martedì 8 dicembre 2020

Saturno.

Un mio vecchio racconto, scritto nel 2009. Scritto di getto dopo un fatto abbastanza raro, un mio incubo che non era evaporato la mattina al risveglio. Buona lettura. Giugno 2009 SATURNO Molti anni fa... Appena diventati da sudditi cittadini, i Francesi presero le armi per difendersi dai feroci soldati che seguendo lo stendardo levato della tirannia stavano arrivando fin tra le loro braccia per sgozzare i loro figli e le loro compagne. Una volta sconfitti gli invasori continuarono la guerra e, nell’anno 1796, guidati da un generale di poco più di vent’anni che era figlio di qualcosa di sicuramente più forte di un temporale, sciamarono giù dalle valli alpine scuotendo l’Italia dal giogo secolare del feudalesimo e della Chiesa e portando a tutti i nuovi cittadini la libertà, l’eguaglianza e la fraternità. E portando anche, come sempre fanno grandi eserciti formati da decine di migliaia di giovani soldati trasformati dallo Stato in assassini legali, morte, distruzione, saccheggio e stupri. Fu nel maggio del 1796 che le orde di soldati rivoluzionari francesi si riversarono nella regione dove nel convento di santa Sabina ormai da quattrocento anni generazioni di giovani donne passavano le loro vite in una operosa e triste verginità quasi sempre non richiesta e non voluta, ma imposta dall’alto. Ugualmente non richiesta, non voluta e imposta fu per tutte loro la fine di questo stato monacale, quando un manipolo di soldati francesi abbattè le porte di quercia del monastero, la cui stessa esistenza non era prevista dallo Stato rivoluzionario, e pensò bene di sfogare sulle povere monache la tensione e l’astinenza forzata dei lunghi mesi di guerra. La badessa suor Susanna, al secolo Annamaria Traverso, nata a pochi chilometri da lì quarantuno anni prima, si rifugiò accanto all’altare come un’eroina omerica e pregò Dio con tutta la forza del suo cuore e della sua fede di salvarla, ma scoprì a sue spese che il Dio a cui aveva donato tutta se stessa non aveva la minima intenzione di usare un briciolo della sua onnipotenza per impedire a dieci soldati francesi di sfondare la porta, strapparle i vestiti e violentarla a turno e ripetutamente sullo stesso altare davanti al quale aveva passato più di venticinque anni della sua vita pregandolo. Neanche una volta guardò in faccia quegli uomini, ma il suo sguardo fu sempre fisso sul volto del Cristo pantocratore che dall’alto la guardava col suo sguardo severo e indifferente. Anche quando i soldati la lasciarono lì, in terra, nuda, ferita e sanguinante, insozzata fin dentro al suo corpo come mai aveva immaginato che fosse possibile, continuò a guardare quel volto sentendo un nuovo tipo di odio, forte quanto mai lo era stata la sua fede, crescere dentro di sè. Ieri... Un passo dopo l’altro, metro dopo metro, su per le colline e giù per le vallate, i piedi affondati nell’erba fresca e umida o a far risuonare i suoi passi su strade d’asfalto o di pietra, Michele andava avanti per la sua strada mentre il sole saliva nel cielo accorciandogli l’ombra e il fiato. Vide una piccola fonte che versava il suo zampillo in una vasca di cemento in cui evidentemente si dovevano abbeverare gli animali. La raggiunse e tirò fuori dallo zaino le due bottiglie per riempirle di quell’acqua così fresca. C’era un tritone in fondo alla vasca, immobile a mezz’acqua con le zampette allargate, seminascosto da un ciuffetto di alghe verdi scure. Mentre riempiva la seconda bottiglia una voce dietro di lui disse: - Quelle scarpe hanno visto tempi migliori. – Si voltò a vedere l’uomo che aveva quella bella voce da anziano e si trovò di fronte un volto che stava benissimo con quella voce. Doveva avere sessantacinque anni, un contadino a giudicare la pelle di faccia e mani bruciata dal sole e le grosse dita callose, un vecchio contadino che aveva voglia di parlare. – E sì. Saranno già due mesi che ci cammino per stradine e sentieri; ma finchè le suole tengono...- - Sembrano le scarpe di quello di quel film, Forrest Gump, sa, quello che corre per tutta America un sacco di volte. – - Sì, ha ragione. Io non corro, però, io cammino. – - E dove va? – - Qua e là. Cammino. – - Strano. E fino a quando? – - Fino a settembre. A marzo mi sono laureato e a settembre comincerò a lavorare in un giornale. Questi sei mesi me li sono presi per me. Due scarpe comode, un bastone da passeggio, uno zaino con una tenda, un cambio di vestiti e dei buoni libri. Cammino per tutte le strade secondarie che trovo e mi diverto a fare il pellegrino prima di tuffarmi nella mia vita da adulto. – - Bello. – disse il vecchio e per un attimo i suoi occhi furono quelli di un ragazzo pronto a partire per vedere il mondo, poi ripetè: - Bello. – e disse a Michele: - Lo vuoi un caffè, pellegrino? Offre il vecchio contadino che invidia la tua libertà. – - Va bene. – disse Michele e gli strinse la mano vecchia e forte. Bevvero un caffè al bar, mangiarono una brioche e Michele raccontò al vecchio quanto fosse bello dormire sotto a una tenda formata dal suo bastone, da una corda tesa e da un telo di plastica, quanto fosse incredibilmente bello svegliarsi un po’ infreddoliti e scaldarsi al sole che sorgeva, rimettere il proprio mondo nello zaino e partire sui propri piedi per vedere in quali nuovi posti lo avrebbero portato. Il vecchio ascoltava e annuiva, poi faceva qualche domanda e sorrideva vedendo quanto Michele fosse felice della sua avventura. Poi gli raccontò che stava per trapiantare i pomodori e gli zucchini, che le galline stavano per chiocciare e che gli agnelli nati da poco stavano crescendo