lunedì 7 dicembre 2015

Il Mare dei Mostri. 4.

Ultimo episodio, che giunge come avrete notato con enorme ritardo. Scusate la pigrizia, ciao e buona lettura!

4

Passò il pomeriggio e poi passò lenta la notte. Il buio e la nebbia li avvolsero e l’aria ferma sul mare non sembrò mai a nessuno di loro spessa e irrespirabile come in quelle ore. Chiusi nella cabina del capitano, stretti come pesci salati in un barile, aspettarono che il giorno tornasse perché un qualunque orrore, per quanto sia enorme e imbattibile, alla luce del sole sembra meno spaventoso. Gihn, il giovane mozzo taciturno, uscì nel bel mezzo della notte per pisciare e non tornò indietro; uno strano urlo soffocato seguito da il tonfo di due o tre cose pesanti nell’acqua lungo la fiancata furono le ultime cose che lui lasciò al loro ricordo.
Poi, all’alba, nella luce lattiginosa di quell’atmosfera nebbiosa, uscirono dalla cabina e, stretti a gruppi di tre, cominciarono a cercare per la nave il mostro. Avevano torce nelle loro mani, perché un mostro marino deve temere il fuoco, se qualcosa a questo modo ha un senso. Cercarono per ore, mentre il calore saliva senza riuscire a sciogliere la caligine che li opprimeva e alla paura si sostituì la frustrazione e a questa la delusione mista però a una qualche specie di sollievo. Il mostro non c’era, erano salvi. Mangiarono assieme del pesce e delle gallette e poi si divisero per tentare di fare quello che andava fatto. Forse, mettendo tutte le vele al vento sarebbero potuti partire, o forse con due scialuppe in mare i rematori avrebbero potuto … un urlo. Due urla anzi, aveva ucciso il vecchio Mareh e Virdu, i loro corpi erano smembrati e molta carne sembrava mancare. E lì la già poca disciplina dell’equipaggio colò a picco. Cominciarono a correre qua e là per la nave inciampando nei boccaporti e nelle funi, un giovane marinaio salito a bordo all’ultimo porto come Okaka saltò su una scialuppa e, avendovi trovato Neto, lo accoltellò con un pugnale che aveva rubato in mezzo ai resti di Virdu. Okaka vide morire il vecchio cuoco che lo aveva accolto quasi come un figlio sentendo che, purtroppo, anche questo fatto di veder morire le persone a cui voleva bene faceva parte della sua vita, era la sua vita, così come quella testa pelata che aveva riconosciuto con gratitudine nello specchio di bronzo che poche ore prima il cuoco aveva usato per mostrargli il risultato della rasatura. Chiuse gli occhi al vecchio e poi saltò sulla scialuppa dove c’era l’assassino. Questi gli si lanciò addosso con violenza, reso sicuro dalla spanna di altezza che aveva in più, per non parlare del peso che era quasi il doppio di quello del giovane nubiano.
Ma allora, per la prima volta, Okaka fece quello che avrebbe scoperto di sapere fare bene, meglio di chiunque altro al mondo. Okaka schivò il colpo di pugnale dell’assassino di Neto, Okaka girò intorno all’uomo armato con velocità e leggerezza inumane e, col suo pugnale di ossidiana, lo accoltellò. La lama affondò nel fianco dell’uomo e Okaka riconobbe quella sensazione pur non avendola mai provata. Uccidere era facile per lui, era naturale, e così schivò ancora con facilità irrisoria il colpo che l’uomo ferito gli restituì e, sfilata velocemente la lama la affondò nel suo collo facendo uscire la punta dal retro della nuca. L’uomo che aveva ucciso Neto, un ragazzo spaventato a morte, si accasciò davanti a lui e il giovane nubiano, terrorizzato e stranamente felice, gettò il corpo in mare. E allora, mentre guardava quella povera cosa affondare, si accorse che la scialuppa di era allontanata dalla nave trascinata da una corrente lenta ma costante. La nave era ormai lontana, una sagoma nella nebbia e, attutite dalla distanza e dalla caligine, le grida terrorizzate dei suoi compagni gli pungevano le orecchie. Indeciso su cosa fare, mentre cercava un remo e tentava di stimare la distanza e la forza della corrente Okaka vide una luce. Là, nella nebbia, dove forse doveva trovarsi la poppa, qualcosa bruciava. Le fiamme divamparono e le urla per un breve istante, trafissero la nebbia arrivando a lui, ma poi, improvvisamente, un lampo e un tuono lo colpirono in pieno e un’onda d’urto lo fece cadere sul fondo della scialuppa facendogli battere la testa sul legno consunto dagli anni. Il fuoco doveva aver raggiunto quel vecchio barile di polvere del Kattay che il capitano teneva nel fondo della stiva.
Quando il nubiano si risvegliò il sole stava tramontando e la nebbia era scomparso. Nessuna traccia della nave vicino a lui o all’orizzonte, niente vele né vicine né lontane, solo il cielo che si arrossava e un vento costante da ovest.
Presa una tavola di legno mezzo marcio da un cumulo di immondizia che stava sul fondo della scialuppa Okaka si mise a remare nella stessa direzione del vento e continuò così mentre la luce calava.
Dopo un po’, il movimento costante e il rollio della barca lo avevano quasi fatto addormentare, qualcosa toccò lo strano remo. Guardò in quella direzione e vide qualcosa che, uscendo dall’acqua scura, si avvolgeva intorno al legno. Era un tentacolo, ma la sua punta era simile alla testa di un serpente. Ed era un tentacolo enorme, di una piovra gigante. Il ragazzo nubiano saltò più lontano che poteva e guardò con terrore quella orrenda bestia dai colori cangianti salire a bordo della scialuppa sbilanciandola col suo peso. Il polpo, che era ora rosso come il cielo, ora blu nerastro come il mare e ora marrone come il legno si accomodò sul fondo della barca e poi, come un’onda che passa sul mare, cambiò forma diventando uguale al capo Crip, e poi uguale a Virdu e infine, con un sorriso beffardo, diventò uguale a lui quando, la mattina precedente, aveva ancora una enorme massa di capelli neri e crespi sulla testa.
- Cosa aspetti, mostro, un invito? Attacca e uccidimi, se ce la fai! – disse a quella cosa che lo imitava prendendo in mano il pugnale. Sarebbe morto, sì, ma avrebbe lottato e avrebbe ferito la piovra. Se lo sarebbe ricordato, o se se lo sarebbe ricordato!
La bestia tornò alla sua forma e si lanciò su di lui aggredendolo con i suoi fortissimi tentacoli che lo avvolsero, lo stritolarono, lo morsero con le loro bocche, ma Okaka affondò il suo pugnale una miriade di volte ignorando il terrore e il dolore, fino a che il mostro saltò in preda al terrore fuori dalla barca trascinandoselo dietro. Il mostro continuava a mordere con le sue otto fauci e Okaka continuava ad affondare la nera lama di ossidiana mentre la superficie dell’acqua e l’aria si allontanavano da lui ogni momento di più. E poi, mentre sentiva i polmoni bruciare in cerca di un nuovo soffio d’aria, Okaka intravide nell’ombra di quell’acqua profonda, la rotondità della testa del mostro e, ricordandosi di un pescatore che aveva visto all’opera augli scogli davanti alla vecchia città di pietra, morse quella carne molle e viscida con tutta la sua forza. Il mostro urlò ferendogli le orecchie e mollò la presa perdendo come di consistenza e affondando mentre il ragazzo, quasi annegato, tornava a galla privo di sensi.

Lo raccolsero due giorni dopo, bruciato dal sole, arso dalla sete come non pensava che fosse possibile, stretto a un legno semi marcito che lo aveva aiutato a galleggiare, strano orfano trovato da una nave che non stava cercando di certo figli perduti. Quando, due giorni dopo, riuscì di nuovo a parlare, rispose alla domanda che gli avevano fatto. “Come ti chiami?” gli avevano chiesto e la sua risposta fu – Okaka del Mare dei Mostri. -

domenica 15 novembre 2015

Il Mare dei Mostri. 3.

Nuova puntata, buona lettura!

3

Neto fu mandato nella stiva, dall’altro boccaporto, per prendere le armi e tornò su con le poche spade e i coltelli dalle lame sbreccate che avevano. Ognuno di loro ne prese uno e Okaka si rigirò con una strana eccitazione tra le mani quel vecchio pugnale di ossidiana che gli avevano dato. Gli avevano parlato di colpo di fulmine, riferendosi a quando incontri LA donna giusta e di colpo sai che è quella giusta. A lui le donne non interessavano ancora, era grande e grosso ma sempre un bambino di sì e no nove anni, ma quel pugnale era IL suo pugnale, lo seppe subito.
Mentre il vento continuava a soffiare molto oltre la portata delle loro vele e il mare sembrava una distesa di olio da quanto era liscio, cercarono in tutta la nave. Non sapevano cosa cercare, perché l’unico che aveva visto qualcosa, e cioè lui, diceva di aver visto Nao che però era già morto in quel momento, quindi cercavano qualunque cosa che fosse capace di smembrare un uomo decorando con il suo sangue e le sue frattaglie le pareti e il soffitto della stava. Sapevano gli dei se non c’era pieno di cose capaci di farlo, tutto intorno a loro.
Controllarono ogni singola stanza, ogni più minuscolo anfratto, ogni scialuppa e ogni vela annodata e ogni cassa di merce un numero infinito di volte, ma non c’era niente. Niente. E intanto la bonaccia continuava e la sera calava sulla nave immobile sulla tavola blu del mare.
Alla fine tornarono tutti insieme sul ponte per mangiare gallette e pesce secco, in un silenzio carico di paura e tensione. Poi, all’improvviso, Okaka si accorse che Virdu, un tizio che aveva partecipato a invasioni in tutto il grande Mare Interno e che si ostinava a portare in testa un ridicolo elmo di bronzo che culminava in un chiodo, lo guardava almeno ogni due bocconi. – Sono così bello che non puoi fare a meno di ammirarmi, Virdu? – gli chiese.
- Sei sempre il solito orrendo scimmione nero, Okaka, sempre più grosso ogni giorno che passa. Solo che … quando è che ti sei tagliato i capelli? –
- Dopo che siamo tornati dall’isola. Perché? –
- No, ti sbagli. Li avevi quando mezz’ora fa eravamo nella stiva a prua. –
- Non entro nella stiva a prua da tre giorni fa, Virdu. Quel chiodo per caso scende anche dentro all’elmo? –
- Mezz’ora fa stavo cercando quella cosa e sono entrato nella stiva di prua e tu eri già lì. Mi hai guardato e mi hai salutato con un cenno della testa. Ed avevi i capelli. –
Il cuoco disse: - Glieli ho rasati io dopo mezzogiorno, Virdu. Ti stai sbagliando. –
- Io ti ho visto. Eri giù nella stiva e … -
- E cosa? –
Dovevi aver mangiato del pesce, c’era una gran puzza di pesce. –
- Io non mangiavo da stamattina, pazzo con l’elmo, vuoi dire che rubavo? –
- No. Voglio dire che mezz’ora fa eri laggiù, coi capelli in testa e mi hai salutato così. – disse e fece un cenno col capo inclinandolo appena verso la spalla destra.
Allora Okaka capì. Così lui aveva salutato Nao quando lo aveva visto fuori dalla porta della cabina. Nao che in realtà era già morto in quel momento. La cosa che lui aveva preso per Nao lo aveva guardato e lui, in quel momento, aveva ancora i capelli. E allora.
- Oggi quando ho visto Nao ho sentito una gran puzza di pesce. – disse Okaka alzandosi in mezzo agli altri. – Ho pensato che fosse l’odore dell’acqua di mare con cui stavo lavando il ponte, ma invece … -
- Il mostro può cambiare forma. – disse allora il cuoco. – Il mostro può prendere la nostra forma, quando vuole. – e fu allora che un urlo arrivò dalla stiva a poppa. E proprio là era appena andato il capitano a controllare le scorte di acqua. Corsero tutti giù e videro il loro capitano morto e smembrato sul pavimento, vicino alla botte d’acqua dolce rovesciata in terra. E, solo i primi ad entrare e solo con la coda dell’occhio, videro una forma strana e cangiante sfuggire da un piccolo buco nel muro, lasciandosi dietro una scia di bava.
E la bonaccia non accennava a finire.

lunedì 9 novembre 2015

Il Mare dei Mostri. 2.

Seconda puntata, scritta dopo due giorni in cui ho rimuginato su quale potesse essere il mostro della storia. Ora l'ho capito e, anche se qui non lo si vede ancora, so già che bel tipino è. Buona lettura!

