lunedì 13 dicembre 2021

La Maledizione del Tartaro. III

 Ed ecco il terzo e ultimo capitolo. Non è la cosa che ho scritto meglio, assolutamente no. 

Però è una cosa che, dopo anni, ce l'ho fatta a finire. Ed è la fine di questa avventura di Okaka. Altre ne verranno, spero. Comunque, buona lettura!

La Maledizione del Tartaro, 3.

Dormì come un sasso, ma si svegliò almeno sei volte quando dall'esterno della palizzata arrivarono i gemiti di quelle cose. E sei volte ripiombò in quel sonno privo di sogni che usava come uno scudo per sopravvivere a quella vita inumana. All'alba si svegliò e, prima di alzarsi per andare giù nel Tartaro rimase per qualche minuto a pensare. A volte, negli anni precedenti, al risveglio aveva notato con affetto un tremito nell'aria vicino a lui, la piccola Leka, la ragazzina che era morta tra le sue braccia e che era rimasta, come spirito succhiasangue accanto a lui per un bel po' salvandogli la pelle più volte fino a che era stata uccisa da degli innominabili mostri a forma di lumaca combattendo al suo fianco. Faceva la guardia al suo amico. Gli mancava quella compagnia, gli mancava averla al suo fianco nelle battaglie, gli mancava preoccuparsi riguardo al suo diventare sempre più un demone e sempre meno una ragazzina. Gli mancava la sua amica, l'unica che avesse in effetti mai avuto.

Si alzò, mangiò dei frutti e uno strano pane gommoso che preparavano le donne del villaggio e poi, accompagnato dall'anziano stregone fino alla palizzata, uscì armato del suo randello, del suo pugnale di ossidiana e del suo coraggio. I duemila passi fino all'entrata del tunnel che si infilava nella montagna sarebbero senza dubbio stati mille e ottocento passi di troppo per chiunque per sopravvivere tra quei mostri antropofagi, ma lui li evitò senza problemi e ne fece stramazzare al suolo più di una decina durante il tragitto. Una torcia gli avrebbe impedito di usare un braccio per combattere e nel buio quei cosi, probabilmente, sarebbero stati ciechi come lui e quindi si lanciò nel buio senza tentennamenti.

Camminò per almeno un'ora, uccidendo nel frattempo un paio di quei morti basandosi sui loro gemiti e sull'eco della galleria. Poi, semplicemente, perse la cognizione del tempo e seppe solo che stava scendendo. L'aria era più densa, immobile, umida, e calda. Molto calda. Continuò a camminare, chiedendosi se mai avrebbe rivisto la luce del sole, se mai avrebbe mangiato di nuovo una ciliegia, se mai le sue mani avrebbero potuto toccare le calde carni di una donna, mentre camminava e l'aria diventava più densa e pesante, fino a che si accorse di vedere. Una luminescenza verdastra, il colore di un fuoco fatuo pensò con un incontrollabile ribrezzo, riverberava dalle pareti di quella mostruosa galleria che era sterminata come il tempio del dio Azul che aveva visto nella calda terra di Leimon. Ma, naturalmente, continuò a camminare. Passò così tanto tempo che pensò quasi di fermarsi a dormire, ma, improvvisamente, giunto in un punto che non sembrava avere nulla di diverso dagli altri, seppe di essere arrivato. Il terrore e la paura, sentimenti che non aveva più sentito da almeno trenta anni, quando qualcuno lo aveva strappato dalla sua sconosciuta madre, lo colmarono bloccandolo sui suoi piedi. Un uomo normale sarebbe morto per la forza di quei sentimenti, un eroe sarebbe fuggito. Il gigante dalla pelle d'ebano avanzò, superò quel confine invisibile di morte e sofferenza e seppe di essere nel Regno dei Morti.

La luce che aveva visto già da così lontano era quella delle anime, le anime dei morti erano lì e si muovevano. Erano così tante che non si sarebbero potute contare in mille vite, strette una all'altra a camminare senza una ragione, lamentandosi e piangendo.

Erano corpi, nudi, evanescenti, emettevano luce e e si lamentavano emettendo alte grida senza alcuna ragione apparente. Erano ovunque, andavano in tutte le direzioni e sembravano attraversarsi l'una con l'altra senza riuscire ad accorgersi l'una delle altre.

Per la prima volta in vita sua era spaventato, la sua pelle era tutta un fremito di brividi e, lo stesso, avanzò verso il centro di quell'antro senza fine che era il Regno dei Morti. Attraversate le schiere di anime afflitte, un paio gli parve purtroppo di riconoscerle, cominciò a vedere la sua meta. Il suono di un flauto riusciva a perforare quel muro di rumore e lo guidava nella direzione giusta. Là c'erano degli esseri, qualcosa di non descrivibile in termini umani; insetti, leoni, funghi, edera, nebbia, scimmie, erano tutto questo ed erano altro, e appariva la loro intelligenza, anche se … ballavano, ballavano tutti in cerchio attorno al loro re, un qualcosa che assomigliava a un essere che lui aveva già visto anni prima, in cima a una montagna dove si cibava di deformi guerrieri che aveva fatto trasformare in cinghiali. Sì, questa mostruosità era in qualche modo imparentata con un mostro che lui aveva ucciso anni prima, quando la piccola Leka aveva cominciato a seguirlo. Solo che quella che lui aveva ucciso era come un topolino paragonato a una balena, e non solo come dimensioni.

E questo essere, questo re degli Inferi, ballava come ipnotizzato dal suono della siringa suonata da un uomo. Il musicista del paese che era andato laggiù per riprendersi la sua donna, e che era tornato su simile a un vecchio causando quell'invasione di morti viventi. Eppure era ancora qui, a incantare un dio folle e pazzo al centro dell'oltretomba. Altre anime si stavano ancora liberando, erano come collegate al dio pazzo, erano loro a formarlo, in realtà, lui da loro traeva la forza e il nutrimento, lui le controllava e le trascinava giù negli Inferi incanalandole il dolore e la fame.

Okaka crollò a terra, colpito dall'enormità di quello che stava vedendo, e dall'orrore che significava. Dopo la morte non c'era un premio per i Giusti in un verde giardino ricco di acque dolci e frutti, perché proprio ora aveva visto il suo amico Neto sorgere da sotto al dio folle, e Neto era stato uno dei pochi Giusti che lui aveva conosciuto, e non c'era una punizione per i malvagi, e la donna che aveva ucciso per divertimento un fanciullo e che lui aveva ammazzato con le sue mani a tredici anni, una malvagia se lui ne aveva mai conosciuta una, era uscita dalle spire del mostro poco dopo di lui.

Quindi, o avvinti tra le spire di un mostro per l'eternità o in eterno persi a lamentarsi. Se questa era la verità, perché tutti credevano in pietose bugie? Quanti anni gli restavano? Quanto, prima di finire lì? Si alzò e andò verso il musicista, che sembrava ipnotizzato come il dio folle al centro dell'oltretomba. Almeno avrebbe salvato il mondo dei vivi, sì, però …

La cercò in quella torma di anime disperate, doveva essere lì. Doveva esserci anche sua madre, lì, ma non sapeva che faccia avesse. Persa per sempre, in eterno, ma lei … la vide, poi, una ragazzina che urlava dalla disperazione, non il demone che aveva conosciuto, ma forse almeno lei … si ferì la mano col pugnale e bagnò il viso dell'anima col suo sangue. Smise di urlare, lo guardò e “Gigante, tu sei qui?” ed era di nuovo Leka. Sorrise felice e spietata come sempre e scomparve in un tremolio dell'aria. Sì, almeno lei, sì. Tornò dal musicista che continuava a suonare imperterrito la sua siringa e fece due cose. Bagnò il suo voltò di sangue e, mentre per un attimo riacquistava un corpo, lo accoltellò con il suo pugnale. L'anima si disfece in un rivolo di oscurità e il dio parve oscillare, poi aprì quelli che, forse, erano occhi e guardò Okaka.

Grazie, mortale.” disse e i suoi servi si lanciarono all'inseguimento delle anime che cominciarono a tornare ai loro posti. Anche Neto, che, per un attimo, parve riconoscere il suo antico mozzo. Per un attimo, prima di perdersi nel dio di nuovo potente.

