giovedì 27 agosto 2009

Ed eccomi di nuovo a voi!

Salve ragazzi! Sì, lo so, non esistete e sto parlando da solo, ma farlo mi diverte.
Come vi sembra il mondo? Pensavate davvero che la crisi economica lo avrebbe cambiato? Che ci sarebbe stata giustizia e prosperità per tutti? Ah-ah! Illusi! E magari pensavate che il buon Silvio sarebbe prima o poi diventato buono e saggio e che l'ottimo Obama avrebbe rivoltato l'America come un calzino trasformandola in un paese buono e giusto? O mio Dio! Ma siete davvero irrecuperabili!
Svegliatevi ragazzi! Il mondo fa schifo e noi con lui, dopotutto ne facciamo parte.
Non illudetevi mai, ma non disperatevi neanche. Il mondo è così com'è perchè se no noi ci staremmo troppo comodi, quindi, cercatevi un posticino dove stare tranquilli, non fate del male a nessuno e rispettate sempre l'undicesimo comandamento: "NON ROMPERE I COGLIONI!" Se tutti lo facessimo, il mondo sembrerebbe quasi un paradiso.
E ora il racconto del giorno. E' un omaggio a un grande scrittore italiano, se volete leggervi qualcosa di buono, cominciate da lui. Si chiamava Italo Calvino. Il mio racconto si intitola:

COME PALOMAR

Per molti di voi l’idea stessa di spiaggia è totalmente diversa da quella di Massimo. Quelle immense distese di sabbia gialla e incandescente brulicanti di milioni di formiche umane unte e sudate nel continuo ballonzolare dei loro corpi flaccidi e grassi mentre pochi giovani rompiballe infastidiscono tutti i vicini con interminabili partite di beach volley rumorose e sgradevoli alla vista nello stesso tempo, che per voi sono l’immagine stessa delle vacanze estive, per lui erano cacca.
La spiaggia come la pensava lui è una sottile striscia di sabbia ghiaiosa di colore grigio scuro su cui si abbattono onde ininterrottamente, provenienti da un mare oscuro come il cielo invernale che lo copre.
Era su questa spiaggia che come tutte le mattine Massimo era andato a fare la sua passeggiata, che non avendo un lavoro ne approfittava almeno per passare il suo tempo in luoghi che gli piacevano.
Essendo stato un inverno strano, quella mattina di marzo era calda e un sole un po’ opaco scaldava la sabbia costringendolo a tenere aperta la giacca.
Camminava da almeno dieci minuti, il giro completo tra andata e ritorno ne durava quarantacinque, quando circa un centinaio di metri davanti a lui, vicino al bagnasciuga, vide qualcosa di rosato che attirò la sua attenzione; camminando al suo passo veloce che gli aveva sempre reso difficile andare in giro con le sue varie ragazze, si avvicinò al punto rosa che si rivelò essere una donna che prendeva il sole.
Sorridendo camminò fissando la donna che, vista da quella distanza, sembrava essere un notevole esemplare e, passo dopo passo, cominciò a convincersi che la tizia doveva essere nuda. Dopotutto c’era caldo, pensò tra sé e sé, e in spiaggia non doveva esserci davvero nessuno a parte loro due. Se una tizia era abbastanza deficiente poteva anche aver avuto la bella pensata di prendere il sole tutta nuda come un vermiciattolo.
Il fatto era che adesso stava per raggiungerla e la spiaggia lì era solo una sottile lingua di sabbia tra le onde e gli scogli, così che ci sarebbe stato il problema di non guardarla, cosa difficile dato che i suoi ormoni gli suggerivano invece di zomparle addosso e farle quelle che sua madre chiamava le “cosaccie” . Giunse alla conclusione che la cosa migliore sarebbe stata passare nel punto più lontano, fino a sfiorare gli scogli col gomito, guardando in su verso la strada che correva una ventina di metri sopra di lui.
Infine arrivò vicino a lei e, tentando di fare il disinteressato passò con le mani in tasca, fischiettando un motivetto degli U2 e lanciando quasi di sfuggita un’occhiata sul corpo disteso della giovane donna che lo guardava da dietro gli occhiali da sole.
L’aveva guardata! Che idiota, aveva girato la testa e l’aveva guardata come un maniaco e lei se ne era accorta. Arrossendo e ripensando a un racconto di Calvino che aveva letto al liceo, affrettò il passo per allontanarsi dal corpo del reato sperando di non essere sembrato troppo un mostro di Firenze in libera uscita.
Cominciò a tirare un lievissimo vento da sud che increspò appena il mare e, pensò disperato, non avrebbe di certo convinto a coprirsi per il freddo la bella naturista. Piano piano dimenticò la figuraccia e riprese pensare a tutto e niente ascoltando solo il rumore dei suoi piedi misto alla risacca e alle stridule grida dei gabbiani.
Arrivò al capolinea, un piccolo bar di uno stabilimento aperto anche d’inverno in cui prese come al solito un caffè macchiato e cominciò a ripercorrere la spiaggia per tornare a casa.
Il paesaggio era così bello e le navi all’orizzonte così piccole e perse nella foschia della mattina, che non pensò più alla ragazza fino a quando non gli apparve in tutta la sua splendente nudità a non più di trecento metri davanti a lui. Il sole era sempre più caldo e la spiaggia continuava ad essere deserta come il cervello di un presidente americano, così che non poteva sperare che lei si alzasse e se ne andasse prima del suo arrivo.
Incredulo che una cosa bella e semplice come una ragazza stesa al sole potesse rovinargli tanto l’umore, cominciò a pensare quale fosse il modo migliore per passare di lì senza fare di nuovo la figura del maniaco in impermeabile che aspetta le ragazzine all’uscita delle medie; fare l’indifferente, aveva appena scoperto al prezzo di una pessima figura, era al di là delle sue possibilità e poi ormai lei lo aveva visto mentre la guardava. Mettersi a correre e passare in fretta non lo avrebbe fatto sembrare un podista ma uno scemo. Passare facendo finta di parlare al telefonino? No, rischiava di sembrare oltre che scemo, pazzo. E se avesse fatto il disinvolto e si fosse fermato a dire due parole sul tempo, guardando solo di sfuggita la pelle esposta della giovane e mettendosi a guardare poi il mare e le navi all’orizzonte? Forse sì, poteva essere l’idea giusta per farle dimenticare lo sguardo clandestino di una mezz’oretta prima.
Ormai deciso ad agire così camminò col passo più normale e calmo che aveva in repertorio e vide il corpo nudo e bello della donna ingrandirsi sempre di più e occupare a ogni passo una maggiore frazione del suo campo visivo.
Lei era rivolta col viso verso di lui e dovette sforzarsi di guardare davanti a sé, stava camminando dopotutto, senza posare troppo frequentemente gli occhi sulle nudità esposte della ragazza. E poi la raggiunse e lei lo guardò direttamente, sempre da dietro quegli occhiali scuri che le coprivano gli occhi che lui immaginava ormai grandi e verdi, belli come il resto del suo corpo.
- Buongiorno! – le disse fingendo di sentirsi disinvolto – Bella giornata, no? –
Lei annuì e fece il gesto di fumare una sigaretta inclinando il viso con fare interrogativo.
Ammirando la perfezione di quel corpo di una incredibile tonalità di rosa ambrato su ci spiccavano dei piccoli capezzoli quasi dorati e un pube appena velato da corti ricci castani, prese le sigarette dal taschino e si accucciò per offrirgliene una. Lei la prese sorridendo e inclinò ancora la testa mostrando dei bellissimi denti.
Infilò la mano in tasca e prese l’accendino, lo accese e si appoggiò su un ginocchio vicino a lei accendendole la sigaretta. Mentre la punta del piccolo cilindro cominciava a bruciare, vide con la coda dell’occhio una specie di corda che partiva da un piede della donna e si infilava nel mare già profondo a meno di un metro dalla riva.
- Ma che cazzo è? – pensò vedendo che questa corda si muoveva ed era coperta di scaglie, quando la gigantesca rana pescatrice ritirò in acqua la splendida esca e con un balzo catturò Massimo trasformato in una preda dalla sua voglia di non passare per un maniaco o per un fesso.
Poi il mare fu di nuovo calmo e a chi si fosse sporto dalla strada nulla sarebbe apparso di strano, tranne una sigaretta che bruciava lentamente sulla sabbia umida e una scarpa da uomo abbandonata sul limitare delle onde.
FINE

martedì 25 agosto 2009

I lamenti del (non tanto) giovane Diggia.

