sabato 31 ottobre 2009

Evoluzione II,3.

Il tredicesimo capitolo, se fossi un auperstizioso non italiano, potrei pensare alla possibilità che possa portare sfiga.
Ma non sono superstizioso e se lo fossi avrei paura del 17.
E quindi, miei inesistenti lettori, eccovi un nuovo capitolo di paura!

III

Come al solito Beppe era arrivato per primo, non si era mai presentato ad un appuntamento con meno di otto minuti di anticipo e anche questa volta non si era smentito. Nicola arrivò e lo salutò portandosi la mano alla fronte con una noncuranza che rivelava la loro lunga frequentazione. Per ultimo arrivo Christian, sempre in ritardo a differenza del capo, ma capace di colpire un centesimo a duecento metri, anche di notte o usando per la mira gli occhi di un droide guasto. Anche lui salutò Beppe, ma con un qualcosa che assomigliava già un po’ di più a un saluto militare.
- IIT. – disse Nicola leggendo la targa alla destra della porta - Che cosa sarebbe? –
- Istituto italiano di tecnologia. – disse Christian buttando a terra la sigaretta e schiacciandola col piede.
- E cioè? –
- Un posto dove lavorano un sacco di teste d’uovo. –
- E noi che ci facciamo qui? – chiese rivolgendosi a Beppe.
- Ordini. –
- E di chi? –
- Di un superiore. –
In quel momento si aprì la porta e ne uscì un soldato che disse: - Il colonnello Mariani vi aspetta. – e li fece entrare.
Lo seguirono su per le scale e poi in lunghi corridoi dai pavimenti lucidi e dalle pareti dipinte in colori chiari. Incontrarono droidi come quelli che si vedevano per strada e altri che invece nessuno avrebbe avuto in casa per ancora molti anni. Nessuno di loro era un grande esperto di tecnologia, ma videro dei robot che non si muovevano affatto come macchine, ma con una grazia da predatori, e altri droidi che li salutarono con un saluto militare che sembrava molto umanamente ironico.
Finalmente il soldato li fece entrare nell’ufficio di Mariani, che videro essere un colonnello alto e robusto, sui quarantacinque anni e con una protesi polifunzionale al posto del braccio destro che stranamente non era ricoperta di pelle sintetica. Beppe, che era capace di valutare le persone con un solo sguardo, pensò di lui che fosse una persona che sarebbe stata capace di ordinare la fucilazione della propria madre, se l’avesse ritenuto necessario.
- Sergente Salvi, caporale Mazzi, caporale Sensini, benvenuti all’IIT. –
I tre scattarono sull’attenti e lo salutarono.
- Riposo signori, sedetevi pure. – aspettò che si fossero accomodati e poi disse: - Vi è stato detto perché vi ho convocati qui? –
- No signore. – rispose Beppe.
- E avete una qualche idea del perché siate qui? –
- Con permesso signore – disse Beppe – penso che per un progetto vi serva la nostra esperienza come gruppo d’assalto. –
- Sì e no, sergente Salvi, sì e no. – si sedette di fronte a loro e fece cenno al soldato di chiudere la porta ed allontanarsi. – Ora vi dirò quale è la gravissima situazione in cui ci troviamo in questo momento e vi farò una domanda in nome del nostro paese. Una domanda, non un ordine, ma spero che voi mi risponderete sì.
I tre si guardarono tra loro sorpresi, poi Beppe disse: -Avanti, signore. –
- Allora, signori, - disse alzandosi e andando alla finestra – I nostri servizi segreti ci hanno avvertito di un attentato terroristico che colpirà una non meglio precisata città italiana tra pochi giorni. Un attentato in cui sarà usata una bomba atomica.
Noi sappiamo chi la sta costruendo e dove lo sta facendo, ma il posto è controllato da almeno cinquanta uomini armati pesantemente, pronti a difendersi da qualunque tipo di attacco.
Quello che ignoriamo è chi abbia fornito il materiale al nostro “piccolo chimico” e chi si preoccuperà di portare l’ordigno a destinazione. Ignoriamo tutto dell’organizzazione a monte e a valle del nostro fisico della domenica, e per noi sgominare l’organizzazione nella sua interezza è importante quanto impedire che questa bomba arrivi a destinazione, per questo non possiamo semplicemente bombardare il luogo dove la stanno costruendo come avrete già sicuramente pensato. –
- Quindi noi siamo stati convocati perché siamo un gruppo particolarmente addestrato in questo genere di missioni… - disse Beppe prima di essere interrotto con un gesto da Mariani.
- Voi siete stati convocati perché siete ritenuti da chi comanda le persone più adatte al tipo di missione che abbiamo in mente. – disse, poi chiese a Beppe: - Sergente Salvi, da quanto tempo collaborate con la polizia utilizzando i caschi ricetrasmittenti ottico-neurali? –
- Più o meno un anno e mezzo, signore. –
- E vi trovate bene? Ci sono dei problemi per voi ad agire con quell’equipaggiamento? –
- No signore. – rispose Beppe – La vostra idea è di mandarci nel teatro delle azioni con il nostro solito equipaggiamento? –
- No, signori. Il nostro piano prevede… - cominciò a dire il colonnello quando il telefono cominciò a trillare interrompendo- lo – Avevo detto di non essere interrotto per nessun motivo. – disse al suo interlocutore, poi si mise ad ascoltare con attenzione con una espressione sempre più seria, annuendo e borbottando ogni tanto un “sì”. Dopo circa un minuto disse: - Trovate subito l’assistente del dottor Ferrero e fatelo venire qui da me, gli dirò io in che situazione ci troviamo. – e mise giù il telefono.
- Cazzo! – disse sottovoce picchiando il pugno di plastica contro il palmo della mano, poi si girò verso di loro e ricominciò come se non fosse neanche stato interrotto. – Come vi dicevo il nostro piano è un po’ diverso.
C’è una nuova tecnologia, molto più moderna, che vi permetterà di agire molto più velocemente eliminando del tutto il rischio di incomprensioni ed errori.
Non avendo molto tempo vi spiegherò in breve cosa voglio da voi:
L’idea è di iniettarvi delle microsonde, cioè dei piccoli nanorobot simili a virus artificiali, che produrranno in voi delle piccole mutazioni assolutamente reversibili, che vi collegheranno l’uno con l’altro rendendo le vostre menti un’ unica rete di pensieri.
Queste nanosonde vi renderanno anche più forti e resistenti alla fame, nonché quasi invulnerabili, permettendovi tra l’altro di mimetizzarvi nell’ambiente dove agirete. Con voi verranno inviati anche alcuni droidi di nuova generazione, che forse avrete notato a spasso per i corridoi, che sono forse le armi più letali mai progettate dall’uomo. Anche queste macchine saranno collegate alla vostra rete mentale e saranno quindi una specie di estensione dei vostri corpi. –
- È un po’ strano, signore. – disse Beppe deglutendo, - Penso di parlare anche a nome dei miei uomini dicendo che non capiamo il perché di queste novità. –
- Un perchè c’è, sergente, ed è che noi non vogliamo solo distruggere questa cellula terroristica, ma debellare tutta la rete di cui fa parte, e per fare questo dobbiamo entrare in possesso di tutte le informazioni di cui sono a conoscenza le persone presenti sul luogo. –
- Continui pure, prego. –
- Queste nanosonde non agiscono solo sui vostri corpi e sulle vostre menti, ma sono in grado di moltiplicarsi ed infettare altre persone. Voi sarete dotati di speciali organi artificiali con cui potrete pungere altre e iniettare nei loro corpi nanosonde che li renderanno parte della rete. –
- Come vampiri. – disse Nicola – Bello! –
- Vede caporale Mazzi, so anch’io quanto possa suonare strana e innaturale questa storia, ma dovete capire che nel momento stesso in cui il terrorista sarà stato infettato con le sonde… -
- Noi sapremo tutto quanto saprà lui, e non potrà più nasconderci nulla. – disse Beppe – Anzi, se la nostra mente collettiva sarà abbastanza forte da annullare la sua individualità, egli stesso vorrà aiutarci nella nostra missione. È così? –
- Sì sergente Salvi, è proprio questo che noi abbiamo in mente. – disse e si alzò – E ora se permettete sono stato avvertito pochi minuti fa di un grave problema che devo andare a risolvere.
Tornerò tra circa tre quarti d’ora e vorrei avere in quel momento una risposta definitiva alla nostra proposta. A tra poco, signori. – li salutò e loro scattarono sull’attenti quando lui uscì.

giovedì 29 ottobre 2009

Evoluzione II,2.

Ciao Belli! Come vi va la vita? A me discretamente mediocremente, spero che a voi vada meglio. Siete soddisfatti della politica in Italia? Anche voi preferireste mille volte vivere in un paese governato dal nepotista Sarkozy o dal noioso e scialbo Brown. Il mondo reale vi fa un po' schifo? Buttatevi nel mondo della finzione, leggetevi un bel libro, guardate un bel film e, se vi avanza un pochino di tempo, leggete anche il dodicesimo capitolo del mio romanzo finora incompiuto. Eccolo bello fresco per voi:

II

Marina aveva collegato gli hard disk del droide al suo portatile e stava tentando di capire quanto si fosse salvato della sua memoria. La sua prima diagnosi, cioè che si fosse salvata del tutto, era risultata un po’ troppo ottimistica, in quanto una scheggia di un proiettile aveva lesionato un dei dischi portandosi via un bel po’ di dati e rendendo molto problematica la lettura di quelli che si erano salvati.
- Ciao cara. – disse Enrico entrando, ma lei si accorse subito della sua espressione, strana almeno quanto la sua voce.
- Cosa c’è? – gli chiese alzandosi e baciandolo.
- Niente, Marina, solo che per qualche giorno dovrò fermarmi in laboratorio e non potrò tornare a casa. – disse, indicando con un cenno del capo il militare che si era fermato sulla porta ad aspettarlo.
- Ma che diavolo sta succedendo? – chiese lei, ma lui le fece cenno di no con la testa e disse: - Ti ho detto che non è niente, devo solo stare qualche giorno fuori. – e fece un sorriso falso come una banconota fotocopiata.
- Signor Loi, tra poco dobbiamo muoverci. – disse il soldato - Andiamo a prendere le sue cose. –
Enrico salì le scale seguito dal soldato che non faceva nulla per nascondere la pistola che portava nella fondina, mentre Marina rimase giù in preda al panico. Sapeva bene il progetto a cui stava lavorando il marito, dopo quelle ultime notti non c’erano più segreti tra di loro, così come sapeva che lui aveva violato un bel po’ di leggi e regolamenti portando fuori dal laboratorio le coroncine e usandole con lei.
- Eccomi cara! – disse lui scendendo le scale con una valigia molto gonfia in mano, seguito dalla sua ombra verde kaki. – Cosa stai facendo lì? – le chiese indicando la testa del droide smontata sul tavolo.
Marina per un istante non capì neanche la domanda, poi si scosse e rispose: - Sto tentando di riparare il droide che ha aiutato Elena durante quella rapina, ma ho dei problemi con i dischi di memoria. –
Enrico fu velocissimo, raggiunse il tavolo e armeggiò per due o tre secondi col cranio di plastica che conteneva i dischi. – Così dovrebbe andare meglio. – disse poggiando sul tavolo la testa, e infatti sullo schermo del computer apparve una pagina di dati che lei non era ancora riuscita a leggere. – Vieni qua bella! – le disse allargando le braccia e abbracciandola – Ci vediamo presto. – e uscì seguito dal soldato che sembrava sull’orlo di una crisi coi fiocchi.
Marina lo vide salire sull’auto col soldato e lo salutò mentre si allontanava. Tornò in casa con le lacrime che erano ormai traboccate dalle palpebre e le stavano scivolando sulle guance, quando vide una cosa appoggiata tra le parti elettroniche dentro alla calotta cranica del droide. Sorrise, perché era il trasmettitore della corona neurale che avevano usato le notti precedenti. Con l’antenna del droide, che poteva collegarsi alla casa produttrice per dei download di aggiornamento, avrebbero potuto collegarsi in qualunque momento.

mercoledì 28 ottobre 2009

Evoluzione II,1.

