? –
- Risparmieremo sulle lampadine la notte. – disse Michael Collins e risero.
- Che c’è ragazzi? – chiese Armstrong che si era addormentato per un paio d’ore e si era appena svegliato ancora attaccato con le cinghie alla cuccetta.
- Ci lamentavamo del servizio. Questo mezzo di trasporto fa schifo. –
- Se volete potete scendere e andare a piedi. –
- Ah –a! – disse Collins – Molto divertente, capo. –
- Io sono molto divertente. Una piccola battuta per un uomo, ma una grande risata per degli astronauti. –
- Le provi tutte per ricordarti la frase che ti hanno detto di dire, eh? – disse Aldrin.
- E tu lo sai che devi dire? –
- Tanto, per quelli che se la ricorderanno, la frase del secondo uomo sulla Luna. Com’è … Una stupenda desolazione. Qualcosa di simile. –
- Rileggitela, cazzo. – disse Armstrong. Poi andò all’oblò e guardò nello spazio buio all’esterno.
- Certo che bisogna essere pazzi a metterci un oblò in ‘sto coso. Ma vi rendete conto che pressione che sopporta? –
- Lo hanno testato, capo. O almeno così ci hanno detto. – disse Collins raggiungendo Armstrong – E poi senza ‘sto pezzetto di vetro potrei anche credere d essere ancora fermo a Cape Canaveral. –
- Qualcuno lo dirà, sai? Qualcuno non ci crederà che siamo venuti fin quassù. –
- Il mondo è pieno di complottisti, ragazzi. –disse Aldrin, poi avvicinò la faccia al finestrino e disse: - E quello che cazzo è? –
- Cosa? –
- Là. Quella cosa là. – disse Aldrin indicando un oggetto grande almeno il triplo della loro nave che si avvicinava roteando alla loro sinistra.
- Cazzo. – disse Armstrong. Poi prese la radio e disse: - Houston. Sapete dirci dove si trova il terzo stadio? –
- Cosa? –
- Il terzo stadio del missile. Dove si trova rispetto a noi? –
- Undicimila metri dietro di voi. –
- Ah! – si girò a guardare i suoi compagni, allargò le mani e loro annuirono. – Va bene. – disse, poi afferrò un binocolo e guardò di nuovo, l’oggetto era cilindrico, metallico e ruotava velocemente su sé stesso. E si stava avvicinando. Spostò la levetta della radio dalla frequenza pubblica, captata da qualcosa come mezzo migliaio di radioamatori in tutto il mondo, a quella militare criptata e disse: - Houston, qualcosa ci segue. Il radar lo vede? –
- Qualcosa di che genere? –
- Grande, metallico e artificiale. E con degli oblò, se vedo bene. –
- Noi non lo vediamo. Può essere russo? – chiesero dal controllo missione.
Armstrong guardò di nuovo nel binocolo, deglutì un paio di volte e, impallidendo in maniera preoccupante disse: - Solo se i Russi hanno la pelle grigia e la testa enorme. E se salutano con mani con quattro dita. –
La voce proveniente da Houston tacque per qualche istante, degli istanti molto lunghi, poi disse: - Bello scherzo, Neil! –
Armstrong guardava ancora nel suo binocolo e esaminava con cura quella cosa che si stava avvicinando a loro. Molto velocemente. Tra la loro astronave e quella che stava arrivando c’era molta ma molta più differenza di quanta che ne fosse tra l’aereo dei fratelli Wright e il Lem. Quella cosa non sembrava affatto un trabiccolo di lamierino con le antenne, ma assomigliava molto di più a un’astronave di quella serie nuova che davano in tivù, come si chiamava, Star Trek ecco. – Non è uno scherzo, Houston – disse.
- Comandante Armstrong, la smetta con questo scherzo, è un ordine. – disse la voce proveniente dalla Terra.
- Come vi ho già detto, non sto scherzando. Negli ultimi cinque minuti un grosso oggetto volante non identificato di forma cilindrica è apparso nella nostra scia e si è avvicinato costantemente al nostro veicolo. Sembra metallico e lungo sui trenta metri. Guardando col mio binocolo, ora che sarà a non più di ottocento metri da noi, vedo che agli oblò sono affacciati degli essere apparentemente di colore grigio, con grandi occhi neri e quattro dita per mano. –
Nessuna risposta. I tre astronauti si guardarono tra loro senza dire nulla, ma ognuno vedeva negli occhi degli altri una sola cosa, paura pura e semplice. Armstrong aveva fatto alcuni appontaggi notturni col mare in tempesta, eppure non aveva mai saputo fino a quel momento cosa potesse essere la paura.
- Vi sembra dotata di armi? – chiese finalmente la voce di Houston.
- Per quello che posso capire, no. – rispose Armstrong guardando la grossa astronave che era adesso a circa quattrocento metri di distanza – Non vedo nulla che sembri un’arma terrestre. – e dopotutto anche loro non avevano alcuna arma. Indifesi come pulcini davanti a un falco.
- Preparate le vostre capsule. – disse la voce proveniente dalla Terra – E speriamo che non siate costretti ad usarle. –
I tre astronauti misero le mani in tasca e tirarono fuori una minuscola capsula chiusa nella stagnola. Da quando il primo cosmonauta russo, quello prima di Gagarin, che nessun alto papavero di Mosca aveva pubblicizzato, era morto di sete e asfissia in orbita non essendo riuscito a tornare giù, tutti quelli che venivano prescelti per andare in orbita venivano anche dotati di una capsulina di cianuro di potassio. In caso di incidente, di uno di quegli incidenti che nessuno augurerebbe neanche al suo peggior nemico, avrebbero potuto cavarsela con un minuto scarso di spasmi.
Infilarono le capsule di cianuro nel taschino della maglietta e, con le facce attaccate all’oblò come quando da bambini fissavano i dolciumi attraverso una vetrina, guardarono l’astronave aliena che si avvicinava e agganciava con delle braccia meccaniche il loro modulo.
- Peccato non poterlo raccontare a nessuno. – disse Aldrin – Sarà il primo contatto. –
- Mi raccomando ragazzi … - disse Armstrong – Comportatevi bene, rappresentiamo tutta la Terra. –
- E che Dio ce la mandi buona! – disse Collins che non era mai stato famoso per l’ottimismo.
E fu allora che sentirono il rumore dell’oblò che veniva depressurizzato. Gli alieni avevano attraccato e stavano per entrare. Nel silenzio dell’abitacolo, rotto solo dai loro respiri veloci e dai bip della macchine, Neil Armstrong disse: - In bocca al lupo, ragazzi! – e l’oblò si aprì.

domenica 16 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXIII.

7

Soli al buio.