2

Ripartirono in preda alla delusione e ripresero la loro vecchia rotta fino a perdere di vista la piccola isola col suo strano relitto. Navigarono ancora per mezza giornata col vento in poppa e poi, all’improvviso, arrivò la bonaccia. Le vele si sgonfiarono di colpo afflosciandosi sui pennoni con un rumore come di stoffa bagnata sbattuta sul pavimento e la nave si fermò dopo pochi istanti in mezzo al mare piatto come una tavola. Erano fermi sotto al sole calante, in mezzo a un mondo ridotto solamente a un piano omogeneo blu ricoperto da una cupola di un azzurro appena più chiaro. Né una nuvola né una terra emersa interrompevano quella regolarità estenuante.
Non era la prima volta che il vento li tradiva e, per quanto la cosa li mettesse tutti di pessimo umore, si misero a fare tutti quei lavoretti che di solito rimandavano con mille scuse.
Okaka, dopo essere stato un po’ in cucina col cuoco a fargli vedere quei due vetri legati insieme e il loro strano effetto su ciò che si vedeva, lo aiutò a pelare quei tuberi rossi dalla polpa gialla che, grazie alla loro facile conservazione, erano quasi l’unico cibo a bordo.
- Cosa ne dici di quei vetri, vecchio? –
- Dico che li sto tenendo adesso sul naso per pelare le wat e non mi sono ancora sbucciato nessun dito, piccolo nubiano, e penso che li userò anche quando dovrò tagliarmi le unghie o esaminare una moneta per capire se è vera o falsa. –
- Allora ti servono, vecchio. –
- Direi che è quello che ti avevo appena detto, piccolo nubiano. E smettila di grattarti la testa, che cavolo! –
- Mi prude. – gli rispose Okaka.
- Mi sa che dovrò farci qualcosa, sai? –
- Cosa, vecchio? –
- Una cosa che ti piacerà poco. – disse ridendo il cuoco, poi aggiunse. – Ma tu non avevi qualcosa da fare là fuori? –
- Lavare il ponte? Ma ti sto aiutando qui, no? –
- L’ordine del capitano, se non sbaglio, era quello di lavare il ponte e non quello di aiutare il cuoco, giovanotto. Vai! – e così Okaka uscì nell’aria calda e immobile e andò a riempire il secchio con l’acqua di mare. Lì, vicino alla porta della cabina dove avevano messo Nao visto che non riuscivano a svegliarlo, vide che quell’uomo cattivo e violento si era finalmente ripreso e alzato. Lo salutò con un cenno del capo e quello gli rispose con lo stesso cenno e uno sguardo strano e incuriosito. Dopo averlo salutato Nao si infilò nella stiva dal boccaporto.
Dopo un po’ il vice comandante Crip gli passò accanto e lo guardò lavorare. – Sei bravo, ragazzo. Continua così e un giorno sarai comandante di una nave. –
- Grazie, capo. Ma io non voglio comandare proprio niente. –
- Ah! Ah! E cosa vorresti fare nella vita, ragazzo? –
- Andare in giro, fare cose, vedere gente. –
- L’esploratore? Ottimo, ragazzo, se il tuo sogno è morire giovane mangiato da bestie feroci, è un’ottima idea. Va be’, vado a vedere come sta Nao. –
- È uscito prima, l’ho visto andare nella stiva. – disse Okaka indicando con un cenno del braccio il boccaporto. –
- E com’era? –
- Brutto e antipatico, capo. – gli rispose Okaka e lo vide andare giù per la scaletta ridendo. rideva sempre il capo Crip, era simpatico. Continuò a pulire il ponte fino a che il cuoco lo chiamò.
- Cosa c’è, vecchio? –
- Ti prude ancora la testa? –
- Tu sei ancora vecchio, vecchio? –
- Vieni qua, allora. – gli disse e Okaka, gettata in mare l’acqua ormai sporca del secchio, tornò in quel cubicolo che chiamavano cucina. – E allora, vecchio? –
Il cuoco gli sorrise, spostò uno sgabello, gli indicò di sedersi e, con in mano un pennello pieno di schiuma e un rasoio di selce disse: - Sarà l’ora di eliminare quei pidocchi, no? –
- Mi vuoi rasare a zero? –
- Perché, vuoi scappare via urlando? –
Okaka ci pensò un po’ e poi disse: - No vecchio. Ma stai attento a non tagliarmi, perdo la pazienza facilmente. –
- E ogni giorno sei di mezzo pollice più alto, anche. Starò attento, giovanotto nubiano. – disse il cuoco e, dopo avergli insaponato quel casco compatto di capelli, cominciò a rasarglieli partendo dalla fronte. Quando ebbe finito gli risciacquo la pelata con una spugna e disse, tenendogli un piatto di metallo lucido in mano perché potesse specchiarsi: - Come le sembra, signor Okaka? –
Il ragazzo nubiano guardò la sua nuova faccia e si riconobbe. In quella superficie che lo rifletteva deformandolo un po’ vide, per la prima volta, la sua vera faccia. Quel cuscino di capelli crespi che aveva avuto fin da piccolo, ed in effetti, malgrado fosse alto come un uomo medio era ancora piccolo, non era mai stato parte di lui. Quella sarebbe stata la sua faccia per il resto della sua vita, che fosse durato un mese o mille anni. – Benissimo, vecchio. Benissimo! – disse sentendo che gli stavno quasi venendo le lacrime agli occhi. Poi si voltarono insieme quando entrò il capitano Feirp che chiese: - Avete visto il capo Crip? –
- È andato giù nella stiva per vedere come stava Nao. – disse Okaka continuando a guardarsi nel piatto e piacendosi ogni momento di più.
- Va bene. – disse il capitano e richiuse la porta. Dopo nemmeno un minuto udirono un urlo e corsero fuori. Il capitano, con le mani sporche di sangue, stava uscendo dal boccaporto con lo sguardo stravolto dal terrore. Era bianco come un cadavere e ansimava dal terrore.
- Cosa c’è, capitano? – gli chiese Neto. –
Il capitano lo guardò con occhi così sbarrati da sembrare sul punto di schizzare fuori dalle orbite e disse: - Il capo Crip … il capo Crip è morto. Divorato da qualcosa, lo ha … è orribile. –
- E Nao? – chiese Okaka che sperava che fosse stato quel porco a uccidere Crip, perché così lo avrebbero scannato e lui avrebbe potuto partecipare.
- Nao? – chiese il capitano che sembrava none essere totalmente presente – Nao? Non c’era laggiù. – C’era solo Crip. –
E allora il cuoco andò alla porta della cabina e l’aprì. – Nao è qui. Disse tornando fuori con una faccia molto simile a quella del capitano. – È ancora sulla cuccetta dove lo avevamo messo prima e … qualcosa gli è uscito da dentro direi. Da come è fresso direi che è morto da qualche ora. –
- E allora io chi ho visto andare giù? – disse a bassa voce Okaka.

venerdì 6 novembre 2015

Il Mare dei Mostri. 1.

Come vi avevo accennato ieri ecco la prima puntata di una nuova avventura di Okaka, un'avventura del giovane Okaka.
L'ho scritta così, di getto, rubacchiando l'ispirazione a molti film che ho visto negli anni. Non so ancora cosa ne uscirà e per ora questa storia non mi convince troppo, ma spero che andando avanti prenda velocità e mi guidi lei.
Buona lettura!

Il Mare dei mostri.

1

Il vento gonfiava le vele e la nave filava veloce sul mare ondulato. Se avesse continuato così sarebbe rimasti in mare aperto solo per un paio di giorni, e questo lo rendeva molto felice. Come tutti i più bravi marinai l’unica cosa a cui pensava quando era per mare era la terra e se odiava una cosa era quando l’orizzonte piatto e blu del mare si chiudeva tutto intorno a lui isolandolo dai posti dove gli uomini vivono.
In piedi sulla gabbia in cima all’albero Neto guardava il mare tutto intorno a sé in cerca di qualunque cosa che rompesse la monotonia. Una terra, una nave, delle balene, qualunque cosa. Dopotutto la loro nave era solita fare tante cose diverse, portava passeggeri, se pagavano, portava schiavi, se altri pagavano, portava merci se qualcuno pagava e rubava merci ad altre navi se nessuno aveva pagato, e cacciava balene per vendere il prezioso olio nei porti dove attraccava. Nulla si muoveva in quel cerchio di orizzonte che vedeva da lassù e così si mise a guardare cosa accadeva sulla nave. Era l’ora più calda e tutti dormivano, tranne Van che stava al timone e, intento a lavare il ponte, quel ragazzetto nero tutto braccia e gambe lunghe che avevano preso a bordo a Kainua. Gli altri pensavano che avesse quattordici anni o giù di lì, vista l’altezza, ma a lui sembrava molto più piccolo. Però lavorava come un mulo ed era forte come un bue. E aveva un caratterino notevole, come sapeva quel porco di Nao che aveva tentato di toccarlo di notte nella stiva, confondendo il suo culetto glabro di ragazzino con il bel sederotto di una signorina, da allora quel maiale pieno di tatuaggi e muscoloso come un gladiatore se ne andava in giro con un naso tutto storto che sibilava ad ogni respiro e con uno spazio vuoto corrispondente a tre denti sotto al labbro superiore. Okaka si chiamava quello strano ragazzino, Okaka il nubiano aveva detto presentandosi quando era salito a bordo, ma da qualche giorno lo aveva sentito dire Okaka del Mare dei Mostri. Era un bel nome, per un ragazzo, soprattutto quando quel ragazzo era solo come un cane e oltre al nome aveva ben poco.
Il ragazzo spazzava il ponte con metodo e pazienza, tirando poi su con uno sforzo irrisorio secchi d’acqua salata che pesavano più di lui e sciacquava dove aveva pulito. Andava per mare da anni e, oltre ad essere stato lui un mozzo, ne aveva visti davvero tanti all’opera, ma nessuno si era mai impegnato tanto come quel ragazzetto nero come l’ebano e con un casco di capelli ricci in testa che lo faceva sembrare sempre uno col berretto.
Mentre si perdeva in questi pensieri per passare il tempo, con la coda dell’occhio vide una cosa. Ci mise qualche istante a rendersene conto, tanto erano distanti. Un filo di fumo, un minuscolo filo di fumo che, trascinato dal vento, si piegava sulla superficie delle acque svanendo dopo poche decine di metri. E, sotto al fumo, una quasi impercettibile strisciolina nera che poteva essere solo un’isola all’orizzonte. Isola più fumo, secondo al sua esperienza, voleva dire che era un’isola abitata, e questo significava cibo fresco, acqua fresca, frutta, merci e donne. Sì, effettivamente per prima cosa aveva pensato alle donne, in effetti. Batté il suo pugnale sulla campana che pendeva dal’albero e urlò: - Terra! A dritta, a venti miglia da noi, terra!!! – e vide la nave prendere vita sotto di lui. Anche il ragazzo si alzò e, come tutti, guardò inutilmente nella direzione che aveva detto, perché il fumo era quasi impossibile da vedere anche dalla cima dell’albero. Poi, mentre tutti si agitavano e parlottavano tra loro, il ragazzino, dopo essersi dato una vigorosa grattata a quel casco di ricci neri, si rimise a lavare. Incredibile il ragazzetto.
Van mosse la barra del timone e il vento, da babordo, li spinse velocemente verso l’isola, poi calarono una scialuppa e, a remi, si diressero verso l’isola, che era poco più che un banco di sabbia che emergeva dal mare in mezzo a una zona di secche.
Il fumo proveniva da una nave come non ne avevano mai viste, enorme, con tre alberi e incredibilmente robusta. Era arenata sull’isola e sulla fiancata, che era alta circa due terzi del loro albero maestro, stava una scritta in uno strano alfabeto che non avevano mai visto. Dalla nave, che era antica e rovinata da decenni di intemperie, uscivano degli alberi che riconobbero subito, erano mangrovie e sembravano nascere dentro alla nave. Scesero dalla barca, erano quattro, Neto, Van, il comandante Feirp, Nao e Okaka, e si diressero a un punto della fiancata dove le mareggiate avevano aperto una falla alta otto piedi e larga quattro da dove sarebbero potuti entrare. Le mangrovie erano davvero nate dentro alla nave, che evidentemente aveva portato un carico di giovani piante, dato che alcune erano morte e, secche come sterpaglie pronte per appiccare il fuoco, fuoriuscivano da pani di terra avvolti in teli di stoffa. Una decina di quelle piante ce l’aveva fatta a sopravvivere dopo il naufragio e aveva gettato le radici nella sabbia attraverso le falle nello scafo.
Non trovarono persone a bordo, né vive né morte, ma alcune macchie scure sul legno marcio dello scafo sembravano essere state delle vere e proprie pozze di sangue. Poi, saliti sul ponte grazie a una scaletta molto pericolante, trovarono l’origine del fumo; due pezzi di vetro lisci e curvi, tenuti insieme da un filo metallico, stavano appoggiati sulle tavole di legno e il sole, colpendo il vetro, aveva acceso un piccolo fuoco. Van, con una pedata, spense il fuoco e lanciò quello strano oggetto a Okaka. – Tieni ragazzo! – gli disse e Okaka guardò attraverso i vetri stupendosi di come le immagini venivano deformate. Gli venne un’idea e si appoggiò i due fili più lunghi e curvi sulle orecchie e i due vetri andarono a posizionarsi con precisione davanti ai suoi occhi. Dovevano essere fatti per quello, ma vedeva tutto distorto attraverso quei vetri, ripiegò i due fili, c’era uno snodo apposito, e se li infilò nella veste pensando di farli vedere al cuoco in seguito.
Poi, a poppa, trovarono finalmente un occupante della nave. Era legato a una ruota grande come quella di un carro e ricoperta di punte arrotondate. Neto la toccò e, con un cigolio straziante, ruotò su un perno. Si guardarono senza capire cosa si trovavano davanti. Il corpo legato alla ruota era mummificato dal sole e dalla salsedine e indossava degli strani vestiti, dei calzoni scuri, una camicia bianca e una giacca scura sopra a questa. I nodi erano strani, sembrava che li avesse stretto da solo, con i denti.
Si divisero per cercare qualcosa di utile sul relitto e, dopo un po’, sentirono un urlo dalla stiva, proprio in mezzo alle mangrovie. Scesero di corsa e trovarono Nao privo di sensi, in terra, una ferita sul collo ricoperta di una specie di bava. Cercarono intorno, non c’era nulla, e, dato che Nao sembrava solo addormentato e sulla nave e sull’isola non c’era assolutamente nulla di utile, ritornarono alla nave per riprendere il viaggio.
Qualcosa arrivò però a bordo con loro, dentro al loro compagno che ronfava tranquillo sul fondo della scialuppa.

giovedì 5 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 7.