bene. Fu una bella ora, due persone a parlare in un piccolo bar, una breve interruzione nelle loro vite, poi si strinsero la mano e si separarono, ognuno un po’ invidioso della vita dell’altro. Michele camminò come al solito fino a mezzogiorno, faceva una media di venticinque chilometri al giorno, posò il suo zaino sotto a un bel castagno dal tronco rugoso e si preparò un pranzo col pane e i prosciutti che aveva comprato al paese. Montò la sua tenda, sonnecchiò per un po’ sulla sua coperta pesante e passò poi il pomeriggio leggendo Moby Dick, che continuando a quel ritmo non avrebbe finito prima del ritorno a casa. Al tramonto vide le prime nuvole venire da nord, si chiuse nel sacco a pelo e si mise a dormire sperando che non venisse a piovere. Il rumore di un tuono lo svegliò verso l’una di notte, poi sentì l’aria fredda del temporale e il suono assordante della grandine e del vento sul sottile telo della sua tenda. Non poteva fare nulla, solo stare lì e aspettare che finisse, in quella notte buia rischiarata continuamente dal lampo azzurrognolo dei fulmini che facevano sembrare gli alberi intorno a lui dei mostri preistorici pronti a ghermirlo. Per la prima volta da due mesi rimpianse di non essere nel suo letto, sotto a un bel tetto di tegole e con mamma nell’altra stanza pronta ad alzarsi per preparargli un bel caffè la mattina presto. La tenda l’aveva costruita davvero bene, per fortuna, ma l’acqua veniva giù così forte che stava cominciando a bagnarlo, accese un fiammifero per guardare l’ora e vide con gran dolore che era solo l’una e mezza. Mancavano più di cinque ore all’alba e sapeva bene che non ce l’avrebbe più fatta a dormire e che avrebbe passato tutto il resto della notte rattrappito nel suo sacco a pelo maledicendo il suo viaggio cretino da hippie fuori tempo massimo. - C’è qualcuno lì in fondo? – chiese una voce femminile nel breve intervallo tra un fulmine e l’altro. Sobbalzò come se fosse stato morso da un serpente e sentì il gelo entrargli fin dentro alle ossa, solo per un attimo, però. - C’è qualcunoooo? – ripetè la voce e allora lui vide nella luce di un lampo una figura intabarrata in un grosso impermeabile, con un ombrello nero e una piccola candela in mano. - Sono qui! – urlò alzandosi a sedere – Sotto al castagno! – La donna camminò verso di lui, ne distingueva un po’ meglio la sagoma adesso, poi arrivò da lui e si accucciò per guardare sotto alla tenda. Rischiò di urlare, per un attimo un fulmine lo aveva abbagliato e gli era sembrato che avesse un viso talmente vecchio da sembrare una tartaruga; soprattutto gli occhi lo avevano colpito, per un attimo aveva creduto di vedere gli occhi di un vecchio che avesse visto passare molti secoli. Per fortuna trattenne l’urlo, alla luce della candela gli apparve la faccia di una bella donna di circa trentacinque anni, i capelli castano scuro bagnati dalla pioggia e un bel sorriso di denti bianchi e regolari. - Lo sa che è molto pericoloso stare sotto a un grande albero con un temporale, vero? – - Sì. – rispose sorridendole, si sentiva felice di trovarsi di fronte una bella donna sorridente in una notte come quella. - Se vuole in casa mia c’è un bel letto caldo. E anche degli asciugamani belli asciutti. – gli disse guardando il sacco a pelo che si stava ormai inzuppando. - Se non la disturba troppo. – disse lui tendendole la mano – Sono Michele Cairoli. – - Io sono Annamaria, piacere! – disse lei stringendogli la mano riuscendo miracolosamente a reggere sia l’ombrello e la candela – La cosa che mi disturba e sapere che c’è un ragazzo sotto un temporale con questo tempaccio. – disse, poi aggiunse: - Vieni, su. Casa mia è a cinque minuti in quella direzione. – Lui si alzò, prese lo zaino e si strinse alla donna sotto all’ombrello, camminando nel bosco percorso da ruscelletti fangosi, le scarpe fradice affondate nelle foglie vecchie e marce. Vide presto le luci di alcune finestre illuminate e si sentì rinascere, presto avrebbe avuto un tetto sopra alla testa. - Come faceva a sapere che ero lì? – chiese alla donna urlando perche i tuoni erano ormai un rombo continuo e assordante. - Oggi pomeriggio ti ho visto qua in giro e poco fa ho intravisto la luce di un fiammifero. Ho capito subito che ti eri accampato qui. – - Grazie ancora, signora. – Lei si girò a guardarlo con la faccia severa, poi rise e disse: - Anna, non signora. Per te sono Anna. – - Va bene, Anna. – disse lui accostandosi ancora di più a lei e pensando che era proprio bella e simpatica. Ed anche profumata, si accorgeva ora. Camminando fuori dal bosco e arrivando sotto alla porta della antica casa di lei, si accorse con lieve stupore che solo stare accanto a lei sotto all’ombrello gli aveva causato un accenno di erezione. La guardò arrossendo mentre lei apriva la porta e lei gli sorrise con il viso più dolce del mondo. – Entra, su. – disse lei e si chiusero la porta alle spalle. Lei gli passò un asciugamano tiepido e lui se lo passò tra i capelli, poi si asciugò la faccia e disse: - Non l’avevo vista oggi la casa, strano. – - È tutta coperta di edera, non si vede quasi da dove stavi tu. Vuoi mangiare qualcosa di caldo? – - Un po’ di latte, se c’è. – disse lui guardandola mentre si toglieva l’impermeabile. Era bella, alta e magra, dei gran seni e un bellissimo sedere. Quando lei si voltò distolse lo sguardo sentendosi un porco e invece lei gli sorrise maliziosa come una quindicenne di quelle che non hai mai nella tua classe. - Vieni in cucina. – gli disse e lui la seguì per un lungo corridoio fino ad un’antica cucina di mattoni. - Deve essere vecchia, questa casa. – disse