Elsa, assicurata alla corda, camminava sulla sfera d’oro non preoccupandosi troppo di poter scivolare. Sembrava una fusione unica, senza giunture. Qua e là, in ordine sparso, sul metallo erano incisi dei simboli che lei non aveva mai visto, tranne uno che le ricordava il geroglifico egizio che voleva dire acqua.
Guardò Andrea che intanto continuava a piantare chiodi nel soffitto spostandosi a quattro metri d’altezza sopra a lei. – Cosa vedi da lassù? – gli chiese.
- Altre tre molle. È enorme quaggiù. – disse lui e poi scoppiò a ridere. - È incredibile Gianni, non puoi capire. Stupendo! – disse al walkie talkie e la risposta fu una specie di ronzio gracchiante.
- Cosa ha detto? – chiese lei e Andrea rispose: - Ha detto “Davvero?” –
Lei continuò a camminare sulla sfera e poi disse: - C’è una serie di segni, sembra come una scritta. –
Lui si calò con la corda e arrivò vicino a lei. – Cazzo! – disse.
- Che c’è? –
- Guarda! – disse lui, tirò fuori il suo cellulare e le mostrò la foto che sua sorella gli aveva spedito mezz’ora prima. – Guarda qua e qua! –
- O Belìn! – disse lei afferrando il cellulare e ingrandendo la foto – Ma sono gli stessi segni! –
- Sì. Come è possibile? – le chiese lui, quando dal walkie talkie uscì un urlo di Gianfranco. – O mio Dio! – aveva detto.
Andrea impallidì e urlò nella sua radio: - Cosa c’è? – ma nessuno gli rispose. Rimasero lì, in piedi su quella incredibile sfera più vecchia del mondo senza sapere che cosa stesse succedendo lassù, quando arrivò loro, attraverso il pozzo che si apriva sul soffitto a poca distanza, un boato. – Cazzo! – urlò Andrea che afferrò Elsa per la vita e manovrò le corde per risalire fino al soffitto di salgemma. E, dopo un minuto, macerie in fiamme e carburante infuocato precipitarono giù dall’apertura circolare andando a inondare la superficie della sfera dove anche loro erano stati appoggiati fino a pochi secondi prima. Andrea strinse forte Elsa e, per un breve istante, le fiamme li avvolsero, ma subito tutto cadde giù scivolando nell’intercapedine tra la sfera e la roccia.
Tossendo riaprirono gli occhi e, nell’aria resa opaca dal fumo e dalla povere, videro che il pozzo non c’era più, la roccia era crollata dall’apertura andando a bloccarla totalmente.
Guardarono per un bel po’ di tempo quella massa di detriti fumanti che ostruivano il passaggio, sperando probabilmente che cominciasse a scivolare sulla superficie liscia della sfera, ma poterono vedere solo qualche assestamento, il foro da cui erano entrati, l’unica via d’uscita verso il mondo esterno, era totalmente ostruito.
- La vedo grigia. – disse lei calandosi sulla sfera, tossì per il fumo che riempiva ancora l’aria, si avvicinò alla frana che li aveva sigillati là sotto, afferrò un sasso e lo lanciò lontano. Ribalzò un paio di volte sulla sfera, prima di scomparire alla loro vista ed andare a cadere giù, nella cavità sotto di loro. – La vedo proprio grigia, Andrea, ma grigia di brutto. –
Andrea non parlava, continuava a guardare i detriti che li stavano condannando a morte e poi il walkie talkie che taceva, e poi i detriti e poi ancora il walkie talkie.
- Moriremo prima di sete o di caldo? – gli chiese lei dando un calcio a un altro masso di sale grigio. – Che ne dici, Andre’? –
Lui si calò sulla sfera e cominciò a camminare verso il pendio che andava a sparire nel buio.
- Andrea! Mi senti? Come dici che moriremo? – andò da lui e gli diede uno strattone alla manica – E lassù? Saranno morti tutti, lassù? Mi vuoi rispondere? –
Lui si girò verso di lei e la guardò con uno sguardo molto calmo. Sorrise e le chiese: - Da che lato era la discontinuità? –
- Sei scemo? –
- Da che lato era? –
- Di là. – disse lei indicando verso la sua destra. – Ti cambia la vita? –
- E secondo le prospezioni col sismografo, era molto più largo del nostro scavo? –
- Noi due ci moriremo qua sotto, moriremo! Che te ne frega dello scavo e della discontinuità? –
- Che forma aveva lo scavo antico secondo le prospezioni? –
- Era un largo pozzo scavato a fianco del nostro, e sotto si allargava in una cavità accanto alla massa metallica. Comunque moriremo, cretino! –
- No cara. Là sotto, - e guardò nella direzione che lei aveva indicato prima – la sotto ci deve essere l’entrata di questo rifugio. –
- L’entrata? –
- Certo. Che vuoi, che ‘sti tizi abbiano costruito un enorme buco e ci abbiano piazzato poi un’enorme palla d’oro poggiata su molle per vedere se ne erano capaci? Là sotto ci deve essere l’entrata, e dentro ci sarà sicuramente qualcosa di utile. Andiamo? –
- E se non la troviamo? E se non riusciamo ad aprirla? – gli chiese lei che, essendo calata l’adrenalina ed essendole sbollita l’incazzatura stava per piangere.
- Prima la troviamo, poi la studiamo un po’ e poi entriamo. Una cosa alla volta. – le accarezzò la guancia sporca di polvere e fuliggine e lei, finalmente, fece un piccolo e stentato sorriso. – Andiamo giù, dai, la corda c’è. –
Cominciarono a calarsi giù sull’enorme fianco della sfera d’oro, passando accanto ad alcune enormi molle. Dovevano essere in acciaio placcato in oro, ed erano grandi come tronchi di alberi secolari. Quando già cominciavano a pensare che non avrebbero trovato niente arrivarono a uno slargo nella cavità. C’era un pavimento metallico, e una passerella mobile. Scesero su quel pavimento che esisteva da quando i loro antenati ancora squittivano nella notte fuggendo a rettili bipedi, spinsero la passerella che andò a incastrarsi perfettamente in due invisibili blocchi sulla sfera, e un ronzio leggerissimo arrivò alle loro orecchie.
- Si è accesa. – disse lui.
Lei camminò sulla passerella e immediatamente si accesero delle luci tipo neon, mentre il ronzio aumentava di volume, come nei film di fantascienza quando un’arma a raggi si carica. Poi sulla sfera, proprio davanti a loro, apparve una porta chiusa. Prima non c’era e dopo c’era, si guardarono stupiti e poi videro che accanto alla porta, illuminata di una luce tra il blu e il verde, c’era una tastiera con trentacinque tasti. Su ogni tasto c’era un simbolo di quelli che avevano visto sulla sfera. Una lucetta gialla lampeggiava subito sotto.
- Sarà a combinazione? – chiese lei.
- Col culo che abbiamo, direi di sì. Quante possibilità ci saranno, miliardi di miliardi? –
- Forse di più, direi proprio di più. –
- Va be’! – disse lui sorridendo con una faccia molto tirata – Da qualche parte dobbiamo pure cominciare, no? – e tirò fuori dalla tasca il cellulare. Selezionò la foto mandatagli dalla sorella, la fece vedere anche a lei e poi cominciò a digitare i tasti nell’ordine in cui i simboli apparivano sul muro. Arrivato al penultimo simbolo, che nella foto era parzialmente coperto da una foglia di edera, le chiese: - Questo o questo? –
- Questo qua! – disse lei sfiorando col dito un simbolo che sembrava un dente canino rivolto a sinistra, e come tutti gli altri simboli lo vide aumentare la sua luminosità quando fu toccato.
Alla fine lui toccò l’ultimo tasto e rimasero lì a guardare la tastiera e la porta chiusa. Niente. – Dovevamo pure provarci, no? – le chiese con la faccia delusa.
- Non hai premuto invio. –
- Cosa? –
- Dopo la sequenza si preme invio, no? –
- Se lo dici tu! – disse lui, poi allungò il dito e toccò la luce pulsante dicendo: - Apriti Sesamo! –
Tutta la tastiera divenne rossa, così rossa da illuminare le loro facce spaventate, e poi il ronzio all’interno si trasformò in un enorme risucchio. Intanto al posto della tastiera era apparso un rettangolo di due colori, rosso e verde, solo che all’inizio il rosso riempiva quasi totalmente la figura, ma il verde aumentava molto velocemente. Dopo un paio di minuti il verde lo riempì totalmente, e allora cominciò un rumore diverso, come un soffio potente. E il rettangolo passò dal verde al blu. Quando il blu fu completo il soffio si interruppe e, sotto ai loro occhi sbalorditi la porta si aprì mostrando loro un interno tipo astronave di Star Trek. Lui si portò il cellulare alla bocca e lo baciò dicendo: - Grazie sorellina. – poi le prese la mano ed entrarono all’interno.

venerdì 14 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXII

6

Gianfranco.

Questi sono matti, pensò Gianfranco guardando Andrea e Elsa che scendevano nel pozzo che li avrebbe portati giù, vicino al misterioso manufatto alieno, non trovava per quanto si sforzasse un modo meno fantascientifico per definirlo, che avevano trovato scavando con la loro mega trivella.
Elsa non la conosceva, buongiorno e buonasera si erano detti, non di più, e la aveva notata soprattutto per le tette, belle davvero, ma Andrea … ci sono delle volte che incontri una persona e ci vai d’accordo, ridete per gli stessi argomenti, avete letto gli stessi libri, prendete in giro le stesse persone. Ecco, per quanto lo conoscesse solo da un mese e mezzo, Andrea era uno dei suoi più cari amici, e vederlo scendere là sotto, incontro al mistero e al pericolo, lo faceva sentire molto a disagio e preoccupato.
E l’altra cosa che lo faceva sentire a disagio erano i discorsi che aveva avvertito più che sentito, discorsi sussurrati a bassa voce tra persone che contavano, militari, fisici, pezzi grossi insomma. Lui era solo un semplice ingegnere, e se stava lì era solo per fare funzionare quella trivella e aiutare a costruire il deposito, cosa che ora gli sembrava alquanto improbabile, ma le orecchie le aveva e le cose che venivano dette le sentiva.
Quello che avevano scoperto, qualunque cosa fosse, non doveva essere scoperto. E qualcuno, molto in alto, ai livelli di quelli che davvero governano il mondo, quelli che i complottisti alla Oliver Stone descrivono come Trilaterale o Bilderberg o Grande Complotto Mondiale, voleva che come era stato scoperto tornasse a essere ricoperto e dimenticato.
Per quello che poteva capire, non sarà stato Sherlock Holmes ma un po’ di intuito lo aveva anche lui, di lì a poche ore il cantiere sarebbe stato sbaraccato per qualche inconveniente “normale”, tipo una sacca di gas naturale, o una vena d’acqua, o una faglia sismica. E così loro sarebbero passati a un altro banco di sale adatto, e ce ne erano di altri in Italia, che però prima di cominciare gli scavi sarebbe stato controllato molto meglio da chi di dovere.
E in quel posto, pensava mentre guardava i meccanismi del montacarichi girare, altri operai, più specializzati di loro, sarebbero arrivati per riempire il pozzo in fretta e furia con cemento armato, e lì sopra ci avrebbero fatto una bella discarica, o magari un parco naturale, una di quelle cose, comunque, sotto alle quali nessuno va a scavare.
E loro? Che fine avrebbero fatto loro? Sarebbero stati pagati, probabilmente, per stare zitti. E se qualcuno si fosse fatto scappare qualcosa, avrebbero fatto in modo di fargli fare la figura del tizio che dice di essere stato rapito dagli alieni, come un Zanfretta qualunque, e magari uno di quei programmi idioti della tivù sarebbe anche andato a intervistare il poveretto dalla lingua lunga, così che la gente ignara si potesse fare due risate dietro allo scemo che parlava di manufatti alieni sepolti.
Oppure, pensò ridendo, potevano anche finire spiaccicati da un tir fuori controllo, uno dopo l’altro, alla spicciolata, alla maniera dei servizi segreti di quelli veri, col pelo sullo stomaco.
E fu allora, che le ruote del montacarichi si fermarono e il suo walkie talkie gracchiò. - Il montacarichi è arrivato in fondo. Passo. – disse la voce di Andrea che sembrava arrivare da abissi insondabili degni di Lovecraft. Gianfranco pensò a quel racconto del vecchio H. P. L. in cui un tizio scendeva in una galleria sotto a un cimitero e poi urlava all’amico di scappare prima che Loro uscissero, e così disse: - Andate giù o avete cambiato idea? – guardandosi intorno e vedendo che tutti gli altri la pensavano come lui.
- Andiamo giù, cazzo! – gli rispose la voce gracchiante di Andrea, che poi aggiunse. - La prossima volta che sentirai la mia voce, sarò nei libri di storia! Passo. –
Gianfranco, notando con la coda dell’occhio un movimento, gli rispose: - Ho sempre preferito la geografia. Passo. – e giratosi vide che in mezzo all’enorme piazzale del cantiere una cisterna era in movimento; Ma che cavolo ci fa una cisterna in movimento?, pensò e poi disse: - Buona fortuna ragazzi! Passo. –
- Si dice in bocca al lupo, cretino! Passo e chiudo! – fu la risposta di Andrea e Gianfranco sorrise per le parole dell’amico. Nessuno intanto sembrava essersi accorto del camion in movimento, anche perché il piazzale era quasi totalmente deserto. Gianfranco, ascoltando il fruscio del walkie talkie guardava la gente intorno a lui e, insistentemente, tornava a guardare il camion che dopo aver sostato accanto a un magazzino, quello degli arnesi da scavo, dai pezzi di ricambio della trivella agli esplosivi, era ripartito verso di loro. Boh!
- Siamo arrivati. – disse all’improvviso la voce di Andrea, così disturbata da essere quasi incomprensibile – Per ora sembra tutto normale, cioè, non è normale per niente. Ora cominciamo a esplorare. Passo. –
- Va bene. – gli rispose lui stupendosi di come un capannello di persone si fosse spostato lasciando passare il camion, non avevano dato il minimo segno di essersi accorti della sua presenza – In bocca al lupo, ragazzi! Passo e chiudo. –
Aspettando nuove comunicazioni da Andrea e Elsa si guardò intorno. Chi sapeva che erano lì? Nessun telegiornale aveva dato la notizia precisa su dove fosse il sito prescelto come deposito delle scorie. Sarebbero potuti sparire così, un attimo erano lì e dopo un secondo … e intanto il camion, a lentezza esasperante, continuava ad avvicinarsi attraverso lo spiazzo. Una cisterna di carburante che si avvicinava a una trivella che senza alcun dubbio non avrebbe più dovuto scavare in quel punto.
- È incredibile Gianni, non puoi capire. Stupendo! – gracchiò oramai davvero incomprensibile Andrea, evidentemente il manufatto disturbava le onde radio in qualche modo, e lui gli rispose: - Davvero? – ma in realtà quello che davvero sentiva non era curiosità per quello che c’era là sotto. Aveva cominciato a sentire una specie di formicolio dietro al collo, come quando qualcuno ti sta fissando e non sai chi è o dove è. Il camion intanto stava accelerando, ma nessuno lo guardava. – O mio Dio! – urlò tenendo premuto il tasto del walkie talkie quando il camion accelerò puntando verso la trivella. Riconobbe anche il guidatore, si chiamava Simone, se non si confondeva, e … cosa?
- Cosa c’è? – gli urlò dalla radio Andrea, ma lui non lo sentì. Il camion stava sfondando le transenne e di lì a un secondo avrebbe investito lui, la trivella e tutti gli altri lì attorno. Prima di essere travolto Gianfranco notò alcune cose: Simone teneva in mano qualcosa, e sembrava il telecomando degli esplosivi che avevano usato i primi giorni. Simone aveva lo sguardo da pazzo, e sembrava parlare da solo mentre gli piombava addosso. E l’ultima cosa che notò, vicino a Simone c’era un enorme lupo bianco, e il lupo gli stava parlando all’orecchio.
Forse qualcuno al mondo sa se Gianfranco morì travolto dal camion o dall’esplosione, ma dopotutto non è così importante. Il cantiere comunque ebbe il suo incidente e di lì a pochi giorni quel che restava del pozzo sarebbe stato chiuso.