Vai ora, o mortale.” disse la voce del dio risuonando nell'enorme cavità. “Non tornerai mai più qui,” disse e tacque.

Chiedendosi cosa significasse quella frase Okaka rientrò nella galleria sempre più buia e tornò, dopo molto tempo, all'aperto, dove i morti erano tornati a giacere da qualche ora.

Al villaggio lo festeggiarono e fu trattato da eroe, cibi e canti gli furono offerti, donne fecero capire di voler giacere con lui, un suo ritratto fu scolpito su una roccia e tutti ballarono intorno a un falò per festeggiare, ma lui ascoltava i rumori che provenivano dalla foresta. Ogni tanto un animale urlava, la sua amica tornava velocemente alla vita, nutrita dal sangue dei vivi.

Il vecchio stregone poi si sedette accanto a lui e gli chiese: “Come è il Regno dei Morti, o Gigante?”

Okaka rimase in silenzio cercando le parole giuste, si guardò intorno e poi disse: “Meraviglioso per i Giusti, vecchio, e doloroso per i Malvagi. Ma soprattutto meraviglioso per i Giusti.” e sorrise al vecchio.

Non tutti avrebbero potuto sopportare di conoscere la verità.

FINE


venerdì 10 dicembre 2021

La Maledizione del Tartaro. II

 E, dopo qualcosa come sei anni scarsi, arriva il secondo capitolo della quarta avventura del nostro gigante Nubiano.

Rimanete in attesa per il seguito, ho una mezza idea su come far finire il tutto.

La Maledizione del Tartaro. II.


L’alba illuminò lentamente le cose che lo aspettavano. Erano stati uomini, donne e bambini, ma non lo erano più. Cadaveri ambulanti, ecco cos’erano, cadaveri ambulanti e affamati. Camminavano in tondo barcollando come ubriachi e alzavano le braccia scheletriche verso di lui, che era totalmente fuori dalla loro portata, agitando le loro dita rattrappite e mordendo l’aria tra un sibilo e l’altro. Erano dodici, bassi ed esili, molti di loro portavano ancora traccia delle ferite che li avevano uccisi e ad alcuni di loro mancavano interi arti. Uno di loro, un maschio che sembrava essere morto da non troppo tempo, indossava ancora dei vestiti putridi che avrebbe potuto utilizzare per scaldarsi in quella mattina fredda e ventosa; saltò giù dall’albero e, a forza di pugni e calci abbatté una decina di quei cosi, un altro lo decapitò e, alla fine, affrontò quello grosso e ancora vestito, stando attento a non rovinare quel poco che indossava. Tempo pochi minuti e li aveva eliminati tutti e aveva trovato da coprirsi. Ora doveva solo muoversi e scoprire cosa avesse creato quelle cose, come eliminarle e se esistesse ancora qualcuno di vivo in quella terra.

Camminò in quella mattina fredda in mezzo a lande desolate e abbandonate, campi coltivati lasciati alle erbacce, villaggi bruciati e semi diroccati e, soprattutto, torme di cadaveri ambulanti che si aggiravano con il loro passo lento e ciondolante in ogni luogo, quando non erano costretti dall’assenza di arti a strisciare in mezzo all’erba alta. Ne uccise più che poteva e, quando erano troppi, scappò. Arrivò a al momento in cui il sole era alto nel cielo prima di vedere qualcuno vivo. Una donna e un bambino, fuggivano da dei morti che li inseguivano. La donna, uno scricciolo alta sì e no come mezzo Okaka, era ferita e trascinava una gamba. Sul polpaccio spiccava un morso umano. Il bambino sembrava sano. Okaka saltò giù dalla roccia su cui era salito e, con un robusto bastone che si era procurato divellendolo da una staccionata, l'arma migliore per abbattere quei morti viventi come aveva scoperto nelle ultime ore, fece strame di quell'orda di mostri in meno di sette respiri. La donna strisciò verso di lui parlando in una strana e incomprensibile lingua, per quanto il gigante di ebano parlasse cento lingue, sempre altre cento ancora più incomprensibili erano quelle che gli parlavano le genti che incontrava, gli diede il bambino che sembrava prossimo alla morte per sete, fame e fatica. Okaka la rassicurò prendendo il bambino e guardò senza troppe cerimonie la gamba della donna. L'infezione era risalita oltre al ginocchio e neri fili di morte risalivano sotto pelle fino allo sterno e alle braccia. Un occhio era iniettato di sangue. Guardò prima i morti e poi la gamba di lei e lei annuì. Disse una parola senza senso per lui, la ripeté e indicò il bimbo ripetendola per la terza volta. “Sì, il bambino.” disse lui annuendo e sfiorando la testa sporca del cucciolo con fare paterno. Lei annuì e sorrise, poi, poggiata la mano sul bastone, se lo poggiò sulla testa annuendo. “Sì.” disse il gigante e, veloce e delicato, le evitò senza dolore di divenire uno di quei mostri. Altri stavano arrivando, lontani tra gli alberi o nell'erba alta, ma aveva il tempo di raccogliere un po' d'acqua dal pozzo per il bambino. Vicino c'era una collina e vi salì sopra, vedendo, a non più di due ore di cammino, un villaggio circondato da una palizzata. Un filo di fumo saliva da una capanna, un filo regolare, da focolare, non il risultato di un incendio. Raccolto un frutto e datone metà al bimbo che lo mangiò come un piccolo animale affamato, si preparò alla corsa che lo aspettava. Un uomo che avesse passato quello che aveva passato lui in mare e in terra nelle ultime ore si sarebbe accasciato in terra senza forze, ma lui era Okaka del Mare dei Mostri e la fatica non lo aveva mai preoccupato. Partì di corsa e, tranne un paio di volte che fu costretto a fermarsi per sfondare il cranio a due piccoli gruppi di cadaveri rianimati, riuscì ad evitarli grazie alla sua velocità e alla furtività sviluppata nei suoi anni lontani anni da ladruncolo a Kaunia, la città di pietra sul mare che ricordava con una specie di crescente nostalgia.

Arrivato alla palizzata che circondava il villaggio fu fatto entrare da tre guerrieri armati di lance che esaminarono i corpi suoi e del bambino con cura che sarebbe sembrata eccessiva a chiunque tranne che a chi fosse stato inseguito da un morto vivente. Poi, rivestiti con dei panni puliti, furono portati davanti a uno stregone che offrì loro del povero cibo, pannocchie e carne secca e che raccontò, a gesti e con poche parole kainuane che conosceva, come da una settimana la loro isola fosse stata invasa dal morbo della morte famelica.

Come è successo?” gli chiese il nubiano rosicchiando l'ultimo pezzo di durissima carne secca che aveva il sapore di una mummia del Kitai.

Il nostro cantore aveva perso la sua sposa annegata in mare e ha vegliato il suo corpo per giorni, poi ha detto che avrebbe commosso gli Dei dell'Oltretomba con la sua musica per farla tornare indietro e si è infilato in un cunicolo che sorge sul fianco della montagna di fuoco che torreggia sui nostri villaggi.”

Avrebbe commosso gli Dei dell'Oltretomba con la sua musica?” chiese incredulo il gigante nubiano e l'uomo annuì. “È tornato sei giorni dopo …” disse il vecchio stregone “... e, con l'aspetto di un vecchio morente e lo sguardo folle, ha baciato il corpo della sua donna che avevamo conservato nella camera dell'affumicazione. Quando l'ha baciata sulla bocca lei si è rialzata e ha morsicato lui e due guerrieri.

Da allora la cosa si è diffusa come una lebbra e solo con enorme fatica e sacrifici abbiamo salvato, per ora, il nostro villaggio.”

Ha detto qualcosa, lo stolto, prima di morire o … trasformarsi?”

il vecchio annuì e disse: “Ha detto che a causa sua gli Inferi sono nel caos e che, quando i morti non possono più essere contenuti negli Inferi, camminano tra i vivi.”

Okaka annuì in silenzio e finì la sua coppa di latte fermentato. Rimase in silenzio ripensando a quello che aveva saputo e poi si alzò. “Vado a dormire fino a domani, e poi andrò a riparare il danno fatto da quel folle.”


mercoledì 20 ottobre 2021

Recensione di "Sette sconosciuti a El Royale"

 

Sette sconosciuti a El Royale, USA 2018, scritto e diretto da Drew Goddard.