lui – Non me ne intendo molto, ma sembra proprio antica. – - Come la proprietaria. – disse lei ridendo e facendogli l’occhiolino, poi disse: - Una volta era un monastero di clarisse, lo è stato fino all’arrivo di Napoleone. – - E tu ci vivi da tanto? – - Da secoli. – disse lei, poi strizzò di nuovo l’occhio e disse: - La mia famiglia ci vive fin da allora. – Lei preparò del latte caldo e ci mise delle bucce di limone, lui lo bevve e trovò quella strana bevanda davvero buonissima, come lo era anche la fetta di torta casereccia che lei gli aveva tagliato e servito in un piatto di ceramica bianca. - È tutto ottimo, ti ringrazio ancora, Anna. – disse. - Non c’è di che, Michele, mi fa davvero piacere avere un bravo ragazzo ospite in casa mia con questo tempaccio. Un bravo e bel ragazzo. – aggiunse guardandolo con la coda dell’occhio. Di nuovo pensò che quella donna, per il suo aspetto, il suo modo di muoversi, il suo modo di parlare, era incredibilmente sensuale. Finito il latte scambiarono qualche parola sul temporale e su quanto sarebbe durato, poi lui chiese dove fosse il bagno. - È al piano di sopra. – disse lei – vieni che ti mostro il bagno e la stanza degli ospiti. – e andò nel corridoio e cominciò a salire le scale seguita da lui che non riusciva a fare a meno di guardarle il culo. - Eccolo. – disse aprendo la porta e entrando con lui nel bagno pulito e caldo che gli diede un idea di confortevolezza e di casa. Lei non usciva, lo guardava e sorrideva e lui non sapeva che dire. Si sentiva stupido e infantile, arrossiva e sorrideva come un ebete. - A, ma ora devo uscire! – disse lei ridendo – Che stupida. – e uscì chiudendosi la porta alle spalle con un ultimo sguardo al ragazzo. Cominciò a svuotare la vescica provando un certo sollievo, poi sorrise e disse a bassa voce: - Mi sa tanto che quella donna non vede l’ora di scopare. – e rise scrollandosi l’uccello, si risciacquò le mani e disse alla sua immagine nello specchio: - Se fosse il caso tu ti faresti valere, vero giovane vagabondo? – e rise di nuovo. Uscì dal bagno e la trovò lì ad aspettarlo, poi lei aprì un’altra porta e gli mostrò una stanza con al centro un bel letto dal materasso altissimo. – Ti va bene? – gli chiese sedendosi sul letto – È molto morbido. – e sorrise ancora con quel meraviglioso fare malizioso da gattina. - Va benissimo. Grazie ancora, Anna. – - Prego, caro. – disse e andò alla porta, poi gli chiese: - La vuoi vedere una cosa strana? – - Cosa? – chiese lui immaginandosi varie cose che lei potesse volergli mostrare. - Vieni, dai! – disse lei e lui la seguì fino in fondo al corridoio. Aprì una grossa porta ed entrarono in una sala lunga almeno venticinque metri, poco illuminata e con un letto al centro vicino ad un grande comò. – Questa è la mia stanza. – disse lei – Cosa te ne sembra? – Entrò e fece alcuni passi rendendosi conto di cosa fosse stata un tempo la stanza. – Ma è una chiesa! – disse guardandosi intorno – Questa è un chiesa! – - Lo era duecento anni fa. Vieni vicino al letto, dai, che ti faccio vedere una cosa. – e di nuovo la sua fantasia sovreccitata pensò a varie simpatiche cosette. – Guarda il mio comò! – e indicò quello che, malgrado i vestiti ripiegati con ordine che lo coprivano, appariva piuttosto chiaramente per un altare. - Dormi sotto all’altare! – disse sbalordito, poi aguzzò lo sguardo nel buio del soffitto, la stanza era scarsamente illuminata, e vide una cosa che lo colpì tantissimo – Ma quello è un Cristo pantocratore! Incredibile! – - Sai come si chiama! – disse lei – Sai anche cosa vuol dire? – - Cristo che può fare tutto, onnipotente, si potrebbe dire. – - Esatto. – disse lei facendo una smorfia – Dicono che può fare tutto e che è buono. E allora come mai esiste il male? – - Non mi pongo il problema. – rispose lui che intanto continuava a guardarla sempre più eccitato, lei parlando si era tolta la maglia e indossava solo una maglietta di cotone bianca che essendo bagnata lasciava ben poco all’immaginazione – Sono ateo. – - Anche tu? – chiese lei, gli si avvicinò e gli fece una carezza sulla guancia – Ti piaccio? – - Sì. – era stato facile dirlo, molto facile. - Vuoi che mi spogli nuda? – - Sì. – disse lui. Anche questo era uscito fuori con facilità estrema. - Vuoi scoparmi qui sul mio letto, ora mentre fuori diluvia? – - Sì. – - Fallo, Michele, fallo subito! – Si tolsero i vestiti e cominciarono a baciarsi sul letto. Lei sapeva di buono, sembrava che avesse il profumo di tutte le cose che amava, il pane fresco, le rose, i prati dopo la pioggia, il bucato di sua madre, il dopobarba di papà quando lui era piccolo, la pelle di un gattino pulito e felice. Era meravigliosa, aveva acceso delle candele e ora la vedeva lì, in una chiesa davanti all’altare, alla luce di tante candele oscillanti, mentre si baciavano e si toccavano. - Ti voglio. – disse lui tentando di salirle sopra, ma lei disse: - No. Non così. – e lo buttò giù di schiena sul letto salendogli sopra – Così, sì così! – e cominciarono a fare l’amore. Lui guardava quello splendido corpo che gli stava sopra, sinuoso e del colore dei sogni in quella luce gentile, ma lei non lo guardava. Ansimava e gemeva muovendosi sopra di lui, ma i suoi occhi erano sempre fissi nell’oscurità sopra di loro. Per un attimo lui distolse gli occhi dal corpo di lei e guardò in quella direzione pensando stupito che lei stesse guardando il volto del crocifisso, che lo stesse guardando con degli occhi quasi cattivi, ma poi tornò a guardarla e a perdersi nello splendore di quello che vedeva e sentiva. Dormì abbracciato a lei, avvolto da quelle coperte morbide