Ultima puntata, finisce questa seconda ultrapulp avventura del gigante nubiano. Buona lettura e buona vita.
p.s. Ho già in mente un'altra avventura, questa volta, come si fa nei prequel cinematografici, protagonista sarà Okaka ragazzino, quando girava per il Mare dei Mostri che tante volte ha nominato. Dovrebbe arrivare già da domani o dopodomani.

7

Il sole stava sorgendo sulla vallata che circondava come una enorme aiuola la montagna coronata di nubi in tempesta, gli uomini uscivano dalle loro capanne per andare a coltivare la terra e i Critton, infreddoliti dalla lunga notte, stavano coricati a terra a scaldarsi al sole del mattino. Nessuno notò qualcosa che, volando ad alta quota, stava sorvolando la vasta foresta che, ancora avvolta dalle tenebre, contornava la pianura. L’ora per quel volo era stata scelta con cura, i grossi animali da guardia avevano abbastanza del rettile per essere meno reattivi nelle primissime ore del mattino. Era una delle tante cose che erano state studiate e preparate a lungo, in quei tre mesi che erano passati dalla sera in cui Okaka si era tuffato nel turbinoso torrente sotterraneo.
Il mondo, visto da lassù, era stano, come un gioco da bambini, un modellino di mondo per muoverci su dei soldatini di piombo. Malgrado il suo coraggio sovrumano il gigante nubiano ci aveva messo almeno un paio di settimane a imparare a tirare le frecce dalla groppa dell’animale che aveva catturato allora nella foresta. E quelle due settimane erano da sommare ai dieci giorni che ci aveva messo a domarlo, ma da ragazzino aveva aiutato un falconiere per qualche mese e aveva semplicemente attuato la stessa tattica di addomesticazione. Ora quel feroce sauro piumato gli era più attaccato di un cane o di un cavallo e proprio lui era la parte fondamentale del suo piano, perché non avrebbe mai potuto scalare quel monte dalla cima persa tra le nubi e, contemporaneamente, combattere con i Bousi e le loro guardie bestiali.
Arrivato a qualche centinaio di metri dalla parete inclinata del monte finalmente uno dei Critton lo notò e si avvicinò per dare un’occhiata. Il nubiano fu così veloce a scoccare la freccia dalla punta avvelenata con veleno di rana della foresta che l’animale non fece nemmeno in tempo a emettere un grido. Gli altri si accorsero di quello che era successo solo quando la carcassa bianca e piumata si schiantò a terra.
Okaka vide gli altri Critton che si alzavano e cominciavano a correre per decollare, li aveva osservati e sapeva bene quanto era difficoltoso per loro prendere il volo, e così ebbe tutto il tempo di preoccuparsi di quelli che si stavano lanciando da in mezzo alle nubi che cingevano il monte. Erano dodici quelli che spuntarono dalle nubi e solo uno di loro riuscì ad avvicinarsi abbastanza a lui da riuscire a guardarlo negli occhi. Le sue frecce li uccisero tutti. Poi, con calma, uccise i venticinque che, lentamente e distaccati gli uni dagli altri, arrivarono fino alla sua quota. Da quel che ne sapeva dovevano essercene un’altra decina, ma o non si erano svegliati o la loro fedeltà ai Bousi non era così cieca e assoluta. Meglio.
Lui e il suo destriero si infilarono tra le nubi e furono subito avvolti dalla cappa di caligine, però almeno non pioveva. Anche per quello aveva scelto quell’ora, la pioggia avrebbe reso tutto molto ma molto più difficile. Vide i primi Bousi e , dopo un paio di giri intorno al monte, ne aveva già abbattuto una ventina con le frecce prese dall’altra faretra e che aveva preparato con grande cura nella città in riva al mare a una decina di giorni di cammino da lì.
Quando capì che non sarebbero più usciti dai loro cunicoli si decise ad atterrare; sapeva che avrebbe dovuto farlo, era pronto a farlo. Rischiare la vita non era mai stato un problema per lui.
Atterrò nella stanza dove avevano divorato la ragazza e lì, nascosti negli angoli più bui, vide sei Bousi. Non erano in agguato, anche se avevano le loro asce in mano, erano terrorizzati. Incatenata al muro, semidivorata come la ragazza che era stata uccisa davanti a lui, una donna che avevano appena finito di scarnificare. Incoccò una freccia e colpì il più lontano al collo. Il mostro cadde a terra urlando fino a che dalla bocca e dalla ferita cominciarono a sgorgare enormi quantità di schiuma che lo soffocarono ancora prima che il suo collo e la sua testa finissero di sciogliersi.
Due dei Bousi nascosti si lanciarono contro di lui e li colpì prima ancora che avessero fatto cinque passi. La schiuma consumò anche loro, poi Okaka scese dal suo destriero, che aveva chiamato Pekahs e, la prossima freccia già appoggiata sul cordino di tendine teso, disse: - Sale. Vi piace il mio sale? – e scoccò in rapida successione le frecce per ucciderli. La punta di sale delle frecce li uccisero così rapidamente che Okaka non lo trovò nemmeno soddisfacente.
Uscì dall’edificio e corse verso la scala che scendeva giù nel monte e nel tragitto uccise a colpi di freccia altri dieci nemici. Erano così abituati ad avere a che fare con uomini ridotti a bestiame pigro e mansueto che non sapevano nemmeno difendersi. Quando arrivò all’imboccatura del sotterraneo lasciò l’arco, perché tanto nella stretta scala a chiocciola non avrebbe avuto spazio per maneggiarlo. Impugnò i suoi due pugnali e slacciò il cordino che assicurava l’ascia che teneva di traverso sulla schiena. Cominciò a scendere e, con le sue armi che aveva bagnato nell’acqua salata fino a farle arrugginire in superficie, uccise tutti i nemici che si trovava di fronte. Scese per molte rampe di scale, vide i prigionieri nella grande sala e, qualche livello più sotto, i novizi che si stavano trasformando. Erano così deboli che non perse tempo a ucciderli, anche perché, se aveva ragione, non ne avrebbe avuto alcun bisogno.
Alla fine arrivò alla sala che precedeva l’enorme caverna dove stava la Grande Madre. Lì alcuni Bousi più antichi, non resi inermi dallo scarso valore degli uomini che erano stati, lo aggredirono, ma scoprirono dolorosamente che l’armatura e il mantello che indossava erano totalmente ricoperti e intrisi di sale, non ebbe nemmeno bisogno di colpirli, bastò che lo toccassero. Con un colpo d’ascia decapitò gli ultimi due che si erano messi davanti alla porta ed entrò.
I Bousi che ormai non avevano più nulla di umano, enormi ma lenti, lo attaccarono, ma con pochi colpi d’ascia e di pugnale se ne liberò. Poi andò verso la mostruosità grigia e molle che riempiva il fondo della caverna e si fermò a guardarla. Gli enormi occhi bulbosi dell’essere demoniaco lo guardarono e, perso in millenni di trasformazione in lumaca, Okaka colse quel che restava di un’espressione umana, era terrorizzata e stava implorando pietà. Non l’avrebbe avuta, non dopo quello che avevano fatto a quelle persone per migliaia di anni, non dopo quello che quella povera ragazza aveva subito davanti a lui, non dopo la morte di Leka. Colpì il mostro con l’ascia in mezzo agli occhi e rimase assordato dal suo grido di dolore mentre il sale la consumava trasformandola in una massa ribollente di schiuma. Rimase fermo fino alla fine, fino a che nulla rimaneva di quella cosa abominevole.
Quando uscì dalla stanza nessuno lo attaccò, nessun mostro fuggì davanti a lui e nessuno gli tese degli agguati. Le uniche persone che trovò furono i novizi, morti e come mummificati sotto a un velo di schiuma, e i prigionieri che liberò accompagnandoli all’uscita. Tutti i Bousi erano morti, erano stati un’unica cosa con la grande Madre in vita e così lo erano stati nella morte.

Scese a valle con Pekahs e trovò la gente in preda al terrore, i pochi Critton rimasti stavano attaccando le persone che fino a pochi minuti prima avevano protetto e già dalla foresta alcuni predatori selvatici, simili al suo destriero alato, si erano infilati nella pianura uccidendo e distruggendo. Nessuno aveva la minima idea su come difendersi, e nessuno era armato in alcun modo, a non voler considerare armi delle zappe. Andò alla capanna dove lo avevano curato e trovò l’uomo che gli aveva salvato la vita e che aveva già perso, per causa sua, una figlia adorata. La casa era distrutta e c’era sangue ovunque, l’uomo agonizzava a terra con uno squarcio che andava dal petto all’anca e, afferrato Okaka per un piede disse: - Perché? Ho visto i miei compagni andare via … Perché? –
Okaka pensò che gli aveva dato la libertà e capì che a volte quello che è fondamentale e irrinunciabile per un uomo per un altro è una maledizione. Appartenere ai Bousi era stato tutto per quelle persone, senza di loro, finalmente liberi, erano Nulla. Guardando quell’uomo buono che stava morendo Okaka disse solo: - I tuoi Dei sono morti. – e gli tenne la mano mentre agonizzava.
Poi, vittorioso e disperato, volò via con Pekahs lasciando che l’apocalisse di Dagshepan avvenisse.

Era morta per lui, glielo doveva. Se ne sarebbe sicuramente pentito, un giorno, ma tra rimorso e rimpianto in quel caso sceglieva il primo. Scavò la tomba fino a ritrovare il corpo semimummificato di Leka, vide il monile a forma di scarabeo che le aveva posto tra le mani e, feritosi il palmo della mano col suo pugnale di ossidiana, afferrò quelle dita scheletriche bagnandole della sua vita. Vi fu come un lampo, un odore di fulmine nell’aria e poi, come se fosse stato il vento a sussurrare al suo orecchio, la voce squillante di Leka gli disse grazie.

FINE.

martedì 3 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 6.

Nuovo capitolo, un po' più breve di quello di ieri. La lunghezza dei capitoli, cari forse inesistenti lettori, non è decisa da me, perché, liberissimi di non crederci, queste storie si scrivono davvero da sole. Io ho una vaga idea di cosa accadrà e mi metto a scrivere e quello che ne risulta è sempre diverso da quello che mi aspettavo all'inizio.
Comunque, buona lettura anche oggi, e, se volete commentare quanto avete letto, sarò ben felice di rispondervi. Ciao!

6

Leka era al colmo della sua potenza e sapeva utilizzare al meglio i suoi poteri. Si muoveva nell’enorme sala con la velocità di un turbine, solida come un essere umano e fortissima nel momento in cui con i suoi artigli sventrava un nemico e impalpabile e simile a un soffio di vento quando qualcuno tentava di colpirla con le proprie mani o con un’arma. Uccise dodici nemici nel tempo in cui Okaka fece otto respiri e arrivò di fronte a lui sotto forma di un frenetico ribollire dell’aria stagnante e nebbiosa. Ricomparve in tutto il suo splendore e, gli occhi illuminati dall’interno da una luce che doveva essere quella che riscalda il punto più profondo degli Inferi, gli sorrise e disse: - Serve aiuto, gigante? – e calò un’artigliata sulla cinghia che gli stringeva i polsi. La strappò quasi del tutto, ma per farlo rimase ferma un istante di troppo. Uno dei Bousi più potenti, alto almeno un palmo e mezzo più del gigantesco nubiano, le calò addosso un’ascia bipenne aprendola dalla spalla destra al seno sinistro.
Leka guardò per il tempo di un battito di ciglia il suo amico e poi, gridando come un’aquila, colma di rabbia e terrore, si girò per attaccare il nemico mentre una enorme quantità di sangue sgorgava dallo squarcio che la deturpava. Ma non riuscì nemmeno a finire il movimento, un’altra ascia la colpì alla sinistra del collo e le portò via la testa che volteggiò per un brevissimo istante prima di trasformarsi in una nuvola di sangue e cadere a terra. Leka non c’era più, era morta per sempre.
Okaka approfittò di quel breve momento di soddisfazione dei mostri per essersi salvati e strappò l’ultimo lembo di cuoio che gli legava le mani. Si lanciò verso quello che aveva decapitato la sua amica e, strappatagli l’ascia che aveva usato, lo colpì alle gambe tagliandogliele di netto. Mentre quello rovinava a terra urlando, senza interrompere il movimento dell’arma, la piantò nel ventre di quello che aveva colpito Leka alla spalla. In mezzo ai due mostri agonizzanti il gigante nubiano si guardò intorno e fece un rapido calcolo. Erano troppi, troppi anche per lui. Con l’ascia in mano corse più veloce che poteva verso quell’immane mostruosità che, grigia e stillante bava, si ritraeva terrorizzata nel profondo della caverna. La evitò e saltò nell’acqua turbinante che andava fragorosamente a cadere in un imbuto di roccia e trattenne il respiro finche poté mentre la corrente lo sbatacchiava contro le lisce pareti di roccia del budello.
Riemerse nella notte, nel lago in fondo alla cascata che sgorgava dal monte a qualche migliaio di passi dalla casa dove era stato ospitato e curato. In cielo, nel buio enorme e trapuntato di stelle che ricopriva quel mondo di orrori, le bestie da guardia dei Bousi volavano in cerchio intorno al cappuccio di nubi di Qasrdag-nor, ma erano bestie diurne e non riuscivano a distinguerlo nel buio. Ringraziando la sua pelle dal colore così simile a quello della notte Okaka nuotò a grandi bracciate fino alla riva ricoperta di alberi e, l’ascia sempre stretta in mano, corse fino alla foresta. Vi entrò dopo essersi dato un’ultima occhiata alle spalle e, per un po’, scomparve dalla vista dei Bousi e delle loro guardie volanti.
Il loro grave errore fu credere che il gigante nubiano fosse fuggito. Okaka non fuggiva, mai. Okaka era andato ad armarsi e loro avrebbero assaggiato la sua vendetta.

lunedì 2 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 5.