Salve gente (sempre ammesso che qualcuno legga mai queste pagine) anche oggi mi lamenterò un po' parlando con voi.
Parlerò del telegiornali italiani, sì sì, lo so, è come sparare sulla Croce Rossa.
I telegiornali di questa nuova era di felicità e gioia intergalattica che si chiama era berlusconiana, farebbero di tutto per non dare mai una notizia che sia una. Oggi ho visto due telegiornali ed entrambi hanno dato con tutti i particolari un resoconto della storia dell'ignoto compratore del loculo posto sopra a quello dove giace il corpo ormai abbastanza frollato di Marilyn Monroe. Pare che questo allegro incavo di cemento sia stato acquistato per una cifra superiore ai quattro milioni di dollari da qualcuno che vuole passare l'eternità sopra alla platinata diva di quaranta e passa anni fa.
La cosa divertente, Oh che pazze risate!, è che il loculo era già occupato da un signore che si era fatto lì tumulare a faccia in giù, per non mancare di rispetto alla bellissima diva dandole le spalle. La evidentemente gelosa vedova del tizio in questione ha però pensato bene di vendere il loculo e di traslare la povera salma lussuriosa in un'altra, più economica, tomba.
Ora, anche se si crede in una vita dopo la morte, non sta a me giudicare, c'è anche chi pensa che il Genoa sia una grande squadra, mi volete dire che cacchio te ne viene da stare a marcire per l'eternità due spanne sopra al corpo ormai decomposto di una bellissima donna?
Cosa pensano questi signori, che a forza di stare lì vicini lei infine si convincerà a dargliela? E dargli che, un organo ormai decomposto da decenni? E il cemento armato in mezzo?
Comunque i telegiornali si sono avventati su questa "notizia" dedicandole gran parte del loro tempo, come fanno sempre con cagnette che allattano gattini, gattine che allattano cagnetti, leoncini cresciuti da oranghi, gorilla allevati da marsupiali e così di seguito; per non parlare poi delle grandi storie d'amore dell'estate, protagonisti Clooney e la Canalis, Vieri e la Canalis, Clooney e Belen, Vieri e Belen, la Canalis e Belen, chiunque respiri e Belen, Vieri e Clooney...
Tutto pur di non dare una sola notizia vera, tutto pur di non spaventare troppo gli ascoltatori-elettori e dar loro modo di pensare.
Bah... che schifo.
E ora, cari i miei inesistenti lettori, un altro racconto bello fresco per voi. L'idea mi venne quando portammo la mia bella cagnina ad accoppiarsi, un'esperienza davvero surreale. Tornato a casa cominciai a pensare: E se...
Eccovi il racconto, si intitola:

LA MONTA

Suonò al numero che gli avevano dato e guardò la moglie con uno sguardo molto eloquente.
- Potresti mostrare un po’ di entusiasmo! – disse lei chinandosi ad accarezzare Lilla che come al solito stava a fissarla come se fosse stata l’unica luce del mondo.
- Uao! – disse lui agitando le braccia – Basta l’entusiasmo o devo fare di più? –
- Che ridere! – disse lei, poi dal citofono gracchiò una voce: - Siete i Rossi? –
- Sì. - rispose lei, - Siamo forse in anticipo? –
- No, va bene. Venite su. Ruben non vede l’ora di cono-scere Lilla. –
La porta si aprì con uno scatto e un suono gracchiante. Entrarono preceduti come al solito da Lilla che correva scalando quegli scalini così alti per lei. – Dai caro, - disse lei con la vocina che usava per sconfiggere i suoi dubbi – Ma allora non vuoi proprio bene alla nostra Lilla? –
Lui sorrise con una piccola smorfia e in pochi momenti arrivarono al terzo piano, dove i signori Ferrari li aspettavano con Ruben, un bell’esemplare col pelo marrone che faceva capolino tra le loro gambe.
- Buonasera! – disse la signora Ferrari che si era vestita molto elegante, forse troppo data la cosa che dovevano fare, secondo il signor Rossi che avrebbe preferito essere dal dentista piuttosto che lì a vedere Lilla e Ruben che si accop-piavano.
- Buonasera, signora Ferrari. – disse lui – Buonasera, signor Ferrari. – disse anche al marito.
- Buonasera a voi, e benvenuti in casa nostra. – disse il marito facendoli entrare nella casa dai pavimenti lucidi come specchi.
I Ferrari li portarono in salotto e tutti e quattro si sedettero sul divano, mentre Ruben e Lilla si studiavano non sapendo se fare amicizia o attaccare baruffa.
- Vieni qui Ruben! – disse il signor Ferrari chiamando vicino Ruben che venne mogio mogio a sedersi vicino a lui. – Ehi Ruben, ma la vedi quanto è bella Lilla?–
La signora Rossi chiamò Lilla e la fece venire, un po’ controvoglia, vicino a Ruben, che prese subito ad annusarla e a toccarla come ogni bravo maschietto dovrebbe fare con un così bel bocconcino. Lilla fece un salto indietro e si avvicinò alle gambe della padrona piagnucolando, ma questa la spinse di nuovo verso Ruben che cominciava a capire che sarebbe stata una gran bella serata per lui.
- Poverina! – disse allora la signora Rossi – Mi fa un po’ pena, per lei è la prima volta e non è abituata a stare con i suoi simili. Penso di averla viziata in questo perché fin da piccola l’ho sempre presa in braccio quando qualcuno voleva fare amicizia con lei. –
I Ferrari risero e lui disse: - Ruben no. È cresciuto con i fratelli e la mamma fino a che non era già indipendente. Non ha mai paura degli altri, ma si avvicina subito per fare amicizia. –
- E se sono femmine… - disse lei – per fare qualcos’altro. Birbaccione! –
- Lilla invece l’ho presa piccolissima. L’allevatore mi aveva detto che sarebbe stato meglio aspettare che fosse un po’ più grande, ma era così tenera e paffuta... non ho potuto aspettare! –
- Era così tenera. – disse il marito che non ne poteva più. Dopotutto erano solo due stupidi animali che dovevano trombare – E ha sporcato dappertutto così a lungo! –
Il signor Ferrari rise di gusto, un po’ meno sua moglie, ma la signora Rossi la prese davvero male – Come se tu avessi mai dovuto pulire. Non c’è il pericolo che ti alzi da quella sedia per pulire qualcosa! E poi ha smesso di sporcare esattamente quando doveva, come ci ha detto il veterinario! –
- Sì. Ora non sporca più. – disse lui che evidentemente quella bestiola non la sopportava – A parte quando è uscita da troppo tempo, o quando ha paura, o ha il “pancino” disturbato o vuole attirare la tua attenzione. A parte tutte le volte che va in calore e macchia sedie e divano di sangue perché la “piccina” non “può mica stare in terra!”-
La signora Rossi stava per piangere e i signori Ferrari non sapevano dove guardare, ma per fortuna Ruben prese l’iniziativa e si lanciò su Lilla che l’evitò abilmente e saltò in braccio alla padrona.
- O piccina… - disse lei accarezzandole i riccioli neri sulla testa – Mi dispiace ma non posso tenerti in braccio. È per il tuo bene! – e la rimise giù dove Ruben, ormai eccitatissimo, cominciò ad inseguirla per tutta la stanza.
- Certo che fa un po’ pena, poverina. È la prima volta? –
- Sì. Dicono che le farebbe tanto bene, sia per il carattere che per il tumore alle mammelle. –
- E sì. – disse il signor Ferrari – ho sentito che se figlia due volte è quasi impossibile che le venga il tumore. –
- Spero che sia così, soffrirei troppo a vederla ammalata. E poi a toglierle tutto diventerebbe così brutta! –
- Non che con gli anni diventino più belle queste bestie. – disse Rossi che aveva fatto sbollire l’incazzatura ed era pronto a rientrare nella conversazione – Sono così brutti da vecchi, soprattutto le femmine. –
- E sì. Per fortuna non vivono tanto. Quello che avevo prima l’ho fatto abbattere perché stava male e il veterinario non riusciva a capire che cosa avesse. – disse Ferrari.
- Brava Lilla! – urlò la signora Rossi. – Ma perché scappi da Ruben, non è bello con il pelo marrone? –
- Dire bello a un cosino che gira con quell’attrezzo dritto in mezzo alla pancia, però... - disse Ferrari e tutti risero.
- Ma non sarà troppo grosso? – domandò la signora Rossi – Lilla non lo ha mai fatto e poi è così minuta. –
- La prima volta sentono sempre male e a volte piangono. Ma poi in un attimo finiscono e non ci pensano più. – disse Ferrari, poi vedendo che Ruben cercava di montare Lilla che continuava a divincolarsi disse: - Dovremo aiutarlo, se no lei non glielo lascerà fare. – e si alzò per tenere ferma Lilla.
- Vai tu caro? – disse la Rossi al marito. Si alzò e prese Lilla per le zampe anteriori mentre Ferrari teneva quelle di dietro. Lilla urlò e tentò di mordere, ma Ruben la montò e cominciò a spingere a quella maniera ridicola che fece ridere i quattro padroni.
- Vai Ruben! Forza! – disse Ferrari mentre Lilla li guardava piangendo con gli occhi terrorizzati.
- Non posso guardare! – disse la signora Rossi. Poi Ruben finì e si staccò ansimando da Lilla che si andò a sedere in un angolo tentando di pulirsi il sangue che perdeva. Malgrado le teorie di Ferrari continuava piangere e non sembrava che volesse smettere.
- Ma io vorrei sapere come facevano prima! – disse il signor Rossi – Come sono vissuti da soli per milioni di anni? –
- Ah, non lo so. – disse Ferrari – Sporcano ovunque, litigano sempre e se non tieni ferme le femmine non riescono neanche ad accoppiarsi. Per fortuna che siamo arrivati noi a prendercene cura. –
I quattro padroni continuarono a parlare di quegli stupidi animali che amavano tanto, tranne forse il signor Rossi, mentre Ruben, che ne aveva di nuovo voglia, si avvicinava a Lilla che stava piangendo sotto alla sedia.
Avvicinò una mano e toccò le guance bagnate dalle lacrime che gocciolavano sui grossi e eccitanti seni, ma lei lo schiaf-feggiò e si spostò di qualche metro. Lui era eccitato e le andò incontro col cazzo duro, fissando il pelo tra le gambe, dello stesso colore dei capelli. Tentò ancora di toccarla e quando lei urlò guardò indietro verso i suoi padroni, che sicuramente l’avrebbero di nuovo afferrata con i loro tentacoli e le loro chele perché lui potesse montarla.
FINE