e con la faccia affondata nei suoi capelli che profumavano di casa e felicità, dormì e sognò quella chiesa in un altro tempo, non era un sogno bello, ma lei lo svegliò sussurrandogli parole dolci all’orecchio e, quando ricominciarono a fare l’amore alla luce dei mozziconi di candela e dei lampi, si era ormai dimenticato il sogno. La mattina si svegliò e si accorse che lei non era nel letto. La stanza era illuminata, essendo stata una chiesa aveva una finestra a est che faceva entrare la luce davanti all’altare, si stiracchiò felice e la vide, nuda e rannicchiata su una vecchia poltrona, un grosso album da disegno appoggiato sulle gambe e un carboncino in mano. - Ciao, Anna. – disse con voce ancora assonnata – Cosa fai lì su quella sedia? Ho voglia di coccole la mattina! – - O, arriveranno anche quelle. – disse e rise con quel faccino malizioso che lo eccitò di nuovo anche più di quelle gambe ripiegate sotto al corpo o di quei grandi seni morbidi – Ma ora devo disegnare. – - E cosa disegni? – - Te. – diede altri due o tre colpi di carboncino – Disegno tutto quello che mi capita, sempre. – - E cosa faccio nel tuo disegno? – - Dormi con la mano destra sotto al cuscino e la faccia sorridente e soddisfatta. In questo, almeno. – - Ce ne sono altri? – chiese scendendo dal letto e camminando a piedi nudi fino alla poltrona. - Qua passeggi con lo zaino in spalla. – disse mostrandogli un disegno a sanguigna e carboncino che sembrava un pezzo della sua vita stampato sul foglio. – Qua sei sotto la tenda mentre diluvia. Qui mi stai guardando il culo mentre salgo le scale e qui stiamo facendo l’amore. – - Ma sei un’artista! – disse lui guardando i disegni stupito – Una vera artista! – - Grazie, caro. – disse lei. Si alzò, si stirò e poi gli accarezzò il pisello – Andiamo a letto? – - Sì. – e dimenticò in un attimo quei disegni. Per un attimo aveva anche pensato di chiederle se ce ne fossero altri, ma presto fu preso da pensieri di tutt’altro genere. Dopo aver fatto l’amore rimasero lì abbracciati, senza parlare, sfiorandosi e accarezzandosi, poi fecero ancora l’amore e, quando il sole fu alto, Michele cominciò a pensare che fosse ora di andare. Mentre pensava a come dirglielo, si immaginava già le tipiche scene di pianti e disperazione che sono tipiche delle donne secondo gli uomini, lei gli disse: - Sarà ora che tu vada, se vuoi fare i tuoi soliti venticinque chilometri. – - E sì. – disse lui sollevato e in fondo in fondo un po’ deluso – Sarà proprio meglio che vada. – e si alzò dal letto raccogliendo i suoi vestiti. Andò in bagno, si lavò, si fece la barba e, quando uscì, si trovò davanti lei, splendida con addosso una vestaglia a fiori, con in mano una fetta di torta e un panino avvolto nella stagnola. – Per la colazione e per il pranzo. – e gli sorrise. - Grazie, bella! – disse lui e la baciò sfiorandole le labbra – Ora vado, se no viene troppo caldo. – Lei lo accompagnò alla porta e lui le strinse la mano andando via, si voltò a salutarla dopo pochi passi e poi di nuovo dove la strada svoltava, ma lei era già rientrata nella sua vecchia grande casa che già era quasi scomparsa tra gli alberi. Allora andò avanti nel suo lungo viaggio a piedi e lei scivolò veloce tra i ricordi. Oggi... Uscì dall’autostrada e cominciò a cercare la strada che gli avevano detto, girò in tondo, rifece il giro, poi provò a svoltare a destra, cul de sac, non era lì, tornò indietro e svoltò a sinistra, piccolo sentiero di campagna, niente fabbrica di lavatrici come gli avevano detto. Si era perso. Rimpiangendo in cuor suo i due mesi passati tra Afghanistan e Pakistan, lì almeno il pericolo erano bombe e proiettili e non la viabilità della campagna italiana, si fermò davanti a un bar e entrò a chiedere informazioni. - Buongiorno! – disse sedendosi al bancone – Un caffè, grazie. – - Eccolo. – disse la barista, un donnone grande e grosso con capelli corti e faccia simpatica e gli porse la tazzina col suo profumatissimo contenuto. Lo bevve in un sorso, si pulì col fazzoletto di carta e disse: - Scusi, per Mariano superiore, che strada devo prendere? – La donna sorrise – Ha sbagliato uscita. Doveva uscire tra venti chilometri. – - Allora devo riprendere l’autostrada? – chiese sbuffando. Odiava le autostrade, sono fatte per andare veloci guardando solo in avanti, e lui invece amava andare lento guardando soprattutto intorno. - Se vuole può passare dal passo delle Clarisse. Ci metterà un po’ di più, forse, ma la strada è molto bella. – Le clarisse, sorrise sentendo questa parola, aveva quasi ricordato qualcosa di bello. – E dove si va per il passo? – - Guardi, deve andare verso San quirico, poi dopo un chilometro svolta a destra, e poi... Giovanni! Poi che giro deve fare? – - Deve andare giù verso Cassinetto, poi c’è la provinciale che sale al passo. Da lì è tutto dritta fino a Mariano. – disse una voce alle sue spalle. Era una voce che conosceva. Si voltò e riconobbe il vecchio contadino, solo che ora era davvero vecchio, con le spalle incurvate e migliaia di rughe. Gli occhi però erano gli stessi, gli occhi di uno che avrebbe voluto partire con lo zaino in spalla per vedere il mondo. - Salve, Giovanni! – disse dandogli la mano – Forse non si ricorda, ma ci siamo già incontrati una volta. – Il vecchio lo guardò strizzando gli occhi lievemente velati dalla cataratta, poi sorrise e disse: - Il pellegrino, saranno quattordici anni fa. C’è poi andato a lavorare al giornale? – Che memoria, il vecchio! – Sono quindici anni, era il ’94. Sì, sono l’inviato di guerra di Repubblica. Michele Cairoli. – disse guardando il vecchio. Gli piaceva