Ed eccoci arrivati al secondo blocco di capitoli. Comincio oggi a pubblicarlo, ma non so se qualcuno vorrà leggerlo. Sapete tutti perchè... Siamo tutti preoccupati per Lui che ha la scarlattina!
E ora che ho detto questa stronzata, se ne aggiungo un altro milione lo raggiungo, dimentichiamoci lo Psiconano e torniamo al fetido frutto della mia immaginazione. Si entra nel vivo dell'azione, ecco il nuovo capitolo:

CAPITOLO II
I

La bella donna bussò alla porta e da dentro una voce con un accento strano disse di entrare.
- Buongiorno. – disse lei entrando – Volevo vedere il famoso dottore delle scimmie di cui tutti parlano da un po’ di giorni. –
Il giovanotto dall’aria mediorientale si guardò alle spalle con sguardo incuriosito, poi disse: - Ah, parla di me! – e le diede la mano. – Suleiman al Karoun, piacere di conoscerla. –
- Lu Ann Wilder, piacere mio. –
- Wilder, come Billy, il regista? –
- Sì, ma non siamo parenti, purtroppo. –
Suleiman le indicò una sedia e le offrì un bicchiere di the freddo. – Si occupa anche lei di scimmie? –
- Non lo so, per ora mi guardo intorno e mi do un po’ da fare qua e là. –
- Ottimo modo di passare il tempo. – disse lui alzando il bicchiere. – Alla salute di chi si dà da fare! –
- Alla salute di chi studia le scimmie! – rispose lei e rise.
- Vuole vedere le nostre scimmie, signora Wilder? Sono molto carine e amano regalare pulci a tutti quelli che vedono. –
- Sarà un vero piacere, forse potrò ricambiare con qualche zecca. – e risero tutti e due andando verso il capannone dove erano tenute le scimmie.
Entrando nel capannone Suleiman salutò un uomo che stava seduto lì con un giornale con una donna nuda in copertina.
- Sembra un delinquente. – disse lei sottovoce quando chiusero la porta.
Suleiman aprì una gabbietta e prese un giovanissimo cebo che stava abbracciato a un peluche abbastanza lurido; lo diede a Lu Ann che lo prese in braccio, poi disse: - Lo è. –
- Cosa? –
- Un delinquente, il tizio fuori, è un trafficante di coca. –
La temperatura del capannone era tanto alta da essere quasi insopportabile, ma Lu Ann sentì davvero un brivido nella schiena. – Sta scherzando, vero? –
Suleiman sorrise – No, tutta questa struttura, tutta l’oasi di protezione delle scimmie l’ha fatta costruire un narcos colombiano per far felice suo figlio malato di leucemia. Tutte le persone che vede qua intorno e che le sembrano dei brutti ceffi, molto probabilmente sono trafficanti armati fino ai denti. –
- E lei lavora qui? Lei mi sembra un brav’uomo. –
- Vede signorina Wilder, io ho da fare un lavoro, che è molto importante per me, e se questi tizi mi possono aiutare, qualunque sia il motivo che li spinge a farlo, io lavoro con loro. Io faccio qualcosa per loro e loro permettono a me di fare quello che voglio fare più di ogni altra cosa al mondo. –
- Cioè curare e studiare queste scimmiotte. – disse lei stuzzicando col dito il nasino della scimmietta che si era stretta al suo seno.
Suleiman fece un’espressione un po’ strana e annuì. – Sì, aiutare questa scimmie. –
- Ma io non l’ho già vista da qualche parte? – chiese lui sfiorando il muso della scimmia.
Lu Ann sorrise e disse: - Penso di sì, forse mi ha visto in televisione. –
Suleiman la guardò con gli occhi che quasi gli saltavano fuori dalla testa, ma in quel momento la porta fu aperta di colpo.
- Dottor al Karoun, è arrivato quel materiale che stava aspettando! – disse l’uomo che stava seduto fuori.
- Bene Pablo, arrivo subito. – riprese la scimmiotta e la mise dentro alla gabbietta. – Se permette ora ho da fare, signorina Wilder. – e la accompagnò alla porta e poi alla jeep.
Lu Ann rimase un po’ stupita per il comportamento del giovane dottore, ma si calmò quando lui le disse: - Sarei contento di rivederla per continuare quel discorso sulla televisione. – le disse dandole la mano.
- Se le va bene, potrei tornare la settimana prossima. – disse lei, e partì vedendo cinque persone che saltavano giù da un camion scassato e ne scaricavano una cassa molto pesante. Accelerò e tornò verso la sua capanna nel villaggio vicino.
- Chi era, Daoud? – chiese il tizio della rivista porno.
- Una signorina americana che voleva vedere le scimmie. – rispose esaminando il bidone che conteneva l’uranio e la droga.
- Può essere pericolosa? –
- Penso di no, ma la vedrò la settimana prossima e ne saprò di più. -

martedì 27 ottobre 2009

Evoluzione I,10.

Ed eccoci al decimo capitolo, è a suo modo un piccolo traguardo, finisce il primo blocco della storia. Vorrei ricordarvi di nuovo che la storia non l'ho finita e, se nessuno di voi mi incoraggia a farlo, non lo farò mai. Scrivetemi alla mia e-mail digiacomo.stefano@gmail.com oppure alla mia pagina di anobii che trovate digitando lo stesso indirizzo. Se non lo fate, arrivati al capitolo 35, la storia si interromperà di botto e non sapremo mai come finisce.
E ora, eccovi il capitolo dieci:

X

Il colonnello Mariani non aveva mai capito perchè fosse stato scelto come ufficiale di collegamento per i progetti a possibile uso militare dell’IIT, ma i suoi superiori lo sapevano bene: perchè anche se aveva dei grossi problemi ad accendere il suo computer senza farlo esplodere, era veloce a capire gli ordini ed ancor più rapido a farsi obbedire.
Ascoltò quindi con attenzione quello che il generale gli riferì al telefono quella mattina, comprese gli ordini ed espresse la più totale convinzione sulla ragionevolezza di questi ultimi con uno dei suoi famosi “Signorsì”, che erano ugualmente potenti e rispettosi con il superiore presente o al telefono.
Col berretto sotto l’ascella uscì a passo veloce dal suo ufficio e si diresse attraverso quei lunghi corridoi al reparto di biomeccanica molecolare in cui da alcuni giorni lavoravano al loro importantissimo progetto il dottor Loi e il dottor Ferrero.
Il soldato di guardia alla porta scattò sull’attenti vedendolo arrivare e gli fece un perfetto saluto a cui lui rispose con un cenno del capo, poi aprì la porta ed entrò nel nuovo corridoio.
Già avvicinandosi sentì la voce bassa del dottor Loi e quella più acuta e impostata di Ferrero che discutevano ad alta voce dei problemi che ogni momento sorgevano nella realizzazione delle microsonde.
- Buongiorno dottori! – disse entrando e trovandoli intenti ad esaminare una grossa vasca di plastica in cui si muovevano una decina di topi glabri e verdi dalle cui teste spuntavano delle piccole antenne simili a corni.
- Buongiorno a lei colonnello! – disse Loi, mentre Ferrero accennava un ridicolo saluto militare. Odiava Ferrero, c’era qualcosa in lui che glielo rendeva sgradevole come l’odore della gorgonzola.
- Come vanno i nostri piccoli topolini? – chiese guardando quelle orrende bestiole che si muovevano a tempo nella loro piccola prigione.
- Abbiamo avuto qualche piccolo problema quando ne abbiamo collegato mentalmente più di due alla volta, ma forse abbiamo trovato la soluzione. – disse Ferrero prendendo in mano uno dei topi.
- Che problema c’era? –
- Gli si erano incasinate le menti, sembrava che non capissero più niente e allora stavano fermi o davano delle testate nel muro.-
- Bello! – disse il colonnello.
- Ma come le ha detto Silvio abbiamo trovato una soluzione. – disse a sua volta Enrico gettando dei semi di girasole ai topi che cominciarono a mangiarli insieme, tutti nella stessa posizione - Ha mai sentito parlare del progetto SETI? –
- Sì, mi sembra che si tratti di un progetto di ricerca di messaggi alieni nella fascia delle onde radio che riceviamo con i radiotelescopi. – rispose Mariani guardando quei topi che mangiavano come piccole macchine; gli facevano schifo, quasi quanto Ferrero.
- Esatto, e per fare quel lavoro ci vogliono capacità di calcolo che nessun computer ha. – disse Loi.
- E allora i realizzatori hanno avuto un’idea: tutti quelli che vogliono possono donare la potenza inutilizzata del loro computer quando sono in rete, e a ogni piccolo microprocessore il mega computerone centrale dà una piccola parte di calcoli. – disse Ferrero, e Mariani pensò che solo un essere come lui poteva dire “megacomputerone”.
- E allora? –
- Allora signor colonnello, noi facevamo funzionare i cervelli di questi animali con un collegamento in rete, che è ancora gestibile quando a sovrapporsi sono due sole menti e due sole memorie, ma quando queste aumentavano nelle testoline di queste bestiole c’era l’equivalente delle urla del mercato del pesce e loro non capivano più nulla. –
- E il SETI che cosa c’entra con tutto questo? – chiese Mariani un po’ esasperato.
- Il fatto è che il computer centrale del SETI non è alla pari degli altri, ma è gerarchicamente al di sopra. È lui che affida i lavori e divide i compiti, ignorando i lavori individuali che ogni computer fa in quel momento e facendolo intanto andare avanti nel suo compito all’interno del gruppo. –
- Ed è questo che abbiamo fatto noi con i topi. – disse Ferrero posando l’orrendo topo nella vasca – Questo terminale è collegato via radio con le loro menti e le comanda facendoli lavorare tutti insieme, annullando le idee individuali di ognuno di loro, o meglio fondendole insieme, ma permettendo nello stesso tempo a ognuna di queste bestie di agire, camminare o risolvere i problemi che si trovano davanti. –
Mariani guardò i topi che ora stavano tutti fermi col naso rivolto all’insù verso di lui, tutti verdi e lucidi e con quelle schifose antennine al centro del cranio. – E cosa sanno fare questi aborti? –
- Be’, -rispose Ferrero – noi gli abbiamo fatto fare questo. – e gli porse un mangiarino da uccellini diviso in otto comparti. In ognuno di essi si trovavano biglie e cilindretti di quattro diversi colori, perfettamente separati. – Glieli abbiamo buttati nella vasca in un bel mucchio e abbiamo dato ordine al computer di dividerli per forma e colore. Ce l’hanno fatta in meno di due minuti. –
Mariani annuì soddisfatto. Poi disse: - Potreste venire di là con me? –
I due professori lo seguirono nella sala dedicata alle conferenze, dove Mariani li fece sedere davanti alla scrivania. Lui rimase in piedi.
- Sapete che le vostre ricerche ricevono grossi finanziamenti dall’esercito perché è possibile immaginare un loro uso a livello bellico? –
- È per questo che riferiamo a lei i nostri risultati. – disse Loi.
- Bene. – disse Mariani. – Quando pensate che questa tecnologia possa essere applica- ta? –
- Sui topi o… - chiese Ferrero.
- Sull’uomo naturalmente. – rispose freddo Mariani.
- Vede signor colonnello, si tratta di una tecnica molto invasiva, che va a toccare la mente e la struttura fisica dei soggetti. – disse Loi – Non so se sia giusto ipotizzarne un utilizzo umano. –
- Non vi ho chiesto questo. Io vi ho chiesto quando sarà utilizzabile. –
- Ma signor colonnello… - disse Ferrero – La mente umana non è la mente di un topo, e il corpo è totalmente diverso. Potrebbe essere molto pericoloso. –
- E poi chi potrebbe voler fare da cavia? – chiese Enrico.
Mariani lo guardò e sorrise. – Da quel che ne so lei e la sua bellissima signora, per esempio. – disse.
Enrico Loi lo guardò incredulo e arrossì, non sapeva neanche lui se per la vergogna o per la rabbia. – Ma come vi siete…-
- Lei ha portato fuori da qui materiale classificato come top secret, signor Loi, pensava che non ce ne saremmo accorti e che non ci saremmo accertati dell’uso che ne avrebbe fatto? – disse il colonnello interrompendolo – Comunque grazie a lei e alla sua bella moglie sappiamo che questa tecnologia, almeno nella sua prima versione, funziona alla grande. – sorrise con evidente soddisfazione e disse: - Di nuovo: quando pensate che questa tecnologia sarà utilizzabile? –
Ferrero fece per rispondergli come prima, ma Enrico lo precedette: - Ci dia un mese e mezzo e l’avremo adattata all’uso di cui parla lei. –
Mariani andò alla finestra e diede le spalle ai due dottori. – Ora vi svelerò un segreto che dovrete portarvi nella tomba. Ne va della vita di centinaia di migliaia di persone. –
I due lo guardarono perplessi.
- Sappiamo da fonte sicura che un terrorista islamico sta costruendo una bomba atomica da quindici chilotoni in un nascondiglio sicuro in Brasile. È protetto da almeno cento narcos armati fino ai denti e solo lui sa come arriverà in Brasile l’uranio arricchito e chi lo porterà a destinazione.
Sappiamo per certo che l’obbiettivo finale è una città italiana, ma non abbiamo la minima idea di come la bomba potrà arrivare a destinazione, o chi la potrebbe portare.
È assolutamente indispensabile catturare vivo il terrorista e sapere tutto quello che sa lui, chi gli ha dato l’ordine di agire, chi ha ideato il piano, chi lo aiuta e chi riceverà la bomba.
Non trovate che un piccolo gruppo di soldati che siano stati equipaggiati con la vostra invenzione potrebbero agire velocemente e, semplicemente contaminando il terrorista con le microsonde, potrebbero scoprire tutto quello che ci interessa? –
I due dottori annuirono, pensando a una bomba atomica piazzata in mezzo ad una città.
- Sappiamo che la bomba sarà pronta tra dieci giorni, e che dovrà esplodere tra ventidue giorni esatti. I volontari li ho già trovati, sono i militari migliori che si possa sperare di avere ai propri ordini. Le vostre microsonde saranno pronte da qui a otto giorni? –
Ferrero scosse la testa. – Non è possibile, ci vuole più tempo.-
- E se…- disse Enrico guardandolo – E se noi lavorassimo in collegamento mentale con le mie corone. Potremmo fare molto prima! –
- No, io non lo farò! –disse con voce alterata Silvio Ferrero.
- Se servirà, ve lo ordinerò. – disse Mariani, - Posso farlo e lo farò. –
- Non potete costringermi! – urlò Ferrero alzandosi in piedi su gambe che sembravano non reggerlo – il dottor Loi forse non si rende conto… -
- Dottor Ferrero, - disse Mariani – queste sono cose che riguardano la sicurezza nazionale, lei non immagina neanche che cosa sono autorizzato a fare in casi come questi. È meglio per lei se mi obbedisce di sua volontà, perché mi creda, conosco altri modi per farglielo fare. -
Ferrero si sedette con le lacrime agli occhi e si coprì la faccia con le mani. Mariani chiamò il militare che era fuori di guardia e gli diede questi ordini: - Sergente, faccia accompagnare a casa i dottori Loi e Ferrero e gli faccia prendere abiti ed effetti personali per qualche giorno. Gli faccia anche salutare i parenti, se ci sono, ma non li lasci mai soli. Entro due ore dovranno essere qui. –
- Signorsì signore! – disse il sergente scattando sull’attenti.
- Ci vediamo presto, signori. – disse Mariani ai due dottori e li fece uscire.

lunedì 26 ottobre 2009

Evoluzione I,9.