Quinto episodio, un viaggio nella melma e nell'orrore. Che schifo! Buona lettura, comunque!

5

Le costruzioni sorgevano tutte sul bordo di un cratere che formava la cima del monte. Come sempre la vetta era avvolta da nubi in tempesta e l’acqua che cadeva incessantemente sui pendii scoscesi della bocca dell’antico vulcano spento si riuniva in rivoli e poi in ruscelli e infine in fiumi che vorticavano fino alle acque agitate di un lago giallastro che finiva poi per infilarsi in un’apertura nella roccia che sembrava la bocca di un mostro. Lì, accanto alla cascata dal rumore assordante, cominciava la ripida scala su cui gli uomini lumaca lo stavano trascinando. Scesero per un bel po’, alla luce tremolante di torce che sembravano sempre sul punto di cedere alla eterna umidità che saturava l’ambiente facendo stillare gocce limacciose da ogni superficie.
Passò in una grande stanza dove vide, incatenati ai muri su uno strato di lurida paglia semimarcita, alcuni abitanti dei villaggi nella vallata, evidentemente gli anziani e i fortunati prescelti tra i maschi adulti che erano stati chiamati a sé dagli Dei. Molti erano i poveri sfortunati che giacevano tremanti attaccati alle catene rosse di ruggine, ma molti di più erano i posti vuoti. Vedendo quei posti vacanti Okaka si ricordò che di lì a pochi giorni i sacerdoti sarebbero dovuti scendere a valle per un’altra infornata di beati e fortunati chiamati all’Ascensione.
Di guardia ai poveri sventurati destinati al macello e sparsi un po’ ovunque qua e là, gli orrendi guardiani, che, lontani dal gregge che amichevolmente proteggevano là in fondo, passavano il tempo a sgranocchiare tranquilli ossa umane.
Lo trascinarono ancora più giù, sempre più a fondo in quella terra maleodorante e viscida, in scale e cunicoli sotterranei grondanti di muffe e bave, e vide, dentro a un’altra stanza, degli altri uomini che si aggiravano in stato catatonico evitando appena le pareti. La loro pelle era ricoperta di chiazza grigiastre e, a volte, i loro occhi sembravano sporgere dalle orbite. Erano i più grandi tra gli abitanti della grande pianura, alti più di lui anche di un palmo, ed evidentemente erano i novizi del culto degli Dei Bousi.
Poi arrivarono in fondo alle scale, in un corridoio il cui pavimento era ricoperto di un’orrida guazza che puzzava di morte e paludi, e, liberatisi di quei sai neri, i suoi carcerieri lo trascinarono fino a una porta. Quando questa si aprì lo portarono all’interno.
Era una immensa caverna rischiarata non da torce ma da pietre debolmente fluorescenti che stavano incassate un po’ ovunque nelle pareti e nel soffitto. Il buio era quasi totale e il poco che si vedeva sembrava di colore verde marcio. Lì c’erano i Bousi, senza alcun dubbio, e, in fondo alla stanza là dove rombava la cascata del fiume che, fuoriuscito in un tranquillo laghetto ai piedi del monte, irrigava la pianura con le sue pigre e ampie anse, un qualcosa di enorme che sembrava ronzare e vibrare muovendo quell’atmosfera marcia e puzzolente tutto intorno a sé. Quel qualcosa, che i suoi occhi tentarono di non vedere, era un’enorme lumaca priva di guscio, più grande di dieci olifanti messi insieme, intenta a divorare con la sua oscena bocca il corpo ancora caldo di una donna ritenuta evidentemente troppo vecchia per essere utile a quei demoniaci allevatori.
- Eccolo! – disse il capo dei suoi aguzzini, quello che gli aveva assaggiato il torace e lo gettò in mezzo a quelli che dovevano essere i suoi capi. In alcuni di loro traspariva ancora, semisommersa nella forma della lumaca che erano diventati, un’ombra degli uomini che erano stati, ma in quelli più vecchi, o forse antichi, dell’uomo che erano stati non rimaneva nulla.
Uno dei più mostruosi, una lumaca grande almeno come un toro, lo guardò con i suoi occhi bulbosi e disse: - Okaka del Mare dei Mostri. Benvenuto! –
Lui si alzò malgrado la cinghia che gli stringeva i polsi feriti, sollevò la catena e si deterse per quanto possibile il corpo da quella bava fetida che ammorbava e ricopriva tutto là sotto, guardò quella cosa che secoli prima doveva essere stata una faccia e disse: - Potete mangiarmi, se volete, ma non avrete le mie grida, bestie schifose! –
Da quell’orifizio stillante bava uscì uno strano suono sincopato che solo dopo un po’ il gigante nubiano capì essere una risata, poi quella voce gorgogliante riprese a parlare e gli disse: - Da te, gigante del colore dell’ebano, non vogliamo nutrimento.
Da millenni ormai selezioniamo con cura quegli animali che hai visto brucare il terreno giù alle falde del nostro monte, e abbiamo ottenuto delle ottime bestie da carne, grasse, robuste, fertili e docili; ma, proprio perché buoni per il macello, pochi di loro sono adatti a ricevere il nostro seme. Non sopravvivono al cambiamento o, se lo fanno, ne escono fuori dei deboli esseri che non sono degni di esistere accanto alla Grande Madre che vedi là in fondo.
Quelli che ti hanno catturato sono i pochi che riescano a servirla dignitosamente e io e i miei fratelli che vedi qui intorno a te esistiamo ormai da almeno un paio di millenni. –
- Aspetto con impazienza la vostra estinzione, mostri immondi. – disse Okaka ridendo in faccia alla morte.
- Tu, gigante nubiano, tu che hai battuto la morte e i demoni, tu che hai combattuto per tutte le terre di questo mondo contro nemici di ogni genere, tu sarai un ottimo ospite per il nostro seme e da te, tra qualche secolo, nascerà finalmente un compagno adatto per la Grande Madre. –
- Mai! – urlò lui.
- Nessuno ha chiesto il tuo permesso, bestia, quello che noi Bousi vogliamo, noi Bousi lo facciamo. – e i suoi carcerieri lo presero per le braccia e, malgrado i suoi tentativi di liberarsi, lo trascinarono davanti a quell’immonda mostruosità che riempiva il fondo della caverna.
Lui sputò addosso a quella parete di carne marcescente che pulsava di fronte a lui e uno dei carcerieri reagì dandogli una bastonata nel retro delle ginocchia. Crollò a terra e due di loro gli afferrarono la faccia aprendogli a forza la bocca. Intanto il loro capo si avvicinò alla Grande Madre e, con un pugnale d’argento, staccò un lembo di pelle dal suo fianco. Quando lo fece accaddero due cose, quel frammento di pelle si trasformò immediatamente in una minuscola lumaca identica alla Madre e tutti loro sussultarono per il dolore. Quindi tutti loro erano un unico essere, e presto anche lui sarebbe stato parte di loro. Il capo gli si avvicinò con quella piccola lumaca schifosa che gli si agitava stillando bava tra le dita e gli disse: - Ora questa piccola meraviglia entrerà in te attraverso la bocca e si discioglierà nel tuo corpo, dove, granello dopo granello, comincerà a crescere prendendo il totale controllo di quello che, ancora per poco sei tu, e poi, tra pochi secoli, sarai il nostro Re! – e si avvicinò alla sua bocca che gli altri tenevano spalancata.
E fu allora, proprio in quel momento che sembrava l’ultimo della sua vita, che delle grida arrivarono dall’esterno della stanza. Qualcuno stava uccidendo gli uomini lumaca e i loro guardiani pennuti, qualcuno che sembrava incazzato e potente.
Okaka non si stupì affatto vedendo che quel qualcuno era Leka, così colma del sangue dei nemici che aveva ucciso da sembrare davvero una dea della vendetta.
Non era ancora finita.

domenica 1 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 4.

Nuovo capitolo fresco fresco, e questo è davvero molto pulp, pure troppo! Buona lettura!

4

Si assopì per qualche minuto, mentre l’enorme ragazza gli dormiva addosso schiacciandolo col suo grosso corpo sudato. La stanchezza e la tensione lo avevano stremato negli ultimi giorni e quella ragazza era stata davvero all’altezza della sua taglia. E così si accorse del rumore di passi vicino alla porta un istante troppo tardi. Fu troppo educato con lei per togliersela di dosso con violenza e quei pochi istanti persi nello spostarla su un fianco lo persero. Cinque enormi uomini vestiti di nero si scagliarono addosso a lui, ombre tra le ombre, e delle mani incredibilmente forti lo afferrarono per le braccia e le gambe. Riuscì a sollevare il braccio destro e strinse la sua grande mano colore dell’ebano sul collo di uno dei cinque, ma le sue dita slittarono su una pelle fredda e viscida che lo disgustò. Poi fu colpito con dei bastoni e sulla sua testa calò un sacco che lo rese cieco e inerme.
Lo sollevarono e lo portarono via caricandolo su un grosso animale. Capì dall’odore che era uno dei “cani” da pastore. Li aveva visti volare molte volte verso la cima del monte avvolta da nubi e capì cosa stava per succedere. Quello che lo stupì fu sentire anche le grida di una donna. Avevano catturato anche quella povera ragazza. Legato, stordito e incappucciato non era assolutamente in grado di aiutarla, ma avrebbero pagato tutto il terrore che lei stava provando in quel momento.
Poi la bestia decollò e lui sentì l’aria gelida della notte che gli sfrecciava addosso. Stavano salendo, stavano salendo davvero un bel po’, tanto che l’aria si fece sottile e lui, stordito per le botte e legato in una posizione scomoda, perse i sensi.

