domenica 4 ottobre 2009

Un racconto satirico.

Ciao o miei inesistenti lettori, dopo uno scavo archeologico nelle Marche sono tornato a casa con una abbronzatura da ciclista davvero ridicola e le mani distrutte da calli e cicatrici. Un capolavorino!
Però è stato anche divertente, c'erano un sacco di miei amici, soprattutto belle ragazze, e il lavoro di scavatore mi piace molto, anche se la mia vera passione non è scavare, ma portare carriole piene di terra e disegnare ciò che è stato scoperto.
E ora, dopo queste divagazioni autobiografiche, veniamo al prossimo racconto. E' un po' diverso dagli altri, si potrebbe definirlo di satira politica, forse satira politica porno, che ne so, se fosse mille volte più bello, alla Luttazzi.
Comunque, per evitare problemi, sono tenuto a dirvi che i personaggi e alcune situazioni del racconto, per quanto possano ricordare personaggi realmente esistenti e situazioni realmente accadute, lo fanno solo casualmente, e tutto quello che state per leggere, è frutto solo della fantasia malata dell'autore.
Buona lettura, amici, e spassatevela se potete.

A VOLTE (I FENICI) RITORNANO

- Dove sei, bella? – chiese Milvio alzandosi su di un gomito. Era in bagno ormai da dieci minuti, più che bastanti per una doccia.
- Non vieni più dal tuo Papi? – disse alzandosi nella stanza buia, il pene ancora eretto come sempre dopo l’iniezione. – Vuoi che vengo anch’io sotto la doccia? – disse ed entrò nel bagno dal pavimento di marmo di Carrara, sgradevolmente freddo sotto ai suoi piedi. Si guardò allo specchio e si voltò in fretta: un vecchio basso a cui si era sciolto l’abbondante trucco, gambe e braccia secche e avvizzite, pancia enorme e molla e un ridicolo pene duro che sembrava finto come i capelli color mattone.
- Sei qui? – le chiese aprendo la doccia, ma, visto cosa c’era dentro, cadde all’indietro dando una culata e picchiando la testa contro la parete. Si rialzò a fatica, si avvicinò alla doccia illuminata da una crudele luce bianca e vide di nuovo gli schizzi di sangue, “E’ così scuro il sangue?” pensò sentendo che le ostriche si stavano ripresentando in gola; il lago di sangue nella doccia, e, immerso nel sangue, il corpo di quella ragazza, Eleonora, si chiamava. Deglutì acido, rabbrividì e guardò quello scempio: sventrata, lacerata, la testa rotolata vicino al fianco sinistro.
Vomitò senza accorgersene, si sporcò sia la pancia che il cazzo, non si era smosciato neanche adesso, erano incredibili quelle punture.
- Carlo! – urlò alla guardia del corpo che dormiva in stanza con lui, dietro a un paravento.
- Carlo! – urlò di nuovo, la voce più stridula adesso – Carlo! Vieni qui subito! L’hanno uccisa! – e cominciò a tremare da capo a piedi, avrebbe voluto essere vestito.
- Carlo! – urlò ancora, ma non arrivava. Tornò in camera, almeno qui c’era la moquette. Girò dietro al paravento e urlò, un urlo da donna, non degno del grande uomo che era. Era morto anche lui, la testa spaccata a metà, il petto squarciato, un mare di sangue sui piedi, non aveva neanche preso la pistola in mano.
- Mio Dio! – disse indietreggiando – Mio Dio! – e scappò verso il letto, sulla sedia lì accanto c’era la veste da camera, voleva coprirsi, ma alla luce delle candele vide una figura sulla sedia, un uomo con qualcosa in testa, come un elmo. Non lo vedeva bene al buio, era come annebbiato, ma gli occhi si vedevano bene, rossi come la brace, illuminavano la notte. Erano fissi su di lui. L’uomo seduto si alzò, in mano brandiva una corta spada di ferro, a lama larga, portava una armatura di bronzo. Disse qualcosa, ma Milvio non la capì, sembrava arabo. Fuggì nudo dalla sua stanza, il pene inutilmente eretto a sballonzolare davanti a lui sporco di ostriche semidigerite.
Corse nel corridoio tra i quadri, tra i meteoriti indiani, tra le statue greche comprate illegalmente, corse goffamente tra le foto con i grandi della Terra, corse scivolando sui suoi vecchi piedi viscidi di sudore, sangue e vomito.
Strillava come un bambino, ma le guardie non arrivavano, i camerieri non arrivavano, i dottori e gli infermieri non arrivavano, era solo nella sua villa, solo nella notte con quell’ assassino.
Corse fuori nel suo bel giardino, inciampando nei corpi degli agenti di guardia, cadde sui corpi ancora caldi e coperti di sangue delle due meteorelle che giacevano al lato della piscina vicino al corpo grasso e flaccido di Emidio Fido; erano tutti morti, tutti tranne lui e il pazzo armato di spada.
Scappò urlando nel giardino dei cactus, era scomodo correre con quel ridicolo uccello duro tra le gambe, ma tra i cactus era peggio. Passò vicino all’entrata dell’hangar per i sommergibili, uguale a quello del film di James Bond, l’aveva voluto uguale proprio lui, ma era inutile.
Cadde, si rialzò, cadde ancora, il cuore proprio lì in mezzo alle orecchie, la milza a scavargli una cavità di dolore puro nella pancia, arrivò infine alla piscina a forma di palma e cadde di nuovo. Non riuscì ad alzarsi.
L’acqua ribolliva, ma l’idromassaggio era spento. Ribolliva di fango e odorava di morte. Era lì che avevano trovato quelle tombe, le avevano ricoperte di cemento e in quella piscina si era fatto quelle due costosissime lesbiche. Riuscì a sedersi, guardava l’acqua come ipnotizzato, ribolliva come fango vulcanico, poi spuntò qualcosa. Delle teste, delle teste con l’elmo. Prima una, poi altre due, poi tutte le altre.
Erano i Fenici sepolti lì, come quello in casa. Erano intorno a lui nelle loro armature ossidate, brandivano le loro spade arrugginite. Erano intorno a lui con i loro occhi rossi di fuoco.
- Sono solo un povero vecchio! – disse guardandoli dal basso – Sono solo un patetico vecchio! – disse ancora facendosela addosso. – Non voglio morire nella mia merda! – disse piangendo – Vi prego! Vi pagherò! – disse ancora singhiozzando mentre lo trafiggevano, poi sussultò per un istante e morì.
I Fenici svanirono poco a poco nell’aria. Il suo corpo rimase lì in una pozza di sangue e merda. Per qualche istante il suo pene rimase eretto, poi si afflosciò e tutto finì.
FINE

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