Eccovi il nuovo capitolo, vi piacerà come gli altri? Se volete farmelo sapere, il mio indirizzo è digiacomo.stefano@gmail.com.
E ora, leggete pure:

IX

Il vecchio dottore estrasse la siringa dal braccio del bambino che tentava eroicamente di non piangere per il dolore provocato dall’iniezione, ma quando il medico gli strofinò addosso il batuffolo di cotone zuppo di disinfettante, il bruciore fu più forte di lui e si aprirono le cateratte del cielo.
- Ma non ce l’ha un disinfettante che non bruci? – chiese accarezzando il faccino scuro del bimbo la bella donna bionda che gli aveva portato l’ennesima infornata di bambini da vaccinare. – Guardi che glielo posso portare io. –
- Voi giovani non sapete sopportare dei piccoli dolori che sono invece indispensabili per forgiare il nostro corpo e il nostro carattere. – disse in quell’incredibile portoghese pronunciato alla tedesca – Se io usassi uno di quegli inutili intrugli che non bruciano, questo bambino non sentirebbe un minuscolo bruciore che tra un minuto avrà già dimenticato, ma potrebbe prendere un’infezione che in questo clima caldo e umido potrebbe essere letale. –
“Vecchio nazista del cazzo!” pensò sorridendo la bella donna che non aveva la minima idea di essere andata così vicina alla realtà. – Se lo dice lei, dottor Teubner, però mi sembra un po’ un’esagerazione! –
- Quando avrà visto dei bambini col braccio in cancrena che vengono operati senza anestesia per salvargli la vita, allora mia giovane amica americana, capirà quello che le ho detto. – ed evitò di dirle, ma anche di ricordare a sé stesso, che quei bambini erano stati da lui feriti apposta per saggiarne la resistenza al dolore e all’infezione.
- Buona giornata allora, dottor Teubner, penso che tornerò la settimana prossima con altri bambini da vaccinare e un po’ di medicine fresche. – disse lei uscendo col bambino per mano e facendolo poi salire sulla jeep insieme agli altri sei.
Cantò una canzoncina coi bambini guidando con prudenza sulla strada di terra battuta devastata dalle piogge dei giorni precedenti, sbirciando ogni tanto i suoi occhi nello specchietto retrovisore per vedere quanto riusciva ad aggrottare la fronte. Sorrise vedendo delle piccole rughe formarsi sopra le sopracciglia, mentre i capelli corti erano ormai tornati di un bel biondo naturale, con appena una decina di capelli bianchi sulle tempie.
- Signora Lu Ann, - chiese il piccolo Ricardo – dove vivevi tu prima? –
- A Los Angeles piccolo. – rispose voltandosi un istante per guardarlo.
- E che lavoro facevi? –
- Facevo l’attrice in una soap opera, che si intitola “Le ore dell’amore”.
- Cos’è una soap opera? – chiese il bambino.
- È come le vostre telenovele, sai quelle che tua madre guarda al pomeriggio sul televisore del parroco? –
- Sì, a me fanno schifo! –
- Anche a me. – disse lei, poi cantò di nuovo l’attacco della canzoncina di prima e tutti i bambini si misero a cantare sturandole le orecchie.
Lu Ann Wilder era una donna di quarantadue anni nata in Oregon; era stata la tipica ragazza americana che amava fare shopping e ballare nel coro delle ragazze pon pon, fino a quando a diciotto anni aveva partecipato ad un concorso di bellezza che aveva vinto, essendo alta un metro e settantadue, avendo gli occhi azzurri e i capelli biondi e due tette davvero belle, anche se non molto grosse.
Uno dei premi del concorso era la possibilità di fare un provino per la soap opera “Le ore dell’amore”, e passato questo si era inaspettatamente trovata ad essere la piccola Madison Rockwell, la figlia della protagonista.
Inizialmente la sua parte era quella di una quattordicenne, anche se il personaggio che interpretava era nato solo quattro anni prima e l’attrice che aveva sostituito era una bambina di otto anni. In poco tempo, due anni o giù di lì, gli autori del programma avevano dato sempre più importanza al suo personaggio facendolo crescere molto in fretta e dandole molte storie d’amore.
A soli vent’anni Lu Ann aveva così recitato il primo parto di Madison, seguito due anni dopo dalla nascita delle piccole gemelline che l’avevano ormai resa nonna da nove anni.
A ventitre anni si era rotta una gamba scendendo le scale e subito gli autori avevano fatto rompere una gamba a Madison sciando in Colorado. Quando sette anni prima gli autori le avevano fatto capire che la sua faccia era sempre molto bella ma forse un po’ troppo matura per essere una mangiatrice di uomini, si era fatta un lifting durante un viaggio dell’indomabile Madison in Europa.
Aveva passato gli ultimo ventidue anni a vivere due vite in una, da una parte con la sua esistenza da travet della recitazione, obbligata ad andare ogni mattina agli studi a passare dieci ore in quei cubicoli male illuminati a dire battute orribili, senza la speranza di poter migliorare, perché sapeva benissimo di non essere un’attrice come Julianne Moore o Robin Wright che erano partite da soap opera simili per approdare poi al grande cinema.
Dall’altra parte aveva vissuto la vita di Madison, con i suoi undici matrimoni, i tre figli e i mille accadimenti assurdi che rendevano divertente la sua vita per gli spettatori.
Nella vita di Madison era già, ad una età ferma ormai da dieci anni a circa trentacinque anni, nonna di due nipoti di circa vent’anni, ma come Lu Ann aveva avuto un breve matrimonio con un tecnico del suono, finito senza la nascita di figli dopo appena un anno.
Tre mesi prima, durante un viaggio promozionale in Italia, fatto in occasione di un’inutile premiazione tipo serata degli oscar, aveva visto folle di casalinghe salutarla per strada chiamandola col nome di Madison e, quella notte, si era rigirata nel letto tentando di ricordare come si fosse rotta la gamba.
Non riuscì a ricordare se fosse stato scendendo le scale o sciando e si rese conto con orrore che non sapeva più bene chi fosse.
Di lì a un mese le era scaduto il contratto e semplicemente non lo aveva rinnovato, lasciando ad un’altra attrice, più giovane di lei, la parte di Madison Rockwell.
Svegliandosi nel suo letto la prima mattina della sua nuova vita, capì che doveva andare in un posto dove Madison non esisteva, in un luogo dove per tutti lei sarebbe stata Lu Ann Wilder, una donna di quarantadue anni che non aveva bisogno delle iniezioni di botulino che la produzione le aveva imposto il mese prima.
A scuola aveva studiato il portoghese, però in Portogallo la tivù trasmetteva “Le ore dell’amore”, quindi la scelta cadde sul Brasile. Decise di visitare l’Amazzonia e così per caso arrivò al piccolo ospedale di quel vecchissimo medico tedesco e lì si era fermata, facendo finalmente qualcosa solo come Lu Ann.

domenica 25 ottobre 2009

Evoluzione I,8.

Anche ieri ho saltato l'appuntamento, vi chiedo scusa ma ho avuto altro da fare.
Vi è piaciuto il capitolo 7? Volete leggere anche l'8? Sto forse parlando da solo? Purtroppo temo proprio di sì.
Comunque, miei cari lettori, eccovi il capitolo 8:

VIII

Anche se sei mesi prima Elena Risso aveva perso il suo ottimo impiego in comune perché all’ennesimo “taglio di spese straordinario per riempire il buco di bilancio lasciato dal precedente governo”, i suoi superiori avevano dovuto sostituire la metà degli impiegati con droidi, non era disoccupata perché aveva trovato lavoro nella piccola azienda di autotrasporti di due suoi vicini che erano troppo vecchi per prendere in considerazione qualcosa di così moderno come i robot, o anche le ferie pagate, lo straordinario retribuito e la fine della schiavitù.
Come quasi tutti i giorni era uscita dal lavoro con un quarto d’ora di ritardo e arrivò così a casa che Marina già l’aspettava dal portone.
- Ciao Mari, scusa per il ritardo ma quei due pazzi dei Rossetti…-
- Lo so, lo so. – disse Marina e risero.
Salirono le scale che erano state appena ridipinte e puzzavano ancora di vernice e, quando entrarono in casa, Elena disse: - Come mai sei così allegra? –
Marina sorrise e le disse: - Non dovrei dirtelo perché c’entra un po’ col lavoro di Enrico, ma ce l’abbiamo finalmente fatta. –
Le due donne erano amiche fin dai tempi delle medie ed erano talmente in confidenza che Marina non dovette specificare altro; Elena sapeva benissimo quale problema vi fosse tra lei e il marito da quando i dottori dell’ospedale l’avevano rimessa in piedi con quell’impianto alla base del cranio.
- Davvero cara? – le disse stringendole la mano – E come avete fatto? –
- È un segreto. – rispose – ma ti posso dire che non mi sono mai sentita così bene da quando eravamo fidanzati ed andavamo in gita in tenda d’estate e facevamo l’amore sui prati con le pecore intorno a belare. – e rise come una ragazzina.
- Sono troppo felice per te! – disse Elena, poi si alzò e aggiunse: - cambiamo discorso se no te lo chiedo ancora tante volte come avete fatto che ti trapano le orecchie. – e andò nella stanza vicina.
- Dove vai? – le chiese Marina.
- Torno subito. – disse la voce da dietro al muro in mezzo a rumori di cianfrusaglie buttate in uno scatolone – E avrò bisogno del tuo aiuto. – e arrivò posando sul tavolo una scatola che conteneva i pezzi di un droide rotto.
- E questo che cos’è? Vai in giro per sfasciacarrozze? – chiese Marina guardando i poveri resti di un robot che sembrava essere stato usato come bersaglio da una banda di pistoleri.
- Questo è AM2738, il droide a cui io e tutti gli altri ostaggi della rapina in banca dobbiamo la vita. Senza i suoi occhi quelli dei corpi speciali non sarebbero potuti interve-nire. – e dicendo questo accarezzava la mano immobile del robot. – E mentre ci salvava, questo ammasso di rottami ha anche trovato il tempo per farmi coraggio. –
- E temo che sia anche l’ultima cosa che ha fatto, - disse prendendo la testa che era divisa in due pezzi uniti da pochi lembi di plastica – non ho mai visto uno scempio simile. –
- Si può riparare? – chiese Elena – Ho comprato questi pezzi dal padrone che li voleva buttare via. –
Marina esaminò la testa cercando di capire quali pezzi si fossero salvati, poi esaminò il corpo che era spezzato all’altezza della vita e a cui si erano staccati una gamba e mezzo braccio destro. – Penso che avesse ragione lui, è danneggiato molto gravemente. –
- Ma tu sei una maga con computer e diavolerie simili, lo eri da ragazzina e poi ti sei laureata proprio in quegli argomenti. Si può ripararlo o no? –
- Costerà quasi come comprarne uno nuovo e non penso che funzionerà come prima. –
- Avrà ancora i suoi ricordi? – le chiese quasi sul punto di piangere.
- Be’, sì, direi che gli hard disk sono intatti, la memoria dovremmo salvarla. –
- Mi aiuterai? –
Marina sorrise e disse: - Hai forse dei dubbi? –
- E allora cominciamo, dimmi che pezzi servono. –
Marina posò sul tavolo la testa del droide e disse: - Usciamo subito e andiamo dal mio amico Walter, che li compra per rivendere i pezzi usati, che faccio prima a dire quelli che non ci servono. – E uscirono spingendosi come due bambine stupide, ricordando i vecchi tempi.
- Prima hai parlato di quando da ragazza andavi in campeggio con Enrico e ruzzolavate allegri nei prati, ma ti ricordi della volta che siamo venuti anche io e Andrea? – chiese ridendo Elena.
- E come scordarselo? – disse trattenendo una risata Marina, - Non è la volta che siamo andate da sole per funghi e che ci siamo perse? –
- Che idiote! – disse Elena – Mio Dio che figura di merda. Abbiamo girato da sole nel bosco per almeno tre ore. –
- Io direi anche quattro, non ne potevo più. –
- E ti ricordi quando dovevamo fare pipì e tu non l’hai voluta fare tra i cespugli perché avevi paura delle vipere? –
Marina rise tenendosi la pancia, poi annuì con la faccia rossa e gli occhietti stretti stretti. – Questa proprio non la ricordavo più. Com’era, che tu l’hai fatta tra i cespugli e io ti ho detto che eri stupida, e così sono andata nel prato e ho detto che l’avrei fatta lì, no? –
- E poi quando ti sei abbassata i pantaloni ti ho sentito urlare.-
- Che schifo, non hai idea, mi sono accucciata e non me lo aspettavo, l’erba era lunga e mi si è infilata lì, ho fatto un salto…-
- Mi ricordo, troppo divertente. – disse ridendo Elena. Ridevano ancora quando entrarono nel negozio di ricambi usati per droidi.

venerdì 23 ottobre 2009

Evoluzione I,7.