giovedì 13 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXI.

5

Elsa.

Quando Andrea richiuse il cancello del montacarichi, guardando il capannello di persone che li fissavano Elsa capì alcune cose. Molti di quelli che li stavano guardando entrare in quel pozzo li ritenevano temerari, o forse pazzi. E molti di quei molti, una discreta maggioranza di quelli che stavano lì in piedi, pensavano che non li avrebbero mai visti tornare su.
E un’altra cosa che capì fu che alcune di quelle persone, i militari per esempio, ma anche altri, non volevano assolutamente che loro scendessero là sotto. Se stavano scendendo, se glielo avevano permesso cioè, era solo perché quello che avevano trovato là sotto, qualunque cosa fosse, era stato così inaspettato che non c’era stato il tempo di reagire, e, quando loro due si erano offerti di scendere, nessuno aveva ancora dato l’ordine di richiudere quel pozzo e di costruirci sopra un parcheggio.
E quindi, quando la sua testa scese sotto al livello del terreno e smise di vedere i volti di quelle persone, pensò che alcuni lì tra la folla, oltre a pensare che non sarebbero dovuti scendere, speravano anche che non riuscissero a risalire. Non risalire, rimanere là sotto, a qualcosa come seicento e passa metri di profondità vicino a quello che non si poteva fare a meno di definire un manufatto alieno.
Si voltò verso Andrea che stava controllando per l’ennesima volta le corde e l’attrezzatura da discesa, quando le arrivò all’orecchio un suono orrendo. – Cos’è? –
- Messaggino. – disse lui, - Ho il cellulare in tasca. -
Lei alzò lo sguardo verso la luce là in cima e disse: - C’è ancora campo?
Lui prese il suo cellulare, lo guardò e disse: - Non più. Chiunque fosse, mi ha preso in tempo. –
- E chi è? – gli chiese lei guardando la parete di roccia che scorreva accanto a loro veloce e uniforme.
- Gelosa? –
- E mamma mia! Mica ci siamo sposati, sai bello? –
- Neanche un pochino? –
- Un pochino sì. – disse lei.
- Ah! Ah! Lo sapevo! Il grande playboy colpisce ancora! – disse lui e guardò il messaggio. – È una foto, me l’ha mandata mia sorella. –
- Cos’è? Un gattino, un nipotino? –
- Un muro. L’altro giorno ho visto ‘sto muro vicino a casa sua e mi sembrava di averci visto dei segni, per me era una scrittura. –
- E ti manda una foto del muro? –
- Sì. Penso che mi stia prendendo per il culo. –
- Mi è già simpatica la ragazza. – disse lei. – Penso che ci siamo quasi. –
- Ancora un paio di minuti. Sei pronta? –
- No. ho paura. –
- E allora siamo in due. Come disse mio padre quella volta che cadde in una buca piena di rovi e scomparve alla vista di me e mia sorella che eravamo molto piccoli, “Pensa quando ne rideremo.” –
- Un vero duro, tuo padre. –
- Sono il suo orgoglio, duro come lui, ma più bello. –
- O mio Dio! – disse lei scuotendo la testa, poi si accucciò e cominciò a indossare l’imbracatura. – Che dici che troveremo? –
- Un buco. E dentro al buco qualcosa. –
- Sei ambiguo come un oracolo. –
- Così non sbaglio. –
E allora il montacarichi si fermò. Sotto di loro c’erano circa cento metri di pozzo appena scavato e, sotto, la cavità con l’oggetto. Lui prese il walkie talkie e disse: - Il montacarichi è arrivato in fondo. Passo. –
- Andate giù o avete cambiato idea? – chiese una voce gracchiante, forse quella di Gianfranco.
- Andiamo giù, cazzo! – disse lui, poi sorrise e aggiunse: - La prossima volta che sentirai la mia voce, sarò nei libri di storia! Passo. –
- Ho sempre preferito la geografia. Passo. – poi ci fu un momento di silenzio e disse ancora: - Buona fortuna, ragazzi! Passo. –
- Si dice In bocca al lupo, cretino! Passo e chiudo. – disse Andrea, poi la guardò come per dire “Andiamo?” e lei annuì. Andrea piantò un chiodo nella parete e vi attaccò moschettone e corda. – Andiamo? –
- Sì. – fu la risposta di Elsa e cominciarono a calarsi. La discesa fu lenta e noiosa, c’era caldo e dovevano continuamente passare le mani nel magnesio. Dopo circa mezz’ora arrivarono alla fine del pozzo.
- Eccoci. - disse lui e la sua voce rimbombò nell’enorme spazio sottostante.
- Cacchio! –
- Eh sì. Vado io. – disse lui e si calò sulla corda scomparendo nella cavità.
- Cosa vedi? – gli chiese lei.
- Cose incredibili. – rispose lui, e poi – O almeno così rispose l’archeologo Carter aprendo la tomba di Tutankhamon. Io a dire il vero non vedo niente. Aspetta che butto una luce chimica. – e Elsa vide una luce verdastra apparire dal foro a un paio di metri sotto ai suoi piedi. – Vieni giù, Elsa! – disse lui e lei scese a sua volta trovandosi così appesa a un paio di metri sopra quella che sembrava una sterminata superficie di oro.
Fece un giro su sé stessa guardandosi intorno. Come le era sembrato di capire guardando le immagini sfocate della videocamera il buco era un’enorme cavità sferica e all’interno stava, sospeso su gigantesche molle di acciaio, una altrettanto enorme sfera di oro. Guardò Andrea e si misero a ridere.
- Siamo arrivati. – disse lui alla radio – Per ora sembra tutto normale, cioè, non è normale per niente. Ora cominciamo a esplorare. Passo. –
- Va bene. – disse la voce di Gianfranco, così disturbata da essere a malapena comprensibile – In bocca al lupo, ragazzi! Passo e chiudo. –
Elsa si calò sulla sfera che era così enorme da poterci facilmente camminare sopra, mentre Andrea metteva altri chiodi sulla parete di salgemma per esplorare la parte soprastante. Con quello che, a loro insaputa, stava succedendo seicento metri sopra di loro, gli sarebbe servita davvero molta di quella fortuna che Gianfranco gli aveva appena augurato.

mercoledì 12 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXX.

4

Simone.

