domenica 20 novembre 2022

Peste e il lutto.

 

Direi che deve essere successo circa sei anni fa. Mio padre era ricoverato in ospedale, un fumatore sovrappeso tra i 65 e gli 80 purtroppo di ricoveri ne fa tanti, ed era un bel po' che mancava da casa, due settimane o giù di lì.

Il mio cane, Peste, aveva tre anni, un gagliardo giovane levriero italiano intelligente in maniera quasi imbarazzante e affezionato a mio padre come lo sarebbe stato ad un cucciolo. A volte tentavo di farglielo sentire al telefono, il mio cane ha sempre adorato ascoltare le persone al telefono, ma mio padre con i cellulari era una frana, quando andava bene gli cadeva la linea. In ogni modo 'sto cagnetto a volte andava nella stanza di mio padre a strusciarsi sul letto, per sentirne l'odore e io, quando tornavo dalla visita quotidiana, gli poggiavo le mani in faccia perché sentisse che ero stato da lui.

Comunque un giorno sono uscito col cane e ho fatto una passeggiata lunghissima, via Fillak, via Rolando, via Cantore, e poi Villa scassi, non so quanto sia, ma saremo sui 4 chilometri almeno, e mi sono trovato di fronte all'ospedale, mio padre stava abbastanza bene e passeggiava per il reparto, così lo chiamo e gli dico: “Vieni giù a coccolare il Peste?” e vado all'entrata del Pronto Soccorso. Il cane stava lì, scocciato, senza capire cosa stesse succedendo, con la gente che entrava e usciva intorno a noi.

E poi … in fondo a quella specie di corridoio all'aperto che porta all'entrata, spunta mio padre, il cane lo vede e … come posso definirlo? Paralisi? Congelamento? Non lo so, ma per qualcosa come dieci o quindici secondi il cane si è bloccato sulle sue quattro zampe, immobile, incapace di fare un movimento. E poi si è ripreso e gli ha fatto le feste alla maniera folle ed esagerata dei cani, senza alcun ritegno, felice come forse una persona non saprà mai essere.


Lo abbiamo fatto altre volte, in quel ricovero e in altri e anche se il cane ormai sapeva cosa andavamo a fare, era sempre contento di vederlo.

Una volta ho fatto la prova inversa, sono passato davanti all'ospedale quando mio padre era tranquillamente a casa e ho osservato il cane, ha lanciato un'occhiata veloce alla porta, sapeva dov'era, ma non gli interessava. Mi sono fermato e gli ho chiesto: “Andiamo da papà?” e lui mi ha guardato, credetemi, come si guarderebbe un idiota.

Sempre riguardo ai ricoveri c'è un altro aneddoto, mio padre aveva reagito molto male alla vita in ospedale, come capita a molti anziani si era “perso”, si era parlato addirittura di casa di riposo, ma poi si è ripreso ed è tornato a casa. Si è messo a letto e ha dormito tre ore filate, svegliandosi assolutamente normale. E in quelle tre ore Peste, per fortuna un cane molto leggero, è stato coricato sopra di lui, sul petto, a guardarlo mentre dormiva. Tre ore sveglio, immobile, a guardare la persona che amava e che non aveva visto per tanto tempo.


Quando ho scritto che è di un'intelligenza imbarazzante, il Peste, dovete capirmi, non scherzavo, lui pensa sempre e fa dei ragionamenti strani, una sorta di pensiero magico forse. C'è stato un periodo che mia sorella tornava dal lavoro in autobus, tutte le sere, e io e Peste andavamo a prenderla alla fermata, arrivavamo lì sempre alla stessa ora e ci fermavamo, io in piedi e lui seduto tutto impettito ad aspettare che scendesse dal grosso parallelepipedo arancione e affollato. E poi, non mi ricordo davvero perché, per tre giorni non tornò a casa. E così il Peste, al terzo giorno, mentre passeggiavamo tranquilli, mi tira verso la fermata, l'ora è sbagliata e Peste è un mago a capire l'ora, meglio di un orologio al quarzo, mi tira verso la fermata e si ferma lì per un attimo, solo una manciata di secondi, seduto al suo posto, senza aspettare l'arrivo di un bus, senza cercarla tra i passanti, solo seduto lì. Un richiamo, un silenzioso grido di dolore, un piccolo incantesimo per farla tornare, uscito dalla mente di un animale che non sa esprimersi a parole.


Poi quest'anno, ad aprile, hanno ricoverato di nuovo mio padre, due volte, e la seconda volta i suoi malanni si sono aggravati tutti assieme e non ce l'ha fatta. L'ho visto in coma, l'ho visto con la cannula nasale, mi hanno chiamato di notte perché era morto e, purtroppo, l'ho visto morto senza che avessero ricomposto la salma. Ho firmato documenti,ho scelto vestiti, sono andato a cerimonie e ho ritirato una cassetta di ceneri, ma Peste... lui lo ha solo visto uscire con gli infermieri. Per un po' mi ha chiesto di entrare in camera sua, per un po' ha voluto ancora stendersi sul letto col suo odore, ma poi ha smesso.

