lunedì 13 dicembre 2021

La Maledizione del Tartaro. III

 Ed ecco il terzo e ultimo capitolo. Non è la cosa che ho scritto meglio, assolutamente no. 

Però è una cosa che, dopo anni, ce l'ho fatta a finire. Ed è la fine di questa avventura di Okaka. Altre ne verranno, spero. Comunque, buona lettura!

La Maledizione del Tartaro, 3.

Dormì come un sasso, ma si svegliò almeno sei volte quando dall'esterno della palizzata arrivarono i gemiti di quelle cose. E sei volte ripiombò in quel sonno privo di sogni che usava come uno scudo per sopravvivere a quella vita inumana. All'alba si svegliò e, prima di alzarsi per andare giù nel Tartaro rimase per qualche minuto a pensare. A volte, negli anni precedenti, al risveglio aveva notato con affetto un tremito nell'aria vicino a lui, la piccola Leka, la ragazzina che era morta tra le sue braccia e che era rimasta, come spirito succhiasangue accanto a lui per un bel po' salvandogli la pelle più volte fino a che era stata uccisa da degli innominabili mostri a forma di lumaca combattendo al suo fianco. Faceva la guardia al suo amico. Gli mancava quella compagnia, gli mancava averla al suo fianco nelle battaglie, gli mancava preoccuparsi riguardo al suo diventare sempre più un demone e sempre meno una ragazzina. Gli mancava la sua amica, l'unica che avesse in effetti mai avuto.

Si alzò, mangiò dei frutti e uno strano pane gommoso che preparavano le donne del villaggio e poi, accompagnato dall'anziano stregone fino alla palizzata, uscì armato del suo randello, del suo pugnale di ossidiana e del suo coraggio. I duemila passi fino all'entrata del tunnel che si infilava nella montagna sarebbero senza dubbio stati mille e ottocento passi di troppo per chiunque per sopravvivere tra quei mostri antropofagi, ma lui li evitò senza problemi e ne fece stramazzare al suolo più di una decina durante il tragitto. Una torcia gli avrebbe impedito di usare un braccio per combattere e nel buio quei cosi, probabilmente, sarebbero stati ciechi come lui e quindi si lanciò nel buio senza tentennamenti.

Camminò per almeno un'ora, uccidendo nel frattempo un paio di quei morti basandosi sui loro gemiti e sull'eco della galleria. Poi, semplicemente, perse la cognizione del tempo e seppe solo che stava scendendo. L'aria era più densa, immobile, umida, e calda. Molto calda. Continuò a camminare, chiedendosi se mai avrebbe rivisto la luce del sole, se mai avrebbe mangiato di nuovo una ciliegia, se mai le sue mani avrebbero potuto toccare le calde carni di una donna, mentre camminava e l'aria diventava più densa e pesante, fino a che si accorse di vedere. Una luminescenza verdastra, il colore di un fuoco fatuo pensò con un incontrollabile ribrezzo, riverberava dalle pareti di quella mostruosa galleria che era sterminata come il tempio del dio Azul che aveva visto nella calda terra di Leimon. Ma, naturalmente, continuò a camminare. Passò così tanto tempo che pensò quasi di fermarsi a dormire, ma, improvvisamente, giunto in un punto che non sembrava avere nulla di diverso dagli altri, seppe di essere arrivato. Il terrore e la paura, sentimenti che non aveva più sentito da almeno trenta anni, quando qualcuno lo aveva strappato dalla sua sconosciuta madre, lo colmarono bloccandolo sui suoi piedi. Un uomo normale sarebbe morto per la forza di quei sentimenti, un eroe sarebbe fuggito. Il gigante dalla pelle d'ebano avanzò, superò quel confine invisibile di morte e sofferenza e seppe di essere nel Regno dei Morti.

La luce che aveva visto già da così lontano era quella delle anime, le anime dei morti erano lì e si muovevano. Erano così tante che non si sarebbero potute contare in mille vite, strette una all'altra a camminare senza una ragione, lamentandosi e piangendo.