Tra i tanti ubriachi che la sera prima avevano scambiato due parole con Andrea riguardo all’intoppo che aveva fermato i lavori, uno era quello che aveva detto che là sotto, sotto ai loro piedi, c’erano degli uomini talpa vampiro che avrebbero mangiato il cervello alle persone.
Discorsi da ubriaco, naturalmente, basati su anni di pessima letteratura e di ancor più orrenda fantascienza cinematografica e televisiva.
Dopo la serata alcolica quest’uomo, tecnico specializzato che riforniva di carburante la trivella, se ne era tornato nella sua stanzetta dove aveva cominciato a vomitare l’anima scontando quelle birre che si era scolato.
Verso le tre di notte, all’incirca quando Andrea rifletteva sulla giornata appena passata e fantasticava su quella a venire gravato dal confortevole peso di Elsa che gli dormiva addosso, Simone se ne era andato a letto con un mal di testa assolutamente insopportabile e un desiderio di cadere in coma fino al mattino dopo. In coma non c’era finito, ma lo aveva colto un sonno strano, leggerissimo e assolutamente non ristoratore, ma pieno di incubi che si mischiavano a ricordi di famiglia, quelli del nonno che era stato uno dei pochi sopravvissuti tra gli ebrei di Roma deportati in Germania, e alle fantasticherie di quella sera.
E così aveva passato un paio d’ore rigirandosi nel letto in preda a quelle che sembravano più allucinazioni da LSD che sogni, con la convinzione che, chissà perché, un lupo bianco ed enorme gli si fosse appostato sotto alla finestra ululando ad un tono così basso che solo lui poteva sentirlo.
E così quando era sveglio era terrorizzato dalla presenza del lupo e quando si addormentava vedeva uscire da quel maledetto pozzo degli alieni dagli occhi rossi e i denti affilati che marciavano al passo dell’oca e che correvano divisi in manipoli tra le baracche del cantiere, che gli sembravano però le baracche in cui aveva vissuto, se così si può dire, suo nonno tra il luglio del ’43 e il gennaio del ’45.
Ogni volta che cedeva al sonno si ritrovava lì, davanti all’imboccatura del pozzo, sentendo il rumore della marcia di quegli alieni malvagi che evidentemente riuscivano a marciare battendo il tacco anche in verticale, e anche se tentava di allontanarsi, potenza dei sogni, era sempre lì e alla fine li vedeva emergere dall’imboccatura buia e sciamare per il campo con le loro facce allo stesso tempo inespressive e malvagie, urlando ordini in una lingua inumana e dura, come un tedesco urlato da mostri fatti di pietra e sapeva che, anche se si fosse nascosto da qualche parte, e chissà perché finiva sempre per nascondersi in una latrina come un bambino in un film sulla Shoa che aveva visto al liceo, loro lo avrebbero trovato, lo avrebbero afferrato, lo avrebbero torturato ridendo con le loro voci pietrose e infine, ma senza fretta, lo avrebbero divorato.
Alle cinque si svegliò per l’ennesima volta dall’incubo, proprio quando uno di quei cosi cominciava a mangiargli la faccia con le sue zanne affilate e giallastre, e si alzò per andare in bagno. Si guardò allo specchio e si spaventò, sembrava un vecchio pazzo, con occhiaie profondissime e gli occhi spiritati, da drogato. Mentre pisciava fu sicuro di sentire una risata. Una risata da cattivo dei cartoni animati. Si ritirò su i pantaloni del pigiama e si guardò intorno mentre la pelle gli si raggrumava in tutto il corpo per il terrore. Ecco! Eccola di nuovo, quella risata. Veniva dal gabinetto. A ogni scoppio di risate l’acqua del cesso ribolliva. E insieme alle risate, sotto a quelle risate, urla perentorie in quel tedesco preistorico, quella lingua che era l’idea platonica della lingua dei nazisti, della quale le urla che avevano tormentato suo nonno fin sul letto di morte erano solo una pallida e grottesca imitazione.
Tornò in camera, si sedette sul letto e tentò di convincersi di essere ancora preda dell’alcool e degli incubi, perché naturalmente sapeva che non esistono nazisti alieni vampiri sotto i suoi piedi, e sapeva che risate e grida non potevano uscire dall’acqua del cesso, almeno se non si vive a Derry nel Maine, e tentava di convincersi che nessun enorme lupo bianco stava sotto alla sua finestra a ululare e a fargli venire gli incubi, ma quello che sapeva e quello che sentiva non corrispondevano.
Tornò in bagno e si costrinse a guardare di nuovo quell’acqua, e di nuovo quelle voci gli abbaiarono le loro grida e le loro risate in faccia, e l’unica cosa che poté fare fu tornare a letto, raggomitolarsi sotto alle coperte come un bambino e piangere pieno di terrore. E fu allora che la voce del lupo gli parlò. Quello che diceva, il tono calmo con cui lo diceva, l’autorevolezza naturale che usava erano così … tranquillizzanti. Sì, ascoltare quella voce era un balsamo per la sua paura. Mentre la voce del lupo gli parlava lui annuiva e la sua paura scompariva, perché sì, c’erano dei nazisti alieni sotto di lui e volevano mangiare tutti loro, sì, ed era orribile, ma il lupo sapeva cosa fare. Il lupo gli stava dicendo cosa fare e obbedire a quella voce era l’unica cosa che avrebbe voluto fare.
E quando il lupo ebbe finito di dirgli cosa avrebbe dovuto fare, quando quella voce ebbe finito di dirgli cosa prendere, come usarlo e quando usarlo, finalmente Simone riuscì ad addormentarsi per un sonno totalmente privo di sogni. Aveva bisogno di dormire, perché la mattina dopo intorno alle nove, vicino a quel pozzo, avrebbe dovuto salvare il mondo.

martedì 11 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXIX.

3

Andrea.

Coricato nella stanza buia Andrea ascoltava il vento che soffiava costante tra gli alberi poco distante dalla finestra. Come è naturale, non riusciva a dormire.
La bella donna che dormiva nuda accanto a lui, Elsa, e di sicuro non se lo sarebbe più dimenticato quel nome, si rigirò verso di lui e gli appoggiò la fronte sull’incavo tra spalla e collo. Era tiepida, meravigliosamente tiepida, e la pressione di quel corpo era stupenda. Si mosse ancora, borbottando qualcosa, e gli appoggiò sulle gambe la sua gamba destra piegata e sul petto la mano destra. Lui alzò la sua mano sinistra e strinse quelle dita sottili. Lei fece un respiro più forte, mugolò un verso non meglio identificato, ma di certo non scocciato, e rispose alla stretta. Respirando l’odore di quei capelli neri e ricci lui se ne stava così nel letto, stringendo quella piccola mano e beandosi del contatto di quel corpo caldo.
Guardò fuori, la luna ormai ridotta a uno spicchio stava appena sorgendo, e illuminava quella piccola stanza spoglia. Strinse di nuovo la mano della ragazza e lei gli rispose stringendo a sua volta. Il sesso gli era piaciuto, e sicuramente era piaciuto anche a lei, ma l’intimità di quelle due mani … avrebbe voluto che quel momento potesse durare all’infinito.
Ma non sarebbe durato, proprio no. Ma quell’intimità, quella vicinanza, sarebbero tornati molto utili il giorno dopo, quando loro due, unici volontari in tutto il campo, si sarebbero calati nel pozzo dove la trivella aveva finito di scavare.
Avevano attraversato di corsa il cantiere raggiungendo la trivella e il suo cerchio di luce, e lui non aveva potuto fare a meno di pensare a Incontri ravvicinati del terzo tipo, a quelle lunga parte finale nel campo di atterraggio ai piedi della montagna, e si era chiesto se non stessero per incontrare davvero qualcosa di inaudito. Quando era giunto alla trivella, nessuno aveva chiesto cosa ci facesse Elsa, c’era troppo casino per stare a guardare chi fosse sul posto e chi ne avesse diritto, l’operaio addetto alla trivella era corso da lui e gli aveva detto che erano arrivati alla cavità.
- Che tipo di cavità? –
- Non lo so. La trivella stava andando giù con facilità, quando a un certo punto è andata giù di colpo. Ho fermato subito i motori e ho guardato i sensori. Vuoto. Totalmente vuoto. –
- Cazzo. Avete già mandato giù la telecamera? –
- Aspettavamo lei e gli altri ingegneri. –
Allora lui si era guardato intorno, era senza dubbio il più alto in grado, tra i civili, e se stavano aspettando qualcuno che desse degli ordini, era lui. – Mandate giù la telecamera. – aveva detto.
Si erano assiepati davanti allo schermo su cui venivano proiettate le immagini riprese dalla telecamera fornita di potenti fari. Per un bel po’ avevano visto solo lo scavo circolare, con i cavi dell’illuminazione e le rotaie del montacarichi, ma dopo un po’ avevano cominciato a vedere solo lo scavo grezzo.
- Elsa. – l’aveva chiamata – Potrebbe servirci la tua esperienza. –
Lei si era avvicinata e aveva cominciato a esaminare quelle immagini. – Continua la discontinuità. Come nel punto dove eravamo oggi. – e poi, a un certo punto, videro il foro diventare un cerchio nero.
- Rallentate la discesa. Piano, piano. – aveva detto lui e a un certo punto la telecamera era uscita dalla galleria e si era trovata davanti a una parete. Era distante e non la si vedeva bene. – Fermi. Rotazione. – aveva detto Andrea e il tecnico aveva fatto compiere un giro completo alla telecamera. La parete orizzontale continuava in ogni direzione, anche se sembrava scendere ai lati.
- Che ne dite? –
Nessuno disse niente, poi Elsa alzò la mano e disse: - Posso muovere la telecamera? –
- Vai! – le aveva detto e lei aveva fatto fare un’altra lentissima rotazione alla telecamera. Si vedeva in alto un soffitto di salgemma scavato in modo grezzo, e sotto quella parete liscia e, a prima vista, metallica. In lontananza sembravano scendere. Lontano, a qualche decina di metri, forse, un qualcosa di enorme collegava la parete di salgemma e quella metallica sottostante. Elsa mise a fuoco e videro che sembrava una colonna, o un pilastro.
- Una spirale. – aveva detto lei.
- Dice che è una colonna? – aveva chiesto un tecnico addetto alla trivella.
Lei si era girata a guardarlo, aveva inspirato e poi aveva detto: - Quella forma a spirale … - fece fare un altro giro all’obbiettivo, mettendo a fuoco ora vicino e ora lontano, poi disse: - Il Norad. –
- Cosa? – aveva chiesto allora Andrea.
- Il Norad, la base da cui l’America avrebbe combattuto la guerra nucleare. È una base scavata sotto a una montagna, totalmente a prova di bomba. –
Andrea ricordò la particolarità di quella base, prese i comandi della telecamera e la puntò di nuovo su quella specie di pilastro. Tentò di metterlo a fuoco, ma era troppo distante. – Una molla. –
- Sì. – aveva detto Elsa. – E se non mi sbaglio sia lo scavo che l’oggetto metallico sottostante sono sferici. Un oggetto sferico all’interno di uno scavo sferico di qualche metro più grande. –
- E delle molle a dividerli, così in caso di terremoto l’oggetto all’interno rimane immobile per l’inerzia. –
- Esatto. – aveva detto lei. E se non mi sbaglio … - e fece scendere la telecamera verso la parete metallica. Era ricoperta da uno strato di polvere di sale caduto a causa della trivella, ma da vicino si vedeva meglio. – Oro. Se non mi sbaglio è oro. –
Andrea si era avvicinato allo schermo e per un attimo si era immaginato nelle vesti di Paperon de Paperoni, con tanto di occhi a dollaro. Era oro, senza alcun dubbio.
- Oro? – aveva chiesto Gianfranco, un altro ingegnere. – Una palla d’oro? –
- No, Gian, è solo rivestito d’oro. L’oro è un metallo nobile, non arrugginisce e non reagisce a nessun acido. Se rivesti d’oro un qualcosa, fino a che l’oro non viene rimosso quella cosa non si modifica. Qualcuno si è dato un gran da fare per conservare quello che è contenuto in quella capsula. –
- Ma quanto sarà grande? – chiese ancora Gianfranco.
- Elsa? –
- Non lo so. Stimerei almeno duecento metri di diametro. Ma potrei sbagliare. –
Avevano continuato a guardare quelle immagini per un’ora o due, discutendo con vari capoccioni militari e civili, fino a che qualcuno aveva chiesto come si sarebbe potuto andare giù a controllare. Nel silenzio totale, dopotutto ci si trovava di fronte a un’antichissima civiltà sconosciuta, Elsa aveva detto: - Con una normale attrezzatura da speleologia potrei scendere anche io. –
Andrea l’aveva guardata e aveva detto: - Io ho fatto alpinismo. Io sono ingegnere e scendendo potrei vedere cos’è quella roba, lei che è archeologa e geologa potrebbe capire da quanto è laggiù. –
Tutti li avevano guardati come due pazzi, ma nessuno si era opposto. Quando, dopo una ventina di minuti la riunione si era sciolta, erano andati via insieme, eccitati e terrorizzati per quello che li aspettava il giorno dopo e così, senza quasi accorgersene, erano finiti nella camera di lui a parlare delle loro teorie, dei pericoli che avrebbero potuto trovarsi davanti, del fatto di essere i primi a venire in contatto con quella civiltà, e l’eccitazione era montata a tal punto che, sì, avevano cominciato a fare l’amore.
E ora lui era lì, al buio nella sua stanza con Elsa addormentata sulla sua spalla. Si girò a guardare la sveglia a numeri luminosi, le tre e mezza. Di lì a cinque ore si sarebbero calati in quel buco. E si addormentò così, stretto a quella donna bella e coraggiosa che forse cominciava ad amare.
E, poco prima di addormentarsi del tutto, si ricordò che la parete di oro non gli era sembrata totalmente liscia. Qua e là, disordinatamente o con un ordine che non era alla sua portata, si vedevano dei segni che gli sembrava di conoscere. Ma il sonno giunse prima che riuscisse a ricollegarli a un muro che aveva visto vicino a casa di sua sorella.

lunedì 10 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXVIII.