Lui non parla, lui non capisce, lui … ricorda? Non lo so, non posso immedesimarmi in quella piccola testa affilata, non sono in grado, ma …


Ma nell'ultimo mese ha fatto due volte una cosa, il mio Peste, che non è più tanto giovane, ma è ancora assai gagliardo. Facendo delle lunghe passeggiate, arrivato alla fine di via Fillak, si è fermato. In piedi, immobile, gli occhi fissi nei miei. Io volevo tornare indietro, lui no. Ha preteso di andare avanti, ha voluto fare tutta via Rolando e poi, arrivato in via Cantore, tutte e due le volte, si è fermato. “ Dove vuoi andare, Peste?” gli ho chiesto, ma lui era triste, smarrito. Dovunque volesse andare, da lì in poi non si ricordava la strada.

Ma forse io lo so dove vuole andare, dopo via Rolando c'è via Cantore e là, in fondo a via Cantore, c'è Villa Scassi e in cima al giardino, dopo una salita strappa polmoni, c'è l'ospedale. Io penso di saperlo dove vuole andare, il mio Peste, vuole andare dalla porta del Pronto Soccorso e vuole che io prenda il telefono, vuole guardare la porta e rimanere paralizzato dalla gioia, vuole che quella piccola grande magia che glielo ha fatto rincontrare una volta funzioni di nuovo.

E io? Io cosa voglio? Voglio portare Peste fino a lì? Voglio vedere se davvero il mio cane pensa ancora a papà? Voglio davvero, se è così, che l'illusione del mio cane finisca? Io so che è morto, lo so fin troppo bene, e il dolore inenarrabile dei primi giorni è diventato una mancanza e ora una triste abitudine, un ricordo sempre più lieve, ma forse, forse notate bene, Peste ancora lo aspetta. Forse per lui è ancora vivo. Cosa voglio io? Voglio che muoia anche per lui, voglio che Peste smetta di sperare, nel suo piccolo cuore di cane, che basti arrivare là in cima al giardino, per rivedere la persona che ama?


lunedì 22 agosto 2022

Una notte insonne.

 Dopo mesi, forse anni, di blocco dello scrittore, negli ultimi giorni ho scritto questo racconto che potrebbe essere, se le Muse lo vorranno, il primo capitolo di una novella o romanzo.

Boh, io ve lo offro, ditemi se vi piace. 

Buona lettura.

Una notte insonne.

Continuava a rigirarsi nel letto senza che il sonno facesse minimamente capolino nella stanza, si, vabbè, stanza, nella cella in cui era stato messo a dormire. Il sole aveva picchiato per tutto il giorno sul muro esterno, naturalmente la sua cella era a sud, ça va sans dire, e anche se l'aria della notte era scesa dai raccapriccianti 38° del pomeriggio a dei fastidiosi, ma più umani, 27°, la temperatura nella stanza non accennava a passare la boa dei 30°. pensava di non avere mai sudato tanto in vita sua, le lenzuola di cotone ruvido come carta vetro grana 12 gli si appiccicavano addosso come carta moschicida e la maccaia gli faceva sentire il peso dei 150 km di atmosfera che gravavano su di lui.

E poi … c'era lei. Nella cella accanto alla sua dormiva Anna, la sentiva russare piano, la sentiva borbottare nel sonno. L'aveva intravista dalla porta socchiusa, mutandine di cotone e maglietta vecchia e lisa, gambe sode, chiappe perfettamente rotonde, il monte di Venere a gonfiare appena il semplice slip e dei capezzoli che sembravano sul punto di perforare la stoffa sottile. Erano due ore che si rigirava nel letto con un'erezione molto scomoda agitando le mani in aria per tentare, inutilmente, di ammazzare le zanzare.

Sentiva una lieve brezza all'esterno e uscì, indosso solo i calzoncini color cachi. La porta di Anna era chiuso, meglio, nessuna tentazione guardonista, camminò nel corridoio buio usando la piccola torcia a tre pile che si era comprato apposta per lo scavo, passò un cancello di ferro, un altro cancello di ferro, una porta e infine, dopo un corridoio con vari uffici amministrativi ai lati, aprì il portone trovandosi all'esterno. Spense la torcia, la luna calante da due giorni illuminava sufficientemente il panorama intorno a lui.

Si era messo le scarpe da ginnastica e quindi poté allontanarsi dal lastricato camminando tra la bassa vegetazione stentata risultato di millenni di sole a picco e un paio di secoli di capre. Passeggiò sul sentiero godendosi quel po' di fresco portato dalla brezza marina e, giunto sul crinale, si voltò a guardare il carcere in disarmo che li ospitava. La prof aveva detto che l'interno era era un perfetto panopticon di benthamiana memoria, ma dall'esterno sembrava solo un orrido casermone di tre piani che incombeva nero nella notte, simile nella luce innaturale della luna ad una architettura aliena di Lovecraft. Passò il crinale e si addentrò in quel campo di erba medica che era stato duemila anni prima la necropoli della piccola colonia Flavia Marittima e lasciò il sentiero per avvicinarsi alla tomba a cappuccina che lo smottamento provocato dal piccolo nubifragio di tre giorni prima aveva portato allo scoperto.