Un motel nel 1969, un tempo molto importante e ora semideserto, un gruppetto di persone sconosciute le une alle altre, una tremenda pioggia incessante... Identity con Cusack e Liotta? No, Sette sconosciuti a El Royale.

Allora, spoilererò senza pietà, vi avverto, ci sta il pigro portiere/uomo delle pulizie/cuoco che in realtà è un drogato, ma in realtà spia la gente per qualcuno di ignoto, ma in realtà è un cecchino infallibile e pentito.

C'è il prete cattolico un po' svanito che in realtà è un ex galeotto finito in carcere per rapina e che è uscito dal carcere con un bell'Alzheimer galoppante.

C'è la odiosa hippie con auto sportiva che in realtà è un'odiosa sorella maggiore che ha rapito, con l'auto sportiva, la sorellina plagiata da una specie di Charles Manson versione Thor (Se il film fosse stato girato negli anni 80 o 90 nella parte ci avrei visto da dio proprio il nostro Jeff Bridges).

C'è la sorellina nel bagagliaio, matta come un cavallo.

C'è il commesso viaggiatore chiacchierone che in realtà è un agente dell'FBI che deve recuperare microfoni nascosti e farsi i cavolacci suoi, ma che vorrà fare l'eroe.

Insomma, tutti fingono, no? Ah, no, la cantante nera è una cantante nera che non fa altro che cantare, e di falso ha solo la parrucca.

E c'è il tesoro nascosto, una bella borsona piena di fruscianti dollaroni nascosta dal fratello del non-prete dieci anni prima, subito prima di essere ammazzato da … boh?

Comunque il film comincia con un uomo che entra in una stanza, sposta i mobili, arrotola la moquette, smonta il pavimento, nasconde la borsa, rimette tutto a posto, apre la porta e viene ammazzato. Bella la scena, si capirà poi che è un'inquadratura fissa perché è vista da dietro un finto specchio, ma … chi lo uccide? Mistero. Chi lo spiava o riprendeva? Nessuno, visto che 10 anni dopo i soldi erano ancora lì. Errori grossolani di sceneggiatura, questi.

Passano dieci anni, arrivano i protagonisti, uno alla volta un segmento racconta chi sono e i segmenti si incrociano portando avanti la storia. E poi, dopo spari, morti, bottigliate in testa, e canzoni, tante, troppe canzoni cantate dalla brava Cynthia Erivo, (Cioè. Le due canzoni che canta quando è spiata attraverso il falso specchio sono dei pezzi di bravura per come legano alla storia e danno ritmo, ma mi pare che canti otto volte. Se volevo ascoltare musica mi compravo un disco delle Supremes.) dopo tutto questo, dicevo, arriva Charles Thor Manson, cattivo e carismatico, oltre che con la camicia aperta perché c'ha gli addominali scolpiti. E qua comincia a fare la roulette russa, e ammazza un personaggio, grazie per lo spoiler nella pubblicità Rai4!, e poi lotta col non-prete e il cecchino pentito risolve tutto morendo in pace perché confessa i suoi peccati a un falso prete.

E alla fine la Erivo canta, ma non ce la fanno sentire, e il falso prete, sempre con l'Alzheimer incipiente, ma vestito bene, la ascolta tra il pubblico.

Ci delude Goddard dopo l'exploit di Quella casa nel bosco? Sì, ci delude.

Ha difetti il film? Sì, a bizzeffe. È un brutto film? No, non è brutto ed è divertente.

Ci sono tante cose lasciate lì, l'assassino del rapinatore, il padre del cecchino che vuole che spari, il padre(?) violento delle due ragazze ucciso da loro (?), i misteriosi spioni che non si sa chi siano, però c'è uno splendido motel che è più che scenografia, c'è una cura enorme nella costruzione delle scene con incastri a orologeria, ci sono attori bravi, alcuni bravissimi, la Erivo e Hamm. E un mostro come Bridges.

E poi, la vera ragione per cui il film mi piace, c'è quella strizzata d'occhio cinefila che è il personaggio di Jeff Bridges, un rapinatore che cerca un vecchio bottino vestito da prete. Mi riferisco a "Una calibro 20 per lo specialista", di Michael Cimino, 1974, uno di quei film che rimangono nel cuore. Il Clint, l'unico e il solo, era un rapinatore che cercava un bottino di una vecchia rapina, nascosto in un muro, e lo faceva vestito da prete, e il suo aiutante, straordinario per bravura nei suoi 25 anni, era Jeff Bridges. E poi, come qui il personaggio si perde ogni tanto per la demenza, il suo personaggio di allora moriva in scena per un colpo alla testa, spegnendosi lentamente da un lato all'altro, prima la mano, poi la gamba trascinata, poi la testa piegata e la bocca che pendeva da un lato, sempre sorridendo e parlando col Clint che lo vedeva, sgomento, morire.

Ecco, fate pure un film con dei difetti, dimenticate personaggi e metteteci più canzoni che nei Blues Brothers, ma fatemi una strizzata d'occhio simile a un film che amo e vi darò il voto ...10!

martedì 7 settembre 2021

Un'idea balzana.

E se il protagonista di un giallo, se il Sherlock Holmes, l'Auguste Dupin, l'Hercule Poirot di un romanzo fosse un cane?

Quanto si potrebbe rendere credibile una storia simile? Quanto dovrebbe essere sospesa la credulità del lettore per fargli credere che un cane indaghi per salvare una persona in pericolo? Si potrebbe spostare il piano delle indagini solo e soltanto su un livello canino fatto di odori, suoni e immagini?

Questo è un primo capitolo di prova, e l'investigatore è Peste, il mio cane, non troppo diverso da come è in realtà. 


PROLOGO


Era sceso dall'autobus numero 7 una mattina di primavera, tranquillo, libero, amichevole con tutti. Subito si era seduto davanti al negozio del pollivendolo che prepara quel meraviglioso pollo arrosto che mi compro una volta a settimana, e il signore era uscito dopo qualche minuto con una fettina di arrosto di tacchino che lui aveva mangiato con calma e ottimo appetito. Una leccata alla mano dell'uomo era stato un ringraziamento molto gradito. Poi era andato alla fontanella e aveva spinto il pomello di acciaio con la sua zampa bevendo al volo l'acqua che cadeva sulla grata.

Il quartiere gli era piaciuto e lì era rimasto a vivere. Era alto forse una quarantina di centimetri al garrese, ma era tanto magro da sembrare più alto. Come tutti i levrieri aveva il naso lungo e sottile, appena un po' aquilino nel suo caso, e il suo sguardo era sempre attento, a parte quando, ogni tanto, sembrava perdersi tra ricordi e fantasie e socchiudeva i suoi grandi occhi nocciola e muoveva solo le narici e le orecchie seguendo la brezza.

Addosso, a parte la sua pelliccia nera appena un po' sbiadita dal sole e brizzolata dagli anni, aveva solo un collarino di cuoio nero e sul collarino una medaglietta di ottone con su scritto “Peste”, solo il nome, niente numero di telefono del padrone.

Le prime notti dormì accanto al bidone della spazzatura, dove qualche sporcaccione aveva gettato un divano sfondato, ma poi entrò nel mio giardino e mi fece capire che gli piaceva il mio sottoscala. Una cuccia, un cuscino e una coperta apparvero come per magia il giorno dopo, se il fatto che io li avessi portati si può definire magia, e qualche tavola di legno andò presto a ripararlo dagli spifferi. Da allora dorme lì, non è il mio cane e io non sono il suo padrone: quello, se esiste, non lo ha mai cercato e io mi limito solo a portarlo dal veterinario quando deve fare le vaccinazioni e gli lascio una ciotola di croccantini e dell'acqua fresca e pulita. Lui in cambio mi sta accanto quando lavoro in giardino o leggo un libro e, quando ne ha voglia, mi lancia la pallina per farmi giocare.

La sua casa è il quartiere, lo gira in lungo e in largo, ha tutta una sua ghenga di amici umani in ogni negozio che lo rifornisce di leccornie in cambio di coccole e un branco di cagnetti di tutte le taglie, alcuni alti il doppio di lui e di almeno sei volte più pesanti del suo esile corpo da levriero, che eseguono i suoi ordini e aspettano in silenzio il suo giudizio.