2

Il cantiere.

La cosa più semplice da fare, in ogni occasione, è quella di non prendere decisioni e di farsi trasportare. È così che si spiega come i nazisti abbiano continuato a scannare ebrei e zingari anche quando la guerra era evidentemente persa. Gli ordini erano quelli e la vita era già sufficientemente difficile così senza dover anche prendere delle decisioni impegnative come quella di disobbedire.
Nel cantiere di San Giorgio in Ripa, quello che dopo anni e anni di scontri e perizie era stato scelto come sede del deposito definitivo per le scorie nucleari di tutta Italia, tutti quanti, anche l’ultima donna delle pulizie che passava la sera per togliere un po’ di fango dagli uffici posti nelle palazzine prefabbricate, avevano capito che difficilmente il deposito sarebbe stato davvero costruito, ma continuare a scavare era più semplice. Nessuno aveva detto di fermarsi e così le macchine continuavano a rosicchiare sale, i camion continuavano a sversare nella cava a pochi chilometri da lì, e gli operai continuavano imperterriti a lavorare alle loro macchine enormi e rumorose.
La natura dell’intoppo era stata tenuta quanto più possibile segreta, ma qualche parolina era stata captata da orecchie indiscrete e così, come nel gioco del telefono senza fili, l’idea di qualcosa di veramente strano e inaspettato era corsa di bocca in bocca passando dalla vaghezza delle informazioni originarie alla totale follia delle leggende metropolitane, o cantierizie, se mi passate l’ardito neologismo, che venivano raccontate qua e là a mezza voce.
Essendo a qualcosa come trenta chilometri di strade sterrate da un qualunque luogo abitato, gli operai, gli ingegneri, i fisici e i militari, perché naturalmente c’erano anche loro, si incontravano alla sera nei quattro spacci del cantiere, posti in dei prefabbricati nel lato nord. Diversamente dagli altri giorni, quando l’unica cosa degna di nota erano stati gli approcci dei più ubriachi con le tre bariste, uniche donne nel cantiere a parte le sei fisiche, che stavano ben distanti dagli operai ubriachi di birra e le due operaie Nina e Gianna, evidentemente lesbiche, quella sera tutti parlavano e sparlavano di dischi volanti, città aliene, resti di Atlantide e altre corbellerie simili, e Andrea, che avendo bevuto solo due birre era uno dei più sobri, si godeva la scena ridendo come un matto a ogni teoria strampalata che gli veniva propinata dall’ubriaco di turno.
- Ti dico che qua sotto c’è una città. – gli diceva uno con il quarto boccale di birra in mano – Una vera e propria città con tutti i suoi abitanti. –
- Ma davvero? E che ci stanno a fare sotto terra? – gli chiedeva lui pregustando la follia della risposta.
- Sono vampiri. – rutto alcolico – O talpe. Talpe umane, talpe umane vampiro. – altro rutto e sguardo con occhietti da ubriaco. –
- Sarebbe forte, no? – diceva allora Andrea al pazzoide di turno.
- Forte? Quelli ci vogliono mangiare il cervello! – o altre amenità simili.
La serata andava così già da un po’ e, avendo cominciato a bere la terza birra, non è che ci fosse da fare molto altro lì, anche lui cominciava trovare possibili alcune di quelle teorie che facevano risalire l’intoppo dei lavori a Atlantide, il continente di Mu, gli Americani, i Russi, la Massoneria, i Maya, il complotto giudaico, la Chiesa, i templari, la P2, Berlusconi, Berlusconi e Putin, Berlusconi e Gheddafi, gli alieni, il complotto alieno, Nixon, le dimensioni parallele, i comunisti, i Cinesi, Mussolini negli anni Trenta, Mussolini dopo la guerra, immaginandolo ancora vivo, e molte altre cose che aveva dimenticato. E fu allora che la sala piena di operai e ingegneri semi ubriachi si zittì di colpo. Era entrata una donna.
Ecco cosa capitava nei saloon del far west, pensò Andrea buttando giù un altro sorso di birra e vedendo che la donna in questione era l’archeologa. Mentre si rendeva conto con orrore di non ricordare il suo nome, vide che stava cercando qualcuno. Magari cerca me, pensò senza sperarci troppo, ma poi lei si girò nella sua direzione e lo guardò. Lui alzò la mano salutandola con un cenno e lei gli sorrise cominciando ad attraversare la calca nella sua direzione.
- Ciao Andrea. – gli disse sedendosi vicino a lui. – È libero il posto? –
- Sì, sì. – le disse notando che, vestita da donna e non da cantiere era ancora meglio. – Bevevo qualcosa e sentivo un po’ di storielle buffe. –
- Che si dice intorno? –
- Pare che abbiamo trovato Atlantide. O Mu. O anche un complotto pluto-giudaico-massonico ordito dai Cinesi Russi con Nixon e gli alieni. –
- Non è che sia proprio folle come teoria. – disse lei afferrando intanto per un braccio la barista e ordinando una birra grande. –
- Birra? Brava ragazza! – disse lui evitando accuratamente di chiamarla per nome. –
- Magari poi facciamo una gara di rutti. – disse lei ridendo.
- Mi ritiro per non essere umiliato. Sei proprio di un altro livello. –
- Grazie. Sono cose che una ragazza sogna di sentirsi dire da un uomo. –
- Come dicevo l’altro giorno a mia sorella, sono un pirata ed un signore … -
- Innamorato dell’amore. - continuò lei.
- Sì. - e poi lui sfoderò un sorriso ebete da antologia.
Lei bevve un sorso di birra dal bicchiere di lui, si pulì la bocca col dorso della mano, una vera duchessa, non c’è che dire, e poi gli disse: - Posso farti una domanda? –
- Sì. –
- Non hai ancora detto il mio nome, e prima mi hai chiamato ragazza. Non ti ricordi come mi chiamo, vero? –
Andrea la ammirò. Intelligente, oltre che bella e simpatica. E amava la birra e rideva dei rutti. Senza dubbio la donna della sua vita. Sorrise e disse: - No. –
Lei gli porse la mano e disse: - Elsa. –
- Andrea. – disse lei stringendole la mano – Ma tu te lo ricordavi il mio nome. –
- Sì, caro. –
In quel momento arrivò il boccale di Elsa, lei ne bevve un gran sorso, si pulì di nuovo alla camionista selvaggio e poi disse: - E così si parla della scoperta, vero? –
- Non si parla d’altro. E da quello che dicono, direi che X-files era il loro telefilm preferito. –
- Io ho sempre preferito E.R. – disse lei.
- Non c’è mai stato nulla come Twin Peaks, e mai ci sarà. Tranne Lost. –
- Lost era bello. – disse lei.
- E tu che mi dici? –
- Di cosa? –
Lui indicò il pavimento con la mano e disse: - Di quello che c’è qua sotto. –
- Ho fatto altri esami, sai, quei campioni che ho preso … -
- Ah - a! –
- Risulta che avevo ragione. Fossili guida, radiazioni, chimica … Quello che è stato fatto laggiù, lo hanno fatto almeno sessantacinque milioni di anni fa. –
- Cazzo. Rivaluto gli ubriachi qua attorno, forse c’hanno preso. – disse lui, e in quel momento gli suonò il cellulare. Guardò chi era e disse: - È il tecnico della trivella, il messaggio dice che devo correre a vedere. –
- Ti dispiace se vengo? – gli chiese lei.
- Se non ti fermano i Men in Black … Vieni pure, dice che è una cosa grossa. – e uscirono dal bar attraversando il cantiere fangoso verso le luci che contornavano la trivella. In quel cerchio di luce si muoveva già una gran folla di persone.

domenica 9 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXVII.

1

Andrea.