Si svegliò in una stanza molto grande, fredda, con l’umidità che si addensava sui muri e sul pavimento facendo crescere qua e là soffici cuscini di muschio. Era sempre notte e la luce veniva da poche, distanti torce.
Era legato con le mani appese ad un gancio che gli permetteva di appoggiare appena i piedi a terra. vicino a lui, nuda e piangente, la ragazza che avevano catturato insieme a lui. Vista così non era sensuale, malgrado le sue forme, no. Era una bambina spaventata che rabbrividiva in una stanza buia con i polsi appesi al muro. Il gigante nubiano sentì il sangue ribollirgli nelle vene, voleva aiutarla, voleva liberarla, voleva farla smettere di tremare e piangere, ma era legato troppo stretto e la cinghia di cuoio che gli stringeva i polsi era troppo resistente.
- Stai tranquilla, cara. – le disse non ricordandosi sul momento il suo nome – Ti libererò e ti riporterò dai tuoi genitori. –
- Non erano umani. – disse lei fissandolo con occhi enormi e terrorizzati – Non erano umani. –
- Cosa vuoi dire? – le chiese ricordandosi quella pelle fredda e viscida che aveva stretto tra le dita. Gli aveva ricordato qualcosa ma ora, in quella situazione … la testa gli faceva male per una bastonata e l’aria, oltre che terribilmente sottile, puzzava di marcio come una palude e gli dava la nausea. – Come erano? –
- Lei continuò a piangere per un po’, tentando di incrociare le gambe per la vergogna di essere così nuda e indifesa, poi lo guardò e disse: - Gli occhi. I loro occhi … - ma un rumore la interruppe. Quattro uomini incappucciati in un saio nero entrarono e si fermarono di fronte a loro. Erano enormi come gli uomini di Dagshepan e puzzavano di acqua marcia.
- Io sono Okaka della Nubia e del Mare dei Mostri. – disse loro con tutta la dignità che la sua condizione di prigioniero nudo, bastonato e infreddolito gli concedeva – Presentatevi. –
Loro risero con voci gorgoglianti e poi abbassarono i cappucci. Per un attimo sembrarono normali, poi successe una cosa che lo disgustò e che fece urlare dal terrore la povera ragazza. I loro occhi uscirono dalle orbite rimanendo ritti su delle antenne lunghe una decina di centimetri e le loro bocche, quando parlarono, si aprirono come orifizi privi di ossa. La loro pelle era grigia e rugosa e i loro sai erano inzuppati di bava. – Noi siamo i Bousi, Okaka dalla Nubia, e tu sei prigioniero. –
- Liberate la ragazza. – disse loro con voce decisa – Lei non c’entra nulla con me. –
Uno di loro, quello che sembrava meno umano fra tutti, rise di nuovo e poi disse: - Gigante nubiano, lei porta in sé un figlio tuo. – e si chinò ad annusarle in ventre inspirando con un suono di foglie marce – e il tuo seme coraggioso e indomabile rovinerebbe la razza di animali che abbiamo selezionato con tanta fatica. –
- Liberatela! – urlò.
- No, gigante, non la libereremo. Però potrà esserci utile in un altro modo. – disse, e poi, guardandolo con aria di scherno, si avvicinò a lei appoggiandole addosso alla coscia quella bocca sul cui labbro superiore si muovevano due piccole antenne simili a quelle su cui portava quegli occhi bulbosi. La ragazza urlò tentando di allontanarsi da lui e scalciò sulla sua faccia che sembrava priva di ossa da come assorbiva i colpi, poi le sue grida cambiarono, dal terrore al dolore più acuto. Fu allora che anche gli altri tre la aggredirono. Okaka si ferì i polsi fino all’osso tentando di liberarsi, urlò e scalciò appeso a quel gancio e bestemmiò tutti gli dei che conosceva, ma non poté liberarsi e fu costretto a vedere quei mostri che, con quelle bocche dotate di una lingua irta di piccoli denti affilati, la mangiavano leccata dopo leccata arrivando fino all’osso mentre il sangue colava sui loro volti.
Fu una cosa lunga, la ragazza urlò mentre le sue gambe venivano scarnificate e non finì di tremare e mugolare prima che i quattro fossero arrivati ai fianchi e al ventre. Quando di lei non rimase che un torso sopra alle ossa delle sue gambe i quattro mostri, gonfi di cibo e lordi di sangue, si staccarono da lei guardandolo con un sorriso marcio come loro sul volto. Poi uno di loro fischiò e una di quelle bestie saltò giù da un’apertura nel tetto e, con pochi morsi, finì quanto rimaneva della ragazza che solo poche ore prima lui aveva amato. Poi di lei non rimase che una chiazza di sangue sul pavimento e sul muro.
La bestia uscì e lui rimase da solo, legato al muro, davanti a quelle cose immonde. Uno di loro gli si avvicinò e gli diede una leccata sul petto portandogli via una striscia di pelle con un dolore così forte che mai ne aveva sentito uno simile.
Quella sarebbe stata dunque la sua morte? Incatenato e mangiato vivo da degli uomini lumaca? Non avrebbe urlato, quello non lo avrebbero avuto da lui. Li guardò con tutta la sua fierezza e aspettò che continuassero, ma tutti e quattro insieme dissero, come se il pensiero fosse sorto in loro contemporaneamente, - Lui no. Ci serve in un altro modo. – e, sollevatolo dal gancio, lo trascinarono fuori da quella stanza, giù per una scala che scendeva nella montagna per molte decine di braccia di profondità. L’odore di marcio e corruzione che aumentava ad ogni gradino non prometteva certo un destino migliore di quello a cui era appena sfuggito.

venerdì 30 ottobre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 3.

Terza puntata, forse meno pulp del solito, ma mica si può sgozzare un nemico ogni due righe, no? Buona lettura!

3

Un mese. Un mese di convalescenza, di esercizio, un mese di rincorsa per colpire meglio attaccando.
Quando, ancora ragazzino, era sceso dalla nave dei pirati in quella grande terra chiamata Ifriq, aveva visto degli animali simili ai cavalli. Erano erbivori e dovevano scappare a una miriade di predatori, ma a differenza di tutti gli altri erbivori non facevano nulla per mimetizzarsi con l’ambiente. Loro erano bianche e nere in una sconfinata pianura i cui colori andavano dal verde più tenue al giallo più brunito. Erano visibilissime, un vero pugno in un occhio.
Quando lo aveva fatto notare a Tito, l’uomo che era stato la cosa più simile a una figura paterna che avesse mai avuto, quel piccolo uomo così abbronzato da sembrare un pezzo di legno ricoperto dalla corteccia, aveva riso e gli aveva detto che non doveva guardare una zab da sola, ma doveva guardarle quando erano insieme, migliaia di zab che correvano insieme. E lui aveva aspettato e, quando un leone dai denti a sciabola si era avvicinato, le zab si erano riunite in un enorme branco e si erano messe a correre. E così Okaka aveva capito. Le zab si mimetizzavano come tutti gli altri erbivori, solo che si mimetizzavano da zab. Le loro ridicole righe bianche e nere, quando correvano in gruppo sollevando una nuvola di polvere, le rendevano indistinguibili una dall’altra e così i leoni dai denti a sciabola avevano enormi problemi a scegliere tra tutte una preda.
E così fece Okaka, il gigante nubiano passò quel mese a fare l’abitante di Dagshepan tra gli abitanti di Dagshepan, mangiò a dismisura il loro cibo, coltivò la loro terra e tirò i loro aratri, partecipò alle loro feste e ai loro riti e, quando capitò che gli si offrissero, giacque con le loro donne. E intanto si rinforzava e si preparava a combattere, mentre nella foresta che circondava il villaggio la sua amica non morta faceva lo stesso nutrendosi di animali selvaggi.
Poi una notte, pochi giorni prima dell’arrivo degli alti sacerdoti dei Bousi, sgattaiolò dalla pianura sfuggendo alla vista acuta e al fiuto dei cani da pastore che sorvegliavano il gregge e si addentrò nella foresta. Quasi subito un tremito nell’aria gli passò accanto e una bava di aria gelida gli percorse la schiena, poi qualcosa si mosse con incredibile velocità tra gli alberi e l’urlo lancinante di un cervo strappò la notte. Neanche una decina di respiri dopo Leka, ormai simile a una demone dal fascino letale, gli apparve accanto.
- Ciao piccola. – le disse.
- Ciao gigante. Vivi in uno strano posto, sai? –
- Perché, Leka? –
Lei guardò verso la pianura con gli occhi che fiammeggiavano nel buio, sorrise e poi disse: - Perché vivi tra un gregge di pecore che si stanno dirigendo tutte contente al macello. –
- Lo hai capito anche tu? –
- Io so delle cose, gigante, io vedo cose che tu non puoi nemmeno immaginare … quel monte avvolto da nubi là in fondo, quegli uomini che vedo andare su e giù per le sue pendici, io vedo cosa c’è dietro … morte. Morte e dolore. –
- Lo avevo già capito. Tra un paio di giorni farò in modo di andare lassù e potrebbe servirmi il tuo aiuto. –
Lei gli appoggiò una mano gelida sul braccio e disse: - Ci sarò e … mangerò a sazietà. Che squadra, eh? – e rise con un suono come di cristalli tintinnati che gli gelò il sangue nelle vene. Fino a quando avrebbe permesso a quella cosa di aggirarsi per il mondo succhiando sangue, fino a quando la ragazzina che era stata avrebbe nascosto ai suoi occhi la cosa che era diventata?
- Che brutti pensieri, gigante! – disse lei girandogli attorno con la velocità del vento – Pensavo che mi volessi bene! – e svanì nella notte lasciando dietro di sé solo quella strana risata.
Tornò alla pianura pieno di dubbi e fece molta fatica a ingannare uno dei mostri che si era avvicinato alla foresta là dove lui e Leka si erano incontrati, ma anni di combattimenti e agguati lo avevano forgiato come un’arma infallibile e riuscì a tornare sano e salvo alla capanna dei suoi amici senza che nessuno si fosse accorto della sua assenza.
Una delle donne della casa, una ragazza di forse sedici anni che ancora non aveva partorito e che era alta almeno un paio di dita più di lui, si infilò nel suo letto e il gigante nubiano pensò che fosse utile, nonché dilettevole, comportarsi da bravo maschio di Dagshepan, ma, mentre la donna dagli enormi seni si muoveva mugolando sopra di lui, i sacerdoti dei Bousi scendevano dal monte verso il villaggio. E, come Leka, vedevano cose che lui non poteva immaginare, e avevano visto lui.

mercoledì 28 ottobre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 2.

Seconda puntata della nuova e super pulp avventura del gigante nubiano Okaka. Vi ricordo che il nome il protagonista lo aveva avuto in onore del giocatore della Samp, ora nella Samp non c'è più, ma mica potevo cambiargli il nome in Muriel, no? Buona lettura!

2

Gli dissero in seguito che era rimasto privo di sensi per tre giorni, ma quando esaminò le sue ferite si rese conto che un uomo normale sarebbe semplicemente morto nelle sue condizioni. Presto una nuova cicatrice rosta avrebbe percorso il suo enorme petto color dell’ebano, ma oramai da anni aveva smesso di contarle.
Comunque passarono alcuni giorni prima che riuscisse ad alzarsi in piedi, e fu forse una decina di giorni dopo il suo arrivo che uscì dalla capanna delle brave persone che lo avevano accolto e curato.
Per un paio di giorni fece una vita da vecchietto, a letto fino a tardi e poi a letto preso la sera, un passeggiata con un bastone al pomeriggio e un bel po’ di tempo seduto a guardare il mondo che si muoveva intorno a lui. Fu strano per un essere che era più azione che altro come lui, ma fu anche interessante.
La gente che abitava in quella enorme pianura era la più strana che avesse mai incontrato, e aveva avuto a che fare con uomini scimmia cannibali una vota su un’isola nel Mare dei Mostri, ma questi li battevano di un bel po’. L’ultima volta che aveva misurato la sua altezza, e aveva solo 14 anni all’epoca, era alto sette piedi. Solo una volta aveva incontrato un uomo più alto di lui, ed era un povero disgraziato che sembrava tenuto in piedi dai vestiti e che si appendeva miseramente ad un bastone per non cadere quando c’era una bava di vento.
Qui a Dagshepan, questo era il nome del loro paese, almeno la metà degli uomini era più alta di lui e il più basso che aveva incontrato era alto solo un paio di dita meno di sei piedi e mezzo. E le donne? Le donne erano alte almeno sei piedi, tutte, e un paio erano alte esattamente come lui. Erano tutti grandi e grossi, con spalle larghe e, le donne, fianchi robusti e seni enormi. Gli uomini coltivavano la terra senza dei buoi che tirassero l’aratro, perché erano loro a tirarlo. Ecco, quegli uomini erano effettivamente forti come dei buoi.
Ogni donna aveva almeno un paio di figli, sembravano esserci solo coppie di gemelli, ma di solito ogni donna sembrava avere almeno tre coppie di figli, e tutti i bambini erano cicciottelli e alti per la loro età.
La pianura era totalmente coltivata a frumento, legumi e verdure e la terra sembrava la più grassa e fertile che mai fosse stata zappata da mani umane. Tutto intorno alla radura stava la foresta infestata da quei mostri e nulla, non un muro e nemmeno una palizzata, separava quella terra benedetta dall’abbondanza da quell’oscura selva da cui arrivavano ringhi e fischi così acuti da perforare le nubi. A difesa di Dagshepan non c’erano fortificazioni, fossati o soldati, no, c’erano solo quegli enormi animali bianchi alla cui famigli apparteneva l’essere che lo aveva trovato prima che perdesse i sensi.
Sembravano essere una versione bianca, buona e pacioccona, di quegli esseri spaventosi che abitavano nella foresta, una specie di uccello predatore alto circa dieci piedi, dal muso simile a quello di un coccodrillo e con delle dita artigliate molto robuste sulle ali. Venivano chiamati Critton e giravano per tutto il giorno avanti e indietro, controllando la foresta e correndo là dove si era sentito un verso di un loro simile non addomesticato, si coricavano nei momenti di calma a prendere il sole lungo i sentieri e lasciavano che i bambini giocassero salendo addosso alle loro groppe. Erano come degli enormi cagnoloni, solo più brutti.
Già alla seconda giornata di passeggiate e riposini sulla panchina il gigante nubiano aveva capito alcune cose. Quelle persone erano forti ma lente, buone e gentili ma irrimediabilmente stupide, e avevano una stranissima composizione riguardo alla popolazione.
Si era accorto quasi subito che non c’erano vecchi. I più anziani sembravano avere quarant’anni o giù di lì, ed erano donne che avevano ancora i figli da allattare. Gli uomini adulti erano pochi, forse un quarto delle donne e le famiglie erano formate invariabilmente da un marito e quattro mogli. I bambini erano maschi e femmine, metà e meta come è naturale,e così era fino ai diciassettenni, ma dai diciotto anni in poi tre quarti dei maschi sparivano.
Fu solo quando si era ormai ripreso quasi del tutto che capì la cosa che gli ronzava in testa da un po’. Fu quando sentì un urlo agghiacciante arrivare dal bosco a non più di mezzo migliaio di passi da lui. Conosceva quel verso, la bestia che lui aveva ferito a morte aveva gridato proprio così. Dopo l’urlo della bestia morente aveva sentito una risata che conosceva bene, la risata cristallina di Leka. Appena la risata arrivò al suo orecchio un terzetto di animali corse facendo tremare la terra nella direzione del grido. “Sembrano cani da pastore che hanno sentito un lupo.” pensò e di colpo si rese conto che tra sé e sé aveva già paragonato gli uomini del posto a dei buoi e le donne, grandi, prosperose e sempre intente ad allattare dei figli ciccioni, a delle vacche. Dagshepan, quella terra benedetta dall’abbondanza, era un allevamento. Quegli animali, i critton, erano messi a guardia del gregge da un padrone che poi, di questo gregge, doveva in qualche modo nutrirsi. E la cosa doveva andare avanti da un bel po’, considerando come quegli umani fossero stati selezionati per bene per diventare ottime e mansuete bestie da carne.
Il padrone, il mangiatore di carne umana, doveva evidentemente vivere sulla montagna che sorgeva al centro della pianura e la cui cima, dove sorgeva secondo i suoi ospiti la sacra e inavvicinabile fortezza di Qasrdag-nor sempre nascosta dalle nubi in tempesta.
Secondo quella povera gente là vivevano gli dei Bou-si, quelli che avevano salvato, innumerevoli generazioni prima, i loro antenati che si erano persi nella foresta venendo decimati dai mostri, e là, presso gli dei, andavano ogni trimestre i prescelti, giovani uomini e persone in là con gli anni, per godere in eterno delle gioie del Paradiso.
Là, su quel monte perso tra le nubi, sarebbe presto salito anche lui, perché voleva proprio incontrare questi famosi Bou-si e i loro sacerdoti che, secondo i suoi amici, sarebbero arrivati tra loro di lì a un mese.