Capii definitivamente che non era un cane normale, il dubbio in realtà lo avevo già da un po', quando la Marta arrivò piangendo in piazzetta. Siamo un quartiere che è un piccolo paese, con al centro la piazzetta e nella piazzetta il bar. Io ero lì con la mia birra in mano, seduto su una scomoda sedia di alluminio a leggere la Gazzetta, quando la Marta è arrivata in lacrime perché aveva perso le chiavi di casa. Era uscita per andare a comprare qualcosa di importantissimo come un mezzo litro di latte o una sciarpa di seta, non mi ricordo, ma comunque aveva girato per tutto il quartiere per una buona mezzora, fatta la tara un'ora e qualcosa, e arrivata a casa non aveva trovato le chiavi nella borsa. E ora come sarebbe entrata in casa? I vigili del fuoco avrebbero sfondato la porta e lei … il mio cervello aveva già cominciato a ricordare le canzoni dei Queen per salvarsi da quel perpetuo pianto quando Peste era arrivato col suo passo sicuro e dinoccolato, è probabilmente il gigante più basso della Galassia, e si è avvicinato a Marta. Dovete sapere che Peste è gentile con tutti, ma preferisce alcuni ristretti gruppi di persone, e precisamente le donne, le donne giovani, e le donne giovani e belle. Marta avrà avuto forse 29 anni all'epoca e brutta non è di certo, e così il Peste, vedendola piangere, si avvicinò per controllare. Lei interruppe la geremiade per accarezzargli la piccola testa e poi ricominciò a piangere. Tutti guardavano lei e io guardavo Peste. La annusava. Si alzò per un attimo ad annusare la borsa, infilando con gran fatica il suo naso affilato all'interno, poi annusò le gambe della donna e infine, con estrema cura, annusò i suoi piedi. Poi partì nella direzione da cui lei era arrivata. Lasciai cinque euro sotto al bicchiere vuoto della mia birra e gli andai dietro.

Camminava impettito, guardando continuamente a destra e a sinistra, e ogni pochi passi, quando vedeva una pianta, o una cartaccia o una pozzanghera, si fermava ad annusarle. Arrivato a un bivio fece pochi passi a destra, annusò in terra, si fermò ad occhi chiusi, poi tornò indietro e andò a sinistra. Dopo un'altra annusata ripartì con decisione, guardò dentro alla porta di un negozio, esaminò con cura una carta di una caramella al miele, Marta le mangia sempre, poi attraversò la strada e annusò un ciuffo di erba che cresceva vicino a una vetrina di un negozio di scarpe, poi ripartì e, sempre fermandosi ad annusare cose apparentemente insignificanti, arrivò in un piccolo slargo del marciapiede che era all'ombra. Il posto adatto dove guardare lo smartphone senza fatica, camminò tra l'erba resa verde e folta dalle ultime piogge e, dopo pochi passi tortuosi, trovò le chiavi. Erano legate a un nastro e così lui le prese in bocca e, dopo avermi fatto un cenno cn la sua piccola testa appuntita, ripartì a passo veloce raggiungendo in pochi minuti la ragazza che, naturalmente, stava ancora piangendo. Le si avvicinò, le sfiorò il ginocchio con il naso umido e, mentre lei si girava per guardare cosa l'avesse sfiorata, si alzò in piedi poggiandole praticamente in mano le chiavi. Temetti di dover prendere al volo i bulbi oculari di Marta, da tanto li strabuzzò vedendo il minuscolo levriero che le riportava quello che aveva perduto, ma poi si accucciò e baciò il cane che, aveva una posizione di un certo livello, insomma!, fece doverosamente finta di non gradire quelle smancerie. Poi ordinò per il cane un piattino di prosciutti e se ne tornò a casa tutta contenta mentre il cane si godeva il premio ottenuto.

Annusandole le gambe e le scarpe aveva riconosciuto i posti dove era stata e, annusando l'interno della borsa, aveva identificato l'odore di caramelle al miele che l'avrebbe guidato a trovare le chiavi. Un genio della deduzione, con il cervello grande come un gheriglio di noce.

Peste, il protagonista della nostra storia.


mercoledì 19 maggio 2021

Demoniaca.

 

1. Nella locanda.


Si erano fermati solo per un boccone e una birra, non volevano certo passarci la vita in quel paese abitato dalla famiglia Fetusu di Chi l'ha visto, ma non avevano considerato la Coppa Italia. Atalanta e Juve dovevano avere una densità di tifosi del 110% in quel maledettissimo pidocchioso cesso di paese.

Lasciarono l'auto a una certa distanza dalla porta, nella parte più in ombra del piazzale davanti al bar, pub, mescita di vini, osteria o bettola che la si volesse chiamare. Entrarono nel locale che sembrava un incrocio molto ben riuscito tra il Titty Twister e l'Agnello sgozzato e si sedettero a un tavolino di legno che un buon archeologo avrebbe potuto datare con la dendrocronologia all'epoca più buia del periodo più nero del Medio Evo. In tivù, incredibilmente uno schermo piatto e non un tubo catodico avanzato dagli esperimenti nazisti delle olimpiadi di Berlino, Pirlo festeggiava impazzito per l'unico straccio di trofeo vinto dal suo squadrone.

Salve” disse la barista che sembrava Pirlo senza barba, “Cosa desiderate?”

Guido guardò Agata e disse: “Vorremmo due birre medie e qualcosa da mettere sotto ai denti, per favore.”

Ho dell'arrosto con patate.” disse la donna guardandoli con sospetto. Magari li aveva presi per rapinatori in fuga.

Ottimo” disse Agata. Poi, mentre aspettavano la loro cena, guardarono la gente. Tutti abbastanza giovani, nessun vecchio. Guardavano la televisione senza partecipare assolutamente alla gioia dei rubentini allo stadio, eppure in Italia la Juve smuove sempre i cuori dei tifosi, in un modo o nell'altro. E invece niente, una massa di zombie che guardavano i festeggiamenti senza alcuna reazione. Sembravano spaventati, come se loro fossero stati dei rapinatori.

Ce li hai dei soldi?” chiese lei.

Sì.” disse lui, e dalla tasca del giaccone che aveva appoggiato ripiegato sulla panca vicino a lui, tirò fuori una mazzetta di banconote da 50euro ancora chiusa nella sua fascetta.

Ma non bisognerebbe aspettare mesi prima di spenderli?” disse lei.

Ho solo questi.”

Noi siamo troppo scemi per fare i ladri,” gli disse lei citando un film che lui non parve riconoscere, “noi al massimo dovremmo andare a lavorare”.

Lui le sorrise e disse: “Ci vorrà anche una bottiglietta d'acqua per la commessa.

Per me quella puttana può anche morirci di sete là dentro.” gli rispose Agata con una smorfia di disgusto “Ha tentato di schiacciare il tasto segreto.”

Lui la guardò con una smorfia buffa e disse: “È il suo lavoro, dopotutto” e poi la baciò. “Siamo ricchi, Agata, ricchi.”

E siamo in fuga, Guido, in fuga.”

In fuga, io, te e quella troia di cassiera, una è di troppo.” disse acida lei e poi cominciarono a mangiare l'arrosto portato dalla barista. Era davvero brutto, ma morbido e gustoso. Anche le patate andavano bene, solo un po' unte.

Poi, poco prima di mezzanotte, mentre la gente intorno sembrava raggomitolarsi nel terrore come i buzzurri di un film su Frankenstein, Guido chiese alla barista se gli poteva dare una bottiglia d'acqua per il cane in macchina.

Ma gliela portate adesso?” chiese la donna che sembrava sul punto di farsela sotto.

E quando, scusi?” chiese lui tra lo spazientito e il divertito.

Perché è quasi mezzanotte.” disse la donna, e poi, dopo essere stata sul punto di dire qualcos'altro, si zittì e andò a prendere la bottiglia.

Guido pagò con il biglietto di banca nuovo fiammante ed ebbe in cambio un paio di biglietti sgualciti e poi uscirono.