Ieri niente capitolo, chiedo scusa, ma non mi funzionava la connessione. Oggi rifunziona, Boh! Misteri dell'informaticcia, come dice Catarella.
Se qualcuno legge 'ste stronzate che scrivo sarà felice di poter leggere il nuovo capitolo, questo:

VII

Enrico Loi e il colonnello Mariani arrivarono con alcuni minuti di anticipo davanti alla porta del regno di Giulio Ferrero, il reparto di biomeccanica molecolare. Si guardarono senza sapere cosa dire e Enrico sorrise vedendo il colonnello con la mano finta che guardava incuriosito il foglio su cui erano stampati i nomi dei professori che lavoravano lì con le loro qualifiche. Lo stesso Enrico faceva fatica a capire la maggior parte delle materie in cui erano laureati, ma il buon colonnello sembrava leggere delle scritte in cinese.
- Buongiorno signori. - disse Ferrero aprendo la porta, - Se volete seguirmi nel mio laboratorio delle meraviglie… - e fece loro strada in un corridoio su cui si aprivano delle porte, in quel momento a dire il vero tutte chiuse, fino ad una grande sala conferenze illuminata dal sole.
- Sapete entrambi cosa è la biomeccanica molecolare, vero? –
- A grandi linee. – rispose Enrico.
- Io un po’ meno.- disse il colonnello abbassando un poco lo sguardo, - Le sarei molto grato se potesse farci una piccola lezione introduttiva. –
- Bene! – disse Il dottor Ferrero, - Voi conoscete le macchine, quelle cose fatte di vari pezzi che interagendo tra loro effettuano un lavoro? –
I due annuirono e lui continuò: - Con macchine io intendo cose semplici come un paio di forbici, formate da due leve affilate e una vite a fare da fulcro, ma anche cose un pochino più complesse, come un orologio, che è formato da centinaia di pezzi, o un computer, che è formato addirittura da milioni e milioni di pezzi. –
Enrico annuì convinto mentre il colonnello sembrò un po’ colpito da questo apparentamento tra il computer e le forbici.
- Vede colonnello, il computer, anche questi immensi computer che lei vede tutti intorno a noi, anche quelli che si trovano nelle teste di quei simpatici droidi che lavano per noi i piatti e le strade, il computer è in realtà sempre la stessa macchina che Pascal inventò nel ‘600. Una serie di leve alzate o abbassate, che fanno di conseguenza alzare o abbassare delle altre leve. Più leve ci sono più sono grandi i calcoli che il computer può fare. –
Andò alla lavagna e fece un piccolo cerchio, grande come una moneta da un euro. – Con tante leve così la macchina può fare le addizioni e le sottrazioni. –
Disegnò allora un cerchio grande come un pugno. – Così può fare divisioni, moltiplicazioni e forse estrarre radici quadrate. –
Fece un cerchiò grande come una testa e poi uno col diametro di circa mezzo metro. – Col primo di questi il computer può gestire Word, e col secondo farci divertire con Lara Croft. –
Mettendosi sulle punte dei piedi disegnò un cerchio grande quanto era alta la lavagna e poi disegnò uno spicchio di un cerchio immenso, che spuntava appena nel rettangolo di ardesia.
- Con questo posso simulare molti pensieri umani e far muovere un droide che scopa in terra e lava i piatti e con quest’ultimo… - e batté il dito sullo spicchio – con questo immenso cumulo di levette il signor Loi può leggere la mente di un topo e inserirne i pensieri nella testa di un altro. Capito? –
- Sì. – rispose un po’ imbarazzato il colonnello.
- Bene, bene, bene. Allora, tutte queste leve, lame, pistoni, ruote dentate e viti senza fine, sono costruite con metallo o legno o plastica, ma comunque con materiali simili al mondo visibile, formati da lunghe catene di molecole. Materiali che non potremo mai miniaturizzare più di tanto.-
Li guardò per vedere se avevano capito e, almeno per quel che riguardava Enrico fu soddisfatto del tutto. – Però le stesse identiche cose noi le possiamo fare su un altro piano dell’esistenza, cioè quello degli atomi. –
Disegnò sulla lavagna che aveva cancellato parlando una linea lunga quanto tutta la superficie nera, e vi scrisse sotto “più piccola levetta costruibile” e poi fece al di sotto un trattino lungo due millimetri, praticamente un punto, e vi scrisse “stessa leva costruita con atomi”.
- Come vedete noi possiamo costruire macchine potentissime delle dimensioni di un nostro globulo rosso, e forse questo è ancora più importante, queste macchine possono essere programmate per riprodursi all’interno di un corpo, utilizzando proprio le risorse del loro ospite. –
- Come un virus. – disse Enrico.
- Esatto! – rispose Ferrero sorridendo – Un virus artificiale che possiamo programmare per fare qualunque cosa. – aprì la porta e disse loro: - Seguitemi! Tra poco vedrete che quando dico qualunque cosa, intendo proprio quello che ho detto.- e uscì dalla stanza seguito dai suoi due incuriositi ospiti.
Entrò in una stanza dove c’erano molte gabbie simili a quelle dei ratti di Enrico e ne prese tre.
- Questo è H913/12, ma noi lo chiamiamo Lattuga. – disse indicando un topo totalmente glabro, dalla pelle verde oliva, che correva su una ruota in una gabbia in cui non c’era cibo ma solo acqua e un blocchetto di sali minerali. – Gli abbiamo iniettato dei piccoli robot, che chiamiamo microsonde, che gli hanno trasformato le cellule della cute facendogli produrre clorofilla; è più di sei mesi che non mangia e si nutre solo di luce solare, acqua e sali minerali.
Indicò poi un topo all’apparenza normale, che se ne stava tranquillo nel suo angolino pieno di cotone a leccarsi una zampina. – Questo è L612/21, Ursus per gli amici, ed è un po’ speciale anche lui…- disse, e lo scagliò con la forza di un giocatore di baseball contro il muro di cartongesso. Il ratto picchiò sul muro e cadde a terra totalmente intatto, correndo verso i piedi di Ferrero.
- Scusate l’eccessiva teatralità, ma ho sempre sognato di essere un campione. – disse ridendo e ripose Ursus nella sua gabbietta. – Come potete notare questo piccolo animaletto ha quasi sfondato il muro. – e indicò una bella infossatura nella parete.
Mentre i due ospiti si guardavano increduli prese il terzo topo e gli fece un grosso squarcio sulla schiena con un bisturi. Il taglio si rimargino immediatamente senza lasciare alcuna cicatrice. – E anche questo è opera delle nostre microsonde. –
Vedendoli tanto stupiti che sorrise pensando che i loro occhi sembravano sul punto di cadere in terra, sfoderò l’ultima meraviglia, quella per cui li aveva fatti venire lì.
- Se avrete la pazienza di attendere alcuni minuti, potrete scoprire cosa c’entra tutto questo con l’incredibile invenzione del dottor Loi. – Prese un altro ratto e gli iniettò davanti a loro il contenuto di una fiala che stava in una scatola insieme a un telecomando da automobilina. – Bastano tre o quattro minuti perché le sonde si moltiplichino e facciano il loro lavoro. – disse posando il ratto nella sua vaschetta.
Il ratto corse a bere e Enrico e il colonnello Mariani videro distintamente un piccolo bozzo formarsi sulla sua testa, per poi aprirsi e lasciare emergere una piccola antenna. Tempo tre minuti e il ratto si calmò e tornò a leccarsi la zampa, ignorando l’antenna che gli era cresciuta in testa.
- E ora… - disse Ferrero prendendolo dalla vasca e posandolo in terra, - …vai con lo spettacolo! – e cominciò a guidare il ratto per il pavimento usando il telecomando, facendogli fare tutti i movimenti che voleva.
- Pensate che questa piccola cosa possa in qualche modo interessarvi o volete continuare a usare quelle scomode coroncine che è così facile rompere o perdere? –

mercoledì 21 ottobre 2009

Evoluzione I,6.

Prima di farvi leggere il sesto capitolo, vi dò un suggerimento. Andate sul sito di Repubblica e guardatevi le foto del papa in preda alla bufera. E' l'imperatore di Guerre Stellari! E' lui! E' Palpatine! Cioè, non ci sono dubbi, è lui e basta.
E ora, dopo 'sta cazzata, eccovi il capitolo di oggi:

VI

Guardò incredulo il sacchetto di plastica che conteneva i suoi piercing e se lo infilò sorridendo in tasca. Aveva fatto suonare il metal detector come un carillon per ben due volte e lo avevano costretto a spogliarsi fino a rimanere in mutande, davanti a tutti.
La cosa più divertente era stato vedere la faccia di tutti quegli stupidi italiani quando avevano visto la svastica tatuata sul suo pettorale sinistro e il ritratto di Hitler che aveva sul braccio destro. Lo avevano guardato come una cacca, e così lui aveva guardato loro, inutili coglioni che non sapevano neanche in che mondo vivevano.
Lui non era come loro, lui aveva degli ideali sani e puri, e per questi ideali era pronto a fare qualunque cosa.
Il suo compito adesso era andare in Brasile, sul fiume Japurà, nell’oasi ricovero gestita da quel vecchio santo del dottor Teubner. Lui sapeva bene chi era quel vecchio novantenne, o almeno chi era stato più di sessanta anni prima. Era stato uno di quegli uomini che in nome del simbolo che lui portava tatuato sul petto aveva osato tentare di cambiare il mondo. Lui sapeva che quel vecchio era in realtà il maggiore Ludwig von la Salle, un medico nazista che aveva lavorato a Auschwitz con Mengele.
Il suo compito era trovarlo e assicurarsi che fosse proprio lui, e poi fare quello che era giusto fare.
Sull’aereo si sedette vicino a lui Suleiman, che vedendolo ebbe l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Fu dopo un’ora di volo che pensò di essersi confuso a causa della somiglianza di quello Skinhead con l’attore Ed Norton in un film di una quindicina di anni prima, American History X. Solo un mese dopo avrebbe ricordato dove loro due si erano già incontrati.
Il nazi, che dal passaporto risultava chiamarsi Edmund Strauss, lo aveva invece riconosciuto subito, era una delle sue caratteristiche quella di non dimenticare più un volto, e si era messo subito a leggere una rivista in tedesco mettendo bene in mostra la piccola svastica che era tatuata sulla sua mano destra. Questo avrebbe dovuto sviarlo abbastanza da fargli dimenticare la sua faccia appena scesi dall’aereo.
Suleiman comunque smise presto di pensare al nazi seduto di fianco a lui, dopotutto pensò, odiavano gli stessi nemici, e chiuse gli occhi ripensando a quella che era stata la sua vita fino a due anni prima.
Era sempre stato il migliore della classe, dall’asilo alle superiori, e aveva percorso in un lampo l’università, esattamente come suo fratello, per quanto in campi molto diversi.
Il suo sogno fin da bambino era sempre stato quello di essere il primo uomo a mettere piede su un pianeta lontano anni luce e per quello aveva scelto quel ramo di studi. La guerra intorno a lui gli era sempre sembrata qualcosa di temporaneo e non aveva mai provato odio per gli Israeliani, come anche suo fratello.
Poi quei bastardi avevano sbagliato a lanciare un missile e tutta la sua famiglia era morta, come anche la sua gamba; mentre era intrappolato sotto le macerie, senza sapere ancora se sarebbe sopravvissuto, aveva deciso che quello che, forse, sarebbe uscito da lì, non sarebbe stato un tranquillo studioso di fisica teorica, ma un patriota pronto alla morte.
Quando aveva poi visto il cadavere del fratello, aveva detto di essere lui, perché nessuno prenderebbe sul serio uno studioso di scimmie con la coda prensile, nessuno avrebbe potuto crederlo un terrorista pronto ad uccidere.
Due anni di preparativi lo avevano portato fin a questo punto:
era in viaggio verso il Brasile dove, vicino alla frontiera con la Colombia, avrebbe incontrato i suoi contatti, dei trafficanti di coca che usavano come copertura un’oasi di protezione della fauna e lì avrebbe montato la bomba. Sorrise scivolando nel sonno, al pensiero del plutonio che viaggiava in un contenitore a tenuta stagna attaccato con una calamita alla chiglia di un mercantile americano. Tempo dieci giorni e i suoi compagni lo avrebbero preso nel porto di Rio e lo avrebbero portato da lui insieme all’oppio puro che era chiuso con lui nel contenitore magnetico. I suoi amici colombiani sarebbero stati contenti e lui avrebbe potuto lavorare alla sua vendetta.
Anche Edmund si addormentò e sognò il suo passato. Sognò la sua infanzia nel Kibbutz, sua sorella Sara e i suoi genitori, sempre con la pelle scottata dal sole. Sognò suo nonno, che aveva sempre preferito parlare in tedesco perché non aveva mai imparato bene l’ebraico, suo nonno che gli raccontava sempre dei campi di concentramento, dove i Tedeschi avevano tentato di ucciderlo.
Poi sognò il servizio militare, i bus esplosi e i pezzi di bambini che aveva visto penzolare dagli alberi una volta, e i posti di blocco e i volti di quei poveri ragazzi palestinesi, in fondo così simili a lui, che sembravano volerlo uccidere con lo sguardo.
E poi sognò anche l’arruolamento nel Mossad, l’addestramento che aveva cancellato in lui ogni umanità, trasformandolo in una macchina, interessata solo a compiere la sua missione. Malgrado l’addestramento aveva pianto e aveva vomitato quando si era fatto fare quei tatuaggi, si era sentito sporco quando si era dovuto infiltrare tra quei nazisti di merda a Dresda, fingendo di essere uno di loro, di parlare e di pensare come loro.
E poi sognò la sua missione, quel giovanissimo medico che più di sessanta anni prima aveva torturato e ucciso un migliaio di bambini, che aveva mandato a morire alle camere a gas centinaia di migliaia di poveretti con un alzata di sopracciglio. E ora quel vecchio avrebbe pagato, ma non prima di aver fatto i nomi di quelli che lo avevano aiutato a salvarsi, di quelli che si erano nascosti come lui in Sudamerica.
E infine sognò il momento in cui si sarebbe fatto togliere quei tatuaggi e sarebbe tornato a casa, un momento che purtroppo non sarebbe mai arrivato.
Così quei due ragazzi, quei due impostori che si erano già incontrati una volta in passato, dormivano vicini, ignari l’uno dei segreti dell’altro e ignari anche del futuro che li avrebbe attesi di lì a pochi giorni.

martedì 20 ottobre 2009

Evoluzione I,5.