Il caldo era quasi soffocante, ma per fortuna l’umidità era quasi del tutto assente. Tirò fuori dallo zaino la bottiglia d’acqua e bevve una bella sorsata. Fortunatamente era frizzante, perché la temperatura che aveva raggiunto era adatta a lessare il pollo. Mentre richiudeva il tappo gli scappò un rutto.
- Scusi. – disse alla giovane donna che, accucciata in terra continuava a staccare dalle pareti dei minuscoli campioni di sale che, prima di infilare in delle grandi provette etichettate con numeri progressivi, esaminava con una grossa lente d’ingrandimento.
- Cosa? – gli disse lei senza girarsi.
- No, niente. – le disse sentendosi una cacchetta.
- Ah! Per il rutto? – gli chiese lei, si alzò e disse: - Mi passa la bottiglia? –
- Certo. – le disse, gliene passò una ancora chiusa, lei la aprì con facilità, bevve e, dopo essersi battuta un pugno sul petto come il gorilla più grazioso del mondo, emise un rutto dalla potenza preoccupante. – C’è il rischio che crolli qualcosa? – le chiese lui ridendo.
- Il salgemma è resistente. – disse lei che scoppiò poi a ridere.
- Comunque mi inchino. Come fa a fare tutto quel rumore? È così minuta. –
- Anni e anni di esercizio. – gli rispose passandogli la bottiglia, poi si voltò a guardare la parete grigiastra che aveva appena esaminato. Era attraversata per tutta la sua altezza, cioè cento metri dall’inizio dello strato di salgemma a loro che stavano su un grosso montacarichi, da una evidente discontinuità. A destra il sale era più grossolano e chiaro, a sinistra più fine e scuro. – Strano, eh? –
- Sì. – disse lui. Che significa? –
- Lei sarebbe … - gli chiese.
- Ingegnere. –
- Di geologia che ne sa? –
- Niente va bene come risposta? –
- E di archeologia? –
- Niente di niente? A, no. Si usa la frusta per combattere i nazisti. –
- Che carino! Io adoro Indy, anche perché nessuno lo nomina mai quando dico che sono archeologa. –
- Riferimento banale, eh? –
- Un po’. – gli disse, poi sorrise e lui pensò che era il più grazioso esemplare di ragazza che avesse visto negli ultimi mesi, non troppo alta, proporzionata, grandi tette e stupendi capelli ricci neri. Poi lei disse: - Quella riga verticale tra il sale chiaro e quello scuro è una discontinuità. E per quanto quello che sto per dirle … -
- Dirti. –
- Dirti, va bene. – disse sorridendo di nuovo – Quello che sto per dirti, dicevo, va contro a tutto quello che noi sappiamo della storia del mondo. Quella discontinuità è quella che noi archeologi chiamiamo una unità stratigrafica negativa. Lo sai cos’è? –
- No. –
- Se fai una buca, lo strato che hai scavato è una unità positiva, definibile come strato di terra. La terra che ci butti dentro per riempirla è un'altra unità positiva detta riempimento e la discontinuità tra le due, più o meno visibile, è una unità negativa detta taglio di fossa. –
- Ah! –
- E lo sai quale è la caratteristica delle U. S. negative, come le chiamiamo noi affiliati al clan della frusta? –
- No. Quale? –
- Sono sempre il risultato di azioni. Uno strato di terra lo può fare il vento, o una alluvione, o una foresta marcendo. Ma una buca, un taglio verticale, una asportazione, le deve per forza aver fatte qualcuno. –
- E quindi … Qualcuno è venuto a scavare qui nello strato di salgemma? –
- Sì. Qualcuno ha fatto una enorme buca verticale, come il pozzo di miniera in cui ci troviamo, e poi lo ha riempito nuovamente dello stesso sale che aveva tirato fuori. –
- E come distingui uno dall’altro? –
- La giacitura. Naturalmente il salgemma si stratifica, è orizzontale, quindi. Il riempimento è caotico. Lo vedi? –
- Lui guardò da vicino e disse: - Sì. –
- E lo sai cosa va contro tutto quello che sta scritto sui libri di scuola? – gli chiese lei battendo la mano su quello che aveva appena chiamato riempimento.
- La profondità dello scavo? –
- L’età. Qua sopra, sopra allo scavo antico intendo, ci sono strati intatti di argilla che sono databili a sessantacinque milioni di anni fa. E se sono sopra, vuol dire che si sono depositati qui dopo che lo scavo era stato fatto e finito –
- Ma c’erano i dinosauri allora, no? –
- Sì, caro. È quando i lucertoloni si sono estinti. –
- E chi ha scavato un pozzo di miniera allora? – chiese lui guardando il muro con gli occhi fuori dalla testa.
- Non lo so. – gli rispose scuotendo la testa – Ma ti posso dire che lo scavo è molto più accurato del nostro, è stato fatto con macchine più precise. –
- Sessantacinque milioni di anni fa? – le chiese deglutendo – Macchine più precise delle nostre al tempo dei dinosauri? –
- Sì. – gli rispose – Qualcuno ha scavato un pozzo enorme nello stesso strato di salgemma che voi avete scelto per metterci le scorie nucleari perché siano al sicuro per i prossimi milioni di anni. –
- E che cazzo ci sarà giù in fondo? Le prospezioni parlavano di spazio vuoto e metallo. –
- Se siamo fortunati scorie nucleari vecchie di milioni di anni. – gli disse lei pigiando il tasto di risalita. – Se siamo fortunati. – Il montacarichi di rete metallica, da miniera, saliva abbastanza velocemente, ma ci sarebbero voluti comunque più di sei minuti per arrivare su.
- Che ne pensi? – le chiese dopo un po’.
- Boh! La cosa più credibile sarebbe uno scherzo, ma mi sembra un po’ difficile, no? –
Lui annuì, poi disse: - E se non è uno scherzo? –
Lei sorrise e gli disse: - Se non è uno scherzo, noi umani non siamo affatto la prima razza intelligente che vive sulla terra.
- E perché non li abbiamo mai trovati? –
- Guarda che la fossilizzazione è una cosa così improbabile che c’è da stupirsi di trovare qualche osso di quell’epoca. Ne troveremo se va bene l’uno o due per centomila. E sono sempre frammentari e incompleti. –
- Ma se hanno fatto questo … - disse lui – dovremmo trovare resti della loro civiltà, strumenti, case, strade. Aerei, cazzo, anche gli aerei! –
- Lo sai cos’è la cosa più duratura creata dall’uomo? –
- No. –
- Le bottiglie di plastica. Sono praticamente indistruttibili, ci mettono un milione di anni a decomporsi. Questi qua, se c’abbiamo preso, sono vissuti sessantacinque milioni di anni fa. –
- E il metallo? E il cemento? –
- L’acciaio arrugginisce e scompare, il bronzo si ossida molto più lentamente, ma dopo un po’ anche lui … persino il vetro si sfalda dopo millenni. E il cemento non dura un cazzo, basta che guardi muri vecchi di trent’anni, sono tutti rovinati. –
- Cazzo. – disse lui. - Estremo, davvero. –
- Eh sì. – disse lei. Poi lo guardò, la luce in cima al pozzo ora era un pochino più grande di un puntino – Non ti sembra di essere in uno di quei film di fantascienza? –
- Quali? –
- Quelli in cui i protagonisti scoprono un complotto alieno e arrivano degli agenti vestiti di nero a accopparli. –
- Ah! Quelli, eh sì! –
Il montacarichi arrivò in cima e il cellulare di Andrea suonò. Guardò chi era, sorrise e disse: - Mia sorella, mi ha cercato, ma giù non c’era campo. La richiamerò prima che arrivino i Men in black. –
- Va bene. – gli disse lei – Vado a parlare con i pezzi grossi. –
E, mentre faceva la chiamata e sentiva gli squilli Andrea vide la bella archeogeologa che parlava con i capoccioni e questi ultimi che sembravano essere stati punti da un branco di tarantole. E fu allora che Carla rispose e lui disse: - Ciao Carlotta! –
- Non chiamarmi Carlotta, è un nomignolo da grassa. – gli rispose lei e la telefonata continuò come già sappiamo mentre lui vedeva il cantiere diventare un formicaio impazzito di ingegneri e fisici sotto shock.

sabato 8 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXVI.

IV

Macchu Picchu

I due fratelli stavano in piedi davanti al bagagliaio dell’auto aperto e guardavano ora i borsoni ora il volto uno dell’altro.
- E il bello è che la panda ha un bagagliaio davvero grande. – disse lui.
- Colgo come una traccia di ironia? – gli chiese lei.
- Una traccia? Che simpatica! E chi dovrebbe portarla su ‘sta roba? –
- Noi due. – gli rispose lei.
- E quale di questi piccoli borsoni da cento chili l’uno dovresti portare su con quelle braccine asfittiche? –
Lei si tirò su una manica e flesse il bicipite. – Guarda un po’ che roba! Schwarzenegger. –
Lui fece una smorfia e disse: - Dopo la morte e la mummificazione? –
- Ha parlato il culturista. Scommetto che dopo due borse mi chiederai in ginocchio di aspettarti. –
- Guarda, cara sorellina mia, cara Carletta … -
- Non chiamarmi Carletta! –
- Carla, mi permetti di essere volgare? –
- Perché, sei mai stato fine in vita tua? –
- Moi? Io sono la finezza in persona. Allora, me lo permetti? –
- Vai. –
- Per fortuna che sei donna, perché con quello schifo di braccette secche non riusciresti neanche a tirarti su l’uccello per pisciare. –
- Alla faccia della finezza! – disse lei ridendo, poi prese due borse, grandi ma non le più grandi, e cominciò a camminare verso il portone a una ventina di metri dall’auto – Vuoi cominciare ad aiutarmi o te ne stai lì a distillare finezze? –
Andrea sghignazzò forte, prese due borsoni, questi sì grossi, e a passo veloce la raggiunse e la superò. – Che piano, piccola? –
- Terzo. Ma l’ascensore è guasto. –
- E te pareva! Ci vediamo su, bella. Io vado veloce, sai. –
- Attento al cuore, che non sei più di primo pelo! –
- Vaffanculo! –
- Belle parole da dire a una sorella più piccola. – disse ad alta voce, lui era già al primo piano, e cominciò a salire anche lei. Quando lo raggiunse lui se ne stava ostentatamente appoggiato al muro con espressione annoiata. – Mi ero quasi scordato la tua faccia. – disse.
- Io la tua no. è rotonda e con uno spacco in mezzo. E con due enormi guance. Come la potrei definire? Un culo, ecco. – gli disse tentando di nascondere l’affanno.
- Respira, Carletta, che se no mi sbatti in terra. –
Lei sbuffò, e inspirò, e prese le chiavi aprì la porta. Entrarono in quel piccolo appartamento ammobiliato con mobili semplici e scuri. – Entra. – gli disse quando lui era già nell’ingresso.
- Già fatto bella. – le disse facendo un sorriso largo e ottuso – Dove le poso le borse? –
- Di qua. – disse lei facendolo entrare nella camera da letto. La finestra era aperta e dava sulla strada. Lui guardò fuori e disse: - Bel quartierino di merda. –
- Come dicevo prima, Andrea, tu distilli finezze. –
- È nella mia natura, bella, sono fatto così. Sono un pirata ed un signore, innamorato dell’amore. –
- E poi si offende quando una lo manda a quel paese! – disse lei mettendosi le mani nei capelli, poi indicò la porta e disse: - Altro carico? –
- Si badrona, ora io porta tutto, missis Scawlett! Io bravo sghiavo negro. –
Lei scosse la testa e cominciò a scendere le scale. Lui la seguì e, dopo una mezz’oretta avevano finito il trasloco; la camera era praticamente colma di borse, borsoni e sacchetti vari ed eventuali che contenevano tutti i vestiti di Carla.
- Grazie, Andrea. – gli disse asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto.
- Dovere, sorellina. – disse lui bevendo acqua da una bottiglietta. – Calda come pisciazza! Che bontà! –
- Gelato? – gli chiese lei sorridendo – Ho visto che c’è un bella gelateria un po’ più su lungo la strada. –
- O per Bacco! Se offri tu, certo che sì! – le rispose dandole una pacca sulla schiena e scesero le scale continuando a scherzare come avevano fatto per tutte le quattro ore di viaggio da casa dei loro genitori a lì.