Ora le do l'acqua e andiamo.” disse Guido, ma Agata gli poggiò una mano sul braccio e disse: “Aspetta, potrebbe tentare di scappare.” disse lei, “Io gliela do e tu le punti il ferro addosso.”

Va bene.” disse lui guardandosi intorno, no, non stava uscendo nessuno dal bar, e poi tirò fuori dalla giacca una pistola automatica su cui cominciò ad avvitare il silenziatore.

Arrivati all'auto Agata aprì il baule e rimase per un attimo interdetta. La donna non era legata e imbavagliata, era seduta e le puntava una pistola in faccia. Mollò la bottiglietta che cadde a terra rimbalzandole dolorosamente su un piede e si voltò verso Guido con gli occhi e la bocca a formare tre O. Guido piegò la testa da un lato sorridendo e disse: “Una di voi è di troppo.” e sparò ad Agata al cuore. Precisamente a mezzanotte.

E fu allora che cominciò il delirio, fu allora che i demoni invasero la terra.

Naturalmente Guido non lo sapeva, vide solo una strana nebbia luminosa e rossastra avvicinarsi controvento e coprire il corpo di Agata. E poi iniziò.


CONTINUA...

domenica 9 maggio 2021

Recensione del romanzo "Due in nero" di Samaang Ruinees.

 

Recensione di “Due in nero” di Samaang Ruinees, Asylum Press Editor 2020.


Due racconti che si svolgono nello stesso luogo, la Milano dei giorni nostri, e che hanno un personaggio in comune, il maresciallo Spallanzani. Oltre al personaggio e al luogo c'è anche un'unità tematica, visto che entrambi i racconti raccontano di raccapriccianti omicidi che sono in realtà dei passaggi da un mondo “nostro” a un mondo “altro” secondo una affascinante dottrina esoterica che l'autore pare padroneggiare perfettamente e che io, abituato a pensieri più terra terra, posso dire di aver compreso solo parzialmente.


Il primo, Inferno (La casa della polvere), prende in contropiede il lettore con un inizio da classico giallo italiano, il maresciallo e l'appuntato sulla scena del crimine, con i tic dei due personaggi e il loro dialogo che, lentamente, ci fa scoprire l'orrenda scena del crimine su cui si muovono. E invece, poi, in un turbinio di piani temporali che si incrociano, scopriremo che col giallo italiano la storia non ha assolutamente nulla a che fare, finendo poi in una storia delirante che ha un che di Clive Barker e Lovecraft.

Un pezzo di bravura, in una storia raccontata benissimo tramite una lingua barocca, la scena dello, piccolo spoiler, smembramento rituale del protagonista da parte del demone Caronte che lo traghetterà metaforicamente all'altro mondo dove assisteremo alla sua epica rinascita.

Divertentissime le note al racconto, dove l'autore mostra grande cultura e senso dell'umorismo davvero gradevole.


Il secondo racconto, “Ossessione in rosso. Il sogno della crisalide”, che ha in esergo una citazione dal libro scritto dal protagonista del primo racconto (folle, no?), ci racconta di nuovo delle indagini di Spallanzani su varie scene del crimine, dove, come già prima, non capirà assolutamente con cosa abbia a che fare. La storia, come nel primo caso in realtà la trasmutazione da umano a “altro” di un personaggio, ci racconta di una povera ragazza rapita, segregata e torturata dall'Artista e di come alla fine … il lettore rimarrà con un palmo di naso per non avere capito niente.


Due storie horror piene di sangue e robetta schifosa varia ed eventuale, con una bella punizione dei cattivi nel primo racconto e una visione satirica davvero gustosa del mondo della moda milanese che fa morire dal ridere.

L'autore, come ho già detto prima, scrive in una lingua barocca e ricca che, se può sembrare un po' ostica nelle prime pagine, si rivela poi estremamente gradevole appena vi si sia fatto l'orecchio.


In definitiva il mio giudizio è che “Due in nero” è davvero un gran bel libro e che sono onorato di essere pubblicato dalla stessa casa editrice del nostro, bravissimo, Samaang Ruinees.

giovedì 15 aprile 2021

Recensione di The Strain.

 

Avviso: Contiene spoiler.


Oggi provo a scrivere una recensione. E sarà una recensione doppia, della trilogia di romanzi “Nocturna” di Guillermo Del Toro e Chuck Hogan e della serie, da loro stessi creata e prodotta, con Carlton Cuse, “The strain”, che dai romanzi stessi è tratta.


Un po' di storia, prima di tutto. Del Toro, regista sommo, ha un'idea per una serie horror, un antico vampiro, uno strigoi in realtà, conquista il mondo sfruttando la malvagità, l'avidità e la stupidità umane, e un manipolo di eroi,alquanto squinternati, lo combatte. Porta il suo canovaccio di poche pagine a vari produttori e questi, forse riconoscendo una similitudine con la splendida serie Fringe sia nell'inizio della storia, (un aereo proveniente dalla Germania atterra negli Usa con a bordo solo cadaveri) che nei personaggi, tra cui un vecchietto bisbetico e decisamente strambo che ne sa più di tutti di robe strane, gli propongono di farla diventare una serie comica. Del Toro, giustamente scandalizzato, decide di non girare la serie e cerca uno scrittore, Chuck Hogan, a cui propone di sviluppare insieme l'idea per dei romanzi. Hogan è d'accordo e nascono così “La Stirpe”, “La Caduta” e “Notte eterna”, che raccontano una appassionante avventura alquanto improbabile, tra ebrei-armeni che a novantanni maneggiano spade, sterminatori di ratti che si trovano davanti vampiri mostruosi e, senza nemmeno stupirsi li accoppano al primo colpo, nobili invalidi albanesi che nell'Ottocento vanno a caccia in Polonia e altre amenità che fanno molto americanata per noi raffinati (!?!) europei.


I romanzi sono molto divertenti, scritti bene e pieni di tensione, anche se la trasformazione dei protagonisti da tranquilli medici e virologi in combattenti con le spade tipo Blade puzza un po' di cretinata e l'inizio tutto basato sulla scienza, con virus, vettore virale, mutazioni et similia non è che si accordi benissimo con la spiegazione finale a base di angeli sterminatori smembrati e sangue angelico corrotto che invade le persone.


Comunque, detti i difetti, i romanzi sono belli, divertenti e alcuni personaggi lasciano il segno, primo tra tutti il Nato, Quintus, Quinlan, il mezzosangue nato da una donna incinta vampirizzata che per duemila anni combatte il suo “oscuro” padre sapendo che la fine dell'uno sarà anche la fine dell'altro.


Visto il successo dei romanzi, che io ho divorato con la voracità di uno strigoi, una casa produttrice finalmente chiama Del Toro e gli fa produrre la serie come voleva lui, e qui succede la stranezza. Avete presente i puristi di A Song of Ice and Fire che ammazzerebbero con le loro mani i produttori di game of Thrones David Benioff e D. B. Weiss perché hanno fatto cambiamenti di anno in anno sempre più pesanti alla trama, finendo poi per finire la serie senza nemmeno avere più i romanzi a guidarli? Molti li vorrebbero sul rogo, perché non c'è Lady Stoneheart, e perché il giovane Bolton non sposa Sansa, ma la sua amica, e perché Jon non viene tradito da un bambino, ma da un giovane ragazzo omosessuale eccetera eccetera. Bene, Del Toro e Hogan, con Carlton Cuse, fanno di peggio, ma se lo fanno con le loro mani.

L'inizio è lo stesso, uguale tra romanzo e serie, e uno comincia a vedere il tutto con la tranquillizzante idea di sapere già cosa succederà, e invece … Nora Martinez sopravvive, no? Sposerà Vasiliy Fet e avranno un bimbo di nome Eph, no? Ed ecco che, alla fine della seconda serie, un vampiro, la fastidiosissima mamma dell'antipaticissimo Zac, la morde e lei, per non mutare, si uccide. E lì capisci che è partito l'ottovolante, a ogni svolta della storia potrà accadere qualcosa di nuovo.

E accade, uh se accade. Le storie divergono, i personaggi non fanno quello che sapevi avrebbero fatto, la trama cambia e tu, lettore, rimani spiazzato.