quel vecchio, era proprio come voleva essere lui tra quarant’anni. - Ah! – disse il vecchio – Io leggo il giornale di qua, ma qualche volta al bar leggo i suoi articoli su Repubblica. Le piace proprio girare per posti scomodi, eh. – - Direi di sì. – stava sorridendo, parlare con quel vecchio era bello come l’ultima volta – Io seduto alla scrivania non ci so stare. – - Ne deve vedere di cose brutte, però! – - A volte sì. Ma altre volte vedo anche cose belle. Tramonti in mezzo ai monti più alti del mondo, statue del Buddha illuminate dal sole che sorge, muezzin che cantano su un minareto, bambini feriti che riescono a guarire. C’è del bello e c’è del brutto. – - C’è del bello e c’è del brutto. – ripetè il vecchio – C’è del bello e c’è del brutto. È la vita, no? – - È la vita. – aveva ragione, il vecchio, è la vita. - Mi ha fatto piacere riincontrarla, Giovanni. Allora devo andare verso San Quirico, poi a destra, poi verso Cassinetto e poi su per la provinciale del passo, è così? – - Sì. Tempo un’ora e sarai a Mariano. – disse il vecchio e gli strinse la mano con quelle sue grosse dita ruvide e forti. – Anche per me è stato un piacere. – Michele uscì, andò alla macchina, aprì la portiera per entrare e si fermò un attimo. Fece una smorfia piegando la testa verso destra, prese la scatola coi libri, ne tirò fuori un paio e con la sua penna scrisse due dediche sulle prime pagine, una per una barista gentile che faceva un ottimo caffè, l’altra per il suo amico Giovanni, che era sempre lì quando lui aveva bisogno di scambiare due chiacchiere. Entrò nel bar, Giovanni era andato in bagno, posò i libri sul bancone e salutò la barista dicendole che erano regali per lei e Giovanni. Ripartì verso Mariano superiore e l’ennesima presentazione del suo libro sulla guerra in Afghanistan, altre domande dal pubblico, altre curiosità banali e no, altre dediche e altri autografi. E sì, a volte rimpiangeva un po’ la compagnia dei soldati e i proiettili che sibilano appena sopra la testa. Svoltò una volta, poi un’altra e si trovò in mezzo a una vera e propria foresta, come quella di cappuccetto rosso. Procedeva piano, non voleva sbagliare strada, poi vide un albero secco con i rami rivolti verso l’alto e disse quasi senza pensarci: - Là in fondo è dove ho piantato la tenda quella sera del diluvio. – e sorrise pensando a quella notte così strana. Frenò e rimase lì, con le mani sul volante, rendendosi conto che da allora non aveva praticamente più pensato al temporale, a Anna che lo aveva soccorso, a Anna che gli aveva offerto la cena e un letto, a Anna che aveva fatto l’amore con lui per tutta la notte. - Cazzo! – disse incredulo – Cazzo, me lo ero praticamente dimenticato! – rise come uno scemo, solo nella macchina fermo in mezzo alla strada. Accostò, parcheggiò e scese dall’auto. Il bosco profumava come allora, per un attimo gli sembrò di avere di nuovo ventiquattro anni. Andò avanti er un centinaio di metri, poi vide il grande castagno. Il vento lo aveva spezzato e giaceva in terra esattamente nel punto dove lui aveva dormito. - Cazzo! – disse rabbrividendo – Se fosse caduto allora, col cazzo che andavo in Afghanistan. – si chinò per guardare sotto al tronco caduto e vide una cosa rossa. La prese, la ripulì dal fango e capì cosa fosse, - Il tappo della penna rossa. Avevo perso il tappo della penna rossa, è vero. – era felice, solo nel bosco con in mano un inutile pezzetto di plastica che aveva perso quindici anni prima, era felice. Corse alla macchina, prese dalla scatola un libro e la penna, poi si incamminò di nuovo verso l’albero. – Allora... – disse guardandosi intorno - ...era di là, sì, verso la collina e poi a destra. – e cominciò a fare al contrario il sentiero che aveva percorso saltellando e fischiettando la mattina dopo il temporale. Trovò la svolta, dopo l’agrifoglio vicino alla quercia, sì, proprio lì, poi si trovò sul sentiero più largo e pianeggiante, ma era pieno di felci, non doveva passarci nessuno da un bel po’. Si fermò, il libro in mano e la penna nel taschino, in piedi in mezzo al sentiero guardando tra gli alberi per vedere il vecchio monastero. Ma chi me lo fa fare, pensò, chi me lo fa fare? Avrà avuto trentacinque anni, allora, quindici anni fa, c’ho proprio voglia di vederla com’è adesso? E si fece un po’ schifo da solo, era un discorso da laido maschilista che giudica le donne solo per l’aspetto. Certo che in quindici anni lui era cambiato un bel po’! I capelli erano corti ora, corti e grigi sulle tempie. E pure radi sopra alla fronte, li stava perdendo ormai. Muscoli ne aveva ancora, faceva ginnastica, ma un po’ di pancetta lo accompagnava ormai da quattro anni dovunque andasse. E aveva solo trentanove anni! Mica cinquanta! E lei come sarebbe stata? La ricordava come una dea, bellissima, culo alto e sodo, vita sottile senza essere troppo magra, seni grandi e morbidi, belli da toccare e baciare. E la faccia, la faccia era un ovale perfetto, con quegli occhi grandi e verdi, e la bocca con labbra grosse e carnose. Quindici anni sono tanti, pensava, lo sono stati per me, figurati per lei che era più vecchia! E poi che le dico? Ciao, Anna, ti ricordi di me? Sono quel ragazzo che quindici anni fa ti sei scopata per tutta la notte? Che imbarazzo! Poi cosa le dico? Le parlo di Carla e dei ragazzi, le faccio vedere le foto dei bimbi? E se è ancora porca come allora che faccio? Una botta e via in ricordo dei vecchi tempi? Scherzavo, Carla, scherzavo. E rise lì in mezzo al bosco. Per un attimo pensò di tornare indietro, poi aprì il libro alla prima pagina e scrisse questa dedica: “Alla dolcissima