Quando furono seduti al tavolino con i loro gelati davanti, limone e fragola lei, cioccolato, nocciola, crema e caffè lui, dopo aver assaporato un po’ di quella goduria cremosa, lui disse: - Sei pronta sorellina? Una maestra ha delle responsabilità. –
- Lo so. Anche un ingegnere che scava pozzi profondissimi per stiparli di scorie nucleari ne ha un bel po’, se non sbaglio. –
- E sì. Ma io parlavo di una ciurma di piccoli pisciottoli che dipendono da te. Sei come un comandante di una nave, piccola, quello che gli accade, quello che imparano, quello che non imparano, tutto dipende da te. –
- Grazie per l’incoraggiamento, Andre’, grazie davvero. –
- Carla, è solo la verità. Stai per passare la tua linea d’ombra. –
- Conrad? –
- Sì. So che tu leggevi Cioè, ma tento di educarti. –
- Vai a fare in culo! – sillabò lei. - Devo farti lo spelling? –
- Ottima insegnante, davvero. Ho imparato una parola nuova. –
Risero tutti e due e, per qualche minuto, mangiarono in silenzio i loro gelati fino a finirli. Lei andò a pagare il conto e poi fecero una passeggiata fino alla scuola, o almeno questa era l’idea iniziale, perché c’era il sole e faceva caldo e così si fermarono dopo poche svolte.
- Lavorerai in altura. Aria buona, sottile ma pulita. – disse lui.
- Sei sporco di cioccolato. Come un bimbo piccolo. – gli disse pulendogli l’angolo della bocca con un fazzolettino di carta. –
- Grazie Carla. – disse lui sorridendo. – Siamo grandi, eh? – le chiese rendendosi conto di essersi quasi commosso.
- Purtroppo sì, Andre’, non siamo più dei giovani pischelli. –
Lui si mise a ridere e si girò per non farle vedere che aveva gli occhi lucidi. La sua sorellina non solo si era laureata e specializzata, ma avrebbe avuto una classe sua. Il tempo passava e non tornava più, che fregatura. E fu allora che vide una cosa. – Guarda là, Carla. – le disse indicando il muraglione che sorreggeva un fianco della collina.
- Cosa? –
- Un’iscrizione. La vedi là, su quelle pietre? – e si avvicinò al muro attraversando la strada.
- Ma dove? – gli chiese seguendolo. Lei vedeva solo dei massi incredibilmente consunti e ricoperti di licheni e muschio rinsecchito.
- Ma qua! – disse lui indicando dei segni appena accennati sulle pietre. – E guarda le pietre, sono come i massi di Macchu Picchu, guarda! – e tirata fuori dal portafoglio una carta di credito tentò di infilarla tra le pietre. Era impossibile.
- Per te sono lettere? – gli chiese lei che continuava a vedere solo scalfitture e graffi.
- Certo. Guarda, ce ne sono due uguali, qua e qua. – le disse indicando due segni su due pietre distanti una dall’altra un paio di metri.
- Forse … Ma no, dai. E in che lingua sarebbero? – gli chiese.
- Sei te la letterata, io so’ ingegnere. –
- Tu sei fesso. – gli disse lei avvicinando il naso alla roccia. Effettivamente era ricoperta da segni strani, ma erano così consumati dalle intemperie che, anche se fossero stati una scrittura secoli prima, ora erano solamente dei segni incomprensibili.
- Mai detto il contrario. Ma dai, piccola, è una scrittura! –
- E io sono Monica Bellucci. –
- Per fortuna no, non mi sono mai piaciuti i pensieri incestuosi. – disse lui sorridendo.
- Scemo! – gli disse. Si allontanò per avere una visione d’insieme di quei segni. A volerla cercare, c’era una distribuzione abbastanza regolare, su righe e colonne, ma solo se la si cercava. Mah! – Per me sono solo segni sulla roccia. –
- Dici? – le chiese lui deluso – Non abbiamo scoperto un’iscrizione di un popolo antichissimo? –
- Vuoi la verità o vuoi che ti renda felice? – gli chiese sorridendo.
- La seconda? –
- Allora, solo perché sei un fan di Lovecraft, e quanto mi hai rotto da ragazzi con quel pazzoide, questa è la scrittura dei Grandi Antichi. –
- Vedi? Sono un genio, il nuovo Schliemann. – disse lui allargando le braccia e accennando un inchino.
Lei lo guardò con sufficienza, cominciò a scendere verso casa sua e disse, sottovoce ma in modo che lui la sentisse: - Il nuovo scemo, semmai. – e tornarono a casa dove lui l’avrebbe aiutata a svuotare un po’ di borse prima di tornare in Toscana dove stavano scavando il deposito nazionale delle scorie.

Da dietro un angolo due uomini li avevano osservati mentre esaminavano i segni sul muro. Erano i due uomini che, qualche settimana dopo, lei avrebbe notato per strada, il padre e il figlio brutti e tozzi. Loro due l’avevano già notata allora.

venerdì 7 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXV.

6

Alessandro e Aisha.

Alessandro, gli occhi cerchiati di blu di chi ha dormito poco e male, arrivò al tavolo della cucina con il libro di storia sotto il braccio. Lo posò sul tavolo, allontanò la sedia e si sedette. Mamma stava facendo la cioccolata ed era di spalle, e così poteva guardarla.
Se aveva una sicurezza al mondo, e credetemi, quel bambino aveva molte meno sicurezze di quante pensassero quelli che avevano a che fare con lui, ecco, quella era l’amore per sua madre.
Era strano per la sua età in molte caratteristiche, e una di queste era il suo senso estetico. Amava il bello, e con bello intendo il vero bello, non quel kitsch che amano i bambini, con troppi colori, troppi particolari e troppa musica stupida in sottofondo. E sapeva che sua madre era bella. Era la donna più bella del mondo.
In questo nostro mondo così contemporaneamente sessuomane e sessuofobo, i bambini possono venire facilmente in contatto con la nudità più volgare senza avere mai visto neanche un seno della loro madre, ma Aisha in questo era sempre stata molto anticonformista. Fin da quando era nato gli aveva fatto fare il bagno con lei e, anche se questa cosa si era interrotta da un paio di anni, il corpo femminile per lui non era il mistero un po’ spaventoso che è per quasi tutti i suoi coetanei. Amava ogni più piccolo particolare di sua madre, dal suo collo sottile ai suoi fianchi rotondi, dalla carne soda delle sue cosce alle rotondità piene dei suoi glutei e dei suoi seni, per non parlare della vera e propria passione che aveva per il suo addome appena sporgente e per la sottostante macchia di pelo castano.
E così, mentre apriva il libro alla pagina della lezione che i suoi compagni stavano facendo a scuola, la fondazione di Roma, lui guardava rapito sua madre che andava avanti e indietro tra la credenza, il frigo e i fornelli, ammirando quel suo splendido corpo che era per lui la massima bellezza possibile in campo umano.
- Ci sei, ragazzaccio? – gli chiese lei.
- Sì mamma. –
- Il libro lo hai portato? –
- Sì mamma. E anche il quaderno e la penna. –
- Bene. – disse lei e si girò a guardarlo lasciandosi sfuggire un sorriso. Subito se ne rese conto e tentò di fare la faccia truce di una madre che ha il figlio sospeso da scuola per una rissa, ma tant’è, le uscì un’espressione così buffa che subito tornò a sorridere. E lui amò anche quel sorriso, le rughe finissime che le si formarono ai lati degli occhi e della bocca, la ruga verticale tra le sopracciglia quando le aveva aggrottate, e quei sottili ciuffi bianchi che aveva tra i capelli castano scuri. – Stamattina ho chiamato la tua maestra e mi ha detto che oggi a scuola studieranno storia, geografia e matematica. Mi ha dato il programma completo. –
- Sì mamma. –
- E lo sai cosa mi ha detto? –
- Cosa ti ha detto la maestra Damiani? –
- Mi ha detto che quando lunedì tornerai a scuola ti interrogherà su tutti gli argomenti che avrà insegnato, e che sarà molto severa. Hai capito? –
- Sì mamma. –
- Così imparerai a prendere a pugni i tuoi compagni. E non ridere, che non c’è niente da ridere. È molto brutto quello che hai fatto, Ale. –
- Lo so, mamma. È grave ed è brutto. –
Lei lo guardò e lui capì che stava tentando di capire quanto fosse sincero nel suo pentimento. Sperò che leggesse nel suo sguardo solo il pentimento e il rimorso, che c’erano, e non quell’odioso piacere che provava a ricordare Giulio che cadeva in terra con gli occhi rivoltati. Lei gli sorrise. Doveva avere nascosto bene quel sentimento indesiderato. E così, dopo avere mentito alla preside aveva mentito anche a mamma, anche se non con le parole.
- Apri il libro. Pagina 45, la fondazione di Roma. –
- Lo so. La maestra ce lo aveva già detto la settimana scorsa. –
- Leggi. –
- Va bene. – inspirò e poi cominciò a leggere il testo scritto in grandi lettere. – “Roma fu fondata nel punto in cui era più facile guadare il Tevere da popolazioni latine che vivevano sui colli circostanti. All’inizio la città prosperò grazie ai commerci tra le città etrusche e greche di Toscana e Campania che obbligatoriamente dovevano passare per il guado dell’Isola Tiberina e pagare ai Romani un tributo.” –
- Bravo. Lo sai cosa vuole dire guadare? –
- Attraversare un fiume a piedi. –
Lei sorrise, poi disse: - E circostanti e tributo? –
- Vicini e tassa. –
- Bravo. – gli disse sorridendo, poi si ricordò di essere molto arrabbiata con lui e aggrottò le sopracciglia. Mentre gli versava nella tazza la cioccolata calda gli disse: - Continua, su! –
- “Ma i Romani secoli dopo nobilitarono le loro origini creando una leggenda che, come tutti i miti, deve però avere un qualche fondo di verità. La leggenda di Romolo e Remo.
Il re di Alba Longa Amulio aveva un fratello, Numitore, che aveva una figlia di nome Rea Silvia. Rea era una vestale.” Cos’era una vestale? –
- Era come una suora, una sacerdotessa legata a un dio e costretta a non sposarsi. – gli rispose lei mentre lavava il pentolino dove aveva cotto la cioccolata.
- “Rea Silvia fu sedotta dal dio Marte ed ebbe due figli, Romolo e Remo, che Amulio fece abbandonare in una cesta sul fiume Tevere.” –
- Sai cosa vuol dire sedotta? – gli chiese lei, ma lui vide che la sua espressione era quella di chi spera che la risposta sia sì e allora, pur avendo una vaghissima idea di cosa volesse dire, sapeva che una bella donna può essere seducente e lì si fermava, le rispose di sì.
- Bene, vai avanti. –
- “Una lupa sentì il loro pianto e, avendo appena partorito, li allattò salvandoli fino a quando un pastore di nome Faustolo li raccolse e li portò a sua moglie Acca Larenzia.” Ma che nomi! –
- E sì. Vai avanti, dai. – disse lei mentre si tormentava le pellicine che le si formavano sulle labbra come tutte le volte che era molto agitata. Secondo Alessandro aveva cominciato quando lui aveva nominato la lupa.
- “Li crebbero come figli loro e, quando furono cresciuti, i due ragazzi sconfissero il re, liberarono la madre e misero sul trono il loro nonno. Poi decisero di fondare una città e che il fondatore vero e proprio fosse quello di loro che avesse visto volare più uccelli.” Che vuol dire, mamma? –
- Era un’usanza antica, si pensava che vedere volare degli uccelli in una certa direzione portasse fortuna. –
- Ah! “Fu Romolo a vincere, ma, quando cominciò a scavare con l’aratro il solco intorno alla sua città …” Perché un solco, mamma? –
Lei si sedette davanti a lui ripiegando il grembiule, lo poggiò sul tavolo e disse: - C’entra con le mura. Ogni città era contornata da mura e da un fossato. Il solco era come un primo fossato e la terra smossa era il muro. Era molto importante per gli antichi. –
- Capisco. “… Remo, arrabbiato per aver perso, saltò il solco deridendo Romolo. E questi, adirato, uccise il fratello dicendo che questo sarebbe successo a chiunque avesse tentato di passare le mura della sua città.” Ma lo ha ucciso per così poco? –
- Per loro era molto importante. Era sacro. –
- Ma era il fratello. – non riusciva a capire come si potesse uccidere un fratello perché aveva saltato un solco.
- A volte ci sono cose così importanti che ti costringono ad agire contro i tuoi principi. Se vedi uno che ruba, è giusto fare la spia, se vedi uno che picchia una persona più debole … -
- … è giusto picchiarlo. – disse lui e lei lo guardò capendo di averla detta grossa. Come faceva a essere arrabbiata con lui per una cosa che gli aveva appena detto essere giusto fare?
- Non sempre. E mai per fare male. E mai se c’è un’autorità superiore, come la polizia o i carabinieri. O una maestra, per esempio. –
Lui annuì, sorrise e disse: - Sì. Non se c’è una maestra vicino. –
Lei si rialzò e andò a chiamare la domestica peruviana mentre lui rileggeva il capitolo e scriveva un riassunto. Quando lei tornò le disse: - Ci sono lupi qui? –
Lei impallidì e si sfiorò senza pensarci la cicatrice biancastra che aveva sull’avambraccio, quella che a Alessandro era sempre sembrata il segno di un morso. – Perché, caro? –
Certo non poteva dirle di aver visto due lupi sotto alla sua finestra, o avrebbe portato da un dottore di quelli che ti mettono una camicia di forza, lo aveva visto in un film una volta. – No, niente. –
- No, Ale, forse ogni tanto ne passa qualcuno sulle montagne a qualche chilometro da qui, ma qua intorno, no. – e di nuovo si tormentava le labbra. Quando si strappò una pellicina Alessandro vide chiaramente una goccia di sangue che subito lei si pulì con la lingua.
- Va bene, mamma. – le disse sperando di calmarla, perché non sopportava di vederla così agitata, - Solo che è forte ‘sta storia. –
- Finisci il riassunto, che poi facciamo matematica. – gli disse lei accarezzandogli la testa mentre usciva dalla stanza per tornare da Consuelo e lui rimase lì con la penna in mano. Stava ricordando i due lupi che lo fissavano, di giorno facevano meno paura. E ricordò anche un’altra cosa prima di rimettersi a scrivere. Quando finalmente si era addormentato aveva sognato di essere Romolo, anche se la storia l’aveva letta solo adesso. La lupa che lo aiutava era quella grigia vista davanti alla sua finestra e Remo, che lui uccideva a pugni, era uguale a Giulio. E dopo averlo ucciso, cosa non così sgradevole, lui diventava il re di una grande e potente città. E neanche questo era poi così sgradevole.