E qui accade la stranezza, perché quella parte che mi aveva fatto storcere il naso, l'origine angelica degli strigoi, salta totalmente e … manca. La storia è monca così, e si vede pure perché tutta l'importanza dell'Occido Lumen, un libro maledetto che nemmeno il Necronomicon, si perde riducendosi a un tentativo fallito di imprigionare il Padrone e a una scoperta di Setrakian, il vecchio reduce dei Lager, che però non è molto chiaro come venga applicata. Cioè, capitemi, non potete farmi vedere che nel libro c'è pieno di raffigurazioni di angeli con sei paia di ali e poi non mi dite MAI che i vampiri discendono dal sangue angelico.

Anche il Nato, passa tutta la storia a dire che se uccide il Padrone muore anche lui, perché in effetti il Padrone era l'unico legame tra i vampiri e l'immortale resto sepolto dell'Angelo, e poi, dopo che lo hanno ammazzato, i vampiri non muoiono. Eh no! Errore da matita blu!

Comunque la serie è godibilissima, ben fatta, con attori di livello molto alto, tra cui il simpatico Corey Stoll (ma il parrucchino no!), il simpaticissimo Kevin Durand che interpreta il gigantesco Fet e, ultimo, ma non per importanza, Rupert Penry Jones che interpreta Quinlan. Ecco, Quinlan, la forza della serie sta tutta in lui, per usare una frase che ho letto una volta in un libro, è lui che dà l'acqua della vita alla serie, serio, impettito, brutto come la fame, nascostamente romantico, triste e ironico, un sopravvissuto che vuole solo uccidere chi lo ha creato, un uomo che non può, e non vuole, essere vampiro e un vampiro che non può, ma vorrebbe, essere uomo.

E poi Heichorst, Thomas Heichorst, il nazista che diventa il braccio destro, vampiro, del Padrone, l'unico vampiro dotato di mente propria e libero arbitrio. É l'attore Richard Sammell, il meraviglioso sergente che viene ucciso dall'Orso Ebreo in Bastardi senza gloria, che trasforma quello che sarebbe un cattivo a tutti gli effetti in un personaggio degno di nota, soprattutto nei flashback che ce lo mostrano umano, quando fa intuire, dietro alla sua crudeltà inumana, tutta l'umanità di un debole in cerca di un capo che muore dalla paura per le decisioni che ha preso. La smorfia di dolore e tristezza che accenna quando manda alla fucilazione il giovane Setrakian, falegname sopraffino a cui il Padrone, per puro sadismo, ha scempiato le mani, varrebbe in un mondo più giusto, una manciata di Oscar. Peccato che nelle ultime due stagioni il personaggio subisca una deriva alla Wyle E. Coyote finendo ogni sua azione con qualcuno che lo massacra in modi sempre nuovi e più bizzarri, senza che però muoia.

E poi c'è la fine, bella, con il noioso Zac che capisce finalmente la realtà e non crede più al Padrone e si sacrifica abbracciando il corpo del padre ormai abitato dall'orrido immortale. Una bella fine, che cambia rispetto al romanzo l'azionatore della bomba ma non i sentimenti tra padre e figlio. Ridicola, e fuori luogo, la citazione di Dart Vader che fa il Padrone con la sua ultima battuta.


Una bella trilogia di romanzi e una bella serie televisiva, che rimarranno sempre nel mio cuore, e un grazie sincero a Del Toro che crea mondi orribili che è bello abitare.


p.s. Essendo un po' scemo solo oggi mi sono accorto della citazione dickiana nel nome del cattivo Eldrich Palmer. Geniale.

sabato 23 gennaio 2021

Il Terno.

 La mia cara amica Marina ha fatto l'errore di raccontarmi un suo incubo, mangia leggero alla sera, Mari', e la mia ispirazione ormai quasi defunta si è risvegliata portano a queste cinque paginette. 

Grazie Marina, scrivere per me è un piacere ormai sempre più raro, e questo lo devo a te.

Buona lettura!

Il Terno.


Appoggiando le borse a terra Mari pensò per l'ennesima volta che chi aveva progettato quelle porte doveva essere o un genio o un solenne idiota, e lei in vita sua non aveva mai incontrato alcun genio. Che servisse la chiave per aprire la porta dall'esterno, qui siamo d'accordo tutti, ma perché ci voleva anche dall'interno? Ma ci voleva tanto a metterci una cacchio di manopola da girare? E invece no, doveva poggiare le borse, prima o poi doveva comprarsi quella macchinetta israeliana per fare l'acqua frizzante in casa, non poteva tutte le volte fare la salita dal supermercato con il peso di 4 bottiglie di acqua frizzante, e comunque, poggiate le borse doveva prendere le chiavi nella borsa, pareva che c'avessero le gambette quelle piccole dentute dispettose che andavano sempre a nascondersi in fondo, tra il pacchetto semivuoto dei fazzoletti di carta e le due monetine di rame che amoreggiavano ormai da una anno e mezzo con le caramelle alla menta. Infilò la grossa chiave la cui comoda impugnatura di gomma nera si stava consumando e diede due giri. La porta si bloccò del tutto divenendo un blocco unico col muro. “Fanculo ladri!” disse riprendendo le borse e andando in cucina attraverso il lungo corridoio senza finestre che era sempre buio come una navata di una chiesa in un convento di suore di clausura depresse.

Entrò in cucina e guardò il sole che tingeva il cielo di rosso là a ovest dietro al ponte e rimase per qualche istante rapita dal colore delle nubi che passavano dal rosso all'arancio e poi, impercettibilmente al grigio ferro. “Però il gelato si fonde, magari” borbottò tra sé e sé e infilò la vaschetta di limone e fragola nel piccolo spazio rimasto nel freezer da sbrinare, ormai da sei mesi.

Infilò nella credenza i pacchi di spaghetti e mezze penne, mise l'olio nello sportello in alto e rimase per un istante immobile. Cosa aveva visto? Si guardò intorno senza riuscire a capire … niente. Le merendine nello sportello in basso, sotto al lavello il detersivo per piatti e il lavaincera, le spugnette nuove, blu invece che verdi, una botta di vita, e l'infame acqua frizzante che le aveva disarticolato le spalle dal supermercato a casa. Prese le quattro bottiglie tra le braccia e camminò nel corridoio verso l'armadio nell'entrata che usava a mo' di dispensa. Lo aprì e infilò le bottiglie a destra della bottiglia di Cola e vicino alla scatola di panettone che stava lentamente sbocconcellando da quasi quindici giorni. Ancora un po' e avrebbe fatto la muffa, mannaggia alla sua tendenza a ingrassare, una volta non era così, una volta... sigaretta, in cucina c'era odore di sigaretta e l'ultimo che aveva fumato lì era stato l'imbianchino due anni prima. Deglutì mentre le sue braccia si ricoprivano di pelle d'oca e ricordò chiaramente il cilindretto di cenere nel lavabo … qualcuno aveva fumato e aveva buttato la cenere dimenticandosi di far scorrere l'acqua. Non aveva chiuso le grate alla finestra della cucina e qualcuno … qualcuno era in casa, se aveva sentito bene, uno starnuto soffocato con le mani sul volto, ma qualcuno aveva starnutito in camera. Si appoggiò al muro mentre il suo cuore cominciava a battere così forte da arrossarle il volto e coprire i rumori, qualcuno aveva spostato un piede. E ora, sì, una parola a mezza bocca, sottovoce, ma in camera c'erano due uomini, almeno due uomini. Vicino a lei c'era la porta, ma le chiavi erano in cucina, nella borsa appoggiata sul tavolo vicino alla confezione di uova. Da un cassetto del suo cervello saltò fuori senza alcuna ragione l'immagine di uova che saltavano fuori dal contenitore cuocendo sul tavolo … Zul! La mente è una scimmia, di tutto poteva avere bisogno in quel momento meno che di ricordare un esilarante film di quando era bambina, non doveva pensare a Zul, a Gozer e al Mastro di Chiavi, no, doveva solo arrivare alla sua borsa dove c'erano le chiavi e il cellulare, doveva fare i dodici metri fino alla cucina, maledetto appartamento lungo e stretto, entrare, prendere la borsa e poi, velocemente, correre fino all'entrata e uscire... sì, poteva farcela, ma solo se quei due, forse due, uomini non avevano interesse a fermarla. Perché se invece volevano … le sfuggì un mugolio disperato e guardò la porta. Senza chiavi era come un pezzo di muro, inutile pensare di aprirla. Intanto era sempre più buio ed era andata lì senza accendere la luce, avendo le braccia occupate da tutte quelle bottiglie d'acqua.