lunedì 24 agosto 2009

Ai miei inesistenti lettori.

Allora, cari i miei inesistenti lettori, visto che vi è tanto piaciuto il racconto di ieri, oggi ve ne offrirò un altro.
Ma prima permettetemi di chiedervi una cosa. Vi siete accorti che oramai la gente si fa un vanto di raccontare balle, o dire bugie o di spacciare una cosa per un'altra?
Vi farò degli esempi. se vi capita di guardare la televisione, vi sarà capitato di vedere una cosa chiamata pubblicità, sapete, quella cosa che sempre più raramente viene interrotta dai programmi...
Allora, notoriamente la pubblicità è quella cosa che serve a un tizio per dirvi che il suo prodotto è il migliore, come chiedere al fruttivendolo se le sue mele sono più buone di quelle dell'altro negozio.
Ma da un po' di tempo si stà davvero esagerando, avete notato?
Vi vendono uno yogurt, un normalissimo yogurt, e nella pubblicità ci viene presentato come una medicina capace di regolarizzarvi l'intestino come neanche un cane da pastore fa con un gregge di pecore; addirittura in una versione vi dicono che mangiandolo ci si sente addirittura più giovani! TROVATA LA CURA PER L'ETERNA GIOVINEZZA! ESCE DALLE TETTE DELLE MUCCHE E FERMENTA IN AMBIENTE CALDO E UMIDO!
O mio Dio!
E quell'altra reclame (scusate la parola antiquata, sono nato negli anni settanta), quella di un'acqua minerale che si vede una ragazza che cammina in un assurdo eden fiorito mentre la voce fuori campo descrive una potentissima medicina capace di curare tutti i mali? Cioè l'acqua stessa, che addirittura a berne tanta stimola la diuresi, cioè fa pisciare! Me' cojoni! direbbero a Roma, che scoperta!
Ci sono poi le auto super ecologiche che sparano fiorellini dal tubo di scappamento, medicine che fanno fuggire via il mal di testa come l'aglio i vampiri, gente che mangia sughi pronti tanto buoni che non può fare a meno di rubarsi il piatto come maiali al truogolo.
Non so voi, ma io in quei casi vorrei rompere il televisore, ma facendolo soffrire prima!
E poi c'è Lui, sapete bene chi, il piccolo Lui priapesco che ci governa, quello che è contro la mafia e fa le leggi pro-mafiosi, quello che è cristiano e fa le corna alla seconda moglie, quello che evade le tasse e si vanta di combattere l'evasione, quello che non conta più nulla nel mondo e si pavoneggia per accordi tra altri paesi che non sanno nemmeno chi è.
Basta ora, comincio a sembrare un vecchietto di quelli che dicevano che solo le bombe del '15 erano bombe.
Il racciìonti che vi presento oggi, se vi andrà di leggerlo è qui di seguito. E' il primo che io abbia mai scritto, avevo si e no quindici anni, e si intitola:
LA GROTTA

Durante una vacanza in Indonesia ho trovato su una bancarella un vecchio taccuino in cuoio su cui era scritto il testo che segue. La carta era vecchia di almeno un secolo e il testo, vergato per fortuna a matita, era quasi del tutto leggibile. Le ultime pagine sono scritte in una grafia totalmente diversa da quella del resto del testo e sono quasi incomprensibili, ma a mio parere sono della stessa mano delle altre, solo scritte in condizioni proibitive. Il testo si interrompe improvvisamente in una pagina che è macchiata da una sostanza che il secolo abbondante di invecchiamento ha trasformato in una macchia di colore marrone scuro. Pubblico il testo così come lo ho letto su quel vecchio taccuino, senza miei commenti o giudizi, ma solo con delle mie congetture (in corsivo) a integrarlo dove mi sembrava logico capire cosa nascondessero le lacune.
12 ottobre 1878

Caro diario! Finalmente l’aria di mare comincia a purificarmi i polmoni dal lezzo di vecchio marciume che ammorba la nostra cara Italia. Lasciando Genova su questo veliero diretto in India non mi sono neanche voltato a guardare la città dove sono nato e dove ho cominciato a lottare per le mie idee. Non sono andato a combattere 18 anni fa con il generale Garibaldi perché questi maledetti aguzzini piemontesi prendessero il potere e affamassero gli Italiani. Al solo pensiero che quel maledetto re da operetta se ne stia nel suo ricco palazzo a Roma circondato dalla sua provincialissima corte mentre i bambini muoiono di fame per l’odiosa tassa sul macinato e migliaia di poveri fratelli meridionali languono nelle luride galere perché hanno tentato di difendersi da un fisco vorace col brigantaggio, il mio stomaco si rivolta e provo vergogna di essere nato in questo sventurato paese. Ma ora basta! Vedrò terre nuove e ancora pure dall’orrenda corruzione che divora il nostro vecchio mondo. Troverò popoli che ancora non si inchinano a squallidi re, luoghi felici dove nessuno ha ancora violentato l’umana natura arrogandosi la proprietà delle terre e di tutto quanto madre natura ci ha donato.