Erano corpi, nudi, evanescenti, emettevano luce e e si lamentavano emettendo alte grida senza alcuna ragione apparente. Erano ovunque, andavano in tutte le direzioni e sembravano attraversarsi l'una con l'altra senza riuscire ad accorgersi l'una delle altre.

Per la prima volta in vita sua era spaventato, la sua pelle era tutta un fremito di brividi e, lo stesso, avanzò verso il centro di quell'antro senza fine che era il Regno dei Morti. Attraversate le schiere di anime afflitte, un paio gli parve purtroppo di riconoscerle, cominciò a vedere la sua meta. Il suono di un flauto riusciva a perforare quel muro di rumore e lo guidava nella direzione giusta. Là c'erano degli esseri, qualcosa di non descrivibile in termini umani; insetti, leoni, funghi, edera, nebbia, scimmie, erano tutto questo ed erano altro, e appariva la loro intelligenza, anche se … ballavano, ballavano tutti in cerchio attorno al loro re, un qualcosa che assomigliava a un essere che lui aveva già visto anni prima, in cima a una montagna dove si cibava di deformi guerrieri che aveva fatto trasformare in cinghiali. Sì, questa mostruosità era in qualche modo imparentata con un mostro che lui aveva ucciso anni prima, quando la piccola Leka aveva cominciato a seguirlo. Solo che quella che lui aveva ucciso era come un topolino paragonato a una balena, e non solo come dimensioni.

E questo essere, questo re degli Inferi, ballava come ipnotizzato dal suono della siringa suonata da un uomo. Il musicista del paese che era andato laggiù per riprendersi la sua donna, e che era tornato su simile a un vecchio causando quell'invasione di morti viventi. Eppure era ancora qui, a incantare un dio folle e pazzo al centro dell'oltretomba. Altre anime si stavano ancora liberando, erano come collegate al dio pazzo, erano loro a formarlo, in realtà, lui da loro traeva la forza e il nutrimento, lui le controllava e le trascinava giù negli Inferi incanalandole il dolore e la fame.

Okaka crollò a terra, colpito dall'enormità di quello che stava vedendo, e dall'orrore che significava. Dopo la morte non c'era un premio per i Giusti in un verde giardino ricco di acque dolci e frutti, perché proprio ora aveva visto il suo amico Neto sorgere da sotto al dio folle, e Neto era stato uno dei pochi Giusti che lui aveva conosciuto, e non c'era una punizione per i malvagi, e la donna che aveva ucciso per divertimento un fanciullo e che lui aveva ammazzato con le sue mani a tredici anni, una malvagia se lui ne aveva mai conosciuta una, era uscita dalle spire del mostro poco dopo di lui.

Quindi, o avvinti tra le spire di un mostro per l'eternità o in eterno persi a lamentarsi. Se questa era la verità, perché tutti credevano in pietose bugie? Quanti anni gli restavano? Quanto, prima di finire lì? Si alzò e andò verso il musicista, che sembrava ipnotizzato come il dio folle al centro dell'oltretomba. Almeno avrebbe salvato il mondo dei vivi, sì, però …

La cercò in quella torma di anime disperate, doveva essere lì. Doveva esserci anche sua madre, lì, ma non sapeva che faccia avesse. Persa per sempre, in eterno, ma lei … la vide, poi, una ragazzina che urlava dalla disperazione, non il demone che aveva conosciuto, ma forse almeno lei … si ferì la mano col pugnale e bagnò il viso dell'anima col suo sangue. Smise di urlare, lo guardò e “Gigante, tu sei qui?” ed era di nuovo Leka. Sorrise felice e spietata come sempre e scomparve in un tremolio dell'aria. Sì, almeno lei, sì. Tornò dal musicista che continuava a suonare imperterrito la sua siringa e fece due cose. Bagnò il suo voltò di sangue e, mentre per un attimo riacquistava un corpo, lo accoltellò con il suo pugnale. L'anima si disfece in un rivolo di oscurità e il dio parve oscillare, poi aprì quelli che, forse, erano occhi e guardò Okaka.

Grazie, mortale.” disse e i suoi servi si lanciarono all'inseguimento delle anime che cominciarono a tornare ai loro posti. Anche Neto, che, per un attimo, parve riconoscere il suo antico mozzo. Per un attimo, prima di perdersi nel dio di nuovo potente.