Sì, doveva andare in cucina, ma prima … un'arma, qualcosa con cui difendersi, solo che … e se … cosa aveva comprato per sua madre per portargliela su la prossima volta che sarebbe tornata su in Liguria? Un'accetta. Sì, era nel salotto, lì accanto a lei, nel mobiletto del televisore, non aveva trovato nessun altro posto e ora era lì.

Sei passi fino al corridoio, svolta a destra, altri sei o sette passi fino al mobiletto del televisore e poi … dieci o quindici secondi, e poi … riaprì l'armadio e prese una bottiglia d'acqua. Dubitava fortemente che si potesse nuocere a qualcuno con una bottiglia di plastica con dentro un litro e mezzo d'acqua frizzante, ma meglio che niente. Andò a passo veloce ma tranquillo, che fino a quel momento in effetti non le avevano fatto niente, forse si erano nascosti più spaventati di lei, topi d'appartamento che dovevano temere come la peste la presenza nella casa svaligiata del derubato per non finire dal comodo reato di furto alla ben più grave rapina aggravata; svoltò in corridoio e poi in sala ed entrò con ostentata nonchalance dirigendosi al mobiletto. Era buio ormai, solo un tenue grigiore arrivava dalla finestra che dava a ovest, ma anche il cielo ormai era grigio sempre più scuro. Aprì l'anta del mobiletto e vide il manico di legno levigato e duro. Ma che se ne faceva mamma di un'accetta, dei del cielo, a settantacinque anni voleva l'accetta per il giardino. Afferrò il manico e cadde. Sì, fu inaspettato, e più che cadere fu lanciata in terra. Picchiò malamente con lo zigomo destro e l'occhio le si riempì di lacrime. Si voltò e vide l'uomo che si ergeva su di lei, da terra le sembrava alto come il soffitto, uno scimmione di tre metri i cui lineamenti sparivano nel buio. Anche se a dire il vero le parve che nemmeno le avesse i lineamenti. Però aveva un coltello, nel buio la lunga lama luccicava riflettendo la fioca luce della finestra. Lui si abbassò dicendo qualcosa che lei non capì, la prese per la spalla, la sollevò e le tirò un pugno spaventoso in faccia. Tutto divenne rosso e luminoso, tutto le girò intorno e poi si sentì mancare mentre il dolore del labbro rotto sugli incisivi e del naso pesto le invadevano la mente. Aveva la bottiglia, senza nemmeno sapere cosa stava facendo gliela diede sulla parte sinistra del volto e lui, stupito più che colpito, la mollò. Cadde di schiena sul pavimento sentendo un dolore alla spina dorsale che la svegliò. Approfittò di uno dei pochi punti deboli del corpo maschile rispetto a quello femminile nella lotta, senza perdere tempo a pensare. Gli piantò entrambi i piedi nelle palle con tutta la sua forza e, con un grugnito simile al muggito di una vacca al macello, l'uomo cadde in ginocchio davanti a lei. Senza rialzarsi gli piantò i piedi sul volto sentendo con chiarezza, e inaspettato piacere, il naso dell'omone che si piegava innaturalmente. Si rialzò e per un attimo si fermò mentre afferrava l'accetta che stava lì vicino ai suoi piedi. Sì o no? Voleva farlo davvero? Poi sentì i passi degli altri due e, con tutta la sua forza, piantò la lama in mezzo alla schiena dell'uomo che tentava di rialzarsi. Il sangue le schizzò in faccia, caldo e col suo odore di rame, colpì di nuovo, per sicurezza, e guardò con calma curiosità l'uomo che stramazzava prono al suolo muovendo le braccia e le gambe con lentezza. Il sangue si stava allargando sul pavimento, nero nel buio ormai quasi totale.

Avrebbe avuto tempo in futuro per sentirsi male per quello che aveva appena fatto, ad essere molto fortunata, per ora fu felice. Si lanciò nel corridoio e vide due uomini grossi come il colosso che moriva rantolando sul pavimento del suo salotto che le si lanciavano addosso dalla porta della sua camera con dei coltelli in pugno. Non la presero perché cadde, aveva esagerato col lava incera sulle piastrelle di gres lucido e scivolò malamente picchiando nel muro, ma le braccia dell'assalitore si chiusero nel nulla sopra alla sua testa. Gattonò velocemente e diede un calcio nel ginocchio dell'uomo rialzandosi. Lui piombò a terra con un grido acuto e ridicolo e lei guadagnò l'entrata della cucina, si sbatté la porta alle spalle e, con le mani viscide di sangue, afferrò le chiavi dalla borsa e se le ficcò in tasca. Li sentì correre verso la porta ed ebbe un'idea. Sotto al lavabo, sì, grazie a dio aveva vissuto a Genova e amava il pesto. Prese il mortaio di marmo, 4 chiletti buoni di marmo massiccio, e aspettò che il primo entrasse. Anche lui senza volto nel buio, solo massa e violenza. Lanciò il mortaio e lo colpì alla faccia, il rumore fu uno schiocco spaventoso, che la deliziò. L'uomo rovinò a terra come un palazzo demolito con le cariche esplosive, facendo inciampare il suo compagno. Mentre tentava di rialzarsi, le spalle larghe come un culturista sfatto dagli anabolizzanti, lei gli calò l'accetta con tutte le sue forze. Un'altra doccia di sangue, che schifo, e, per sicurezza, un doppio colpo, come diceva il saggio Columbus. L'altro si alzò a fatica, il volto invisibile per il buio e il sangue che lo lordava, solo gli occhi visibili nel buio come due fari terrorizzati. Si voltò e fece per tornare nel corridoio e lei, oramai totalmente fuori di sé, lo colpì nel mezzo della schiena, dividendogli a metà la spina dorsale. La lama rimase incastrata nelle ossa spaccate e lui se la portò via nei due passi che riuscì a fare, e nella schiena rimase anche quando cadde a terra di faccia, senza nemmeno alzare le braccia per proteggersi dalla caduta. In tre erano entrati e tre ne aveva uccisi.

Terno secco sulla ruota di Roma.” disse ridacchiando mentre si sedeva sulla sua sedia a tavola, guardando quella massa di membra morte che intasavano la porta. “Chissà quanto ho vinto!” disse ancora ridendo e spaventandosi per quella voce e per quella risata che non sembravano affatto sue.

Rimase seduta lì al buio ancora un bel po', aspettando di svegliarsi da quell'incubo orrendo, sperando di svegliarsi da quell'incubo.

FINE


lunedì 11 gennaio 2021

L'Isola.

Anni fa avevo cominciato a scrivere un romanzo horror in cui innestavo una situazione orrorifica sulla mia esperienza di partecipante a scavi archeologici universitari. Uno dei tanti romanzi o racconti abbandonati dopo poche pagine. Oggi, dopo mesi in cui ho fatto fatica a scrivere anche la lista della spesa, l'idea mi è tornata in mente e ho buttato giù 1500 parole in fretta e facilmente. Non so se riuscirò a continuarlo, ma scriverlo mi ha rilassato e queste tre paginette ve le regalo. Leggete pure questo incipit di una storia horror. 

L'ISOLA


Forse è necessario fare una premessa, i cellulari esistevano già, allora, ma servivano solo per telefonare e il segnale non arrivava dappertutto, e sull'Isola non arrivava. E quindi, ogni volta che leggendo queste pagine vi chiederete come mai un personaggio o un altro non chiamano aiuto col telefono … non potevano farlo. Sull'isola c'era un unico telefono e stava nella stanza del direttore, e funzionava malissimo.

E vi chiederete anche come una decina di studentelli e un professore abbiano potuto andare a stare su un'isola persa in mezzo al mare a miglia dalla costa, senza un pronto soccorso a portata di mano, bisognosi dell'intervento di una barca per ogni minima necessità, forse. Ecco, la risposta è che eravamo un po' selvaggi, ci sembrava avventuroso, come un film di Indiana Jones.