14 ottobre 1878

Caro diario, eccomi di nuovo a te. Il viaggio continua e oggi abbiamo lasciato le acque chiuse e stagnanti del nostro vecchio mare. Passando le colonne d’Ercole e vedendo davanti a me le sterminate acque dell’oceano mi sono finalmente reso conto di quale infima tinozza noi chiamiamo casa. Tra meno di un mese sarò in un luogo dove il nome del nostro indegno re è sconosciuto e dove le encicliche del Papa non hanno neanche il valore della carta su cui sono scritte. Libertà, aspettami!

1 novembre 1878

Caro diario, dopo due settimane torno a scriverti. Sono stati giorni di dura navigazione, tra tempeste così forti che le piccole burrasche dei nostri mari mi sono apparse per quello che sono, piccole increspature in pozzanghere di acqua stagnante. Passato il Capo di buona speranza siamo finalmente entrati nell’Oceano indiano. Terre sconosciute e popoli ignoti mi aspettano, la piccola e sventurata Italietta è ormai uno sbiadito ricordo dietro alle mie spalle.

Mancano due pagine in cui il nostro ignoto viaggiatore doveva raccontare le ultime fasi del suo viaggio verso l’India e il suo imbarco su di una nave olandese diretta a Sumatra. Il diario ricomincia il 13 novembre in vista del porto di Sibolga, da cui aveva intenzione di cominciare il suo viaggi di esplorazione dell’entroterra.


13 novembre 1878

Caro diario, ecco davanti a me il porto di Sibolga. Quando tra poche ore sarò sbarcato, mi procurerò provviste e attrezzature per la mia esplorazione delle terre selvagge dell’interno. Non ci posso ancora credere. Poche ore e sarò tra esseri fortunati, non contaminati dalla religione o dal possesso. Se esiste un paradiso, esso si trova in terra ed è qui di fronte a me.

15 novembre 1878

Caro diario, ho comprato un asinello e provviste per almeno due mesi. Posso già immaginare che tra pochi giorni non ne potrò più di gallette e carne affumicata, ma la foresta attorno a me è così ricca di vita e la mia bandoliera così carica di pallottole che non penso proprio che frutta o carne fresca mi potranno mancare.
Mi è dispiaciuto salutare i miei amici olandesi; malgrado parlino una lingua che fatico a credere umana, sono tra gli uomini migliori che abbia mai incontrato e vorrei che noi Italiani fossimo onesti e laboriosi la metà di loro. Ma allora non saremmo Italiani, mi viene da dire con una feroce autoiro_ nia. Va bene! Comincia ora la parte più difficile ma più significativa del mio viaggio. I miei amici olandesi pensano che io sia matto, ma io penso che lo siano loro, che non vedono l’ora di tornare nella nostra vecchia e ammuffita Europa.

17 novembre 1878

Caro diario, risalendo il fiume Pahna’ ( non risulta che esista nessun fiume con questo nome a Sumatra, né oggi né ai tempi del nostro anonimo viaggiatore. N.d.E.) mi sono lasciato alle spalle intorno a mezzogiorno l’ultimo villaggio in cui i missionari cristiani hanno portato la loro ammor_ bante religione. A dire la verità in ogni villaggio che ho visitato ho trovato solo selvaggi rovinati da preti cristiani o maomettani. Tutta la gioia di vivere di questa gente è stata come succhiata via da questi maledetti “ benefattori dell’umanità” la cui unica preoccupazione è quella di ricoprire indecenti nudità e insegnare che tutto quello che rende bella la nostra vita è peccato e ci porterà alla dannazione.
Mi è stato assicurato che risalendo questa vallata troverò un territorio ancora inesplorato in cui abitano uomini che non si possono neanche definire tali, dei veri e propri selvaggi che non sanno neanche coprirsi. Meglio per me, vuol dire che non sono ancora stati infettati dal mondo “evoluto”. Mi dicono che sono tagliatori di teste e cannibali e che rischierò la vita. Che sia! Meglio tagliatori di teste che preti, e meglio cannibali che padroni. Per difendermi da questi pericoli basta e avanza la mia pistola.

20 novembre 1878

Le zanzare mi stanno mangiando vivo e le sanguisughe avranno ormai succhiato almeno la metà del mio sangue. Questa notte non ho trovato della legna secca e così non ho potuto accendere il fuoco. Ho passato tutta la notte sveglio con la pistola in mano, trasalendo ad ogni rumore, sicuro che fosse una tigre pronta a divorarmi. Neanche nelle battaglie contro l’esercito borbonico ho avuto tanta paura come stanotte. Sono quasi sicuro che qualcuno mi stia seguendo, anche se non ce l’ho fatta a vedere nessuno. Ho trovato delle impronte di piedi umani nel fango e una pietra che ho raccolto era stata evidentemente scheggiata intenzionalmente per farne uno strumento. E’ solo la certezza che le persone che sto cercando da tanto tempo sono così vicine a darmi la forza di andare avanti, perché sono davvero al limite della sopportazione.



21 novembre 1878

Caro diario, li ho finalmente visti! Avevo appena ucciso un piccolo cerbiatto e lo stavo scuoiando quando ho alzato la testa e ne ho visto uno in piedi davanti a me. Era un piccolo negro di circa trentacinque anni, dai lineamenti scimmieschi e i capelli neri e infeltriti. Era nudo come quando è nato, tranne per un ridicolo guscio di zucca scavato e secco che portava legato con una cordina alla vita. In questo astuccio teneva infilato il pene come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Erodoto disse giustamente che per ogni persona i costumi dei suoi avi sono normali e tutti gli altri sono ridicoli o osceni, ma anche il nostro antico scrittore sarebbe scoppiato a ridere in faccia a questo selvaggio. Con un grande sforzo non ho riso e ho continuato in silenzio il mio lavoro. Ho staccato un zampa al cerbiatto e la ho offerta al negro, a cui si erano uniti altri tre uomini abbigliati come lui. L’ha accettata e, dopo aver fatto un breve cenno col capo, è scomparso nella boscaglia con i suoi amici, silenziosamente come erano apparsi.
Sono seduto davanti al fuoco, con una capanna di frasche sulla testa, della buona carne arrostita e della frutta come cena e ho avuto i primi contatti con i selvaggi che cercavo. Come sbagliavo a essere così demoralizzato solo ieri!

La pagina seguente è strappata ed è leggibile solo in una sottile striscia in basso.

… delle quattro capanne due sono accessibili a tutti e sono quelle dove si vive e si dorme, mentre due sono limitate ad alcuni membri della tribù. Una è per le donne “impure”, cioè quelle che hanno appena partorito o che hanno il loro ciclo, mentre l’altra, in cui sono entrato invitato dall’uomo più anziano, è quella dove gli uomini prendono le decisioni importanti per la tribù.

24 novembre 1878

Caro diario, questi selvaggi sono incredibilmente adatti a vivere nella foresta. Sono alti al massimo un metro e cinquanta e camminano su questo terreno ingombro di frasche sempre un po’ curvi, riuscendo a sgusciare senza fatica in spazi così piccoli che io mi devo aprire la strada col pennacco. Cacciano con archi e cerbottane che lanciano piccole frecce avvelenate, ma sono molto felici che io abbia la mia pistola. Ogni volta che sparo scappano via nel folto della foresta, ma sono anche molto veloci a tornare indietro per dividere con me le prede che io ho ucciso.
Da quel poco che ho potuto capire di loro nei tre giorni in cui li ho conosciuti, mi sembra di poter dire che sono fondamentalmente buoni, anche se le loro menti sono paragonabili al massimo a quelle di bambini piccoli. Penso che questi piccoli selvaggi fossero in attesa di una guida che li possa far evolvere verso la piena umanità, di un uomo che li prenda per mano e insegni a loro quale è il loro posto nel mondo. Alcuni di loro sembrano più intelligenti e sanno già rispondere ad alcuni miei semplici ordini.
Penso che molto presto mi accoglieranno a dormire nella capanna principale, che è addossata ad una grotta che per loro è sacra, in quanto ogni sera vi portano, con un rituale molto preciso, le teste e altre parti delle prede uccise. Appena si fideranno di me vedrò di scoprire di più di queste loro superstizioni. Questo potrebbe essermi utile per prendere il sopravvento e cominciare a guidarli.