Vai ora, o mortale.” disse la voce del dio risuonando nell'enorme cavità. “Non tornerai mai più qui,” disse e tacque.

Chiedendosi cosa significasse quella frase Okaka rientrò nella galleria sempre più buia e tornò, dopo molto tempo, all'aperto, dove i morti erano tornati a giacere da qualche ora.

Al villaggio lo festeggiarono e fu trattato da eroe, cibi e canti gli furono offerti, donne fecero capire di voler giacere con lui, un suo ritratto fu scolpito su una roccia e tutti ballarono intorno a un falò per festeggiare, ma lui ascoltava i rumori che provenivano dalla foresta. Ogni tanto un animale urlava, la sua amica tornava velocemente alla vita, nutrita dal sangue dei vivi.

Il vecchio stregone poi si sedette accanto a lui e gli chiese: “Come è il Regno dei Morti, o Gigante?”

Okaka rimase in silenzio cercando le parole giuste, si guardò intorno e poi disse: “Meraviglioso per i Giusti, vecchio, e doloroso per i Malvagi. Ma soprattutto meraviglioso per i Giusti.” e sorrise al vecchio.

Non tutti avrebbero potuto sopportare di conoscere la verità.

FINE


venerdì 10 dicembre 2021

La Maledizione del Tartaro. II

 E, dopo qualcosa come sei anni scarsi, arriva il secondo capitolo della quarta avventura del nostro gigante Nubiano.

Rimanete in attesa per il seguito, ho una mezza idea su come far finire il tutto.

La Maledizione del Tartaro. II.


L’alba illuminò lentamente le cose che lo aspettavano. Erano stati uomini, donne e bambini, ma non lo erano più. Cadaveri ambulanti, ecco cos’erano, cadaveri ambulanti e affamati. Camminavano in tondo barcollando come ubriachi e alzavano le braccia scheletriche verso di lui, che era totalmente fuori dalla loro portata, agitando le loro dita rattrappite e mordendo l’aria tra un sibilo e l’altro. Erano dodici, bassi ed esili, molti di loro portavano ancora traccia delle ferite che li avevano uccisi e ad alcuni di loro mancavano interi arti. Uno di loro, un maschio che sembrava essere morto da non troppo tempo, indossava ancora dei vestiti putridi che avrebbe potuto utilizzare per scaldarsi in quella mattina fredda e ventosa; saltò giù dall’albero e, a forza di pugni e calci abbatté una decina di quei cosi, un altro lo decapitò e, alla fine, affrontò quello grosso e ancora vestito, stando attento a non rovinare quel poco che indossava. Tempo pochi minuti e li aveva eliminati tutti e aveva trovato da coprirsi. Ora doveva solo muoversi e scoprire cosa avesse creato quelle cose, come eliminarle e se esistesse ancora qualcuno di vivo in quella terra.