Anna che quindici anni fa mi salvò da una tempesta e mi offrì un letto caldo e un tetto sopra alla testa. Grazie, se ho avuto la vita che ho avuto è anche merito tuo. Michele!” la rilesse soddisfatto. Nessun accenno al sesso, a parte quel “caldo” riferito al letto, così se c’era un signor marito, non le avrebbe creato problemi. Avrebbe posato il libro davanti alla porta senza bussare e sarebbe andato via. Un atto di gentilezza che non avrebbe comportato il rischio di mettersi o metterla in una situazione di imbarazzo. E che non gli avrebbe offuscato il ricordo di lei come era allora con quello che invece era diventata ora. Riprese il cammino, passarono due minuti e poi tre, ma del monastero non c’era traccia. – Ma dove cazzo... – si chiese stupito, poi vide laggiù in fondo un muro ricoperto di edera. Accelerò, arrivò lì davanti e vide che erano dei ruderi. Dei ruderi di muri tra cui erano cresciuti degli alberi. – Ma in quindici anni è successo tutto questo? – disse entrando attraverso la soglia e trovandosi dentro a quello che era stato il convento. – Cazzo! – disse andando verso una parte che aveva ancora una parte del tetto. In terra c’erano arbusti e erbacce, non si vedeva nanche il vecchio pavimento in cotto, ma là dove c’era il tetto era tutto più in ordine. Si infilò nell’antro buio e per qualche istante non vide nulla. C’erano ancora delle porte, una scala e dei mobili. Aprì una porta e trovò una stanza abbastanza in ordine, con l’intonaco scrostato e dei mobili in noce ricoperti di polvere. - E quelli che sono? – disse vedendo dei grossi fogli appoggiati su un tavolo – Ma sono i suoi disegni! – e corse a prenderli. C’erano centinaia di fogli, appoggiati lì sul tavolo, ognuno con un disegno a carboncino e sanguigna, riconosceva la mano dell’artista, erano stupendi. Un cervo che mangiava l’erba, sembrava pronto a balzare via dal disegno, una civetta su un ramo con un occhio aperto, il crocifisso che impassibile li aveva guardati fare l’amore. Sfogliò velocemente i disegni, alcuni erano fatti su carta così vecchia che sembravano sul punto di sbriciolarsi, ma molti raffiguravano lei con vari abiti. - Ma che cazzo! Ma come è vestita? – disse guardandone almeno una cinquantina – Qua è una suora, dell’Ottocento, sembra la monaca di Monza, e qui è una stracciona... qui è come l’ho vista io, qua è vestita che sembra la Magnani negli anni Cinquanta... – sorrideva sbalordito, sembravano disegni di molti anni fa, ma era sempre la stessa mano, lo vedeva bene. Poi notò le date, erano nell’angolo in alto a destra, scritte con grafia antiquata, - !984, 1971, 1932, 1863, 1798! Ma è pazza! – non era possibile, aveva disegnato sè stessa in abiti antichi, su fogli antichi, mettendo date di anche due secoli prima. Non riusciva a capire. Prese un altro gruppo di fogli, erano ritratti di uomini, in ordine decrescente di data. L’ultimo era di nove mesi prima, sembrava un turista tedesco dalla faccia e dall’abbigliamento. Il foglio sotto era un primo piano, stessa data, poi lui a letto che dormiva, poi loro due che scopavano sotto all’altare, lei era bellissima e guardava il crocifisso. C’erano altri uomini, molti disegni per ognuno, e poi, una trentina di fogli sotto, trovò i suoi. – Cazzo, eccoli. – disse guardando dei pezzi della sua vita travasati con precisione su dei fogli di carta. – Mamma mia, sembra di vedersi davvero. Guardando il disegno dove lui le guardava il culo si accorse di essere eccitato come allora e guardando il disegno in cui facevano l’amore si sentì come se avesse tradito Carla, invidiava quel ragazzo di quindici anni prima. Sfogliò velocemente i fogli, erano centinaia, arrivavano fino al 1796, facce di uomini, scene di vita vissuta e sesso tra lei e quegli stessi uomini. – Ma questa è proprio pazza! – disse ridendo, poi vide gli ultimi, così vecchi che quasi i fogli si sbriciolarono guardandoli. Era più vecchia in quei disegni, più vecchia e vestita da suora. Gli uomini erano dieci, soldati napoleonici. Sembravano bestie, più cinghiali che umani. Era nascosta vicino all’altare, Cristo la fissava immobile, da un foglio all’altro vedeva quegli uomini strapparla all’altare, denudarla, violentarla, picchiarla, violentarla, ma si vedeva sempre il volto impassibile di Cristo lassù sulla sua croce. - Mio Dio! – disse guardando e riguardando quei fogli. In zona di guerra aveva conosciuto molte donne violentate, aveva parlato con loro e le aveva sentite piangere sulla sua spalla, ma non aveva mai capito lo stupro come tenendo in mano quei fogli. Si sentiva sporco e indifeso, sentiva il suo corpo violato e odiava quegli uomini. Ma soprattutto odiava quell’uomo, quello là sulla croce che per quanto onnipotente aveva lasciato che accadesse. Posò i fogli e si accucciò in terra, gli girava la testa e le gambe non lo reggevano più. Per la prima volta da ventisei anni pianse, pianse accucciato in mezzo alla polvere dentro a un vecchio convento diroccato. Passarono alcuni minuti prima che riuscisse ad alzarsi, ma doveva farlo perchè c’era ancora una pila di fogli accanto alle altre, degli altri disegni che gli avrebbero raccontato un altro capitolo della vita di Anna. Si alzò e si avvicinò a quei disegni con un po’ di terrore, gli sembrava di essere Ashe ne “L’armata delle tenebre” quando cercava il vero Necronomicon tra le tre copie poggiate su un tavolo, uno lo mordeva, l’altro conteneva un buco nero e l’ultimo era quello giusto, quello che avrebbe poi risvegliato un esercito di crudeli morti viventi. La terza pila di fogli cosa gli avrebbe raccontato? Il foglio poggiato sopra agli altri, la data