giovedì 6 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXIV.

5

Alessandro.

Con le coperte tirate fin sulla testa Alessandro tentava di rimanere il più immobile possibile. In quel momento la cosa più importante era rimanere immobile.
Negli ultimi anni, da quando si era reso conto che nel buio ci possono essere mostri che vogliono mangiarti, idea che nasce nei bambini contemporaneamente alla consapevolezza che nel buio non c’è realmente nessun mostro che ti vuole mangiare, era giunto alla conclusione che i mostri, nel suo caso vampiri dai lunghi denti e dalla testa calva, risultato forse di quella volta che a tre anni era entrato in sala mentre sua madre e suo padre guardavano Nosferatu di Herzog, non possono vedere realmente i bambini, ma possono scorgere ogni minimo movimento delle loro ombre, e con la luna che si stava alzando lui di ombre, sul muro a cui era accostato il suo letto, ne proiettava di molto nitide, e così lui stava nascosto sotto alle coperte stando attentissimo a muovere il petto il meno possibile a ogni respiro, così come tentava di non fare rumore.
A nove anni sapeva benissimo che i mostri non esistevano, ma questa sua conoscenza della loro non esistenza non gli era di alcun aiuto nel buio della notte, quando i rami degli alberi si muovevano davanti alla sua finestra e i riflessi della luce arancione dei lampioni negli occhi dei suoi peluche sembravano effettivamente seguirlo quando si girava sotto al piumone.
E allora stava lì, raggomitolato come un cucciolo infreddolito, sicuro che a un minimo tremito di un suo dito del piede una mano rinsecchita e gelida, con lunghi artigli, gli si sarebbe stretta attorno alla caviglia e lui, prima ancora di vedere il volto terreo del vampiro, prima ancora di vedere che quei riflessi arancioni non erano gli occhi dei peluche ma quelli di un morto vivente, sarebbe morto di paura.
Sì, morto di paura, perché gli avevano detto che poteva succedere. A volte uno spavento poteva essere così grande, così spaventoso, se mi passate il bisticcio, che tu potevi solo urlare, così forte da slogarti la mascella, mentre il tuo cuore faceva un ultimo battito così enormemente forte da scoppiare. E così, tremando sotto alle coperte mentre la fronte gli si ricopriva di sudore per il caldo e la schiena per la paura, Alessandro pensava a un cuore che scoppia. Che rumore fa, pensava raggomitolandosi ancora di più, si sentirà una specie di POP in mezzo al petto, oppure sarà come lo scoppio di un petardo? E mentre il rumore del vento fuori sembrava l’ululato famelico di un mostro, immaginava che un cuore scoppiando potesse addirittura aprire il petto a un bambino come si apre un fico, e che al povero bambino morto di paura rimanessero esposti gli organi interni, tra spuntoni taglienti di costole, mentre sul viso, fino a che la sua carne non fosse marcita e dissolta dai vermi, sarebbe rimasta l’espressione di terrore folle che sarebbe stato il suo ultimo pensiero.
E ancora si stringeva in se stesso, ascoltando ogni singolo scricchiolio di quella grande casa costruita su fondamenta che suo padre gli aveva detto essere più antiche di un qualunque palazzo avesse potuto vedere in città, e ogni rumore gli sembrava l’avvicinarsi del mostro, così come il rumore che i suoi piedi facevano spostandosi sotto alle coperte, perché naturalmente ogni tanto si muoveva, era, non sembrava, il fruscio molliccio delle mani morte del mostro che si avvicinavano alle sue gambe.
E oltre a tutto questo, che ormai da mesi era ciò che Alessandro provava prima di addormentarsi, quella notte un’altra paura si era aggiunta al suo tormento. Perché già un paio di volte si era assopito, ed entrambe le volte si era svegliato più spaventato di prima, perché in sogno aveva rivissuto la sua giornata. E lì nel sogno il mostro che continuava ad incontrare non era un mostro pallido e calvo con lunghi denti incisivi, no, quello avrebbe potuto anche sopportarlo, perché da quel mostro avrebbe potuto in qualche modo difendersi, ma un mostro peggiore, che mai e poi mai avrebbe potuto allontanare da sé. Appena si addormentava, appena scivolava dall’altra parte, subito si ritrovava nel cortile davanti ai suoi compagni di scuola, e sempre vedeva Giulio e Walter afferrare il povero Mikael e sempre li vedeva cominciare a picchiarlo. E allora lui si avvicinava per aiutare quel povero piccolo, e la sua idea era quella di strapparglielo dalle mani e sgridarli, ma quando era lì, come era successo quel giorno e come ogni volta era costretto a rifare, dava uno spintone a Walter che cadeva a terra e poi, no!, No!, ecco che caricava un pugno con tutta la forza che aveva e spaccava il labbro a Giulio che cadeva a terra sputando delle goccioline di sangue mentre i suoi occhi roteavano all’indietro mostrando il bianco.
E poi Giulio cadeva a terra picchiando di testa sull’erba e lui rimaneva lì a guardarlo mentre la maestra arrivava correndo. E allora si svegliava con un urlo tra le labbra, e quell’urlo sarebbe stato così forte da spaccargli il cuore come un frutto maturo, perché dando quel pugno a Giulio, spaccandogli il labbro e facendogli girare gli occhi all’indietro, quello che aveva provato era piacere. E così rimaneva fermo nel letto, incapace di stare sveglio e terrorizzato dall’idea di riaddormentarsi, perché ancora e ancora avrebbe dato quel pugno e ogni volta avrebbe assaporato di più quel potere di dare dolore.
E alla fine, non resistendo più a quella tortura Alessandro saltò giù dal letto fregandosene del vampiro appostato nel buio dietro agli occhi del cane di peluche, perché forse andare in bagno, fare pipì e bere un po’ d’acqua lo avrebbero calmato, e perché forse la stretta di quegli artigli gelidi non poteva comunque essere spaventosa come il sorriso che si sorprendeva ad avere sulla faccia quando ripensava al viso tramortito di Giulio. Infilò i piedi nelle ciabatte e andò alla finestra, guardò giù nella strada illuminata dalla luna ormai calante e, nell’aiuola davanti a lui, vide una cosa che gli gelò il sangue più del vampiro e del male che aveva scoperto in sé. Là nell’erba, gli occhi fissi su di lui, una lupa dal pelo grigio lo fissava.
La luna si rifletteva nei suoi occhi freddi e sapeva che lei lo vedeva malgrado il vetro e le tende. E rimase fermo per un po’ a guardarla, le palle ridotte a chicchi di uva passa e il respiro mozzato, fino a che la lupa alzò il muso verso la luna e ululò. Prima ancora che potesse reagire, e la sua reazione sarebbe stata quella di buttarsi di nuovo sotto alle coperte a tremare, un ululato ancora più forte rispose alla lupa. E, un momento prima di tornarsene a letto per una notte di paura e incubi, Alessandro vide un enorme lupo bianco arrivare trotterellando vicino all’aiuola, camminando veloce verso la lupa grigia che lo stava spettando.