E siamo così arrivati al quinto capitolo. Voi, miei cari, inesistenti, lettori, come trovate il sudato parto della mia mente? Orrido? Patetico? Squallido? O qualcuno di voi lo triva leggibile? Boh! Mi sa tanto che sto parlando da solo.
Comunque, eccovi il capitolo di oggi:

V

Gli attentati aerei avvenuti negli ultimi undici anni avevano reso le operazioni di imbarco di una lentezza e di una difficoltà kafkiane, ma quando i controllori si trovavano di fronte ad un mediorientale come lui, nelle sue condizioni, si precipitava allora nella commedia dell’assurdo.
- Allora signor Al Karoun, ci spieghi di nuovo il motivo del suo viaggio. – disse con fare sgarbato il poliziotto italiano che lo aveva fermato e portato in un piccolo ufficio sporco e buio.
“ E dire per piacere no?” pensò Suleiman, poi disse: - Sono un ricercatore specializzato in primati del nuovo mondo e sto andando in Brasile per un periodo di studio nell’oasi di ricerca del fiume Japurà, dove mi tratterrò per almeno un anno per studiare i cebi cappuccini.-
- Che sarebbero? –
- Sono delle scimmie platirrine tipiche della foresta pluviale del Sudamerica, ormai in via d’estinzione. L’oasi sul fiume Japurà è uno degli ultimi luoghi al mondo dove si possono osservare allo stato libero.
- Come mai un arabo si interessa al Sudamerica? – chiese un altro poliziotto che aveva un unico sopracciglio che andava da un lato all’altro della fronte. – Non ne avete scimmie in Africa? –
- E come mai uno con la faccia da contadino del Medioevo fa il poliziotto? – scappò di bocca a Suleiman. – È quello che ho studiato, è il mio campo. E poi io sono palestinese e non ne abbiamo di scimmie lì. –
- E la gamba come l’ha persa? –chiese allora il primo poliziotto.
- È stata una bomba israeliana, hanno colpito il mio palazzo e la mia gamba è rimasta lì sotto con tutta la mia famiglia. –
- Ci parli di suo fratello. – disse allora l’altro.
- Chi? –
- Suo fratello Daoud. Non lo ricorda più? –
- Daoud era il mio gemello ed è morto due anni fa nel bombardamento del mio palazzo. Certo che lo ricordo.- li guardò con odio – Perché mi chiedete di lui? –
- Lui non era un biologo, no? –
- No. –
- Non era un fisico? – chiese il primo poliziotto.
- Un fisico nucleare? – aggiunse l’altro.
- Sì, e allora? –
- Be’, stiamo parlando di un fisico nucleare, uno che ha a che fare con le bombe. –
Scattò in piedi battendo i pugni sul tavolo. – L’unica volta che mio fratello ha avuto a che fare con le bombe è stato quando gli Ebrei lo hanno ammazzato! Lui era un fisico teorico e studiava la teoria delle stringhe! –
- Si calmi signor al Karoun. – disse il monosopracciglio, - Si tratta di domande che dobbiamo fare. Cosa ha detto che studiava suo fratello Daoud? –
- La teoria delle stringhe. È una teoria che dovrebbe spiegare l’origine dell’universo coniugando la teoria della relatività e la fisica quantistica. – e vide i volti dei due poliziotti trasformarsi in dei punti interrogativi viventi. –
- Va bene, va bene, signor al Karoun. – gli rese il passaporto e poi aggiunse: - Daoud era suo fratello gemello? –
- Sì. –
- Lei odia chi lo ha ucciso? –
Suleiman sorrise e disse: - Perché non posso? –
- Purtroppo in questo mondo di merda siamo costretti a sospettare di chi è nella sua situazione. – e gli porse la mano.
Suleimani gliela strinse sorridendo, ma l’altro disse: - Dovremmo perquisire la sua gamba.-
- Cosa? – urlò quasi.
- Dovremmo controllare l’interno della sua protesi. – disse guardandolo negli occhi.
Suleiman poggiò la scarpa sulla sedia, tirò su la gamba del pantalone mettendo in mostra un polpaccio di plastica bianca lucida e disse: - Ma lo sapete quanto ci vuole a rimettersela e a collegarla di nuovo all’impianto neurale? –
- Va bene così, signor al Karoun. – disse allora il primo poliziotto – Non c’è bisogno che la tolga. Tanto ci troveremmo solo circuiti e motori. – aprì la porta e disse: - Buon viaggio signor al Karoun, e ci saluti le scimmie. –
L’altro poliziotto non era assolutamente d’accordo, ma quello “buono” gli fece cenno di stare zitto e diede di nuovo la mano a Suleiman.
- Grazie, agente. – rispose e andò ad imbarcarsi tirando un sospiro di sollievo.
Il primo poliziotto lo guardò allontanarsi e chiuse la porta.
- Fatto! – disse il monosopracciglio – Dici che c’è cascato? –
- Direi di sì. – disse il primo – Quel bastardo è assolutamente convinto di averci fatto fessi. Se non gli avessimo chiesto del fratello si sarebbe insospettito. –
- Sì, ma se penso a quello che vuole fare e noi lo lasciamo andare così. –
- È solo così che potremo prenderli tutti. E poi stai tranquillo, il nostro buon Daoud tra un mesetto rimpiangerà amaramente di non essere stato fermato all’aeroporto. –

lunedì 19 ottobre 2009

Evoluzione I,4.

Ed eccoci al quarto capitolo. Ma qualcuno li sta leggendo? O sono come un pazzo che predica nel deserto? Che qualcuno mi risponda, vi prego?
E ora, dopo i miei lamenti, a voi la mia opera:

IV

Il giorno dopo quell’incredibile notte d’amore con sua moglie, svegliatosi come drogato dall’esperienza della mente condivisa con la donna che amava, Enrico Loi andò come previsto da un mese a presentare la sua invenzione ai suoi datori di lavoro con le stellette.
- Buongiorno signor Loi. – disse con voce adatta a comandare il colonnello dell’esercito che si trovò davanti nella sala dove avrebbe tenuto la conferenza. – Sono il colonnello Mariani, incaricato dallo Stato maggiore di esaminare quelli che ci dicono essere i rivoluzionari risultati del suo lavoro. –
- Piacere. – disse Enrico tendendogli la mano e vedendo solo allora che il militare aveva al posto del braccio destro una protesi uguale in tutto e per tutto alle braccia dei droidi che facevano le pulizie in tutti i laboratori del centro. Era la prima volta che vedeva una protesi nuda, non ricoperta dalla pelle cosmetica, ma trovò questo un vezzo adatto ad un militare.
Mariani vide che stava guardando la sua mano e disse: - Una bomba in Libano, ma come vede la protesi funziona ancora meglio del mio vecchio mazzo di salsicce. -, e gli strinse la mano con una delicatezza che sembrava stonare con la fredda rigidità di quelle dita di plastica.
- Allora Enrico! – disse con falsa allegria il suo capo Antonio Meucci, proprio come l’inventore del telefono, che se la stava evidentemente facendo sotto dall’emozione, - Siamo pronti per la dimostrazione? –
- Sì capo. – disse lui poggiando sul lungo tavolo, posto davanti all’anfiteatro di sedili su cui avevano preso posto altri militari pieni di decorazioni e una decina di altri studiosi per un totale di almeno trenta lauree specialistiche, i due grossi labirinti di plastica in cui si sarebbero mossi i due topi.
Posò poi ai lati dei due labirinti le tre vaschette in cui stavano i ratti, uno bianco, uno marrone e uno nero.
Prese il primo, Albus Silente, e gli pose sulla testa una coroncina uguale a quelle che avevano usato la notte precedente lui e Marina, accendendola.
- Quello che ho appena messo sulla testa del nostro piccolo ratto è il risultato dei nostri studi degli ultimi anni, una sorta di modem mentale, capace di collegare tra loro le cortecce cerebrali di due esseri facendo così funzionare in rete le loro menti. –
Posò Albus Silente nella stanza di partenza del primo labirinto e pose poi un pezzo di formaggio nella stanza d’arrivo. Prese poi il ratto marrone, che si chiamava James Brown, e
- Ora Albus Silente e James Brown sono una cosa sola, pensano gli stessi pensieri e vedono le stesse cose, potendo addirittura accedere l’uno alla memoria dell’altro, come vedrete tra poco. –
Sollevò la barriera che divideva Albus Silente dal labirinto e questi cominciò ad esplorare i corridoi che si trovava davanti, in cerca del formaggio, mentre James Brown correva senza posa sulla sua ruota.
Dopo cinque minuti e dopo aver sbagliato strada almeno una decina di volte, il ratto bianco trovò finalmente il suo formaggio e lo mangiò, mentre il ratto marrone smetteva di correre sul suo cricetesco tapis roulant.
Spense la coroncina sulla testa di Albus Silente e disse: - Ora questo ratto ha imparato la strada per trovare il formaggio e come lui lo ha fatto James Brown che non si è mai mosso dalla sua gabbia. –
Prese allora il topo nero, Black Jack, e posizionò sulla sua testolina una terza coroncina accendendola.
- E ora Black Jack e James Brown ci faranno vedere una piccola magia. – disse, e posò il ratto nero nel secondo labirinto, in fondo al quale stava li a spargere il suo odore un altro pezzo di formaggio. – Il ratto nero naturalmente non è mai stato in un labirinto simile. – disse e tolse la paratia.
James Brown ricominciò a correre sulla ruota e nello stesso istante Black Jack corse senza indugio tra gli stretti corridoi trovando dopo soli tredici secondi e senza alcun errore, il succulento premio in fondo al percorso.
Tutti gli spettatori scattarono in piedi applaudendo il risultato incredibile delle ricerche del dottor Loi, mentre il colonnello Mariani sfregava l’una contro l’altra le sue due diversissime mani pregustando i possibili utilizzi militari di quella splendida invenzione.
L’unico a non essersi alzato in piedi ad applaudire era stato il dottor Ferrero, responsabile del reparto di microelettronica e biomeccanica molecolare. Era invece corso incontro a Enrico, parlando con lui per tutto il tempo che erano durati i festeggiamenti sugli “spalti” del piccolo teatro.

domenica 18 ottobre 2009

Evoluzione I,3.

Ed eccoci al terzo capitolo, spero che i primi due vi siano piaciuti. A, se trovate qualche imprecisione, non li ho ancora riscritti, ricordate che sono parte di un libro abbandonato!
Ed eccovi il terzo capitolo:

III

Paulo, un bambino indio di circa sette anni che non era mai uscito dal suo piccolo villaggio sulle rive di un fiume dell’Amazzonia, corse con uno straccio stretto intorno alla mano dal vecchio che lui e tutti i suoi parenti chiamavano semplicemente il Dottore.
- Dottore, Dottore! – urlava il bambino – Mi sono fatto male alla mano! –
- Vieni qua Paulo. – disse il vecchio con quella voce che al bambino ricordava tanto quella del Papa, - Ora vediamo un po’ cosa ti sei fatto, piccolo animale.-
Il vecchio, che vecchio lo era davvero avendo ormai novanta anni, era alto un metro e ottantotto ed era ancora dritto come un fuso come gli avevano insegnato nella sua giovinezza in caserma.
- Che brutto taglio. – disse al bambino accarezzandogli la testa con la sua grossa mano su cui spiccavano le macchie marroni dell’età – Mi sa tanto che ci vorranno dei punti. –
Paulo cominciò a piangere tentando di togliere la sua piccola mano sanguinante dalla manona del vecchio, ma questi gli diede uno schiaffo e urlò: - Piccolo animale, nessuno ti ha dato il permesso di andare via! – e lui rimase lì, perché quando il Dottore si arrabbiava era sempre consigliabile obbedirgli.
Pulì la ferita con un disinfettante che bruciò un po’ al bimbo, che tentò inutilmente di trattenere le lacrime, poi gli diede due punti con un ago ricurvo che teneva immerso nell’alcol.
- Ora puoi andare, piccolo animaletto. – disse dandogli uno schiaffetto sul sedere e sorridendo con quei suoi vecchi denti un po’ gialli e consumati, - ma stai attento a non bagnare la ferita! –
Sorrise vedendo quel piccolino dalla pelle scura che correva fuori, poi si alzò e andò a coccolare il suo pastore tedesco che dormiva sul divano. – Andiamo Gunther! – disse in tedesco al cane e uscendo salutò alzando il braccio destro la bandiera con la svastica che pendeva alla destra della porta.
A pochi metri dalla porta della piccola casa in muratura in cui viveva sorgeva il piccolo ambulatorio in cui lavorava ormai da una sessantina di anni, cioè da quando era arrivato lì dalla Germania attraverso il porto di Genova e con l’aiuto dei suoi camerati. In quei tre piccoli ambienti in muratura di fango imbiancata a calce aveva fatto nascere migliaia di bambini e distribuito vaccini, continuando in segreto gli studi sui gemelli del suo vecchio maestro Joseph Mengele, scoprendo che quasi tutte le teorie di quest’ultimo erano sbagliate e dedicandosi così alla genetica e alla selezione della razza, così come coi cani aveva fatto suo nonno Heinrich von la Salle, uno dei padri del cane pastore tedesco.
Sessanta anni di cure e di incroci da lui segretamente predisposti avevano già fatto aumentare di dieci centimetri l’altezza media degli indigeni e di addirittura sedici punti il loro quoziente di intelligenza.
In lunghe chiacchierate con sua moglie Margarita, che era morta ormai da diciotto anni, era giunto alla conclusione che il nazismo, in cui lui credeva ancora con tutto sé stesso, aveva sbagliato nel porre le proprie premesse ed aveva quindi fatalmente fallito nella sua applicazione pratica.
- Vuoi dire che era dunque sbagliato eliminare i Giudei dalla faccia della terra? – gli aveva chiesto nel 1972 sua moglie con lo sguardo inviperito.
- No cara – le aveva risposto posando il bicchiere sul tavolo e parlandole con il tono che suo padre aveva usato un tempo con i suoi studenti all’università – Voglio solo dire che era sbagliata la ragione per cui noi li uccidevamo. -
I Giudei erano in effetti come diceva il nostro beneamato Fuhrer, brutti, avidi e costituzionalmente diversi da noi ariani, ma la genetica ci dice che la differenza non sta nella carne, ma nella loro storia ed evoluzione.
Io stesso non sono un ariano puro, discendendo per parte di padre da un francese, il cui puro sangue germanico era imbastardito dal sangue latino e celtico, ma una decina di generazioni di vita tedesca mi hanno reso forte e sano nella mente e nel corpo come un Goto di duemila anni fa.
Io penso che anche i Giudei, se rieducati e incrociati tra loro selezionandoli come mio nonno fece con degli inutili cani bastardi, potrebbero dare origine in poche generazioni a un essere bello e puro come questo cane. – e aveva indicato Herrmann, il pastore tedesco bisnonno di Gunther che dormiva in quel momento ai piedi della sua sedia.
- I Giudei sono sbagliati dentro. – aveva ribattuto però Margareta – sono diversi da noi quanto e più degli Slavi o dei negri o di questi stupidi indios in mezzo a cui siamo costretti a vivere. –
- No mia piccola… - le aveva detto dopo aver bevuto il suo vino, sorridendole con quell’espressione che aveva sempre quando le sentiva dire una idiozia – Anch’io credevo una volta questo, ma anni di studi e di ragionamenti sulla storia mi hanno fatto ricredere
Quali imperi hanno avuto successo nella storia, pensa un po’?
I Romani hanno creato un impero che è durato quattro secoli e che è crollato solo quando non ce l’hanno fatta ad assimilare i barbari che erano i nostri antenati. Pur essendo geneticamente inferiori, quei popoli latini governarono il mondo perché tutti nel loro Stato venivano trasformati in Romani.
La stessa cosa hanno fatto gli Austriaci nel loro impero farcito di feccia slava e turca, e gli Inglesi nel loro impero sparso tra Indiani e negri.
Ed ora il potere lo hanno gli Americani, con la loro ignoranza e la loro pretesa di essere i migliori in tutto. Per quanto il loro Melting pot mi possa fare schifo, con quell’orribile incrocio di negri e bianchi e giudei e chissà cos’altro, bisogna ammettere che questa loro civiltà per certi versi degenerata, produce dalla feccia dell’umanità quelli che posso indubitabilmente essere definiti dei veri Americani. –
Si alzò e guardò fuori dalla finestra la notte buia e piena di grida e fruscii animali. – Quello che rende un popolo forte, non è una sua presunta purezza, ma la sua capacità di assimilare a sé stesso chiunque venga in contatto con lui, assorbendone i possibili pregi e purgandone i difetti.
È per questo che i Giudei erano nostri nemici – aveva detto allora – non per una loro intrinseca inferiorità, ma perché rifiutavano di disperdersi totalmente nella nazione germanica rinunciando alle loro peculiarità. –
Da allora non avevano più parlato di questo argomento, perché lei non aveva compreso del tutto questa sua nuova concezione del nazismo, e anche perché la demenza aveva cominciato a rosicchiarle la mente poco a poco riducendola presto a una demente incapace di connettere e in fondo indegna di vivere. Di lì a pochi anni era stato costretto a ucciderla egli stesso con una iniezione di veleno, essendo una offesa alla splendida donna che era stata quell’esistenza menomata della mente.
Aveva allora dedicato quelli che sarebbero stati gli ultimi anni della sua vita allo studio della possibile elevazione della razza umana al di sopra del livello bestiale a cui la nostra condizione di bestie bipedi ci condanna, sorprendendosi a volte a passare le notti sveglio, baloccandosi con l’idea di un mondo dove non esistessero più vari uomini con le loro piccole menti simili a candele in una bufera, ma una sola grande e logica mente in cui tutti potessero perdersi e diventare migliori.

sabato 17 ottobre 2009

Evoluzione I,2.

Eccomi di nuovo a voi. Vi è piaciuto il primo capitolo? Volete leggere il secondo? Vi ricordo che finora ho scritto solo i primi 35, ne mancano 15 per finire, e che se non mi motivate un po', non lo finirò mai.
Vi ricordo che se volete motivarmi un po', potete richiedermi di continuare, o anche pregarmi di non scrivere mai più perchè sono un cane, scrivendomi su digiacomo.stefano@gmail.com o sulla mia pagina di anobii http://www.anobii.com/diggialibri
Comunque eccovi il secondo capitolo:

II

- Ma sei sicuro che funzionerà? – gli chiese Marina mentre si toglieva la camicia da notte rimanendo solo con un sottile paio di mutandine – non è che è pericoloso? –
- Per nulla cara – disse Enrico ponendole sulla testa una leggerissima corona metallica da cui pendevano una decina di elettrodi che collegò con delle piccole ventose alla sua testa – Ti giuro che sarà bellissimo. – e accese l’aggeggio sulla testa della moglie.
- Non sento nulla. – disse lei – Non dovrei sentire qualcosa? –
- Devo ancora accendere il mio. – disse lui che indossava una coroncina uguale e la accese in quel momento. – Non senti qualcosa ora? – le chiese.
- Sì. – rispose lei, sentendo nella sua testa la sua stessa risposta udita da lui.
“Carino no?” pensò lui e le sorrise facendole muovere involontariamente all’insù gli angoli della bocca.
- È pazzesco! – disse lei e di nuovo si udì contemporaneamente attraverso due paia di orecchie, non potendo fare a meno di ridere.
Anche lui rise, e la guardò, splendida nella luce soffusa delle candele.
- Sento un formicolio tra le gambe! – disse lei sbalordita – Ma che cosa è? –
Lui le prese una mano e se la posò sul pene che si stava indurendo e lei si stupì sentendo quel contatto nello stesso tempo sulle dita e sul corpo di lui.
“Che te ne pare?” pensò lui baciandola “Pensi che sarà bello? E tutti e due si baciarono sentendo le loro due lingue che si mischiavano in un nodo di Gordio di dolcezza nelle loro bocche.
Due anni prima Marina aveva avuto un incidente d’auto in cui si era spezzata il collo all’altezza della seconda vertebra cervicale; i dottori l’avevano operata installandole un impianto bio-elettronico che le aveva subito restituito tutte le funzioni vitali, permettendole di vivere una vita normale.
Quello che non era mai tornato come prima era stato il sesso. Fino ad allora tra loro era sempre stato bellissimo e lei aveva molto amato le loro notti infinite passate a rotolarsi tra le lenzuola, ma dopo l’incidente non aveva più avuto un orgasmo, neanche per sbaglio. Si erano resi conto con orrore che l’impianto nel collo era sì capace di bypassare la lesione trasportando gli impulsi dal corpo al cervello, ma questi arrivavano a destinazione raffreddati, come morti. Il sesso era allora diventato per lei una tortura, un semplice susseguirsi di messaggi del suo corpo che le faceva sapere che il pene, o la lingua o le dita del marito le stavano toccando la fica, ma senza che lei sentisse davvero il contatto con lui.
E allora Enrico si era messo a studiare un modo di superare questo problema e tornare ad essere felice con sua moglie. Questa sua ricerca si era poi intrecciata col suo lavoro di ingegnere del reparto nuovi armamenti dell’esercito, così che era arrivato ad una idea che avrebbe soddisfatto sicuramente sia sua moglie che i generali.
Quelle coroncine che portavano in testa erano dei dispositivi che collegavano in tempo reale le loro cortecce cerebrali, rendendo le loro menti una cosa sola. Lui guardava il corpo di lei e si eccitava a quella vista, ma contemporaneamente vedeva sé stesso attraverso i suoi occhi sentendo come anche lei si stesse eccitando.
Naturalmente la parte di stimoli proveniente da lei era più debole, passando attraverso un midollo spinale lesionato, ma quello che lui sentiva sarebbe bastato sicuramente a tutti e due.
La penetrò, e si sentì penetrare, facendole sentire dentro la sensazione di caldo, umido e strettezza che avvertiva sul pene come se fosse lei a farlo, e si mosse in lei sentendo che l’orgasmo sarebbe arrivato in poco tempo.
Marina, che non riceveva simili stimoli sessuali da due anni, arrivò con lui all’orgasmo, ma fu un orgasmo femminile, che è più lungo e più potente di quello maschile, sentendo quello che lui provava venendole dentro mentre i loro pensieri si fondevano in un gomitolo di sogni e carezze.
Si addormentarono mano nella mano e pensieri nei pensieri, sognando gli stessi sogni e scoprendo l’uno dell’altro ricordi segreti e ormai dimenticati. La notte in cui cominciò tutto fu per loro la notte più bella della loro vita.

venerdì 16 ottobre 2009

Ora vi faccio una proposta. Evoluzione I,1.

Alcuni anni fa, dopo aver parlato all'università col mio amico Matteo del nostro argomento preferito, cioè il fantasy nelle sue tre facce di fantasy vero e proprio, horror e fantascienza, ebbi l'idea di scrivere un romanzo sull'argomento.
Avevo appena letto il romanzo di Stephen King "L'ombra dello scorpione" e mi venne naturale cominciare a scrivere una storia organizzata nello stesso modo, cioè per brevi capitoli riguardanti ognuno un personaggio diverso che, nel prosieguo del racconto, avrebbero finito per incontrarsi e interagire gli uni con gli altri.
Scrissi di getto i primi capitoli, divertendomi come un pazzo mentre dalla mia mente malata fuoriusciva una storia lunga e arzigogolata che a ogni snodo prendeva una forma diversa da quella che avevo preventivato.
Giunto a un certo punto, però, fui preso dal blocco dello scrittore, ma in una forma perniciosa, quella del blocco dello scrittore impubblicabile, perchè mi ero reso conto che per ragioni di copyright non avrei mai potuto proporre questa storia a un ipotetico editore.
Interruppi perciò la mia creazione e lasciai i miei personaggi lì a marcire, senza che però essi uscissero mai del tutto dalla mia mente.
Dei 50 brevi capitoli preventivati ne ho scritto, se ricordo bene, 35. All'incirca so dove andrà a parare la storia, ma solo scrivendola saprò anch'io come finirà.
Ed ecco la mia proposta: Io comincerò a pubblicare sul blog quello che ho scritto, un capitolo al giorno.
Se qualcuno lo leggerà e vorrà sapere come finisce, lo prego di scrivermi una richiesta o un incitamento alla mia e-mail digiacomo.stefano@gmail.com o sulla mia pagina di Anobii che si trova sotto la stessa dicitura.
Se qualcuno mi chiederà di finirlo troverò nuovi stimoli a farlo e, finalmente, riuscirò a scoprire come finiranno quei personaggi che io stesso ho creato.
E ora, dopo avervi salutati, ecco il primo capitolo:

EVOLUZIONE.

