domenica 22 novembre 2009

Evoluzione II,8.

Sono un bel po' di giorni che non curo il mio piccolo inutile blog e, anche se avessi avuto un qualche sparuto lettore, ormai si saranno arresi e saranno passati ad attività più utili e divertenti.
Bah! E chi se ne frega, basta che qui ci siamo io e te, mio caro, inesistente, Lettore, io qui che scrivo e tu lì, chissa dove, che leggi.
C'è una cosa che ho pensato in questi ultimi giorni, dopo aver visto in tv un programma sui due assassini di Erba, Olindo e Rosa, sapete, e dopo aver cominciato a leggere "I sommersi e i salvati" di Primo Levi.
Quello che ho cominciato a pensare, caro Lettore, quello che sto rimuginando, è quanto poco separi ognuno di noi dal commettere il Male assoluto, l'omicidio.
Secondo tutti gli esperti i due simpatici coniugi di Erba non sono affatto matti, cosa che penso anche io, ma sono solo un pochetto scentrati, parola non precisamente scientifica ma che rende bene il concetto.
Questi due strani tipi si sono trovati e si sono innamorati, formando tra loro un indissolubile connubbio in cui si sentivano sicuri e tranquilli, come piselli nel loro bacello, si potrebbe dire.
La famigli dei vicini, i Marzouk, erano per loro un'insopportabile fonte di disturbo e di stress, tanto che, dopo aver fatto causa ai "rumorosi" e "fastidiosi" vicini, si sono trovati per così dire costretti ad ucciderli tutti per proteggere il loro modus vivendi.
Ora, per chiunque è chiaro che un ragionamento simile è assolutamente folle e staccato dalla realtà, ma ora vi voglio proporre un quesito:
Allora, nessuno uccide per uccidere, forse solo i serial killer, ma a pensarci bene, come dice il dottor Lecter, l'assassinio e accessorio, loro desiderano; infatti il serial killer, autore degli omicidi più gratuiti, uccide in realtà per poter provare quel piacere che la sua mente malata gli impedisce di provare altrimenti.
Per quali altre ragioni si uccide?
Beh, per rubare; o per eliminare che ci ha visti fare qualcosa di sbagliato e potrebbe denunciarci; o per eliminare un concorrente in affari o in amore, anche se in questo caso si torna n realtà al primo caso, quello del furto; oppure perchè si è in guerra, per difendere il suolo natio e la Patria, rischiando la nostra vita per le nostre madri e le nostre sorelle; oppure, ed è il caso più ben visto, si uccide per llegittima difesa, cioè per salvare l nostra vita.
Ed eccoci al dunque. Se io infilo un pugnale di quindici centimetri nella pancia di un uomo e ce lo rigiro per bene, questo è un omicidio. Questo non può cambiare; però posso averlo fatto perchè quest'uomo stava mangiando l'ultimo gelato alla nocciola, e io volevo il gelato alla nocciola.
Oppure perchè stava rubando i gioielli di mia nonna, e io sono affezionato a mia nonna buonanima.
Oppure perchè ha il mio stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore e la sua morte, che sia avvenuta a casa sua o a casa mia, salverà il destino della mia Patria.
Oppure perchè quest'uomo stringendo le sue mani sul mio collo, mi sta strangolando e quello è l'unico modo di salvarmi la vita, e io ci tengo un bel po' alla mia vita.
L'atto è sempre lo stesso, e anche il motivo che me lo fa compiere: uccidendolo farò una cosa che migliorerà la mia condizione.
L'unica differenza sta nell'importanza del cambiamento, che va da praticamente nulla a totale.
E' l'educazione a dirci quando usare la violenza, è la nostra salute mentale a farcelo capire, è la propaganda che ci raggiunge a condizionarci in una direzione o nell'altra.
Che ne dite? Sono solo gli sproloqui di un deficiente? Oppure trovate che io abbia detto qualcosa che abbia un senso?
VOrrei però precisare che queste mie righe un po' sconclusionate non sono e non vogliono essere un invito o un incitamento ad uccidere, quindi se volete liberarvi di quella palla al piede di vostra suocera, primo non fatelo, secondo, se lo fate, non dite che vi ho incitati io.
E ora il nuovo capitolo:

