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mercoledì 19 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXVI.

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Nello spazio.

Sarebbe potuta anche andare peggio. Avrebbe potuto decidere di aprire la porta stagna per lanciarsi nel vuoto depressurizzando la stazione spaziale internazionale. Avrebbe anche potuto riuscirci, cavolo, sarebbero morti tutti, umani e alieni, se quegli alieni potevano morire, naturalmente.
E sì, sarebbe potuta andare peggio. Non che non fosse andata male, certo, ma essere ottimista era nella sua natura. Guardando il povero Brian McNamara, sì, non ridete voi, si chiamava davvero McNamara, addormentato, anzi sedato, legato a una barella mentre il russo e il tedesco controllavano i suoi segni vitali, Franco se ne stava al suo monitor aspettando che il satellite si liberasse per controllare la sua posta. Perché la vita va avanti, questo aveva imparato, tutto a un tratto ti si parano davanti degli alieni, scopri che quello che hai sempre saputo sul programma spaziale, programma spaziale di cui tu fai parte, era falso, e che sulla famosa Stazione Spaziale Internazionale, la grande conquista dell’umanità, in realtà non ci starai più di un paio di giorni, perché in realtà il tuo lavoro è andare con quei buffi cosi che ti parlano dritti nella testa, ma la tua vita va avanti.
E sarebbe andata avanti anche per Brian, povero ragazzo che se ne era stato bravo per tre giorni, compiendo esperimenti di varie università eseguibili solo in assenza di gravità, che aveva ammirato la Terra dall’orbita, che aveva combattuto con la nausea e con i dispositivi per evacuare in quella innaturale situazione, capendo benissimo che qualcosa stava per accadere, che c’era qualcosa in arrivo, e sapendo benissimo che nessuno dei suoi compagni gliene avrebbe parlato se non sotto forma di enigmatici accenni.
E poi, ricordò mentre si collegava alla sua casella di posta elettronica, su cui venivano convogliate anche le telefonate ricevute dal suo cellulare, tutto a un tratto loro erano arrivati. Si erano accostati alla S.S.I. col loro enorme shuttle ed erano saliti a bordo. Saliti a bordo avevano salutato i presenti con quel loro fare gentile e mellifluo, facendoti scivolare i loro pensieri dentro alla mente in quella maniera sottilmente disturbante e Brian, che aveva bombardato pericolosi terroristi afgani che nella stragrande maggioranza dei casi erano solo dei poveracci a un matrimonio, Brian che aveva fatto appontaggi sulle portaerei durante delle tempeste, si era messo a urlare.
Lo capiva, poveraccio, lo capiva benissimo. Perché quegli alieni che dal 1969 collaboravano con Americani e Russi, quei tipetti grigi alti sì e no come un bambino di nove anni, quegli alieni dalla testa grossa e le gambette corte e secche che avevano una base sulla Luna che, gentilmente, avevano aperto anche agli umani, avevano qualcosa di sottilmente sbagliato e sgradevole, l’equivalente mentale di un’unghia passata sulla lavagna, che anche a Franco aveva sempre dato fastidio.
E così Brian si era messo a urlare, e quando i Grigi avevano tentato di parlargli dentro dicendo di calmarsi, di stare calmo perché loro venivano in pace ed erano amici, le sue urla erano diventate un incontrollabile attacco di panico, e aveva perso totalmente il controllo vomitando e urinandosi addosso e aveva cominciato a sbattere contro le pareti tentando di fuggire e loro erano stati costretti a sedarlo per il suo bene.
Guardò un’ultima volta quel povero ragazzo legato con delle cinghie al lettino e effettuò l’accesso alla sua mail. E lesse della telefonata di Carla. Delle telefonate di Carla, a dire il vero, perché erano otto. Selezionò la modalità telefono e la chiamò. Sentì gli squilli, e al terzo lei rispose.
- Ciao Carla, mi hai cercato? – le chiese con voce allegra.