26 novembre 1878

Caro diario, quante cose ti devo raccontare! Comincerò da dove ti avevo lasciato due giorni fa.
Quello che sembra il capo, cioè il primo che ho incontrato, con un lungo sproloquio nella sua lingua gutturale mi ha chiesto di andare dormire con loro nella capanna. La costruzione di pali e frasche, lunga circa quindici metri e divisa in due navate da una fila di dieci pali, si trova allo sbocco di una grotta naturale che già a pochi metri dall’apertura diventa così buia da essere un vero mistero. L’unica cosa che posso dire di quell’anfratto oscuro è che, forse a causa di tutte quelle carni che vi vengono ammassate ogni sera come offerta agli dei, puzza come una cloaca. Non mi è stato permesso di superare una linea di pietre appuntite conficcate nel terreno al confine tra grotta e capanna.
Questi selvaggi sono innocenti come bambini e come Adamo ed Eva sono assolutamente ignari delle nozioni di pudore o di peccato. Uomini e donne sono soliti girare per la capanna totalmente nudi e orinare e defecare in qualunque punto si trovino. Persino un fautore del libero pensiero come me è rimasto sbalordito quando un uomo e una donna, che avrà avuto al massimo quattordici anni, si sono messi a copulare davanti a tutti, a pochi metri da me. Quando hanno finito quello che stavano facendo si sono semplicemente alzati e si sono rimessi a fare i loro semplici lavori, come scheggiare selci per ottenere armi e attrezzi o intrecciare stuoie. Quando avrò preso il mio posto di guida e maestro vedrò di dare loro una buona educazione.
Quando si è avvicinato il crepuscolo ho mangiato con loro i loro semplici e abbastanza disgustosi cibi, poi tutti gli uomini si sono seduti intorno al fuoco e i più anziani hanno cominciato a parlare raccontando evidentemente delle storie che i giovani e bambini ascoltavano con attenzione. Quando il sole era quasi del tutto calato, la capanna è rivolta a occidente e la luce entrava in quel momento fino nei primi metri della grotta, tutti si sono messi a lavorare alacremente e hanno eretto una barriera di rami e frasche proprio all’altezza della linea di pietre che fa da confine alla capanna. Li ho aiutati e loro mi hanno fatto capire che erano contenti della mia presenza. Quanto lavoro sprecato ogni sera e ogni mattina, quando li guiderò eliminerò tutti questi sprechi e userò le loro capacità per renderli più ricchi e felici.
Abbiamo poi appoggiato le nostre stuoie vicino al fuoco, non nella parte tra questo e la grotta, come avevo pensato, ma in quella tra il fuoco e l’apertura. C’è da stupirsi che, pur schiavi di queste inutili superstizioni questi selvaggi siano ancora così numerosi.
Il capo mi ha portato una giovane, penso sua figlia, e mi ha fatto capire che era un dono per me; ho tentato di fargli capire che non mi sembrava corretto, ma lui ha dato segno di non gradire un rifiuto. In grave imbarazzo per la presenza di tutti gli altri vicino a noi, mi sono unito a lei, che per essere una negra è davvero uno splendido esemplare.
Mentre la ragazza, che ho ribattezzato Anita, dormiva con la testa sulla mia spalla, nel dormiveglia mi è parso di sentire strani grugniti e ringhi provenire da dietro la barriera. Mi sono addormentato con strani pensieri in testa, causati senza dubbio dall’agitazione e dalla novità di situazioni in cui mi trovavo.
Il risveglio è stato, caro diario, ancora più strano della serata; infatti mi hanno destato delle grida, di donne e bambini ma anche di guerrieri. Presa la mia pistola sono corso fuori e ho visto che la tribù che mi ospitava era stata aggredita da un manipolo di invasori, cinque uomini simili per aspetto e abbigliamento ai miei amici. Un ragazzo che aveva dormito a pochi metri da me giaceva agonizzante al suolo, tenendosi con le mani le budella grigiastre, mentre il capotribù, ferito al fianco, combatteva armato di lancia con due giovani guerrieri. Ho preso la mira e ho freddato uno dei due, che stava per colpire il capo. Terrorizzati dal boato dello sparo, che invece i miei amici conoscevano già, gli aggressori sono fuggiti, ma uno di loro si stava trascinando dietro Anita, facendosi scudo con il suo corpo; ho mirato di nuovo e lo ho colpito alla spalla, facendolo stramazzare a terra. Anita è subito corsa a controllare come stava il padre e, mentre i giovani si accanivano a calci e pugni sull’assalitore ferito, io da buon medico, sono andato a curare la ferita del capo, che non era molto grave e ho chiuso con pochi punti.
Il prigioniero è stato legato a un palo sotto al sole, dove tutti i bambini si divertono a sputargli addosso e lo colpiscono con delle pietre. Il ragazzo morto è stato posato su di una stuoia e la madre è rimasta per ore a vegliare il suo corpo e a parlargli sottovoce, fino a quando una processione lo ha portato nella foresta ed è stato poggiato su di un baldacchino con delle offerte di cibo.
Il prigioniero all’inizio era molto combattivo, ma quando il capotribù è andato a parlargli e gli ha indicato la grotta, si è messo a piangere col il viso affondato tra le mani e non ha nemmeno più tentato di schivare gli sputi e le pietrate.
Quando si è cominciato a prepararsi per la notte, tre guerrieri lo hanno preso e, legato mani e piedi, lo hanno trascinato nella grotta insieme al cadavere del suo amico. Non ho mai visto nessuno opporre tanta resistenza inutilmente. Nel momento in cui è passato di fronte a me mi ha guardato con uno sguardo così pieno di terrore e disperazione che ho provato pena per lui, ma mi è bastato pensare a quel povero ragazzo steso su di un baldacchino perché le bestie lo possano mangiare, per odiarlo con tutto il mio cuore.

La pagina successiva è totalmente mancante, sembra che sia stata strappata volontariamente.
…orrore simile in vita mia. Le grida di quel poveretto sono state più terribili di quelle del mio amico Antonio mentre il medico gli segava via la gamba maciullata da una cannonata. E questi selvaggi non davano segno neanche di sentirle! E ancora peggio è stato quando le grida sono cessate e ho sentito quegli altri versi… Allora la notte scorsa non avevo sentito male per il sonno e l’agitazione. Qualcosa di abominevole vive nel buio di questa grotta e questi selvaggi lo nutrono con i corpi dei loro nemici. Devo riuscire a fuggire da qui, non sopporto più queste bestie semiumane e la loro vicinanza. Lo stesso contatto con il corpo di Anita stanotte mi dava il ribrezzo. Andrò via domani mattina, quando tutti dormono, ma oggi voglio esplorare almeno l’entrata della grotta per scoprire cosa vi è rinchiuso. La mia pistola basterà per difendermi, e forse per liberare il mondo da una mostruosità.

28 novembre 1878, seconda parte.