martedì 27 ottobre 2015

Gli dei di Dagshepan.

Prima di tutto, vorrei porgere le mie scuse a chi avesse cominciato a leggere Berserker. Quella storia, come un torrente dopo la pioggia, pareva scorrere rigogliosa e gorgogliante, ma si è presto inaridita. Chi lo sa, magari un giorno mi tornerà in mente e la continuerò.

Oggi però comincia una nuova storia del gigante nubiano, il guerriero Okaka che già avete potuto conoscere ne "I cinghiali di Marit". La nuova storia mi è già abbastanza chiara in mente e quindi, malgrado la mia patetica incostanza, dovrei riuscire a finirla in pochi giorni.
Comunque, eccovi la prima puntata che, naturalmente è pulp, molto pulp, pure troppo!

GLI DEI DI DAGSHEPAN

1

Quel ramo del lago che volgeva a meridione aveva portato Okaka fino a una foresta che, dopo nemmeno un’ora che vi era entrato, era diventata fitta e buia come le foreste che avvolgono il sognatore in quegli incubi in cui un qualcosa di orribile sta per saltarti addosso e tu non riesci a muoverti.
Continuò ad andare a sud, malgrado la luce che passava attraverso alle fronde fosse così debole e diffusa da rendergli impossibile capire in quale direzione si trovasse il sole. Il gigante nubiano tentò di capire dove fosse il nord nel modo che gli avevano insegnato da bambino, guardando su quale lato dei tronchi crescesse il muschio, ma l’ombra e l’umidità erano così compatte e onnipresenti in quell’intrico di alberi plurisecolari che il muschio non cresceva solo su ogni lato dei tronchi, ma muschi più giovani crescevano come viscide escrescenze sul muschio più antico.
Continuò a camminare per ore, con i moscerini che ininterrottamente lo pungevano per succhiargli il sangue dalla nera pelle sudata. Dopo un po’ smise di scacciarli agitando la mano e li lasciò fare. Poi, il sole doveva essere probabilmente oramai molto basso sull’orizzonte, si accorse che tutto si era quietato intorno a lui. Niente fruscii di serpi o schiocchi di merli intorno a lui, nessuno scoiattolo rosicchiava noci diverse braccia sopra alla sua testa, nessun cinghiale dai denti ritorti correva lontano al rumore dei suoi passi. Silenzio, totale e innaturale silenzio, solo il rumore dei suoi piedi che schiacciavano il molle terriccio ricoperto dalle foglie marce. Continuò a camminare guardandosi intorno nella foresta di secondo in secondo più buio, la sua lama di ossidiana ora stretta in mano e gli occhi spalancati nel buio per notare anche il minimo movimento.
Avrebbe voluto vedere vicino a sé, come spesso capitava, il baluginare della presenza di Leka, la sua compagna non morta che ovunque lo accompagnava combattendo con lui i nemici peggiori, ma da qualche giorno la ragazzina defunta tra le sue braccia alcuni mesi prima sembrava essersi offesa ed evitarlo quando poteva. L’aveva ferita quando aveva aggredito quella vecchia per succhiarle il sangue, nel villaggio a un paio di giorni di cammino alle sue spalle, ma non era la prima volta che litigavano quando la fame di lei diventava troppo forte in assenza di nemici da distruggere.
Era sopravvissuto fino a quasi trenta primavere senza di lei e avrebbe continuato a farlo malgrado la sua malcelata rabbia. Si fermò ruotando su sé stesso e finalmente, le pupille dilatate come quelle di una civetta nel buio, intravide una forma che gli si avvicinava passando tra i tronchi squamosi. Era alto più di lui, il doppio di un uomo adulto, imponente e con gli occhi illuminati dall’interno da un lampo di maligna luce rossa. Fece finta di non averlo visto e rilassò totalmente i muscoli della schiena e del braccio. Era più facile scattare dopo essersi lasciato andare a un attimo di riposo. E poi la bestia attaccò.
Fu velocissima, un attimo il gigante nubiano la vedeva a una ventina di passi da lui e il momento dopo gli stava saltando addosso da un’altezza simile al tetto di una capanna. Si lasciò cadere terra e rotolò sul fianco con la lama stretta per il suo manico di corno di olifante e evitò per meno di un capello la zampata dell’animale. Aveva zampe da uccello, ricoperte di scaglie e con un grande artiglio centrale, affilato come una lama di ossidiana. Fece scattare la sua mano e inflisse un enorme squarcio su quella zampa; la bestia gridò facendogli sanguinare le orecchie da tanto acuto fu il suono, poi si rivolse verso di lui e lo aggredì con le zampe anteriori che, muovendosi contro di lui, fecero il rumore delle vele sbattute dal vento. Doveva avere le penne, come un’aquila enorme dotata di mani artigliate. Una zampa lo afferrò squarciandogli un pettorale dalla spalla allo sterno, ma il nubiano ignorò il dolore e conficcò la sua lama nel petto muscoloso dell’animale. Un altro grido, più forte e stridulo del primo, artigliò le tenebre della notte e, intorno a loro, almeno otto grandi animali fuggirono via lamentandosi. Erano un branco di predatori e lui aveva ucciso l’avanguardia dell’attacco. Si alzò a sedere incombendo sull’animale morente che respirava gorgogliando e guaendo e, per rispetto per un prode cacciatore, lo sgozzò interrompendo la sua agonia. Poi, con il sangue che sgorgava nero dal collo squarciato, si coprì il volto, il petto e le braccia. Così, sperava, gli altri animali si sarebbero tenuti lontani. E poi, mentre si fasciava il petto e la spalla con una fascia di stoffa ricoperta di un unguento medicamentoso a base di bava di pipistrello delle grotte di Roan-Ahan, vide una luce baluginare nella foschia davanti a lui.
Si incamminò zoppicando, era stato colpito anche alla gamba destra dall’animale e solo ora, calata la furia del guerriero, se ne accorgeva, e, superati due enormi alberi, si trovò tra i cespugli di rovi che contornavano quella che sembrava una sconfinata pianura punteggiata da case. Una di queste case illuminate da torce era a non più di trecento passi da lui. Si incamminò verso quell’abitazione che sembrava indifesa così vicina a quel branco di predatori mostruosi, quando nella luce della luna calante una figura bianca ed enorme gli si avvicinò. Era simile a quello che lo aveva attaccato, ma il suo odore era più gentile e le sue piume, lunghe e morbide, erano bianche invece che brunastre e tigrate. Il grosso muso da coccodrillo con gli occhi da aquila si abbassò su di lui e la bestia, che aveva un collare di cuoio, lo annuso, poi lanciò un fischio e dalla casa uscirono delle persone che cominciarono a correre verso di lui. Fu in quel momento che la perdita di sangue dalla grossa ferita lo indebolì così tanto da fargli perdere i sensi. E così, addormentato e appoggiato su una lettiga, Okaka entrò nella strana terra di Dagshepan.

giovedì 9 luglio 2015

Berserker. 19.

Nuovo capitolo, breve ma intenso. qui finisce il terzo blocco di capitoli. Buona lettura!

Lui non era più niente. Tutto quello che era stato adesso non c’era più. Era stato un tedesco, era stato un militare, era stato un ufficiale e ora, ora non era niente. Era solo un uomo che correva.
Era un assassino, un ricercato, un traditore. Era un morto che camminava, un condannato a morte, un traditore della patria. Correva verso il nulla probabilmente, correva a perdifiato non riuscendo a credere a quello che aveva fatto.
Eppure … eppure non si era mai sentito così nel giusto come in quel momento. Aveva salvato delle persone, o almeno ne aveva rimandato, per quanto possibile, la morte. E aveva ucciso dei mostri.
E così correva, sicuramente lo stavano inseguendo i suoi ex soldati, lo stavano inseguendo le SS, forse lo stavano inseguendo anche quelle cose. Si sarebbe sparato in bocca quando lo avessero preso, non si sarebbe fatto torturare. Comunque correva, correva come un ragazzino, correva come quando davanti a sé si ha tutta una vita e nessun limite, correva lontano da quello che aveva fatto negli anni passati.
Sentì un colpo alla testa, come un sasso o una puntura di insetto, continuò a correre e, nemmeno un secondo dopo, sentì lo sparo. Il sangue gli colò giù per la tempia e il collo e capì, gli avevano sparato da molto distante, lo avevano colpito alla testa. Era un morto che correva allora, la morte gli stava colando giù nella divisa insieme al sangue. Continuò a correre mentre la vista gli si annebbiava e le gambe cominciavano a tremare, il mondo cominciò a farsi scuro e i rumori intorno a lui sembrarono trasformarsi in un rombo, corse ancora sulle sue gambe di ricotta e tutto oscillò intorno a lui come in un sogno, poi cadde e la notte lo ingoiò.

Rotolò giù nel torrente che era pieno d’acqua, rotolò giù per il pendio scosceso e fangoso. Affondò nell’acqua senza nemmeno annaspare e la corrente lo portò giù. E fu una donna a raccoglierlo appoggiato a un tronco, una donna il cui figlio era ancora vivo perché lui aveva tradito i suoi. Lo trascinò fino alla sua casa e lo curò aspettando l’arrivo dei crucchi. Che venissero pure, lei non avrebbe abbandonato a morire nel fiume un brav’uomo.

Scesero di corsa fino al torrente e videro dove era entrato in acqua. Corsero lungo la riva per chilometri prima di convincersi che la corrente aveva ormai portato il corpo del traditore lontano, verso il mare. Tornarono al sanatorio e non lo cercarono più.

giovedì 25 giugno 2015

Berserker. 18

Nuovo capitolo, buona lettura!