- Franco? – disse lei con voce affranta. Era la voce di una persona che aveva pianto, e pianto molto.
- Cosa c’è bellissima? –
- Mio fratello. È morto ieri. –
- Cosa? – le chiese sobbalzando. Se non si sbagliava gli aveva detto che il fratello era un ingegnere che lavorava al deposito di scorie nucleari.
- Il cantiere del deposito, ci hanno fatto sapere che scavando hanno beccato una sacca di gas naturale e … c’è stata un’esplosione, non ci hanno detto molto, ma pare che siano morti almeno in cinquanta, e lui era lì vicino all’imboccatura. –
- Un’esplosione? – le chiese. Negli ultimi anni aveva fatto parte di una mega balla raccontata come copertura e sapeva riconoscerne un’altra a prima vista. E questa ne aveva tutto il profumo.
- Pare che stessero facendo il rifornimento alla trivella, c’era anche un’autobotte lì accanto, e così … pare che non potranno neanche restituirci il corpo. –
- Dove sei adesso? – le chiese cominciando a rimpiangere di essere al telefono con lei. Le telefonate, tutte le telefonate, sono intercettate ai piani alti.
- Sono a casa dei miei, nelle Marche. –
- O Carla … - le disse senza sapere come continuare. Ci sarebbe voluto un abbraccio, ma è difficile abbracciare una persona quando lei è a terra e tu sei in orbita.
- Franco … - gli disse – Mio fratello mi aveva detto una cosa … Una cosa strana. –
Lui si girò a guardare il ragazzo sedato con un simpatico amico alieno che gli controllava i segni vitali, approfittandone anche per dargli una bella sbirciata alla mente e pensò che ce ne erano di cose strane al mondo, e alcune anche molto vicine alla ragazza che gli stava parlando. Sperando che fosse una puttanata, una di quelle puttanate che passano inosservate agli intercettatori, le chiese: - Cosa? –
- Andrea mi aveva detto che avevano trovato una cosa là sotto. Ma non era gas, era un qualcosa di antico, qualcosa di metallico sepolto sotto a chilometri di sale. –
- In che senso qualcosa di metallico? – e intanto sperava che non fosse niente, niente di niente al cubo.
- Qualcosa come un’enorme astronave, sepolta laggiù dai tempi dei dinosauri. E se avessero voluto mettere il tutto a tacere? –
- Forse ti prendeva in giro, Carla. Non esistono le astronavi aliene, credimi. – e si sentì davvero il più infimo degli stronzi di questo infimo mondo abitato da stronzi. Aveva mentito a una ragazza che piangeva suo fratello, una ragazza che lo aveva chiamato in preda alla disperazione. Una ragazza che se si fosse messa in testa idee strane sarebbe diventata un altro problema da risolvere. – Ti prendeva sicuramente in giro, Carla. –
- Io lo conosco mio fratello. – disse lei, poi aspirò un singhiozzo col naso e disse: - Lo conoscevo, non stava scherzando. Aveva trovato qualcosa là sotto. Ho paura. –
- Mi dispiace, Carla. Appena potrò ti chiamerò di nuovo. – le disse e interruppe la telefonata. –
L’alieno lo stava guardando con quegli enormi occhi che facevano l’effetto Ray-Ban da poliziotto americano. Ti ci vedevi riflesso e ti era assolutamente impossibile capire cosa stessero pensando.
- È morto un suo amico? – gli chiese parlandogli proprio dentro alla testa e piegando il suo capoccione calvo da un lato.
- Il fratello di una mia amica. C’è stato un grosso incidente ed è morto in un’esplosione. –
- L’esplosione del deposito delle scorie. Lo so. – disse la mente del grigio, poi piegò di nuovo la testa da un lato e accennò un sorriso con quella sua boccuccia a culo di gallina. Quindi sapeva, il nanetto alieno. Sapevano tutto perché, penso Franco sperando di riuscire a proteggere i suoi pensieri dal loro scandaglio mentale, quella cosa scoperta là sotto doveva essere una loro cosuccia come quella piramide vicino a cui viveva Carla. Anche Franco gli sorrise e tornò alle sue occupazioni. Avrebbe indagato, cazzo, avrebbe indagato.

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