era del giorno prima, ritraeva Anna seduta sulla sua poltrona, un po’ più vecchia di come lui l’aveva conosciuta e un bel pancione da nono mese in bella vista. Tirò un sospiro do sollievo, si era aspettato di peggio. Il disegno sotto era Anna nuda che poggiava qualcosa in un vano sotto all’altare, sembrava un palla o un sasso, non era chiaro. La data era di tre anni prima, ma lei era giovanissima, dimostrava si e no vent’anni. – Questa è proprio pazza. – disse a bassa voce, voltò il foglio e il terrore lo colpì come un doccia gelata che non ti fa respirare, gli si accapponò tutta la pelle, le palle gli schizzarono dentro al corpo e bagnò le mutande con qualche goccia di urina. Lasciò cadere il foglio ansimando, poi lo riprese toccandolo come avrebbe fatto con un cobra incazzato e lo guardò di nuovo. Era lei, la riconosceva bene, stessa data del disegno precedente. Era accucciata in terra, a gattoni, stava mangiando qualcosa. La sua bocca non era normale, era come quella di un lupo, enorme e piena di denti affilati. Stava mangiando un bambino, un neonato, il neonato era vivo mentre lei gli dilaniava una gambina. Il foglio al di sotto la raffigurava durante il parto, quello prima incinta sulla poltrona. Respirando a fatica scorse tutti i disegni. C’era sempre la stessa sequenza, le date seguivano di nove mesi i ritratti degli uomini e le scene di sesso tra lei e loro. Ogni volta c’era lei che partoriva e divorava il bambino. Sentì la brioche che aveva mangiato che tornava su col suo sapore acido di succhi gastrici, andò in un angolo e vomitò. Aveva trovato i disegni corrispondenti a suo figlio, aveva visto un disegno che raffigurava suo figlio che veniva mangiato vivo da una donna mostro, dalla donna che lo aveva partorito. Evitò di guardare tutti i disegni, se lo avesse fatto forse sarebbe impazzito. I primi, quelli più antichi, erano diversi. C’era lei dopo lo stupro, lei che tentava di riindossare il suo velo strappato, lei che girava chiedendo l’elemosina, lei che sembrava una vecchia sdentata e che scopriva di aspettare un figlio da quei soldati. Tornava nel monastero, era stato dato alle fiamme, stava ferma a guardare il crocifisso che la fissava impassibile, sentiva le doglie e partoriva lì da sola, fissando il crocifisso, lei nuda e distrutta che urlava il suo odio all’uomo sulla croce mentre il bambino gridava in terra, lei che prendeva il bambino in braccio e lo alzava verso l’altare, lei ormai matta che mordeva al collo il bambino venendo inondata dagli schizzi di sangue, lei che poggiava in terra il cadaverino e si accorgeva di essere giovane, si accorgeva di stare bene, lei che nascondeva il cadavere nella nicchia sotto all’altare mentre Cristo da lassù non diceva nulla. Poggiò l’ultimo foglio sul mobile, si passò la mano sui pantaloni per torgliere la polvere, deglutì e si asciugò la bocca col dorso della mano. – È pazza. È totalmente pazza. – disse – deve aver passato degli anni a fare questi disegni, penserà davvero di aver vissuto tutto questo. – si guardò intorno rimpiangendo di non essere fuori alla luce del sole, lì c’era troppo buio – Forse ha ucciso davvero dei bambini, forse ha ucciso mio figlio. – aveva deciso di andarsene, quando sentì un verso acuto. – Che cazzo è? – disse, uscì dalla stanza, percorse un corridoio e riconobbe la stanza che dava sulla cappella. – Mio Dio. – disse sentendo altri gemiti da lì dentro, gemiti e urla strozzate. Aprì la porta, era solo socchiusa, guardò dentro e vide Anna in terra, stava partorendo tenendosi con le mani a un mobile. Davanti alle sue gambe c’era già un bambino che si muoveva piano. Teneva in bocca un pezzo di legno per il dolore, stava spingendo con forza e tutti i suoi muscoli erano tesi. La fissava affascinato, era totalmente incapace di muoversi, stava lì in piedi appoggiato allo stipite e guardava quella donna che partoriva un bambino, vedeva la testa, poi il corpo e poi, eccolo lì, il bambino era caduto sul pavimento sporco e bagnato. Per qualche istante rimasero tutti fermi, lui sulla porta, troppo in ombra perchè lei potesse vederlo, i due bambini in terra sporchi di liquido amniotico e lei ancora con le braccia appese a quel mobile e le gambe aperte. Ansimava piano, il pezzo di legno lo aveva sputato. La guardava terrorizzato, c’era qualcosa di strano in lei, continuava a guardarla e non capiva cosa. Poi lei si mosse e lui capì. Lo capì mentre le gambe gli cedevano e cadeva in terra, lo capì chiudendo gli occhi per non vederla. Era stata una donna sulla quarantina a partorire, la pelle tesa sulla pancia, i grossi seni appoggiati sul petto, le braccia magre e muscolose, con i tendini tesi dallo sforzo. E ora si era alzata andando verso i due figli e non era più come prima. Era un qualcosa che non aveva mai visto, era come un vecchio rettile, la pelle rugosa e appesa, gli occhi incavati e acquosi, la testa a punta e ricoperta da rado pelo. Il suo corpo era curvo e accartocciato, non aveva nulla di umano. Era il corpo di una donna sopravvissuta per troppi secoli alla sua morte, era quello che sarebbe potuta essere la trisavola di un ultracentenario, se fosse esistita. La faccia sembrava quella di una tartaruga, come quella notte alla luce del lampo. Inginocchiato a terra la vide raggiungere strisciando uno dei due bambini, la vide annusarlo con quel suo vecchio naso da strega, la vide aprire le fauci da lupo irte di zanne, ma ebbe troppa paura e non si mosse. Si chinò sul bambino e lui sentì dei versi che gli fecero pensare a dei maiali al trogolo, e tra questi le grida del bimbo, come dei fischi acuti che durarono per