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venerdì 7 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXV.

6

Alessandro e Aisha.

Alessandro, gli occhi cerchiati di blu di chi ha dormito poco e male, arrivò al tavolo della cucina con il libro di storia sotto il braccio. Lo posò sul tavolo, allontanò la sedia e si sedette. Mamma stava facendo la cioccolata ed era di spalle, e così poteva guardarla.
Se aveva una sicurezza al mondo, e credetemi, quel bambino aveva molte meno sicurezze di quante pensassero quelli che avevano a che fare con lui, ecco, quella era l’amore per sua madre.
Era strano per la sua età in molte caratteristiche, e una di queste era il suo senso estetico. Amava il bello, e con bello intendo il vero bello, non quel kitsch che amano i bambini, con troppi colori, troppi particolari e troppa musica stupida in sottofondo. E sapeva che sua madre era bella. Era la donna più bella del mondo.
In questo nostro mondo così contemporaneamente sessuomane e sessuofobo, i bambini possono venire facilmente in contatto con la nudità più volgare senza avere mai visto neanche un seno della loro madre, ma Aisha in questo era sempre stata molto anticonformista. Fin da quando era nato gli aveva fatto fare il bagno con lei e, anche se questa cosa si era interrotta da un paio di anni, il corpo femminile per lui non era il mistero un po’ spaventoso che è per quasi tutti i suoi coetanei. Amava ogni più piccolo particolare di sua madre, dal suo collo sottile ai suoi fianchi rotondi, dalla carne soda delle sue cosce alle rotondità piene dei suoi glutei e dei suoi seni, per non parlare della vera e propria passione che aveva per il suo addome appena sporgente e per la sottostante macchia di pelo castano.
E così, mentre apriva il libro alla pagina della lezione che i suoi compagni stavano facendo a scuola, la fondazione di Roma, lui guardava rapito sua madre che andava avanti e indietro tra la credenza, il frigo e i fornelli, ammirando quel suo splendido corpo che era per lui la massima bellezza possibile in campo umano.
- Ci sei, ragazzaccio? – gli chiese lei.
- Sì mamma. –
- Il libro lo hai portato? –
- Sì mamma. E anche il quaderno e la penna. –
- Bene. – disse lei e si girò a guardarlo lasciandosi sfuggire un sorriso. Subito se ne rese conto e tentò di fare la faccia truce di una madre che ha il figlio sospeso da scuola per una rissa, ma tant’è, le uscì un’espressione così buffa che subito tornò a sorridere. E lui amò anche quel sorriso, le rughe finissime che le si formarono ai lati degli occhi e della bocca, la ruga verticale tra le sopracciglia quando le aveva aggrottate, e quei sottili ciuffi bianchi che aveva tra i capelli castano scuri. – Stamattina ho chiamato la tua maestra e mi ha detto che oggi a scuola studieranno storia, geografia e matematica. Mi ha dato il programma completo. –
- Sì mamma. –
- E lo sai cosa mi ha detto? –
- Cosa ti ha detto la maestra Damiani? –
- Mi ha detto che quando lunedì tornerai a scuola ti interrogherà su tutti gli argomenti che avrà insegnato, e che sarà molto severa. Hai capito? –
- Sì mamma. –
- Così imparerai a prendere a pugni i tuoi compagni. E non ridere, che non c’è niente da ridere. È molto brutto quello che hai fatto, Ale. –
- Lo so, mamma. È grave ed è brutto. –
Lei lo guardò e lui capì che stava tentando di capire quanto fosse sincero nel suo pentimento. Sperò che leggesse nel suo sguardo solo il pentimento e il rimorso, che c’erano, e non quell’odioso piacere che provava a ricordare Giulio che cadeva in terra con gli occhi rivoltati. Lei gli sorrise. Doveva avere nascosto bene quel sentimento indesiderato. E così, dopo avere mentito alla preside aveva mentito anche a mamma, anche se non con le parole.
- Apri il libro. Pagina 45, la fondazione di Roma. –
- Lo so. La maestra ce lo aveva già detto la settimana scorsa. –
- Leggi. –
- Va bene. – inspirò e poi cominciò a leggere il testo scritto in grandi lettere. – “Roma fu fondata nel punto in cui era più facile guadare il Tevere da popolazioni latine che vivevano sui colli circostanti. All’inizio la città prosperò grazie ai commerci tra le città etrusche e greche di Toscana e Campania che obbligatoriamente dovevano passare per il guado dell’Isola Tiberina e pagare ai Romani un tributo.” –
- Bravo. Lo sai cosa vuole dire guadare? –
- Attraversare un fiume a piedi. –
Lei sorrise, poi disse: - E circostanti e tributo? –
- Vicini e tassa. –
- Bravo. – gli disse sorridendo, poi si ricordò di essere molto arrabbiata con lui e aggrottò le sopracciglia. Mentre gli versava nella tazza la cioccolata calda gli disse: - Continua, su! –
- “Ma i Romani secoli dopo nobilitarono le loro origini creando una leggenda che, come tutti i miti, deve però avere un qualche fondo di verità. La leggenda di Romolo e Remo.