La prof stava impazzendo tentando di capire perché cacchio i seppellitori di Marco Attilio Bradua, morto alla ragguardevole età di 85 anni, sei mesi e due giorni, centurione della Legione XII Fulminata e duoviro per tre volte della colonia Flavia, avessero infilato dei lunghi chiodi nei coppi che chiudevano la copertura della fossa, dei pioli di ferro così lunghi da andare a sfiorare il corpo del defunto.

Si sedette accanto alla tomba, tolte le tegole e i coppi il corpo meravigliosamente mummificato del vegliardo duoviro era protetto dall'umidità della notte solo da un telo di plastica tenuto a posto da sei grosse pietre posate sull'orlo della fossa, schiaffeggiandosi in maniera alquanto maldestra per uccidere una zanzara che gli ronzava vicino all'orecchio notò che una delle pietre stava scivolando giù nella fossa trascinando con sé il telo e un sacco di terra. La sollevò e, tentando di rimettere a posto il telo, vide un luccichio. Cosa avevano messo negli occhi del morto? Tolse il telo e scese con attenzione nella buca di due metri per uno dalle pareti di mattoni. Illuminò gli occhi raggrinziti di quel volto di cartapecora teso sul teschio e non vide nulla. Non c'era vetro o metallo sotto le palpebre, sembrava solo che ci fosse … l'occhio.

Grattandosi distrattamente il polpaccio con le unghie, ah che piccolo piacere della vita il grattarsi quando si ha prurito, si abbassò a guardare da vicino la mummia. Aveva i capelli e le sopracciglia, perfetti, e la toga era marcita sul suo corpo mantenendo la sua forma. Non odorava di spezie orientali, non era una mummia egizia fatta da un mummificatore professionista, ma non aveva nemmeno il minimo odore di putrefazione. Gli ricordava l'odore della pelle di suo padre quando da piccolo lo abbracciava dopo essersi fatto la barba. Sì, sotto a quelle palpebre raggrinzite, in quelle orbite praticamente svuotate, c'erano ancora gli occhi e, chissà come, luccicavano alla luce della Luna.

Grattandosi la schiena e il polpaccio, l'altro, salì fuori dalla tomba. Quel vecchio corpo incorrotto, come quelli dei santi secondo sua nonna, lo inquietava. Solo nella notte buia si infilò una mano nei pantaloncini e si grattò le palle, tra il sudore e le zanzare il prurito lo stava facendo impazzire, guardava quel volto di un uomo che aveva gironzolato per il mondo negli stessi anni di Gesù e intanto si grattava con entrambe le mani in preda a un prurito sempre più forte.

Illuminò con la pila il corpo, SCIAFF!, ecco una zanzara spiaccicata che non lo avrebbe punto, e vide che i tre chiodi vi avevano lasciato delle piccole macchie di ruggine sopra. Sulla fronte, sullo sterno e sull'addome. Si grattò una gamba e la crosticina di un graffio che si era fatto camminando tra i rovi saltò via. Il sangue che gli sporcò le dita era nero nella luce della Luna, riprese a grattarsi, sembrava che volessero impedire al corpo di … alzarsi, sì, se avesse appoggiato le mani in quei punti a una persona coricata … si grattò il retro del collo, e l'orecchio, e di nuovo lo stinco e il polpaccio, sembrava avere un nugolo di zanzare lì attorno, e quei puntini, sì, era sangue, si stava grattando a sangue … non volevano che il morto si alzasse, quell'uomo era stato in Terra santa negli anni di Gesù, “alzati e cammina, Lazzaro” aveva detto quel fricchettone moltiplicatore di pani e pesci, e Lazzaro si era alzato … il prurito alle palle era spaventoso, grattarsi era un dolore piacevole in maniera quasi erotica, si trovò a pensare ad Anna, là nella cella a un centinaio di metri da lui, ebbe un'erezione e il prurito era così … non volevano che si alzasse, si accucciò sul bordo grattandosi l'avambraccio e sentiva l'umido del sangue sotto alle unghie, le zanzare ronzavano anche sul morto, gli si infilavano in bocca, tra i denti che luccicavano nel buio, come gli occhio, che riflettevano la luce gelida della luna … Anna era là che dormiva, il prurito, si grattava lo lo scroto così forte, il dolore, il piacere, ma … cosa … si era ferito davvero così gravemente, era un testicolo che sentiva ...grattandosi le gambe, le braccia, le palle martoriate, tentò di allontanarsi dalla tomba, ma a ogni passo si fermava, il prurito era spaventoso, le unghie gli scavavano nella pelle e … vedeva la Luna adesso, era coricato a terra, doveva essere caduto, un nugolo di zanzare gli vorticava sul volto e con le unghie continuava a lacerarsi la pelle, il prurito era così … un'ombra, gli occhi luminosi nel buio, era sopra di lui, no … no … e poi fu solo il prurito, e poi niente.