Per uscire dal sanatorio doveva percorrere due lunghi corridoi e una grande sala. Quando arrivò fuori, e aveva corso davvero veloce, la sparatoria era già finita. Konrad, di guardia sulla torretta, era ferito a un braccio ma era stato in grado di sparare agli assalitori; in terra, alle luci dei fari, si muovevano, forse agonizzanti tre partigiani. Il capitano si guardò intorno contando i suoi uomini. Ne mancavano solo due che erano fuori di ronda. Si avvicinò alla recinzione e guardò i feriti, tre ragazzi vestiti praticamente di stracci, armati di vecchi fucili da caccia. Era stato una specie di suicidio?
E poi, quando stava per dare l’ordine di andare a raccogliere i feriti, sentì aprire un cancello i cui cardini cigolarono alle sue spalle. Era dove addestravano quei prigionieri? Si girò a guardare e vide che i tizi dell’Ahnenerbe stavano portando fuori una cassa coperta da un telo. No, non era una cassa, era una gabbia. La aprirono davanti al cancello dopo averlo spalancato, poi infilarono dentro un bastone elettrico e diedero una scossa alla cosa che c’era dentro. Un urlo lancinante uscì da quelle sbarre che, nella notte buia, nascondevano il contenuto. E poi una cosa uscì dalla gabbia e galoppò nella notte. Era quella cosa che aveva visto il mese prima, ma gli sembrava più grande. E più, come dire, animalesca ancora.
- Fuori ci sono due miei uomini! – urlò a quei pazzi – Nel paese c’è pieno di civili! –
Gridò ancora correndo verso di loro. – Richiamate subito quella cosa, Santo Dio, ci sono due soldati e un sacco di civili, mi avete capito? –
- Capitano, - disse Bischoff – Quell’essere è assolutamente sotto controllo. –
- Quella cosa sotto controllo? Ma lei è pazzo o deficiente? –
- Si allontani, capitano, stiamo sperimentando l’arma che finirà questa guerra. Questa è l’arma che permetterà al Reich di governare il mondo per i prossimi mille anni. –
Era deficiente, questo era certo. – Bisogna far rientrare i miei uomini, e bisogna soccorrere quei feriti prima che la cosa torni. – disse ignorando volutamente la follia detta dallo scienziato.
- I suoi uomini non sono importanti, capitano, e quelli sono solo dei banditi. Immagino che se sopravvivessero li passeremmo per le armi. –
Non gli risultava che quello fosse il trattamento tipico per dei prigionieri di guerra, non nel mondo civile. E poi tra la fucilazione e essere sbranati da … - Richiami subito quella cosa, se può farlo, così andremo a cercare i miei uomini e soccorreremo quei feriti. –
- Capitano, lei sta vaneggiando. È in corso un esperimento di importanza capitale e non sarà certo lei a farcelo interrompere. – gli rispose e si girò di nuovo verso la sua radio che emetteva un continuo bip-bip che variava quando lui muoveva l’antenna ora in una ora in un’altra direzione.
Si allontanò da quei pazzi e disse ai suoi: - Ragazzi, là fuori ci sono Schauble e Steiner. Chi ha il coraggio di seguirmi là fuori per cercarli, venga con me. Non giudicherò chi rimarrà dentro. – e andò a prendere il fucile e a mettersi l’elmetto. Quando arrivò al cancello erano in tre i suoi pronti ad uscire, voleva bene a quei ragazzi, a loro e agli altri che non se la sentivano. Mise la mano sulla maniglia e sentì la voce del colonnello. – Fermo lì, capitano, è in corso un esperimento. – gli disse puntandogli contro una pistola.
- Là fuori, con quel mostro che tentate di comandare, ci sono due miei uomini e almeno un centinaio di civili. – gli rispose avvicinandosi a lui tentando di ignorare la pistola.
- I suoi uomini sono soldati e sanno di poter morire, quelli che lei chiama civili sono solo nemici. –
Deglutì la sua rabbia e il suo disprezzo per quell’uomo e per tutto quello che lui e la sua divisa rappresentavano, poi si voltò e, ignorando la pistola, andò al cancello. Lo aprì ignorando il grido di avvertimento dell’SS e uscì. Sentì uno sparo, in aria, per fortuna, e andò verso uno dei feriti. Era un ragazzo, magro e coi capelli neri e corti. Stava borbottando mentre il sangue gli usciva dalla bocca, diceva una parola che lui conosceva bene, “mamma”. Lo prese per le spalle e lo trascinò dentro, e, mentre rientrava insicuro di sé e del suo coraggio, vide i tizi dell’Ahnenerbe suonare nel loro fischietto. Dopo poco tempo, non più di un minuto, la cosa tornò, sporca di sangue e ululante e si infilò da sola nella gabbia. L’esperimento era finito, evidentemente, e purtroppo sembrava aver avuto successo.
E fu in quel momento, tenendo la mano di quel povero ragazzo che moriva e parlandogli con le poche parole di italiano che ricordava dai discorsi di sua nonna che veniva da Alba, il capitano capì che quelli non erano più i suoi compagni. Mentre il ragazzo moriva piangendo il capitano decise che nella guerra tra gli uomini e le bestie, lui stava dalla stessa parte di quei pazzi suicidi che li avevano attaccati quella notte.

mercoledì 24 giugno 2015

Berserker. 17

Nuovo capitolo, buona lettura!

Il colonnello Warner lo aveva fatto entrare dopo tre quarti d’ora di anticamera, due giorni dopo la richiesta di un incontro, e ora, dopo averlo fatto sedere davanti a lui, invece che parlargli si beveva un tè. Sorbiva piccolissimi sorsi di tè da quella grande tazza decorata da una svastica, non aveva idea che esistessero oggetti simili, si chiedeva se esistesse anche la carta igienica così decorata, e dopo aver bevuto il sorsetto borbottava dei versi di soddisfazione intramezzati a dei “Sì-sì-sì” davvero ridicoli.
Comunque rimase lì, seduto a guardarlo bere il suo buonissimo tè, deciso a non fargli il piacere di mostrare quanto era incazzato. Sarebbe stato divertente per quel porco di SS che lui si mettesse a urlare, no? E invece lui avrebbe aspettato lì, calmo e tranquillo, fin a che il bastardo si fosse degnato di ascoltare quello che gli doveva dire.
Il colonnello Warner si asciugò la boccuccia col tovagliolo, raccolse con cura le briciole dei biscotti e le versò nella tazza, si stiracchiò in maniera educata, sbadigliò coprendosi la bocca con la mano e poi, con molta calma, gli chiese: - Capitano, aveva chiesto di parlare con me? –
- Sì, colonnello. Le vorrei parlare di quello che è accaduto due giorni fa … - e qui fu interrotto dal colonnello che gli disse: - Scusi capitano, ma le devo dire subito che potrò concederle solo pochi minuti, perché stanotte ci dovrebbe essere una svolta nel nostro progetto Berserkir. –
E se aveva poco tempo doveva perderlo bevendo il tè? Ma che fosse maledetto, lui e i suoi guerrieri mitologici del cazzo! – Colonnello, quell’italiano che ci hanno affiancato … è un assassino. Ha ucciso un povero vecchio con le sue mani, lo ha torturato! E ora il corpo di quel vecchio è lì a marcire al vento e al sole senza che nessuno possa seppellirlo, pena la morte. – quasi sputò fuori queste parole che lo stavano soffocando.
Il colonnello lo guardò intrecciando le dita sul ventre, sorrise appena e disse: - Lo so, capitano. Naturalmente lo sapevo già. – si alzò e si spostò davanti alla finestra, era buio, ma da dietro al monte il cielo già si schiariva per la luna piena, di nuovo la maledetta luna piena. – Da quel che mi risulta quel vecchio, come lo chiama lei, aveva offeso il nostro Fuhrer e se ne vantava in giro per il paese.
- Era un povero vecchio innocuo che non faceva male a nessuno. – disse lui.
- Aveva chiamato Adolf il suo mulo perché così era più divertente prenderlo a legnate. Sono state all’incirca queste le sue parole, no? –
- Quello che quell’italiano e alcuni suoi uomini hanno commesso è stato un omicidio! Hanno ammazzato un uomo inerme! –
- Capitano, lei in questa guerra non ha ucciso nessuno? –
- Ho ucciso dei nemici, dei soldati con le armi in pugno, dei banditi – doveva chiamarli banditi davanti a lui – che volevano uccidere i miei soldati. –
- E quel vecchio non era forse un bandito che stava offendendo quanto di più sacro e importante ci sia nella nostra amata Patria? –
Certamente no, sacro quel nanerottolo austriaco? – Era un vecchio in un paese occupato da stranieri, colonnello. Era solo un vecchio che parlava troppo. –
- Era un vecchio che meritava la morte. – disse il colonnello in tono lapidario. Poi disse: - Ha altro da chiedermi, capitano? Dovrei andare ora. –
Lo doveva dire o no? Sì, doveva. – Quell’omicidio avrà delle conseguenze. Quei banditi che si sono nascosti sul monte reagiranno e ci attaccheranno, e qualcuno dei nostri sarà ferito o morirà. Se ne rende conto, colonnello? –
- Siamo in guerra, capitano, non a un pranzo di gala! – rise a questa sua battuta, odiava chi rideva delle proprie battute. – E poi lo spero bene, i suoi soldati si stanno inflaccidendo con questa vita borghese, e non so cosa stia aspettando per andare a stanare quei maledetti banditi. Aspetta forse il disgelo? Lo sa che siamo ancora in autunno, capitano? –
Sorrise mentre immaginava di freddarlo sul posto con una pistolettata in fronte, sarebbe caduto sul suo bel tappeto sotto alla sua fiammante svastica appesa al muro. – Lo so benissimo, colonnello. Solo che non mi sembrava il caso di mettere in pericolo i miei soldati per cercare un branco di ragazzini armati di fucili da caccia che probabilmente non sanno nemmeno usare. Non sono abituato ad ammazzare ragazzini, quando non è strettamente necessario. –
- E allora in guerra cosa fa, di solito? Ricama all’uncinetto? –
- Colonnello, io sono un capitano della Wermacht! Io pretendo rispetto! – disse scattando in piedi ed alzando un po’ la voce, non tanto da gridare, ma abbastanza da far sentire da chi fosse stato nell’anticamera ad origliare.
Il colonnello lo guardò con disprezzo e disse con voce sibilante: - Veda di pretendere cose che merita, vigliacco. – e forse lì ci sarebbe scappato il morto, ma sentirono uno sparo dall’esterno, un fucile da caccia al cinghiale, dal suono. Lui corse fuori dimenticandosi, per il momento, dell’epiteto offensivo che gli era stato affibbiato, ma il colonnello non lo seguì fuori. Chiamò al telefono qualcuno e disse: - Sono arrivati, dottore, ne approfitti per l’esperimento con l’esemplare 1. –

venerdì 19 giugno 2015

Berserker. 16

E, dopo un po' di giorni, eccovi un altro capitolo, finito di scrivere proprio un minuto fa. Buona lettura!