Camminò in quella mattina fredda in mezzo a lande desolate e abbandonate, campi coltivati lasciati alle erbacce, villaggi bruciati e semi diroccati e, soprattutto, torme di cadaveri ambulanti che si aggiravano con il loro passo lento e ciondolante in ogni luogo, quando non erano costretti dall’assenza di arti a strisciare in mezzo all’erba alta. Ne uccise più che poteva e, quando erano troppi, scappò. Arrivò a al momento in cui il sole era alto nel cielo prima di vedere qualcuno vivo. Una donna e un bambino, fuggivano da dei morti che li inseguivano. La donna, uno scricciolo alta sì e no come mezzo Okaka, era ferita e trascinava una gamba. Sul polpaccio spiccava un morso umano. Il bambino sembrava sano. Okaka saltò giù dalla roccia su cui era salito e, con un robusto bastone che si era procurato divellendolo da una staccionata, l'arma migliore per abbattere quei morti viventi come aveva scoperto nelle ultime ore, fece strame di quell'orda di mostri in meno di sette respiri. La donna strisciò verso di lui parlando in una strana e incomprensibile lingua, per quanto il gigante di ebano parlasse cento lingue, sempre altre cento ancora più incomprensibili erano quelle che gli parlavano le genti che incontrava, gli diede il bambino che sembrava prossimo alla morte per sete, fame e fatica. Okaka la rassicurò prendendo il bambino e guardò senza troppe cerimonie la gamba della donna. L'infezione era risalita oltre al ginocchio e neri fili di morte risalivano sotto pelle fino allo sterno e alle braccia. Un occhio era iniettato di sangue. Guardò prima i morti e poi la gamba di lei e lei annuì. Disse una parola senza senso per lui, la ripeté e indicò il bimbo ripetendola per la terza volta. “Sì, il bambino.” disse lui annuendo e sfiorando la testa sporca del cucciolo con fare paterno. Lei annuì e sorrise, poi, poggiata la mano sul bastone, se lo poggiò sulla testa annuendo. “Sì.” disse il gigante e, veloce e delicato, le evitò senza dolore di divenire uno di quei mostri. Altri stavano arrivando, lontani tra gli alberi o nell'erba alta, ma aveva il tempo di raccogliere un po' d'acqua dal pozzo per il bambino. Vicino c'era una collina e vi salì sopra, vedendo, a non più di due ore di cammino, un villaggio circondato da una palizzata. Un filo di fumo saliva da una capanna, un filo regolare, da focolare, non il risultato di un incendio. Raccolto un frutto e datone metà al bimbo che lo mangiò come un piccolo animale affamato, si preparò alla corsa che lo aspettava. Un uomo che avesse passato quello che aveva passato lui in mare e in terra nelle ultime ore si sarebbe accasciato in terra senza forze, ma lui era Okaka del Mare dei Mostri e la fatica non lo aveva mai preoccupato. Partì di corsa e, tranne un paio di volte che fu costretto a fermarsi per sfondare il cranio a due piccoli gruppi di cadaveri rianimati, riuscì ad evitarli grazie alla sua velocità e alla furtività sviluppata nei suoi anni lontani anni da ladruncolo a Kaunia, la città di pietra sul mare che ricordava con una specie di crescente nostalgia.

Arrivato alla palizzata che circondava il villaggio fu fatto entrare da tre guerrieri armati di lance che esaminarono i corpi suoi e del bambino con cura che sarebbe sembrata eccessiva a chiunque tranne che a chi fosse stato inseguito da un morto vivente. Poi, rivestiti con dei panni puliti, furono portati davanti a uno stregone che offrì loro del povero cibo, pannocchie e carne secca e che raccontò, a gesti e con poche parole kainuane che conosceva, come da una settimana la loro isola fosse stata invasa dal morbo della morte famelica.

Come è successo?” gli chiese il nubiano rosicchiando l'ultimo pezzo di durissima carne secca che aveva il sapore di una mummia del Kitai.

Il nostro cantore aveva perso la sua sposa annegata in mare e ha vegliato il suo corpo per giorni, poi ha detto che avrebbe commosso gli Dei dell'Oltretomba con la sua musica per farla tornare indietro e si è infilato in un cunicolo che sorge sul fianco della montagna di fuoco che torreggia sui nostri villaggi.”

Avrebbe commosso gli Dei dell'Oltretomba con la sua musica?” chiese incredulo il gigante nubiano e l'uomo annuì. “È tornato sei giorni dopo …” disse il vecchio stregone “... e, con l'aspetto di un vecchio morente e lo sguardo folle, ha baciato il corpo della sua donna che avevamo conservato nella camera dell'affumicazione. Quando l'ha baciata sulla bocca lei si è rialzata e ha morsicato lui e due guerrieri.

Da allora la cosa si è diffusa come una lebbra e solo con enorme fatica e sacrifici abbiamo salvato, per ora, il nostro villaggio.”

Ha detto qualcosa, lo stolto, prima di morire o … trasformarsi?”

il vecchio annuì e disse: “Ha detto che a causa sua gli Inferi sono nel caos e che, quando i morti non possono più essere contenuti negli Inferi, camminano tra i vivi.”

Okaka annuì in silenzio e finì la sua coppa di latte fermentato. Rimase in silenzio ripensando a quello che aveva saputo e poi si alzò. “Vado a dormire fino a domani, e poi andrò a riparare il danno fatto da quel folle.”