lunedì 3 luglio 2017

Il cugino di It.

Anni fa ammorbai le vostre vite con il mio omaggio a IT, un seguito del famoso romanzo di Stephen King. E oggi, guardando alla tivù un vecchio documentario di David Attemborough ho visto una cosa, che non vi dirò, che mi ha fatto venire una bella idea.
E così, di getto, ho cominciato a scrivere un nuovo omaggio a quel capolavoro, ma il cattivo della storia sarà il cugino di IT, così come Pippo nella saga del Principe delle Nebbie in Topolino era solo il cugino di Alf (se avete la mia età capite, se no che ve lo spiego a fare?).
Comunque pubblico subito quello che ho scritto oggi, è solo l'inizio, non appare nessun mostro, per ora, ma si capisce già dove si andrà, inizialmente, a parare. Spero di continuare a scrivere con la gioia e la facilità di oggi e di terminare quello che penso che sarà un racconto orrorifico, divertente e sorprendente.
Buona lettura!

IL CUGINO DI IT

Marco lanciò la piccola pietra piatta e questa ribalzò e scivolò fino a fermarsi sul numero 7. Saltò sul piede sinistro e … numero uno … numero 2, tre, 4 e 5 insieme sui due piedi, 6 sul sinistro di nuovo, 7 e 8 coi due piedi, salto e giravolta, piede destro dove prima stava il sinistro e viceversa, si accucciò notando che con la suola un tempo bianca e ormai nera petrolio per i mesi di corse nel fango e sui ciottoli era appoggiata sul bordo del quadrato fatto col gessetto blu. Sarebbe stato da squalifica, ma stava giocando da solo. Certo che giocare al pampano, o come lo chiamavano gli altri al gioco della campana, da soli, era proprio da depressione. Solo che in paese c’erano cinque o sei bambini di sei o sette anni e addirittura una decina di ragazzini sui tredici o quattordici, ma di decenni c’era solo lui e nessuno dei grandi voleva giocare con lui come lui, di certo, non voleva giocare coi pisciottoli. E così passava i pomeriggi da solo, giocando al pampano, facendo solitari e immaginando che là, tra l’oleandro ricoperto di fiori rossi e quella grossa quercia che lui chiamava il baobab, stesse appostato un leone, che, chissà perché, non c’era mai.
Tornò saltellando al numero uno e uscì dallo schema disegnato con lunghe linee sbilenche e si apprestò a lanciare di nuovo la pietruzza. Che noia, dio, che noia tremenda.
- Ma non ti annoi? – gli chiese la bambina dai capelli rossi. E chi era ‘sta bambina della sua età? Era pure bella, che cavolo!
- Un po’. Poi vado in casa e guardo i cartoni. –
- Che palle! – disse lei sbuffando, aveva dei carinissimi incisivi sporgenti, come quel cantante coi baffi di cui la sorella guardava sempre i video alla tivù, quello con la voce incredibile. Come si chiamava, non lo ricordava … - Io sono Freddie. – disse lei tendendogli una mano sporca di gelato e con le unghie inverosimilmente piene di terra.
Ecco, Freddy Mercury, anche se Sonia gli aveva detto che si chiamava Faruk o qualcosa di simile, perché veniva dall’India o dal Belize o da uno di quei Paesi sotto all’Equatore. Si chiamava come lui e aveva agli stessi denti, forte! – Marco! – disse lui porgendole una mano ugualmente zozza. Aveva una bella stretta la bimba, e gambe lunghe. Bella, davvero.
- Mi hanno detto che c’è un posto strano, qui vicino, una grotta maledetta o qualcosa di simile … - disse lei.
- Una grotta maledetta? Non so che cosa stai … - disse lui, poi capì; doveva essere la grotta della strage dei nazisti, quella dove avevano fucilato i partigiani di cui il padre gli aveva tanto parlato. Davanti alla grotta c’era un pietrone cubico, un cippo gli aveva detto che si chiamava papà quando lo aveva portato lì il 25 aprile, con su i nomi degli undici partigiani uccisi, il più vecchio aveva 26 anni, e l’entrata era chiusa da una porta di lamiera. Sapeva che alcuni ci andavano a pomiciare, papà aveva visto una cosa in terra e aveva detto qualcosa che non aveva capito tipo “ma almeno i gondoni portateveli via, cazzo!” e lui non gli aveva chiesto cosa fosse un gondone perché lo aveva visto davvero incacchiato. – Sì, c’è, la grotta della Patuassa. È a non più di dieci minuti da qui. –
- Ci andiamo? – chiese lei.
No, voleva risponderle, era quasi ora di merenda, mamma lo aspettava, e c’erano i cartoni, e faceva caldo per andare fino a là attraverso i prati, e non doveva andare così lontano senza un adulto, e non ce ne aveva voglia, e gli faceva anche un po’ paura, c’erano morti dei ragazzi lì, e coi nazisti poi, e Freddie era così carina, coi capelli rossi e quei dentoni simpatici, e quelle gambe lunghe … - Sì. – le disse, è da quella parte. – e si avviarono per i campi assolati tra le cicale che frinivano nascoste nell’erba alta e giallastra.