Secondo la gente del posto non aveva mai fatto così caldo in autunno. Meglio, dopo l’inverno che aveva passato combattendo nei Balcani, di tutto poteva avere voglia meno che di vedere muri di neve intorno a sé.
Malgrado nelle zone intorno a loro, come i tutta l’Italia dopo quella cagata di Armistizio l’8 di settembre, infuriasse la lotta contro quelli che nei loro dispacci venivano denominati banditi e che tra di loro si definivano partigiani, nella loro zona tutto era tranquillo. Sapeva naturalmente che sul monte di fronte al loro campo, da qualche parte in quelle strette vallate nascosti da boschi fitti e impossibili da attraversare per chi non li conoscesse bene, si erano nascosti alcuni ragazzi renitenti alla leva nella Repubblica Sociale, ma fino a che loro non fossero venuti giù a dare fastidio ai suoi uomini, lui non avrebbe rischiato la vita di nessuno dei suoi per andarli ad acciuffare. Volevano stare nascosti sul monte come capre? Facessero pure, lui e i suoi uomini per la prima volata da mesi avevano un tetto sopra le loro teste e un po’ di quiete dai combattimenti.
Il nostro capitano stava pensando queste cose mentre passeggiava per il giardino del sanatorio, quando gli venne incontro il tenente Schimdt, un ragazzo che sembrava essere passato attraverso 11 anni di regime nazista senza esserne minimamente toccato. Anche perché il suo unico argomento di conversazione era il Bayern di Monaco e almeno su quell’argomento i nazisti fino ad allora si erano astenuti dal dire qualcosa. Comunque era piacevole parlare con qualcuno che non rispondeva ripetendo a memoria le frasette inventate da Goebbels.
- Salve, capitano. – gli disse Schmidt salutandolo militarmente – Bella giornata, eh? –
- Caldo. Per essere la fine di ottobre è caldo. Ma dopo tutto siamo nella terra dove crescono i limoni, no? –
Schmidt lo guardò sforzandosi di non far notare che non aveva capito il riferimento, poi sorrise e disse: - Non li avevo visti i limoni, qua intorno. Belli comunque, e profumati. - Eh sì, Goethe non giocava nel Bayern in effetti.
Mentre la conversazione languiva furono richiamati da un fischio a malapena udibile. Veniva dalla zona del giardino che era stata recintata per trasformarla in Lager per i prigionieri. Andarono a vedere e rimasero per qualche minuto in silenzio a guardare cosa stavano facendo i due dell’Ahnenerbe insieme a quel sergente che avevano fatto venire dalla sezione cinofila. Stavano lanciando dei bastoni ai prigionieri e quelli dovevano andare a prenderli e riportarli. Quando lo facevano venivano premiati con un biscotto, se si rifiutavano venivano picchiati con un bastone. Altri, più in là, stavano marciando e, quando Bischoff suonava quello strano fischietto, svoltavano a destra o a sinistra oppure si fermavano a seconda di quanti fossero stati i fischi. Ogni volta che eseguivano correttamente l’esercizio, biscottino, per ogni errore, di nuovo, bastonata. Stavano addestrando dei cani, solo che erano persone.
Il capitano e il tenente si allontanarono dalla recinzione in silenzio e svoltarono l’angolo. Lì c’erano quelle reclute delle SS, quelli che avevano stampato in faccia “Io sono un bravo nazista” e che disprezzavano gli altri esseri umani all’incirca come gli Spartani disprezzavano gli Ateniesi. Questi li stava addestrando von La Salle insieme a all’assistente di quel sergente. Anche qui biscottini e fischietti, solo che questi si lanciavano anche addosso a dei pupazzi in un corpo a corpo stile lotta greco-romana. E anche qui i comandi erano dati con il fischietto quasi inudibile e c’erano gli stessi premi e punizioni.
Si allontanarono anche da lì e uscirono dal sanatorio cominciando a passeggiare per il paese. Un pastore passò con un paio di capre e li salutò con un certo astio negli occhi. Erano invasori dopotutto, non poteva dargli torto. Gli disse “Buongiorno” con la miglior pronuncia italiana di cui era capace.
- Era un fischietto ad ultrasuoni, lo usano per addestrare i cani. – gli disse all’improvviso il tenente Schmidt. Era spaventato, povero ragazzo, neanche il fischietto ad ultrasuoni aveva mai giocato nel Bayern.
- Sì. –
- Capitano, perché addestrano come cani quei prigionieri e quelle reclute? Perché mai li addestrano come cani? –
- Sono esperimenti di cui non … come dire? Nessuno ai piani alti ritiene che dobbiamo saperne più di quanto sappiamo, Schmidt. Ti va come risposta? –
- Ma, capitano! Non pensa che c’entri quella cosa che ha ucciso Johannes? E se quei matti volessero contaminare quelle persone? Capitano … -
- Schmidt, nessuno ha chiesto il nostro parere, mi pare. Però ci hanno dato degli ordini. Ciò dovrebbe bastarti, direi. – gli rispose vergognandosi come un verme, lui aveva disubbidito agli ordini, lui era andato nell’ala in cui gli era stato proibito andare, lui aveva visto la ragazza che con la luna piena diventava quella cosa, lui aveva visto che Johannes era ancora vivo e perfettamente sano. Lui era il perfetto soldato di quel regime di merda che era diventata la Germania, tra sé e sé sbraitava e, quando doveva agire, era il più fedele degli esecutori. Che schifo! – Schmidt, anche io ho le stesse idee che hai tu, è naturale, ma gli ordini che abbiamo ricevuto … - gli stava dicendo quando arrivò quell’odioso italiano che i fascisti avevano mandato ad aiutarli e affiancarli nella gestione del paese. Un cretino fatto e finito, un tizio grande e grosso che raccontava a tutti delle sue azioni eroiche nella Grande Guerra per impressionarli e non si rendeva conto che qualunque soldato, vedendolo, notava come prima cosa che aveva i piedi piatti. E con quei piedi non lo avrebbero mai arruolato, neanche nella Grande Guerra.
- Salve, podestà. – gli disse sperando che avesse da fare al sanatorio e che non li disturbasse col suo tedesco osceno. Se c’era una persona a questo mondo che per lui era classificabile come subumano, ecco, il podestà Toti era quello.
- Dovete venire con me, subito. C’è un contadino che ha fatto una cosa inaudita. – disse e corse verso la parte orientale del paese. Lo seguirono e arrivarono davanti a un contadino che li stava aspettando accanto a un mulo carico di legna. Il labbro del contadino era spaccato da un pugno e il sangue gli colava sulla barba grigia. Lo conosceva quel contadino, lo chiamavano Bartolo ed era innocuo.
- Lo ha picchiato lei questo vecchio? – chiese a Toti.
- Certo! Gli chieda come si chiama il mulo, su! – gli disse l’omone tutto eccitato. Gli piaceva picchiare, maledetto, gli piaceva picchiare i vecchi indifesi.
- Parla il tedesco il signore? –
- No. –
- E allora glielo chieda lei, per favore. – e mentre diceva questo si stavano avvicinando anche quattro di quei giovani SS che erano incuriositi dalla loro scenetta.
Toti fece una domanda al vecchio e quello, impettito, rispose: - Adolf. –
- Ha capito, capitano? Ha chiamato il suo mulo Adolf. –
- E allora? – non gli piaceva quella storia, sia Toti che i giovani SS sembravano avere una gran voglia di menare le mani.
Toti fece un’altra domanda e il vecchio li guardò tutti in faccia. Quanto odio c’era in quella faccia, peccato che stava su un corpo che definite indifeso era poco. Rispose ad alta voce e fece cenno a Toti di tradurre. Stava impettito, ma gli tremavano le mani. E poi Toti tradusse le sue parole dicendo: - Dice che lo ha chiamato Adolf perché così, quando gli deve dare delle legnate, almeno si diverte. – e qui cominciò la sarabanda.
Lo trattarono come un animale, peggio anzi, e lui non intervenne. Lui e Schmidt si guardarono e il tenente fece l’atto di poggiare la mano sulla pistola per … per fare qualcosa, ma lui lo fermò. Codardo in tutto, che schifo.
Per fortuna quel povero vecchio non durò troppo, probabilmente gli cedette il cuore dopo un po’ di botte. Toti e le SS si divertirono un bel po’ con lui, però, e alla fine l’italiano sparò anche al mulo freddandolo lì sul posto. Non riuscì ad uccidere il cane del vecchio, però, dopo un calcio scappò e continuò ad abbaiare disperato dal limite del bosco a un centinaio di metri da loro.
Lui e Schmidt si allontanarono prima che tutto finisse, disgustati. E il tenente disse: - Vorrei tornare al fronte, capitano, vorrei tornare al fronte. – e lui gli diede una pacca sulla spalla. Erano finiti dalla parte sbagliata dell’Inferno, non c’era dubbio.

domenica 14 giugno 2015

Berserker. 15

Nuovo capitolo, fresco fresco come un ovetto, buona lettura!


Il suo attendente gli portò un caffè e uscì dalla stanza. Lui aprì la finestra e andò a sedersi sulla sedia a sdraio per gustarsi quegli ultimi raggi di sole. Quel grosso palazzo era stato costruito proprio per quello, perché la gente potesse uscire sui terrazzini e prendersi il sole. Qualcosa di buono c’era, dopo anni di guerra passati a dormire in tende umide e fangose o in ruderi senza il tetto a causa dei combattimenti, ora aveva una stanza, una colazione, un pranzo e una cena caldi, un vero letto e un panorama.
E anche i suoi uomini avevano tutto questo, solo che stavano in due per ogni stanza. E che i suoi uomini stessero comodi, al caldo e al sicuro per lui era molto importante. Per gli alti papaveri dell’esercito i suoi uomini erano solo numeri, mandiamo mille soldati in più là, sono morti cento soldati qua, possiamo permetterci duemila caduti lì, ma per lui erano persone, ragazzi che non avevano ancora vissuto la loro vita e che dipendevano da lui per poterlo fare in futuro. I suoi uomini erano l’unica parte della Wermacht di cui ancora gli interessava; che si fottessero tutti gli altri, lui aveva i suoi uomini e loro avevano lui.
E qua gli si rovinò il piacere del caffè. Anche Johannes era un suo uomo. Avrebbe voluto sparargli un colpo in testa, quella notte di tre settimane prima, tanto soffriva per gli squarci che quella cosa gli aveva fatto. Il dottore aveva tentato di ricucirlo e gli aveva dato la morfina, ma lui aveva continuato a urlare. E poi quei maledetti dell’Ahnenerbe avevano preso Johannes e la Cosa e li avevano portati via nella loro tenda. Le urla erano continuate per un po’ e poi, all’improvviso, si erano interrotte. Lui si era avvicinato alla tenda e aveva chiesto di entrare. Un suo uomo era morto e lui doveva vederlo; era un suo dovere e lui avrebbe dovuto scrivere alla famiglia.
E invece … lo avevano cacciato in malo modo, stavano lavorando. – Devo prendere le piastrine di Johannes. – aveva detto lui e quelli gli avevano risposto che il soldato Messner non era affatto morto. Ora dormiva. Così gli aveva detto l’altro bel tomo dell’Ahnenerbe, il dottor Von La Salle. – Fatemi vedere il mio uomo. – aveva detto e quello stronzo, quel maledetto stronzo pieno di sé, gli aveva riso in faccia. – Il suo uomo adesso è al servizio dell’Ahnenerbe, non è più ai suoi ordini. Vada pure, adesso. – gli aveva detto chiudendo la porta e lasciandolo lì nella notte che cominciava ad albeggiare.
E ora erano tutti lì, sugli Appennini alle spalle di Genova, in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini che i sapientoni dell’Ahnenerbe, che bruciassero all’Inferno dal primo all’ultimo, avevano trovato con i loro potenti mezzi, probabilmente facendo oscillare un pendolino su una carta geografica del mondo. E non erano soli, c’erano gli scienziati con una squadra di medici ed infermieri, i due ufficiali delle SS con una squadra di giovani reclute SS che non facevano altro che allenarsi a tutte le ore del giorno e della notte mostrandosi evidentemente scocciati ogni qual volta che lui o uno dei suoi “semplici” soldati si permetteva di incontrarli e di scambiare due parole con loro. E poi c’erano quei venti prigionieri dei campi. Dieci uomini e dieci donne arrivati lì in condizioni pietose, pieni di cimici e pidocchi, così magri che gli si potevano contare le costole attraverso la lercia divisa da internato, tutti tra i diciotto e i vent’anni e, malgrado il trattamento subito, in buona salute. Ora, lì nel sanatorio dove si erano acquartierati, li trattavano meglio, li curavano, li lavavano, li nutrivano e li tenevano al caldo, ma li sottoponevano anche a strani allenamenti e addestramenti, roba più da cani pastore che da persone.
E poi, nascosti nelle stanze più interne, la Cosa, Kastorp e Johannes. La loro presenza era un segreto ben custodito e quindi lo sapevano ormai tutti. Era stato il cuoco a dire che doveva esserci altra gente, almeno tre persone, e tutti avevano visto i dottori e le SS andare molto spesso nelle stanze interne e proibite. Lui se ne era fregato degli ordini e dei divieti, una mattina che quei matti erano tutti impegnati nell’addestramento delle reclute SS, e mai aveva visto addestrare dei soldati con fischietti e frustini, si era infilato nel corridoio che portava all’ala sinistra del sanatorio e aveva aperto un po’ di porte. Laboratori, sale con lettini, sale con gabbie, e alla fine, in fondo, tre stanze le cui porte, blindate, potevano essere aperte solo dall’esterno. Era entrato nella prima e aveva trovato Kastorp. Aveva messo su una decina di chili e sembrava di nuovo un uomo. Gli occhi invece erano peggiorati, erano gli occhi di un pazzo. Tutti gli spigoli presenti nella stanza erano stati imbottiti e non indossava né cintura né lacci. Il letto aveva delle cinghie pronte per contenerlo.
- Salve, signor Kastorp. – gli disse entrando.
L’uomo lo guardò e sembrò fare fatica a mettere a fuoco chi fosse, poi sorrise e disse: - Salve capitano. Anche lei qui? –
- Sì. Siamo tutti qui, nelle mani di questa gente. – gli rispose.
Kastorp sorrise, un sorriso straziante nella sua tristezza e poi gli chiese una cosa: - Avrebbe una sigaretta? –
- No. Se vuole gliela porto la prossima volta che vengo. Ma lei non fuma, mi pare. –
- Non fumo, infatti. Era per dare sbadatamente fuoco al letto per crepare e essere libero. – gli disse e sorrise. Questo era un sorriso molto più deciso, la sola idea di farla finita lo aveva rallegrato.
- Signor Kastorp … - disse e si fermò; cosa avrebbe potuto dirgli?
- Capitano, le dispiacerebbe spararmi un colpo in testa? – gli chiese sedendosi sul letto.
- Io non posso. – gli rispose vergognandosi della sua pavidità.
- Lo sapevo, capitano, ma dovevo tentare. – gli disse e poi aggiunse: - E ora vada, di là c’è un suo amico e non ha tanto tempo prima che tornino. –
Lui uscì dalla stanza e aprì la porta successiva. Sul letto dormiva una ragazza, se non si sbagliava l’aveva vista là in Transilvania … e all’improvviso capì, era quella ragazza che i suoi uomini avevano seguito nel bosco quella notte, quella era la Cosa. Ora sembrava solo una ragazzina che dormiva in una cella dopo aver pianto.
Richiuse la porta e aprì la successiva. Sul letto, intento a leggere un libro di avventure in mare, l’Isola del tesoro, c’era Johannes. Era totalmente guarito e gli era passata anche quella tremenda acne che lo deturpava. Saltò in piedi vedendolo e scattò sull’attenti.
- Riposo, Johannes. – gli disse rendendosi conto che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire così presto da quelle ferite, e che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire totalmente da quelle ferite. Rabbrividì all’idea di essere nella stessa stanza con lui, ma era sempre uno di suoi uomini, un ragazzo troppo giovane per la guerra che era stato afffidato a lui. – Come ti trattano? –
- Bene, capitano, solo che non mi fanno uscire. Come stanno i camerati? –
- Bene, Johannes, bene. Ti salutano tutti. – guardò l’orologio che portava al polso e disse: - Ora devo andare, soldato. Tornerò a trovarti appena potrò. – e uscì guardando il ragazzo che lo salutava con un Heil Hitler da antologia. Si chiuse la porta alle spalle e pensò che voleva fuggire, voleva scappare via da quel posto dove succedevano cose simili, voleva fuggire e portare con sé i suoi uomini. Poi si ricompose, aggiustò la divisa e, senza farsi notare, tornò sui suoi passi uscendo dall’ala proibita. Sarebbe tornato a prendere il sole, sì, un po’ di sole gli avrebbe fatto bene.