Mio Dio! Diario, non ho mai avuto tanto terrore per la mia anima! Quando tutti questi selvaggi erano lontani, sono entrato nella grotta con la pistola in una mano e una torcia nell’altra. Le pareti erano interamente ricoperte di graffiti raffiguranti un’orrenda bestia di forma sempre diversa intenta a mangiare persone indifese. La puzza era talmente forte da annebbiare la mente, ma era una puzza che penso sentirebbe anche uno senza naso. È una puzza di anime marce, non solo di materia in decomposizione. Mi sono fatto forza e sono andato ancora avanti, fino a che sono arrivato dove erano stati posati i corpi dei due prigionieri, uno morto e uno vivo. Mio Dio, potrò mai dimenticare quello spettacolo? Erano stati sviscerati e svuotati di ogni loro contenuto, asciugati come mummie e i loro volti sembravano ancora urlare di terrore, con quegli occhi avvizziti come uva passa nelle orbite spalancate. Intorno a loro una lordura di sangue marcio e feci dall’odore nauseabondo impregnavano la sabbia. Ed è stato allora che lo ho sentito. Mi guardava da oltre il cerchio di luce della torcia, e rideva in silenzio. Ho fatto un passo indietro e quella cosa ne ha fatto uno avanti. Non lo potevo vedere, ma mi sembrava quasi che una sagoma più nera del buio circostante mi spiasse con occhi di tenebre così profonde che a guardarvi dentro la mia anima sarebbe morta. Sono corso fuori, alla luce del sole, sentendo i suoi passi che mi seguivano fino al limite della luce del sole.
Domani all’alba fuggirò, quando tutti dormiranno. Possa questa notte passare in fretta senza strapparmi la mia salute mentale.

Queste ultime pagine del taccuino sono scritte in una grafia quasi illeggibile, come se chi le ha scritte fosse impossibilitato a vedere ciò che scriveva. Nelle ultime la grafia peggiora ancora, come se fosse intervenuto anche un tremore insopprimibile. A mio parere chi ha scritto è la stessa persona delle pagine precedenti.
29 novembre 1878

Caro diario, non pensavo che la mia vita sarebbe finita così! Tra pochi minuti morirò nel modo peggiore e più innaturale del mondo. È andata così: mi ero assopito per alcuni minuti, poco prima dell’alba e un bambino ha rubato la pistola da sotto la mia stuoia. Si è messo a giocare con il fratellino e gli è partito un colpo. Tutta la testa di quel povero bimbo è volata via e i suoi parenti hanno dato la colpa a me. Per tutto il giorno sono stato legato sotto un sole cocente e sono stato colpito da pietre e sputi, ma avrei voluto che “il sole non calasse mai. Quando è ve”nuta la sera questi selvaggi mi hanno trascinato nella grotta e mi hanno legato a un palo vicino alle mummie dei miei compagni di sventura. Quando la barriera è stata eretta ho salutato la mia vita e ho cominciato a scrivere al buio queste ultime parole della mia vita. Lo sento qui vicino a me, avverto la sua puzza e il suo odio. Nel buio appena velato dalla poca luce che arriva dalla barriera, una sagoma orrenda di tenebre mi osserva girandomi attorno. +…+ vicino a me, sento la sua bava gocciolare in terra e il suo ansimare che mi scompiglia i capelli. Mio Dio! Non voglio morire così! Eccolo che arri…

Il diario finisce così, con una parola non finita e uno svolazzo di matita sul foglio. Quest’ultima pagina è zuppa di una sostanza marrone che può essere sangue vecchio di più di un secolo.
FINE

domenica 23 agosto 2009

Benvenuti in mia casa!

Scusatemi per il titolo privo di originalità, dopotutto io stesso sono privo di originalità, come ogni scrittore di questo mondo, se è vero che sono ormai diecimila anni che continuiamo a riraccontare sempre le stesse quattro o cinque storie, quella della donzella in pericolo, quelle di Giobbe perseguitato da Dio, quella dei poveri innamorati a cui è proibito amarsi, quella del mostro che viene da fuori, quella del mostro che viene da dentro, quella del bambino che diventa uomo...
Malgrado ciò, mi piace scrivere e incredibilmente conosco gente a cui piace leggere quello che io scrivo... Boh! Contenti loro! Dopotutto ha avuto dei lettori anche Liala!
Comunque, cari i miei 2,5 lettori, e mi sembrano già troppi, se vi interessa leggere qualcosa di strambo e orrorifico, sulla scia di Lovecraft, Poe, King e altri, ecco a voi i faticosi parti della mia mente malata. Il primo che vi offro si intitola:

L’ULTIMO BICCHIERE

Il giovanotto vestito elegante e la bella ragazza con l’abito rosso salutarono il barista e uscirono dal bar dirigendosi al distributore di preservativi più vicino, o almeno così pensò Enzo lasciando il bancone e andando a ribaltare sui tavoli le sedie per pulire il pavimento dalle palline di carta e le noccioline salate cadute ai clienti nelle dodici ore di apertura del locale.
Prese la scopa e cominciò dal lato destro della lunga sala, vicino alla porta della stanza dei vini pregiati, raccogliendo il solito mucchietto di spazzatura che, una volta arrivato al bancone, sarebbe stato un piccolo monte alto due o tre centimetri.
- Immagino che sia l’ora di chiusura? – chiese l’ultimo avventore che stava giocherellando col suo bicchiere facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio contro il vetro.
- E sì, tra dieci minuti dovrò chiederle di andarsene. – disse Enzo. – Brut-ta serata? –
- Un po’. – rispose l’uomo buttando giù l’ultimo sorso di cocktail di vodka alla pesca insieme ai rimasugli del ghiaccio – Direi proprio che la si può definire così. –
- Vuole parlare un po’ con me? Sono ancora in orario di lavoro e a pulire la stanza senza parlare con qualcuno mi rompo un po’. –
- È una storia lunga. – guardò di nuovo il bicchiere con gli occhi lucidi di chi forse ne ha già bevuti troppi e chiese: - Potrei averne un altro? –
- Non è che poi deve guidare? –
- No, abito a due passi e riesco ancora a reggermi in piedi. –
Enzo appoggiò al muro la scopa e andò dietro al bancone, versò altra vodka e succo di frutta nel bicchiere e cominciò a tagliare la fetta di limone, quando il cliente disse: - Un po’ più di vodka, grazie. –
- Allora è proprio una serata di quelle brutte! – disse Enzo versandone ancora nel bicchiere e completando il tutto con due cubetti di ghiaccio.
- Grazie, amico. – disse il cliente che gli sembrava un hobbit, cicciotello e con un cespo di capelli ricci in testa. – Allora lo vuoi sapere perché sto tentando di ubriacarmi? –
- Dica pure, sono qui per questo. –
- È cominciato tutto due mesi fa, in un bar di Milano, e io e il mio amico eravamo seduti ad un tavolino come quelli lì dietro.
Lui era un famoso artista astratto, sa di quelli che fanno le installazioni che vanno tanto di moda. – rise tra sé e sé – Quelle specie di spettacoli ripresi da un video, dove gente stupida fa cose stupide. –
- Come quella tizia che mette un sacco di modelle nude ferme in una stanza? – chiese Enzo – O quello che aveva messo dei cavalli in un salone con paglia e biada? –
- Sì, proprio quelli. – e bevve un bel sorso dal bicchiere e rabbrividì diventando contemporaneamente rosso – E il mio amico Lucio era uno dei migliori, vendeva le sue opere per un sacco di soldi e andava continuamente in Germania e in America, dove sono pazzi per quelle stronzate. –
- Mica male come vita. –
- No. Per niente, ma lui non era contento. “Io divento ricco fotografando una donna nuda che piscia su un divano, e mi chiamano artista. L’ho portata a pisciare in mezzo al Guggenheim, al Moma, a Bilbao, e dappertutto mi hanno acclamato, ma era solo una donna nuda che pisciava, come anche il cuore di bue in formalina era solo un cuore di bue in un vaso.”
“Meglio per te, no?” gli ho detto io, “sempre meglio di me che vendo vecchi quadri a coppie di giovani rampanti in cerca di affermazione sociale.”
“Non penso che tu abbia ragione.” mi ha risposto “Almeno tu hai a che fare con arte vera. Tra cent’anni un quadro venduto da te sarà sempre un quadro, mentre quello che faccio io sarà visto per quello che è: Merda.”
“E allora cosa vorresti fare?” gli ho chiesto, “Andare in fabbrica?”
“Vorrei fare quello che ho studiato, arte, come quella di Michelangelo o Raffaello, anche se nessuno degli espertoni di oggi vuole della vecchia e sana arte del tipo buono.”
“E vorresti scolpire o dipingere?” gli ho chiesto senza sapere che vaso di merda stavo per scoperchiare.
“Scolpire, come faceva Michelangelo, senza uno schema, ma seguendo la forma del blocco di pietra e l’ispirazione del momento. Quella sì che sarebbe arte, e io sarei un artista.”
“Il treno per Carrara parte tra un’ora,” ho detto ridendo “ oppure ho una cosa da proporti.”
“E cosa?” mi ha chiesto finendo il suo bicchiere di bianco, e io gli ho risposto: “Sai scolpire il legno?”
“Sì!”
“Anche se è molto duro, perché si tratta di legno di vite stagionato per anni.”
“Sì. E da dove viene?” e dai suoi occhi vedevo che l’idea di tirare fuori un’opera da quel vecchio legno lo aveva già conquistato.
“Uno scultore di un secolo fa aveva appena cominciato a sbozzare un grosso tronco di una vite millenaria cresciuta vicino a casa sua e uccisa da un fulmine, ma poi si è sparato una fucilata in bocca. Ora quel grosso pezzo di legno, sarà alto due metri e mezzo e peserà una tonnellata, è nel mio magazzino a coprirsi di polvere.” e senza volerlo avevo davvero scoperchiato il vaso di merda e avevamo cominciato a sguazzarci.
“Legno di vite?” ha detto sorridendo Lucio “Lo sai che è proprio il legno con cui gli antichi Greci hanno scolpito le prime immagini dei loro dei? E che l’albero colpito dal fulmine è sempre stato considerato sacro?”
“E sì, hai proprio ragione, e poi c’è la storia del suicidio dell’artista, il legno è ancora macchiato di scuro in un punto, e il nipote dell’artista mi ha assicurato che si tratta del suo sangue.” e ora so che lo era.
“Quanto vuoi per quel tronco?” mi ha chiesto con lo sguardo di un bambino che chiede il gelato alla mamma.
“Per me lo puoi prendere in regalo, io non so cosa farmene.” gli ho risposto, al che lui ha detto: “No, voglio che sia mio. Se non vuoi altro te lo pago un euro.”
“Va bene.” gli ho detto, e ho preso la monetina bicolore dalle sua mani. Poi ho aggiunto: “Se passi domani col tuo furgone, ti do il tuo pezzo di legno.” E così quella sera a Milano io e Lucio ci siamo tuffati da soli in un bel mare di merda che sì è rivelato molto più profondo di quanto potessimo pensare. –
Enzo, che era passato dalla parte del bancone dove stavano i clienti e si era seduto accanto all’hobbit in vena di confidenze, disse: - Se dice così mi incuriosisce davvero, comincia a sembrare un racconto del terrore. –
L’uomo sorrise sollevando a fatica gli angoli della bocca, poi disse: - E così le sembra un racconto del terrore? Buffo.
Ma penso che ora debba chiudere e toglierò il disturbo. – e fece per raccogliere la sua giacca e alzarsi.
- Non ci provi neanche! – disse Enzo – Oramai ha cominciato a raccontare e voglio sapere cosa è successo al suo amico. – poggiò sul bancone lo straccio con cui fino a pochi minuti prima stava spolverando i tavoli e versò dell’altra vodka pura nel bicchiere del cliente, e poi anche in un bicchiere che aveva preso per sé.
- E allora, dove ero arrivato? Ah ecco, le avevo raccontato di come avevo venduto quel vecchio pezzo di legno a Lucio per un euro.
Il giorno dopo alle quattro del pomeriggio Lucio si è presentato alla mia galleria e io lo ho portato nel magazzino, dove sotto a una vecchia coperta militare stava il tronco secolare di vite. Ho tolto la coperta inondando tutta la stanza di polvere e per la prima volta dopo anni ho visto quel legno, con la corteccia scura, il legno chiaro dove lo scultore del secolo scorso aveva cominciato a lavorarlo e una lunga striscia nera dove il fulmine l’aveva colpito.
“È solo un vecchio pezzo di legno, sarà tutto tarlato e non potrai cavarne un ragno dal buco. Per me è meglio se continui con performance e action painting.” Gli ho detto guardando il tronco che ci sovrastava di almeno settanta centimetri con i suoi spuntoni di rami ancora piegati come i contadini li avevano fatti crescere.
“Io invece penso che sia meraviglioso, mi sento come Michelangelo quando vide per la prima volta il blocco di marmo venato e sbozzato da cui estrasse il David. Comincerò a lavorarci stasera stessa.” Ha detto senza riuscire a staccare gli occhi dalla ruvida corteccia della vite, percorrendola con la punta delle dita come la schiena di una donna.
Abbiamo ricoperto il legno con la coperta e due miei inservienti lo hanno portato fuori rischiando di rompersi la schiena e bestemmiando in albanese al nostro indirizzo, mentre Lucio li seguiva guardando il tronco con lo sguardo affettuoso e preoccupato di una madre che vede il suo bambino tuffarsi per la prima volta in acqua. –
- E cosa ci voleva scolpire? – chiese il barista – Aveva già un’idea quel giorno? –
- No. Mi ha detto che non sapeva cosa c’era nascosto in quel vecchio tronco, ma che sarebbero state le venature stesse del legno a dirglielo durante il suo lavoro di ripulitura. –
- Beveva? – chiese il barista – Perché non è un discorso proprio normale.-
- No? Era la filosofia di Michelangelo, solo che lui usava il marmo, Lucio ci ha provato col legno. Mi creda se le dico che non beveva e che non era pazzo, magari lo fosse stato.
Per due settimane non l’ho più visto, poi gli ho telefonato e mi ha farfugliato poche parole così incomprensibili e confuse che il giorno stesso sono andato a trovarlo.
Mi ha aperto la porta e ho fatto fatica a riconoscerlo. Aveva i capelli un po’ più lunghi, tutti sparati per aria come se non li avesse lavati da un bel po’, la barba incolta gli era cresciuta sulla faccia in un modo irregolare e sgradevole, mentre la maglietta e i pantaloni che indossava sembravano avere bisogno di una bella lavata.