CAPITOLO I

I

Se c’era una cosa che Elena Risso odiava, era stare in coda in banca. Passare delle mezz’ore in piedi dietro a degli sconosciuti in quegli ambienti squadrati e asettici la cui unica funzione era quella di fotterti i soldi le faceva venire sempre una punta di nausea.
In più da un anno circa la situazione era ancora peggiorata con quei cosi schifosi, i droidi, con quella loro andatura affettata da ballerino finocchio e quelle loro armature di plastica tipo soldati di Guerre stellari, che le davano sempre l’idea di essere state disegnate da un progettista pigro e stupido, di quelli fissati con la fantascienza più becera.
- Scusi signora.- disse con voce vellutata e priva di intonazione il droide che stava in coda davanti a lei e che aveva appena urtato facendo un passo avanti. Non gli rispose e incrociò le braccia, ma pensò che quando sei mesi prima era stata licenziata perché il suo lavoro di impiegata poteva essere fatto altrettanto bene, ma a un decimo del costo da un suo simile, quello schifoso ammasso di plastica non le aveva mica chiesto scusa.
- Tutti a terra! – urlò una voce alle sue spalle, e poi fu assordata da una serie di boati che capì essere una raffica di mitra solo alcuni istanti dopo. – Tutti a terra, stronzi! Chi tenta di fare il furbo lo mando a conoscere Dio in men che non si dica.- e sparò un’altra serie di colpi.
Elena si gettò a terra come tutti gli altri a parte il droide, che guardò l’uomo col passamontagna e gli disse con la sua voce sintetica: - Signore, penso che farebbe meglio a gettare quell’arma, prima di fare del male a qualcuno.-
Il tizio mascherato, che aveva due compagni che portavano anch’essi il passamontagna, gli rise in faccia e disse: - Ma senti te questo ammasso di ferraglia. Se non fosse per questi cosi di merda avrei un lavoro e non sarei qui! – e sparò più volte addosso all’automa che si spezzò all’altezza della vita e cadde in terra vicino a Elena.
Due rapinatori corsero alle casse per prendere i soldi, mentre il loro capo andava col direttore, che si era evidentemente pisciato addosso, a prendere i soldi in cassaforte.
- Stia tranquilla, signora. – disse a bassissima voce il droide a cui mancava mezza faccia portata via da una pallottola, - Tra pochi minuti sarà tutto finito.- E le fece una carezza sulla mano che tremava.
Pochi secondi dopo questa per lei inaspettata dimostrazione di umanità da parte del droide, Elena sentì delle urla degne di un decerebrato provenire dalla stanza in cui si erano infilati il direttore e il tizio col mitra.
- Ma le ho già detto che non ho io le chiavi! – disse con voce implorante il direttore – L’apertura è a tempo e io non posso farci niente. – e altre grida da idiota gli risposero, grida in cui lei afferrò solo le parole “...fuori da qui…”, al che il direttore uscì e fu falciato alla schiena da una decina di colpi che gli fecero uscire gli intestini sul davanti, mentre cadeva a terra in una pozza di sangue che da lui stesso nasceva.
Elena si coprì gli occhi con le braccia intrecciandole davanti alla fronte, mentre una guardia giurata ebbe la bella pensata di tirare fuori la pistola dalla fondina. La canna della pistola non era ancora uscita del tutto dal suo alloggiamento che uno degli altri due rapinatori si era già messo a prenderlo a calci e lo aveva poi freddato con un numero assolutamente folle di colpi.
- Noi volevamo solo i soldi! – disse il capo urlando verso gli ostaggi che non avevano neanche il coraggio di alzare gli occhi verso di lui, - Ma questi stronzi hanno provato in tutti i modi a romperci i coglioni! Cazzo, se la sono voluta, ma io non esco di qui senza i soldi, dovessi ammazzare tutti voi pezzi di merda! –
Fu allora che Elena vide accendersi il piccolo led sulla tempia del droide; avendo lavorato per un po’ col robot che l’aveva poi sostituita, sapeva che in quel momento era collegato alla rete. Il droide alzò la testa e guardò i tre rapinatori muovendo la sua testa ovale sul collo sottile, quando all’improvviso da dietro alle porte e ai muri di cartongesso esplosero dei colpi d’arma da fuoco che colpirono i delinquenti.
I due scagnozzi del capo furono colpiti alla testa, ma lui fu colpito solo a un braccio di striscio e, avendo capito che i poliziotti stavano vedendo attraverso l’occhio del droide, gli sparò alla testa facendola esplodere.
- E ora come mi vedrete? – urlò rivolto ai muri e prendendo in braccio una bambina di tre o quattro anni che urlava come un maiale sgozzato mentre la madre che tentava di trattenerla veniva presa a calci in faccia, - Senza quel rottame del cazzo come mi potrete colpire? –
- Ehi tu! – urlò qualcuno da dietro a una porta chiusa – Voglio entrare a parlarti, sono disarmato! –
- Col cazzo! – urlò il rapinatore, - Se provi a entrare ammazzo la mocciosa! –
- Se non ne esci parlando con me, credimi – disse la voce da fuori – è molto difficile che tu ne esca vivo. –
Il rapinatore non sapeva cosa fare, poi disse: - Entra pure, stronzo, ma se sei armato, dovrete lavare via il cervello della bambina dai muri di questa maledetta banca! –
- Entro adesso, ma tu stai calmo! – disse l’altro. La porta si aprì ed entrò un uomo ricoperto da un’armatura in kevlar, con le mani alzate e vuote, ma con un casco in testa su cui lampeggiava un led come sulla testa del droide.
- Cazzo! – urlò il rapinatore alzando il mitra verso il poliziotto disarmato, ma una fucilata lo colpì alla nuca da dietro a un muro prima che potesse far fuoco. Cadde a terra sopra la bambina, che fu innaffiata dal suo sangue, mentre la madre strisciava verso di lei per soccorrerla.
- Ottimo lavoro Beppe! – disse il poliziotto andando a tastare il collo dell’uomo a terra. – Colpito e affondato. –
- Be’ – disse un altro poliziotto entrando dalla porta – Dopotutto vedevo con i tuoi oc- chi. –
- Mi dispiace ragazzi! – disse un terzo uomo armato entrando – l’ho preso solo al braccio, ma la visione del droide non era precisa nel punto dove si trovava questo stronzo. –
- Non ti preoccupare Nicola – disse il primo poliziotto togliendosi il casco – C’è voluto solo un po’ più tempo. – ed uscirono senza neanche guardare gli ostaggi, che erano ancora seduti o coricati in terra, coperti di sangue e circondati dai cadaveri, mentre il droide smetteva di funzionare con la sua mano stretta in quella di Elena.

mercoledì 14 ottobre 2009

Scusate il ritardo.

Il titolo l'ho rubato a Troisi, e ne chiedo scusa a tutti.
E' un po' che non scrivo qualcosa sul blog e voi, i miei inesistenti lettori, starete sbavando in attesa di un mio nuovo racconto. Eccovelo,miei cari, ma attenti, fa paura e poi di notte avete gli incubi, si intitola:

PULIZIE

- Ciao ragazzo, forse un giorno ci rivedremo. – disse e rise sapendo che questo per Nicki non era una grande prospettiva – Buon lavoro, per stanotte. E buona fortuna per il futuro. – aggiunse e si chiuse la porta alle spalle lasciandolo solo nella casa ridotta a un campo di battaglia disastrato.
Il ragazzo si sedette in terra e si coprì gli occhi con le mani, piangendo per quello che era successo, per quello che avrebbe dovuto fare e per quello che gli sarebbe successo in futuro. Poi si alzò e andò a prendere gli attrezzi di papà in garage, sperando di avere abbastanza pelo sullo stomaco per fare il suo dovere.
Tornando in cucina con la sega e l’ascia si sentì totalmente privo di forza ed ebbe una voglia incredibile di abbracciare la sua mamma, ma sapeva benissimo che sua madre non lo avrebbe abbracciato mai più, almeno al modo giusto, e si vergognò della sua debolezza, anche se era assolutamente comprensibile in un sedicenne nella sua situazione.
Tagliò una gamba del tavolo e, mentre la affilava con piccoli colpi d’ascia, ripensò a come era cominciata la serata.
- Ciao papà! – aveva detto Samantha vedendo rincasare il padre, ma subito lei e il fratello si erano accorti che qualcosa non andava. – Cosa c’è papà, stai forse male? –
- No ragazzi, è solo che ho visto una cosa che non…- aveva detto asciugandosi il sudore dalla fronte anche se era febbraio e c’erano solo otto gradi fuori. La mano che reggeva il fazzoletto tremava come quella del nonno. - …è solo che…non so ragazzi, niente! – e aveva fatto quello che secondo lui doveva essere un sorriso tranquillizzante.
- Ciao Marco! – aveva detto mamma uscendo dalla cucina e andando ad abbracciarlo, ma lui prendendola per un braccio l’aveva portata in camera e si era chiuso la porta alle spalle.
Nicky e Samantha si erano guardati totalmente sorpresi dal comportamento del padre, che avevano deciso all’unanimità essere il quarantenne più noioso e prevedibile di tutto l’emisfero settentrionale. Poi avevano sentito la cosa più orrenda da quando erano nati, la voce del padre che piangeva.
- Ma che cazzo succede? – aveva chiesto con la faccina terrorizzata Sam che aveva solo quattordici anni e a parte due minuscole tette era ancora una bambina – Cosa ha papà? –
- Non lo so Sam, sembra sotto shock. – le aveva risposto, tentando di sentire cosa mamma e papà si stessero dicendo oltre la porta della camera. – Potrebbe aver avuto un incidente, forse. – aveva azzardato sperando che una possibile spiegazione avrebbe impedito a Sam di piangere. Non lo avrebbe sopportato, perché anche lui sentiva le lacrime dietro alle palpebre.
- Non sembra ferito. – aveva detto allora Samantha – Non avrà mica messo sotto qualcuno, non è che lo devono arrestare? – e le prime lacrime avevano cominciato a scendere sulle guance arrossate della ragazzina, quando qualcuno aveva bussato alla porta e lui era andato a vedere chi rompeva.
- Mannaggia a me che sono andato ad aprire. – disse piangendo mentre buttava a terra la gamba del tavolo ormai affilata e cominciava a segarne un’altra. Gliene servivano tre e pensava di finire in circa tre quarti d’ora; poi sarebbe venuto il difficile, purtroppo.
Si sedette su una sedia con il pezzo di legno appoggiato sulle gambe e cominciò a lavorarlo con l’ascia lanciando ogni tanto un’occhiata alla sala dove li aveva messi. C’ era tempo ed erano solo le dieci e mezza, la notte sarebbe stata lunga per lui.
Aveva guardato dallo spioncino e un uomo in giacca e cravatta fuori dalla porta gli aveva detto: - Sono qui per suo padre, sono della polizia. –
- Della polizia? – aveva chiesto alzando la voce.
- Sì, devo parlare con suo padre. Posso entrare? – aveva chiesto guardandosi intorno con fare imbarazzato.
- Sì, ora le apro. – aveva risposto proprio mentre il padre usciva di corsa dalla camera con mamma in lacrime alle sue spalle, urlando: - No! Non aprire! –
- Cosa? È un poliziotto pa’. –
- Non aprire, cazzo! – aveva detto prendendolo per un braccio e spingendolo via con violenza, proprio lui che non aveva neanche mai schiaffeggiato uno dei suoi figli, poi aveva urlato rivolto all’uomo al di là della porta: - Vattene via! Non ti lascerò toccare la mia famiglia! – e di nuovo la sua voce era stata rotta da singhiozzi che erano stati per Nicky più fastidiosi del rumore delle unghie sulla lavagna.
- Ma cosa dice, signore… - aveva detto l’uomo da fuori con una voce così tranquilla che era suonata falsa alle orecchie di Nicky – Voglio solo parlare con lei, forse se parliamo si risolverà tutto e non ci saranno conseguenze per lei e la sua famiglia. –
- Vai via! – aveva urlato il padre piangendo mentre alle sua spalle mamma si mordeva le unghie a sangue con il terrore negli occhi misto alle lacrime.
- Ma cosa c’è? – aveva chiesto Samantha tirando per un braccio la madre – Cosa vuole quell’uomo? –
In quel momento la maniglia della porta aveva cominciato a girare e i fermi erano scattati come se l’uomo là fuori avesse avuto le chiavi, poi la porta si era aperta e il poliziotto, magro e più alto del padre di un palmo, era entrato in casa fissando negli occhi Nicky.
- Mi ha guardato così perché io lo ho invitato a entrare. – disse Nicky alla stanza vuota, gettando la gamba del tavolo che aveva appena finito sull’altra che stava ad aspettarla in terra vicino ai suoi piedi. – È per colpa mia che è entrato. – disse e si alzò per tagliare la terza gamba del tavolo che mamma aveva ereditato dalla nonna.
Sentì un suono provenire dalla sala e sentì il suo cuore fermarsi per un attimo. Si voltò così lentamente che sentì quasi cigolare le ossa del suo collo, e vide che erano ancora lì dove li aveva messi. Era stato Muffin, il loro gattone castrato, che era saltato sul divano in tutto quel macello che non sembrava neanche notare. Si rimise al lavoro dopo aver guardato di nuovo l’orologio a muro; il tempo passava e lui aveva ancora molte cose da fare prima di poter scappare.
- Buonasera signor Pallaro. – aveva detto con fare educato l’uomo alto vestito in giacca e cravatta – Suo figlio mi ha invitato ad entrare e ora, se lei è d’accordo, dovrei parlare con lei di una cosa importante. –
- Fuori da casa mia! Fuori! – aveva urlato il padre mettendosi tra l’estraneo e la famiglia che non capiva più cosa stesse succedendo.
- Signor Pallaro, io non uscirò da qui senza aver risolto il nostro piccolo problema. – aveva risposto sorridendo l’altro – Vuole forse che andiamo a parlare in un’altra stanza? –
- Non parlerò con lei! Lei deve solo uscire da qui e forse io non parlerò a tutti di quello che lei è e fa di notte. –
L’uomo alto aveva scosso la testa con un’espressione a metà tra delusa e sorridente, poi aveva detto: - Lei non mi dà scelta, signor Pallaro. È lei che mi costringe a farlo. –
Raccolse le tre gambe che aveva appuntito e le portò in sala, gettandole sul divano vicino a Muffin, poi tornò in garage e prese anche la tanica di benzina e la mazzetta da cinque chili con cui il padre era solito piantare i pali dei recinti intorno all’orto. La soppesò e gli sembrò adatta alla bisogna. Tornando in casa si fermò un attimo nel corridoio temendo di non sopportare di nuovo la vista di quello che lo aspettava in sala, ma ripensò alle parole che gli aveva detto quell’uomo e andò avanti.
- No. – aveva detto il padre con un filo di voce – No, la prego. –
- Ormai è tardi. – aveva risposto l’uomo chiudendosi la porta alle spalle – Le prometto che sarò veloce. –
- No! – aveva urlato il padre abbracciando moglie e figlia che erano vicino a lui e sapevano solo di dovere aver paura, Nicky era da solo dall’altra parte del corridoio e tremava come una foglia.
Lo sconosciuto si era mosso ad una velocità che nulla aveva di umano. Era saltato sulle tre persone terrorizzate che si trovava di fronte e le aveva prese tra le braccia sollevandole da terra. Le aveva portate in sala e lì aveva cominciato a fare quello per cui era venuto lì quella sera.
Era successo tutto per colpa del padre, o almeno quello che suo padre aveva visto ne era stata la causa scatenante; per questo decise di cominciare il suo lavoro da lui. Forse la sua relativa colpevolezza avrebbe reso più facile cominciare.
Voltò il corpo sulla schiena e gli aprì giacca e camicia sul petto, scoprendo la pelle villosa del padre che aveva adesso un colorito bianco grigiastro che dava l’idea dell’argilla asciutta più che dell’epidermide umana. Facendosi forza appoggiò la punta della gamba di tavolo all’altezza del cuore di suo padre e alzò sopra la testa la mazzetta sperando che un colpo solo fosse sufficiente a spezzare le costole.
Nicky era rimasto fermo per tutto il tempo, che poi era stato poco a dire il vero, incapace di muoversi sia per aiutare la sua famiglia che per fuggire lontano da quell’orrenda dimostrazione che Amleto aveva ragione riguardo alle cose che ci sono tra cielo e terra.
Lo sconosciuto era cambiato davanti ai suoi occhi e, malgrado avesse avuto ancora lo stesso numero di arti e gli stessi lineamenti sul viso, neanche un idiota avrebbe potuto confonderlo con un essere umano. Aveva morso prima sua madre, tenendo tra gli artigli i colli di suo padre e di Sam, i cui sguardi colmi di paura erano forse più spaventosi delle zanne che si erano affondate nella morbida pelle della madre e dei gorgoglii di risucchio che gli ferivano le orecchie da alcuni metri di distanza.
Poi era stato il turno del padre e, solo quando ormai gonfio di sangue come una sanguisuga il vampiro aveva aggredito Sammy, Nicky aveva tentato di muoversi per difenderla, ma il mostro, con la bocca oscenamente attaccata alla pelle della bambina piangente, si era voltato verso di lui guardandolo con occhi che rilucevano della luce dell’inferno, occhi rossi che ti bruciavano dentro come le fiamme della dannazione, immobilizzandolo lì dove si trovava, con una gamba e un braccio protesi in avanti verso una vittima che non poteva aiutare.
Quando calò la mazzetta la prima volta il palo gli sfuggì di mano e l’unica cosa che ottenne fu di rischiare di spiaccicarsi una mano e di aprire una grossa ferita sul petto del padre. La pelle si aprì di scatto, come tirata verso l’esterno, mostrando una carne bianca e asciutta che sembrava petto di pollo quasi cotto, come tenuto per ore a bagno nel limone.
Rialzò la mazzetta, riposizionò la punta sul cuore e, pensando che non ci sarebbe mai riuscito, calò con forza il colpo sulla base della gamba del tavolo, la cui punta penetrò nel petto in un rumore di ossa frantumate, maciullando il cuore del padre, che sembrò subito ritornare ad un normale aspetto di cadavere, non più come illuminato dall’interno dalla luce malefica dell’inferno.
Prese allora l’ascia e con un colpo deciso spiccò la testa del padre dal collo, fermandola con un piede prima che cominciasse a rotolare per il salotto.
Aveva fatto cadere a terra il corpo di Sammy che si era accasciato sul tappeto come se non avesse avuto neanche le ossa, rimanendo con gli occhi sbarrati, ma quanto orribilmente bianchi, rivolti verso il soffitto a guardare delle mosche che giravano in tondo e che lei non poteva più vedere.
- E ora… - aveva detto camminando verso di lui con uno sbaffo di sangue che gli colava dall’angolo della bocca - …ora vediamo di dare un senso alla serata. – e lo aveva inaspettatamente evitato, andando invece in bagno dove aveva sputato nel lavabo un po’ di sangue e si era poi lavato faccia e mani, tingendo di acqua rosata la ceramica bianca su cui spiccava una piccola macchia verde di dentifricio. – Così troveranno tracce di sangue nei tubi. – gli aveva detto sorridendo con un viso che ora un ingenuo avrebbe potuto facilmente scambiare per umano.
- Ora mi ucciderai? – gli aveva chiesto Nicky.
- No, piccolo, mi servi vivo. –
Aprì la giacca di pile della sorella scoprendo un magro petto androgino coperto da una t-shirt bianca appena deformata dai due piccoli seni che adesso non sarebbero mai cresciuti come quelli di mamma, cosa che era invece il sogno di Sammy, come gli aveva confessato l’anno prima.
Appoggiò la seconda gamba del tavolo di un centimetro a sinistra dello sterno, la stoffa si piegò intorno alla punta irregolare come lo spazio e il tempo intorno ad un buco nero, poi calò con forza la mazzetta, trafiggendo il cuore della piccola a cui un minuscolo rivoletto di sangue gocciolò giù dalla bocca aperta. Le chiuse gli occhi che erano rimasti sbarrati e poi con l’accetta le tagliò il piccolo collo facendo rotolare su un fianco la testa che portava ancora i capelli legati a coda di cavallo.
- Perché io ti servo vivo? – gli aveva chiesto.
- Perché se no la strage che ho appena commesso sarebbe stata inutile. – aveva risposto senza che il minimo cambiamento di tono avesse sfiorato la sua voce quando aveva detto strage.
- Non capisco. –
- Ora ti spiego, Nicky. Ti chiami così no? –
- Nicola Pallaro. –
- Nicola. Bene Nicola, stasera avevo fame, fame del mio tipo, come potrai capire, e come al solito mi ero scelto una vittima tra le persone spostate, senza fissa dimora e senza amici che possano segnalare alle autorità la loro scomparsa. Capisci? – gli aveva chiesto asciugandosi le mani e la faccia con l’asciugamano verde che era il preferito di mamma.
Nicky aveva annuito e lui aveva ripreso: - Vedi Nicky, pardon Nicola, io non mi devo nutrire molto spesso e la scomparsa di un decina di prostitute o spacciatori o barboni all’anno non viene notata da nessuno in una grande città come la nostra. Mi segui? – gli aveva chiesto e intanto aveva cominciato a sbottonarsi il polsino della bella camicia di lino che indossava.
- Sì. – aveva borbottato Nicky.
- Purtroppo proprio mentre stavo finendo di nutrirmi di una giovane polacca che avevo catturato fingendomi un gattino nel buio, con la coda dell’occhio ho visto un uomo che mi guardava col terrore negli occhi. Era tuo padre che non so bene perché era passato di lì e aveva visto tutto.
A proposito, sai per caso che cosa ci facesse lì in quella via buia e sporca? Andava a puttane? –
Nicky lo aveva odiato per quella domanda e gli aveva risposto: - Era una scorciatoia che usava lui. Ci diceva sempre di non passarci perché era una via troppo pericolosa per dei ragazzi. –
- Giusto! Comunque ha avuto tanta paura che girandosi e scappando gli si è impigliata la giacca in un ferro sporgente e si è strappata. Gli è caduto questo – e aveva tirato fuori da una tasca il portafogli di cuoio che lui e Sammy avevano regalato al padre a Natale – e mi ha risparmiato la fatica di cercarlo per tutta la città.
- Non capisco ancora. –
- Avrebbe parlato. Era un uomo importante e forse non tutti lo avrebbero preso per pazzo. Meno si sa che io gironzolo da queste parti e meno nemici ho. –
- E io? – gli aveva chiesto Nicky che ancora non capiva perché non era ancora morto.