Il re di Alba Longa Amulio aveva un fratello, Numitore, che aveva una figlia di nome Rea Silvia. Rea era una vestale.” Cos’era una vestale? –
- Era come una suora, una sacerdotessa legata a un dio e costretta a non sposarsi. – gli rispose lei mentre lavava il pentolino dove aveva cotto la cioccolata.
- “Rea Silvia fu sedotta dal dio Marte ed ebbe due figli, Romolo e Remo, che Amulio fece abbandonare in una cesta sul fiume Tevere.” –
- Sai cosa vuol dire sedotta? – gli chiese lei, ma lui vide che la sua espressione era quella di chi spera che la risposta sia sì e allora, pur avendo una vaghissima idea di cosa volesse dire, sapeva che una bella donna può essere seducente e lì si fermava, le rispose di sì.
- Bene, vai avanti. –
- “Una lupa sentì il loro pianto e, avendo appena partorito, li allattò salvandoli fino a quando un pastore di nome Faustolo li raccolse e li portò a sua moglie Acca Larenzia.” Ma che nomi! –
- E sì. Vai avanti, dai. – disse lei mentre si tormentava le pellicine che le si formavano sulle labbra come tutte le volte che era molto agitata. Secondo Alessandro aveva cominciato quando lui aveva nominato la lupa.
- “Li crebbero come figli loro e, quando furono cresciuti, i due ragazzi sconfissero il re, liberarono la madre e misero sul trono il loro nonno. Poi decisero di fondare una città e che il fondatore vero e proprio fosse quello di loro che avesse visto volare più uccelli.” Che vuol dire, mamma? –
- Era un’usanza antica, si pensava che vedere volare degli uccelli in una certa direzione portasse fortuna. –
- Ah! “Fu Romolo a vincere, ma, quando cominciò a scavare con l’aratro il solco intorno alla sua città …” Perché un solco, mamma? –
Lei si sedette davanti a lui ripiegando il grembiule, lo poggiò sul tavolo e disse: - C’entra con le mura. Ogni città era contornata da mura e da un fossato. Il solco era come un primo fossato e la terra smossa era il muro. Era molto importante per gli antichi. –
- Capisco. “… Remo, arrabbiato per aver perso, saltò il solco deridendo Romolo. E questi, adirato, uccise il fratello dicendo che questo sarebbe successo a chiunque avesse tentato di passare le mura della sua città.” Ma lo ha ucciso per così poco? –
- Per loro era molto importante. Era sacro. –
- Ma era il fratello. – non riusciva a capire come si potesse uccidere un fratello perché aveva saltato un solco.
- A volte ci sono cose così importanti che ti costringono ad agire contro i tuoi principi. Se vedi uno che ruba, è giusto fare la spia, se vedi uno che picchia una persona più debole … -
- … è giusto picchiarlo. – disse lui e lei lo guardò capendo di averla detta grossa. Come faceva a essere arrabbiata con lui per una cosa che gli aveva appena detto essere giusto fare?
- Non sempre. E mai per fare male. E mai se c’è un’autorità superiore, come la polizia o i carabinieri. O una maestra, per esempio. –
Lui annuì, sorrise e disse: - Sì. Non se c’è una maestra vicino. –
Lei si rialzò e andò a chiamare la domestica peruviana mentre lui rileggeva il capitolo e scriveva un riassunto. Quando lei tornò le disse: - Ci sono lupi qui? –
Lei impallidì e si sfiorò senza pensarci la cicatrice biancastra che aveva sull’avambraccio, quella che a Alessandro era sempre sembrata il segno di un morso. – Perché, caro? –
Certo non poteva dirle di aver visto due lupi sotto alla sua finestra, o avrebbe portato da un dottore di quelli che ti mettono una camicia di forza, lo aveva visto in un film una volta. – No, niente. –
- No, Ale, forse ogni tanto ne passa qualcuno sulle montagne a qualche chilometro da qui, ma qua intorno, no. – e di nuovo si tormentava le labbra. Quando si strappò una pellicina Alessandro vide chiaramente una goccia di sangue che subito lei si pulì con la lingua.
- Va bene, mamma. – le disse sperando di calmarla, perché non sopportava di vederla così agitata, - Solo che è forte ‘sta storia. –
- Finisci il riassunto, che poi facciamo matematica. – gli disse lei accarezzandogli la testa mentre usciva dalla stanza per tornare da Consuelo e lui rimase lì con la penna in mano. Stava ricordando i due lupi che lo fissavano, di giorno facevano meno paura. E ricordò anche un’altra cosa prima di rimettersi a scrivere. Quando finalmente si era addormentato aveva sognato di essere Romolo, anche se la storia l’aveva letta solo adesso. La lupa che lo aiutava era quella grigia vista davanti alla sua finestra e Remo, che lui uccideva a pugni, era uguale a Giulio. E dopo averlo ucciso, cosa non così sgradevole, lui diventava il re di una grande e potente città. E neanche questo era poi così sgradevole.

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