Volevamo essere i protagonisti di un film d'avventura. Non sapevamo di essere le vittime di un film horror.


Naturalmente ho cambiato i nomi dei personaggi, per rispetto dei morti e dei sopravvissuti, e naturalmente non troverete traccia da nessuna parte di questi avvenimenti. Ogni mattacchione di questo mondo è libero di raccontare di aver visto il mostro di Loch Ness, perché non esiste, ma se uno racconta che scavando ha trovato … non voglio spoilerarvi la storia, sappiate che da nessuna parte troverete conferma di quanto sto per raccontarvi, ma sappiate anche, siatene anzi assolutamente sicuri, che è tutto vero. L'Isola esiste, anche se non si trova più sulle carte, noi siamo stati lì e solo alcuni di noi sono tornati indietro a raccontarlo. E quello che vi racconterò è vero. Purtroppo.


E ora cominciamo. Era una bella mattina di inizio settembre e …


La barca del pescatore filava veloce tra le onde, salterellando allegra sul mare gradevolmente mosso e i nove studenti si guardavano intorno con allegria mista a preoccupazione; cioè, sette si guardavano intorno, Walter vomitava sporto fuoribordo a dritta e Luana fissava lo schermo del suo Nokia guardando con preoccupazione le tacche della ricezione diminuire con precisione geometrica man mano che la costa si assottigliava sempre più sull'orizzonte diventando una striscia scura e indistinta in cui boschi, fabbriche e città perdevano di chiarezza diventando parte di un tutto lontano e incomprensibile.

" A quanto siamo dalla costa? " chiese al pescatore che sembrava una controfigura ancora più selvatica di Robert Shaw ne Lo Squalo.

" ...e ...glia. " borbottò l'uomo con il suo berretto di lana calcato in testa come nella pubblicità del tonno.

" Cosa scusi? " e intanto guardava il suo piccolo cellulare in cui una tacca e due tacche si davano il cambio a intervalli regolari.

" Tre miglia, signorina. " le rispose e la guardò con un misto di disprezzo e interesse, visto che era una pusillanime che aveva paura di stare a un tiro di schioppo dalla costa, ma aveva comunque delle simpatiche tette che oscillavano piacevolmente insieme alla barca salendo e scendendo dalle piccole onde.

" E quanto manca all'Isola? " e intanto le due tacche si erano prese una vacanza e l'ultima solitaria tacca sembrava ormai un animalino in via d'estinzione.

Cinque miglia, signorina. “

E là il telefonino non prende proprio?” gli chiese con un'intonazione involontariamente lamentosa.

Non l'ho mai provato, signorina. “ le rispose e si gustò il risultato del grosso scossone che la barca aveva avuto saltando su un'onda più alta delle altre. “Penso di no, comunque. “ le disse e lo sguardo di lei, disperata nel vedere l'ultima tacca sparire dallo schermo insieme al logo della compagnia telefonica.

Grazie. “ disse lei e andò da Walter che aveva finito di vomitare e che si guardava intorno sperduto, sicuro che tutto quel mare avrebbe trovato ancora un po' di schifosissima bava acida da tirargli su a forza dal fondo dello stomaco.

Lei gli appoggiò una mano sulla spalla e lui la guardò con un sorriso lieve e riconoscente.

Un mese. “ disse lei guardando ancora verso la costa che ormai era come un segno di matita 2B sull'orizzonte e che presto sarebbe scomparsa.

Non erano solo quattro settimane? “ disse lui.

Il Dottor Spocchia. “ disse lei sorridendo “Quattro settimane a scavare una città abbandonata 1800 anni fa.”

Vivendo e dormendo in un carcere abbandonato da 20 anni. “ disse lui riuscendo a fare una risatina, anche se l'ultima serie di onde ce l'aveva quasi fatta a trovare dell'altra schifezza da rigettare.

Tesi, tesi, cosa non si fa per te!” disse lei e gli diede una bella pacca sulla schiena, dandogli l'ultima e definitiva spinta. Si sporse fuori bordo e lei, disgustata e divertita si allontanò ridendo. Il suo cellulare era morto definitivamente. Lo spense e pensò che lo avrebbe riacceso solo una volta arrivata sull'Isola per vedere se, per miracolo, il segnale arrivava là in fondo al nulla.

Dopo una ventina di minuti l'Isola apparve, con la sua punta, era un vecchissimo vulcano inattivo da qualcosa come mezzo milione di anni, e in breve cominciarono a distinguere i boschi e il corpo bianco e tozzo del carcere che si stagliava in mezzo al verde della collina.

Eccoli! “ disse Marco indicando il prof e Carla che li aspettavano sul molo sbracciandosi in saluti che facevano capire che stare in due su di un'isola deserta, anche se per un solo giorno, era stato davvero pesante.

Walter alzò un attimo lo sguardo, fece per rispondere ai saluti e di nuovo si sporse facendo dei versi che solo delle vere carogne come erano i suoi compagni di corso potevano trovare divertenti. La barca arrivò al molo e il pescatore saltò giù agilmente legando la cime alla vecchia bitta arrugginita che sembrava stare lì almeno da prima che l'isola fosse emersa dalle onde.

Benvenuti, cari. “ disse il prof che col suo pancione e la barba aveva sempre ricordato a Marco un Bud Spencer buono e indifeso. “Giornata stupenda” disse aiutando Luana, Elena e Caterina a scendere mentre i maschi si caricavano i bagagli in spalla e scendevano dalla barca rischiando di finire in acqua come soldati del 101° allo sbarco su Omaha Beach.

Come è andato il viaggio, Walter?” chiese Carla a Walter e vedendolo tentare un sorriso con il volto grigio verdastro gli sorrise e gli fece una lievissima carezza sul viso. Lui sorrise di più e disse “Com'è la galera? “

Non male, pensavo peggio. Architettonicamente è stupendo, un panopticon quasi perfetto, gli alloggi delle guardie sono sei e spaziosi, quindi nelle celle dovranno dormire solo in cinque.

Mi prenoto io, un futuro grande scrittore non può perdere quest'occasione. “ e risero insieme mentre lui prendeva un borsone che Michele gli passava dalla barca e si incamminava poi insieme alla dottoranda che lo aveva preso in simpatia. Continuarono a camminare insieme ridendo e scherzando, lei aveva intanto preso il treppiede e se lo era caricato in spalla e dopo una manciata di minuti svoltarono a destra e videro il carcere. Sembrava un carcere, niente da dire. Lei prese le chiavi dalla tasca e aprì il portone.

Lasciate ogni speranza, o voi che entrate. “ disse lui oltrepassando la soglia e sentendo l'odore di chiuso che venti anni di abbandono avevano impastato all'atmosfera stessa di quei locali tristi e grigi.

Esagerato! “ disse lei ridendo e lo guidò oltre un cancello mostrandogli il cortile. Al centro si stagliava la torretta di guardia e quel lato dell'edificio era curvo e diviso in tre piani, con i corridoi che si affacciavano all'esterno a mo' di terrazzini con le celle aperte verso la torre. “Jeremy Bentham sarebbe fiero di questo posto. “

E sì, agghiacciante, vero? “ disse lei guardando quelle celle che avevano accolto per un secolo e passa assassini, patrioti e oppositori dei vari regimi.

No. Inquietante. Agghiacciante è che Bentham si sia fatto imbalsamare e abbia fatto mettere il suo corpo, seduto e vestito alla moda del Diciottesimo secolo, in una teca in un corridoio della sua università. “

Quando sarò docente lo farò anche io. “ disse Carla ridendo, devo cominciare a cercare la mise appropriata. “

Bikini o mantello di Fener, bisogna scandalizzare i borghesi. “ disse lui.

Il bikini ce l'ho, col mare che abbiamo intorno … “ disse lei ammiccando. Chissà, magari ci sarebbe scappato anche qualcosa di divertente, il fatto che avesse cinque anni più di lui non gli dava certo fastidio.

E così perseguiteresti i poveri studentelli anche dopo morta. Succhieresti crediti per rimanere eternamente giovane. “ disse lui e ridendo tornarono nel corpo principale dell'edificio dove le voci degli altri risuonavano allegre rendendo l'ambiente decisamente meno lugubre.

Presto lo sarebbe tornato.