Ora veniva la parte più difficile.
Si avvicinò al corpo della madre, la voltò sulla schiena e vide la ferita sul suo collo, così diversa dai discreti forellini che si vedono nei film dell’orrore. Era più simile al cratere di un esplosione, era come se le fosse esploso sul collo un grosso petardo. Accarezzò la guancia liscia della madre, coperta appena da un velo di trucco che si era messa perché era l’anniversario, non riuscendo a convincersi che era davvero morta e non sarebbe più entrata la mattina in camera sua per svegliarlo dandogli un buffetto sulla nuca.
Tentò di appoggiare la punta del palo sul petto, ma il maglione di lana si spostò col peso dell’arma e capì che doveva toglierglielo. Le tirò su il maglione scoprendo la pelle rosa della pancia e sentì come un pugno nello stomaco quando sollevandolo ancora apparvero i due grossi seni che lo avevano nutrito molti anni prima. Erano bianchi e pesantemente appoggiati sul petto, con i due capezzoli marroni che si stagliavano sul terreo colorito del cadavere. Le tolse totalmente il maglione perché non sopportava che il suo bel viso fosse coperto e prese in mano paletto e mazzetta per fare il suo dovere.
- Se per evitare che un tizio vada a raccontare che c’è un vampiro che succhia prostitute per strada entrassi in casa sua e mordessi tutti sul collo lasciando poi lì i cadaveri in attesa della polizia, sarei alquanto scemo, no? – gli aveva chiesto ridendo e arrotolandosi la manica sul braccio magro ma muscoloso.
- Forse. Ma è quello che hai fatto. – gli aveva detto Nicky.
- No piccolo. Tu sei vivo e nessuno ti crederà quando lo racconterai. Tutti penseranno che tu sia un sedicenne pazzo che ha massacrato la sua famiglia e ha infierito sui cadaveri per divertimento. – aveva riso felice per la sua astuzia – Le tue sembreranno le farneticazioni di un pazzo e parlando darai solo un’altra mandata alla chiave della tua cella. –
- Io non li toccherò. – aveva detto allora Nicky – chiamerò la polizia e quando verranno troveranno le tue impronte, la tua saliva sui loro colli, i segni dei tuoi denti e sarai rovinato.
Il vampiro aveva riso di gusto a queste parole e gli si era avvicinato per dargli una pacca sulla spalla. – Piccolo, se non fossi già un morto potrei anche morire dal ridere. – aveva detto e aveva ripreso a ridere.
- Guarda che non scherzo. – gli aveva detto allontanandosi di un passo.
- E neanche la tua sorellina scherzerà quando ti si infilerà nel letto e ti succhierà tutto il sangue dopo averti sedotto come una puttana dei vicoli, come non scherzerà tuo padre quando aggredirà i bambini dell’asilo bevendosene come niente una decina, o tua madre quando adescherà camionisti per morderli dopo che si saranno eccitati al profumo della sua passera. –
- Basta! – aveva urlato – Loro non lo farebbero mai! –
- E perché no? – gli aveva chiesto il vampiro con lo sguardo più innocente di quello di un bambino – Io amavo la mia famiglia eppure mia madre è stata la prima persona che ho ucciso, e mia sorella è venuta subito dopo di lei. –
- Tu sei un mostro! –
- Sì. E tra poco lo saranno anche loro, se non li impali, li decapiti, riempi le loro bocche di aglio e bruci i loro cadaveri. –
- No. –
- Non hai scelta. O loro o tutti quelli che ami, compreso te stesso. È così che va il mondo. – e intanto si era passato un’unghia sul polso aprendo un piccolo taglio da cui era sgorgato del sangue così scuro da sembrare nero nella luce elettrica della sala. Lo aveva preso per la nuca e lo aveva costretto a bere premendogli il polso sulla bocca.
Nicky, appena lo aveva lasciato, era corso in bagno a vomitare, e quando si era voltato se lo era trovato alle spalle.
- Perché? – gli aveva chiesto piangendo mentre sentiva lo stomaco che si rivoltava ancora dentro di lui.
- Così saprò sempre quello che starai facendo. Stai pure tranquillo, non è così che si diventa vampiri, ora c’è solo un remoto rischio che tu lo possa diventare dopo la morte. –
Nicky aveva vomitato ancora poca schiuma gialla e acida, poi era rimasto inginocchiato sul water a piangere mentre il mostro tornava in sala. Alzatosi lo aveva trovato seduto tra i cadaveri, col gatto che gli si strusciava sulle gambe.
- Simpatico animale. – aveva detto accarezzandolo, poi gli aveva chiesto: - Hai capito bene cosa devi fare? –
Nicky aveva annuito singhiozzando.
- Se non lo farai, non è che torneranno loro tre. Saranno tre vampiri che vorranno ucciderti, anche più cattivi di me. –
Nicky aveva annuito ancora, con le lacrime che gli scendevano sulle guance ricoperte da una rada peluria che suo padre non avrebbe mai visto diventare barba.
- Devi farlo subito, perché ognuno di noi si trasforma coi suoi tempi e qualcuno di loro potrebbe anche alzarsi prima di domani mattina. Se succederà non avrai scampo.
- Va bene, ora vattene dalla mia casa. –
- Ciao ragazzo, forse un giorno ci rivedremo. – aveva detto e aveva riso sapendo che questa per Nicki non era una grande prospettiva – Buon lavoro, per stanotte. E buona fortuna per il futuro. – aveva aggiunto e si era chiuso la porta alle spalle lasciandolo solo nella casa ridotta a un campo di battaglia disastrato.
Poggiando la punta del paletto sul petto della madre vide la pelle infossarsi sotto il suo peso e non poté fare a mano di toglierlo, trovando orribile l’idea di impalare quella donna che aveva tanto amato.
- Anche io ti amo. – disse una voce nella sua mente, una voce che gli fece venire freddo facendogli però un lieve solletico nel basso ventre.
- Chi è? – chiese alla stanza vuota stando in piedi in mezzo ai cadaveri della sua famiglia.
- Sono io Nicky. – disse ancora la voce, che però ora era anche nelle sue orecchie. La voce di mamma.
- No! –
- Sì caro. – disse la madre alzandosi, nuda dalla cintola in su e con uno sguardo che gli prometteva sesso quanto e più dei grossi seni che lo puntavano coi loro capezzoli marroni.
- Tu non sei mamma. – disse facendo un passo indietro mentre i suoi occhi non si staccavano dal suo corpo nudo – Vattene via! –
- Vieni da me Nicky. – disse lei alzando le braccia e andandogli incontro ancheggiando come una puttana. – Lo so che vuoi succhiarli di nuovo come quando ti tenevo in braccio da piccolo. Ora non sei più piccolo e ti voglio. –
Piangendo Nicky mosse un passo verso di lei, con un’erezione di cui si vergognava nei suoi pantaloni, riuscendo solo a pensare a quei seni grandi e pesanti che ondeggiavano lievemente ad ogni suo passo.
- Vieni Nicky, - disse lei poggiandogli le mani sulle spalle – vieni da me e baciami. –
Le poggiò una mano su un seno che era freddo nella sua mano, e si avvicinò a lei per baciarla come aveva baciato solo Erika durante la gita ad Atene, quando un movimento velocissimo fece sibilare l’aria vicino a lui.
Si riscosse da quell’incantamento e vide il corpo di sua madre, sempre a seno nudo ma non più provocante, giacere in terra mentre la testa rotolava pigramente vicino alla poltrona.
- Te lo avevo detto di fare in fretta. – disse il vampiro alle sue spalle gettando in terra l’accetta.
- L’hai uccisa. – disse.
- No. L’avevo uccisa qualche ora fa. Non era più lei e penso che anche tu lo sappia più che bene. –
Si voltò e guardò negli occhi gelidi quell’essere che per la seconda volta si era introdotto in casa sua cambiandogli la vita. – Ti odio. –
Il vampiro rise e disse: - E ora buon lavoro piccolo. – e uscì fischiettando lasciando Nicky solo col suo sgradevole lavoro.
FINE