“Ciao!” mi ha detto abbracciandomi e ho sentito che puzzava di sudore vecchio, come un barbone “Devi vedere il tuo tronco, ci lavoro da quando l’ho portato qui, è meraviglioso!”
“Ma stai bene, Lucio?” gli ho chiesto guardandolo negli occhi che avevano delle occhiaie profonde e scure “Mangi ogni tanto?”
“Cosa?” mi ha chiesto come se non avesse capito la domanda, poi ha detto: “Sì, ieri ho mangiato qualcosa, mi pare.” E se ne è andato per il corridoio scomparendo in una stanza piena di luce. “Vieni?” mi ha urlato da lì e io l’ho seguito notando i riccioli di polvere e i trucioli di legno che coprivano il pavimento, fino a che sono entrato in questa grande stanza illuminata da una finestra-parete, uno stanzone enorme dominato dal mio tronco che Lucio aveva lavorato con vari strumenti da falegname e da scultore, sbozzandolo in vari punti e scolpendo totalmente un angolo in cui appariva quello che mi sembrava evidentemente un gomito umano ricoperto da spuntoni appuntiti.
L’intero tronco mi ha trasmesso un senso di fastidio come quello che provo per il sapore metallico del sangue quando mi sanguina una gengiva, ma i miei occhi continuavano a ricadere su quel gomito già perfettamente sagomato e rifinito, dove Lucio sembrava avere addirittura scolpito con la massima precisione le vene e i tendini, e se i miei occhi non mi hanno ingannato, persino i peli.
“Mio Dio!” ho detto guardando prima l’enorme pezzo di legno annerito e poi il mio amico “Impressionante!”
“Bello!” ha detto lui avvicinandosi al legno e accarezzandolo in un punto dove aveva dato solo pochi colpi di scalpello “Allora, che ne dici?”
“Be’, senza dubbio mi ha colpito.” ho tentato di dire qualcosa che potesse fargli piacere “È quello che dovrebbe fare l’arte, no?”
“Ecco! Tu hai capito quello che provo!” ha detto prendendomi per le spalle e facendomi voltare verso quell’enorme tronco sbozzato e indicandolo con una mano piena di tagli non curati e mezzi infetti “Quella è la prima cosa vera che faccio! Tutto quello che ho fatto fino a oggi era solo merda, roba per ricchi debosciati che vogliono distinguersi dalla massa.
Questa è arte, questa è una cosa viva” e la sua voce tremava alzandosi di almeno un’ottava “Questa è una cosa che guardandola ti fa sentire il sangue che ti scorre nelle vene, la vedi e ti parla all’anima, come una madonna con bambino o il Laocoonte, la puoi guardare per ore e ogni istante ti dice qualcosa di nuovo.” –
- E cosa raffigurava questa scultura? – chiese il barista.
- Niente! – rispose l’uomo – Era solo un abbozzo, neanche Lucio lo sapeva ancora, vi lavorava senza uno schema preciso, togliendo un truciolo qui e uno lì, come il legno gli diceva di fare, stupendosi a ogni colpo di scalpello di come cambiava la materia sotto le sue mani.
Quello che le posso dire che quel tronco, che già da anni mi inquietava ogni volta che entravo nel magazzino e lo vedevo sotto alla sua coperta impolverata, mi era diventato allora quasi insopportabile, suggerendomi un terrore fin nel midollo, come quando ero piccolo e dovevo attraversare il corridoio buio prima di arrivare nella mia cameretta. –
- E poi ha continuato a lavorarci il suo amico? –
- Sì. Ogni due o tre giorni lo andavo a trovare e lo ritrovavo in condizioni sempre peggiori, puzzolente come una capra e con gli occhi allucinati da drogato, mentre la massa di trucioli si alzava di volta in volta e il tronco che se ne innalzava mutava davanti ai miei occhi tramutandosi di lì a una settimana in due gambe muscolose e lunghe, le cui ginocchia avevano qualcosa di impercettibilmente sbagliato, come se non fossero state le gambe di un uomo, ma solo di qualcosa che lo imitava maldestramente. –
- Cazzo! – disse Enzo versando un altro dito di vodka nel bicchiere dell’hobbit che aveva ormai il naso e le gote arrossate, e che non sembrava più in grado di smettere di raccontare la sua storia.
- Non avevo più voglia di andare a trovarlo, dopo averlo visto così ridotto, dopo aver visto quell’enorme scultura di legno che cambiava ogni volta che la vedevo, ma lo stesso ogni giorno andavo da lui e lo osservavo al lavoro, mentre scalpellava quel legno antico liberando quello che da dentro invocava il suo aiuto per liberarsi, mentre si feriva le dita e continuava imperterrito, macchiando il legno chiaro e annerito lasciandovi tracce che da rosse diventavano di giorno in giorno brune e vecchie come il legno su cui si trovavano. –
- Le faceva paura e continuava lo stesso ad andare a vederlo? –
- Mi chiede se mi faceva paura? No. Mi terrorizzava, ogni volta che guardavo la larva che era diventato Lucio e la folle massa di forme umane, animali e altro che stava tirando fuori da quel vecchio tronco, pensavo che il mio cuore si sarebbe fermato, anzi, le dirò, avevo quasi l’impulso di strapparmi via gli occhi pur di non vedere quello che avevo lì davanti a me, ma ogni sera dopo il lavoro tornavo lì e vi rimanevo sempre più tempo. –
- E poi? – chiese Enzo.
- Come fa a sapere che c’è un poi? –
- C’è sempre un poi, tutte le storie raccontate a questo bancone hanno un poi ad un certo punto. –
L’uomo sorrise e disse: - E infatti c’è anche qui.
Poi, una sera della settimana scorsa, mentre ammiravo Lucio che scolpiva una mano della sua creatura, una mano che aveva dieci dita, alcune palmate, altre con ventose al posto dei polpastrelli, altre con lunghi artigli e altre che semplicemente avevano qualcosa di impercettibilmente sbagliato, mi creda, le peggiori da vedere, mi è sembrato di cogliere qualcosa con la coda dell’occhio, un particolare che non è arrivato al livello della mia coscienza ma si è fermato appena prima, e sono fuggito.
A casa, cambiandomi, perché per il terrore mi ero pisciato addosso, ho capito che non sarei mai tornato in quella casa.
E fino a stasera effettivamente non vi avevo più messo piede. –
- E cosa aveva visto? – chiese Enzo versando dell’altra vodka, poca perché l’hobbit era già a buon punto di cottura e troppo alcool l’avrebbe steso del tutto, impedendogli di finire il racconto.
- Anche questo particolare è un poi. Arriverà tra un po’.
Ieri sera, poco prima delle sette di sera, Lucio mi ha telefonato e ha cominciato a parlare come una macchinetta, mangiandosi le parole e urlando nel telefono. Voleva che andassi da lui per vedere il momento più importante della sua vita. –
- E cioè? –
- Stava per terminare la scultura, mancavano solo tre colpi di scalpello e una bella limatura e “…la creatura sarà libera! Devi venire qui, devi assolutamente esserci, perché è la mia opera più importante, mi sembra quasi che mi stia guardando, che mi parli con una voce più antica dell’arte stessa!”
E io non ci sono andato, ho inventato scuse e ho ignorato le sue preghiere e i suoi insulti, alla fine gli ho sbattuto in faccia il telefono, perché sapevo che se fossi stato lì sarei potuto morire. –
- Cazzo! – disse Enzo – Ma poi c’è andato. –
- Sì. Stamattina non sono andato al lavoro e mi sono invece diretto a casa di Lucio, senza aver dormito un solo secondo e sapendo dentro di me che avrei visto un qualcosa che mi avrebbe cambiato per sempre.
Ho bussato e ho suonato il campanello, ma non mi ha risposto, così ho usato le chiavi che mi aveva dato anni fa, quando andavo spesso da lui per prendere piccole opere che vendevo nella mia galleria.
L’odore di rame impregnava l’aria a un tal punto che ho temuto di vomitare lì nell’ingresso, ma mi sono fatto coraggio e sono entrato, andando verso il salone dove sapevo che li avrei trovati.
Il tronco non c’era più. Al suo posto c’era un qualcosa che ho stampato qui nella mia mente, ma che non proverò neanche a descrivere, perché non ci sono parole umane che lo possano fare.
Era alto, enorme, con lunghi arti rapaci e al posto della faccia aveva tutto il dolore e la rabbia del mondo. Ho visto parti maschili e parti femminili, ma unite in un modo malvagio, ali e artigli, denti e ventose, tutto di legno ma tutto vivo.
E, sparso per tutto il salone, Lucio, smembrato in pezzi minuscoli, lanciato sui muri e negli angoli del salone, spalmato sul vetro della grande finestra, lacerato da unghie e zanne, masticato da fauci maligne e bruciato da fiamme sulfuree. Intorno alla statua c’erano ancora i trucioli da cui era emersa, tra essi vedevo le impronte orrende dei suoi passi. Là dove Lucio aveva finito di vivere, ma ne sono sicuro non di soffrire, stavano ancora il martello, lo scalpello e la lima.
Facendomi coraggio ho alzato gli occhi su di esso, e ho visto le sue mani e le sue bocche grondare del sangue ormai annerito del mio amico.
E ho visto finalmente quello che allora avevo solo intuito: pur essendo fatto di legno, vedevo le vene che tanto abilmente Lucio aveva scolpito seguendo le venature di quel legno millenario, pulsare sotto i miei occhi mentre un sangue nero vi scorreva dentro.
Sono fuggito da lì senza voltarmi indietro, perché se lo avessi fatto il mio destino sarebbe stato ben peggiore di quello della moglie di Lot che divenne di sale, ma prima di uscire ho appiccato il fuoco ai mobili del salotto e sono andato in cucina e ho aperto tutti i rubinetti del gas.
Spero che un legno tanto antico e compatto sappia ancora bruciare. Spero che le fiamme possano distruggere quello che Lucio ha creato. –
FINE