pochi interminabili secondi. Poi lei si alzò, bella, i capelli castani a caderle lunghi sulle spalle, incantevole come lo può essere solo una ventenne, tranquilla nella sua nudità mentre raccoglieva le ossa del piccolo e le posava nella nicchia che aveva aperto. Si voltò per tornare dall’altro bambino, non prima di aver guardato lo sguardo impassibile dell’uomo lassù sulla croce, si voltò con calma pregustando il sapore che avrebbe sentito tra pochi istanti e per un attimo non credette ai suoi occhi. C’era un uomo lì davanti, un uomo sulla quarantina, un uomo in piedi col bambino in braccio. Lo guardò con i suoi occhi quasi luminosi nel buio e lo riconobbe. - Ciao Michele. È un bel po’ che non ci vediamo. Fai sempre il vagabondo? – gli parlava con un tono di voce basso, sorridendo, sapeva che il suo corpo l’avrebbe conquistato come allora, era bella e profumata come i sogni che un uomo fa di notte, era la donna che tutti desiderano. – Vuoi baciarmi come allora? Vuoi scoparmi come allora? Mi vuoi? – Non disse sì. Non le rispose a nessuna domanda come aveva fatto quindici anni prima. Non la vedeva come una donna. Quel corpo incantevole che lei gli stava mostrando era solo un sipario che nascondeva quell’essere indegno, quel profumo che sentiva nelle narici era un deodorante da due soldi che nascondeva l’odore di una cripta. - Mi vuoi, Michele? Posso essere tua, ora. – - No, Anna. – le rispose – Non toccherai questo bambino, non te lo permetterò. – - Sei sicuro, Michele, è mio figlio quel bambino, sarò una buona madre. – - Come per gli altri che tieni lì dentro? – - Sono colpevoli, mi hanno fatto male. Lui lo ha permesso. – e gli si avvicinò ancheggiando, bella come una mattina di sole in inverno, spiccava in quella chiesa buia come una candela accesa. - Quegli uomini erano dei mostri. – le disse accarezzando il piccolo che teneva tra le braccia – Ma i bambini non c’entravano per niente. – - Erano dei mostri anche loro. Lui li aveva mandati. – era ancora più vicina, allungando una mani li avrebbe potuti toccare. Ma sapeva che sarebbe stato lui a volerla toccare, tutti loro erano così. - Voglio solo salvare il bambino. Fammi andare via con lui, non tornerò mai più. – - Sei sicuro, Michele? Sei sicuro di volertene andare? – sapeva che lui avrebbe ceduto, tutti loro lo facevano. Ancora pochi istanti e l’avrebbe baciata implorandola di concedersi a lui. Avrebbe dimenticato in fretta il bambino. Michele si voltò, posò il piccolo sul mobile a cui lei si era appesa partorendo, tornò a rivolgersi a lei, sorrise e, mentre lei allargava le braccia per abbracciarlo, la colpì con un pugno al mento che la scaraventò contro all’altare. Lei si ferì una tempia contro uno spigolo di marmo, rovinò in terra e lo guardò con odio. Non sembrava una donna adesso, non con quegli occhi. Stava per alzarsi, avrebbero lottato e lui avrebbe perso, era solo un uomo, ma il crocifisso tremò sul suo sostegno, oscillò un paio di volte e cadde schiacciandola sotto ai suoi due quintali di legno. - Mio Dio! – disse lui vedendo la testa di lei sotto al pesante crocifisso, un rivolo di sangue scivolava giù per la tempia, i suoi occhi lo cercarono per un attimo, occhi carichi d’odio, poi, per un attimo, gli occhi di una donna terrorizzata e infelice, e poi, così all’improvviso, ci fu solo il crocifisso spaccato in terra, appoggiato su della polvere grigia, il volto impassibile del Cristo rivolto verso l’alto. Con le gambe tremanti andò all’altare, guardò quell’ammasso di minuscoli scheletri di neonati, uno di loro era suo figlio, tutti loro erano stati divorati vivi, si asciugò le lacrime con la manica, rovesciò i mobili, gettò in terra un candeliere guardando il fuoco che attecchiva velocemente su quel legno decrepito e uscì dal monastero col bambino in braccio. Per un attimo si voltò a guardare i ruderi, già una lingua di fuoco usciva dal tetto, fece una carezza alla guancia ancora paonazza del piccolo e si diresse verso la macchina nel sole del mattino. FINE

martedì 10 marzo 2020

L'indice del mio seguito di IT.

Ecco i link ai primi 23 capitoli. Appena posso lo finisco.

https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/06/questo-scarabocchio-vorrebbeessere-un.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/ed-ecco-il-secondo-capitolo-del-mio.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/ed-ecco-il-terzo-capitolo-il-capo.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/ed-ecco-il-quarto-capitolo.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/scritto-fresco-fresco-ieri-il-v.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/capitolo-vi-vi-il-mondo-che-ci-appare.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/ecco-il-capitolo-vii-vii-daniel.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/capitolo-viii-eddie-myra-e-audra.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/capitolo-ix-beverly-marsh.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/decimo-capitolo-bill.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/capitolo-xi-richie.html
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https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/07/quattordicesimo-capitolo.html
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https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/08/capitolo-xx-bev-e-ben-xx-laria-che.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/08/capitolo-xxi-stan-bev-e-ben.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/08/capitolo-22-stan-e-mike.html
https://raccontidiggia.blogspot.com/2012/08/capitolo-23-il-signor-chambers.html