VIII

Lu Ann Wilder parlava col dottor Teubner in portoghese, pensando che per i locali i loro dialoghi pronunciati con pesantissimi accenti tedeschi e inglesi dovevano essere esilaranti come le comiche degli anni Venti.
Con Suleiman aveva parlato in inglese, che lui parlava con uno strano e gradevole accento anglo-arabo, avendo studiato in Inghilterra.
Quello schifoso neonazista che era arrivato da due giorni e che chissà perché Teubner aveva accettato al ricovero come ospite, parlava inglese come la caricatura del soldato tedesco nei film di guerra e ora che quei tre si erano incontrati, si erano messi a parlare tra loro nell’unica lingua che condividevano, cioè il Francese, escludendola così dai loro discorsi. Dopo un po’ che stava lì a sentirli parlare come dei mangiarane uscì all’aperto a godersi l’aria finalmente fresca dopo una giornata in cui la temperatura aveva superato i quaranta gradi.
Suleiman le piaceva molto, anche se doveva avere almeno una decina di anni meno di lei. Erano sei mesi che non aveva un uomo, l’ultimo era stato Kevin Sanders, l’avvocato di famiglia.
Era un bell’uomo, ma non sapeva bene perché non la convinceva; era convinta che avesse sempre un doppio fine.
Scattò in piedi e dovette trattenere un urlo. Kevin Sanders non esisteva! Era solo il personaggio interpretato dal suo amico Michael, un attore omosessuale che conosceva da otto anni. Si ricordava bene, ora, delle risate che si erano fatti girando la scena di sesso, dovendo stare attenti a non mostrare tette o chiappe stando sempre sotto le lenzuola.
L’ultimo uomo con cui era stata era Jim, il giardiniere. Oppure si sbagliava e anche Jim era un amante di Madison Rockwell? Tentò di ricordare se le era piaciuto, se lo avevano fatto in casa sua o nella casa sulla spiaggia di Madison. Ma la casa sulla spiaggia di Madison era solo un po’ di pareti di compensato in un teatro di posa.
Piangeva tentando di ricordare il nome dell’attore che interpretava Jim, o se lui le aveva detto all’orecchio Lu Ann o Madison. Non riusciva a ricordare.
Si alzò e camminò fino al limitare dello spiazzo davanti all’ospedale, vicino alla foresta che non era per nulla illuminata dalla luna nel cielo. Il suo primo amore era stato Antony, un ragazzo italoamericano che aveva conosciuto in Colorado quando era andata a sciare con i suoi; aveva quindici anni allora. Ma se i suoi genitori non l’avevano mai portata a sciare, loro preferivano portarla in una fattoria a cavalcare.
Mugolò il suo dolore alla luna, sola in mezzo a un cortile al centro di una foresta, tentando di capire chi era, ma la luna non la poteva aiutare.

venerdì 13 novembre 2009

Evoluzione II,7.

Scusate il ritardo, ragazzi, ma non ho avuto tempo di curare il mio piccolo, fetido, inutile blog.
Per esempio ieri su la7 ho visto un meraviglioso documentario sul pericoloso mestiere dell'archeologo. Io faccio l'archeologo, non accrditato perchè non esiste un albo e nessuno ti dirà mai che sei un archeologo, è una cosa che devi sentirti da te, e posso giurarvi che non mi è mai crollata addosso una tomba e che non ho mai incontrato nessun faraone maledicente ( e se è per questo neanche nesuna archeologa stile Rachel Weisz che fosse la reincarnazione di un'antica egizia). L'unico pericolo per un archeologo è quello di rompersi le palle, essere sfruttato, prendere l'insolazione, morire di fame, farsi venire lividi su braccia e gambe spostando secchi pieni di terra.
E ora, miei cari, dopo questo mio antipatico e inutile sfogo, eccovi il capitolo 17 del mio romanzo incompiuto:

VII

L’androide tentò di alzarsi e cadde a terra senza neanche alzare le braccia per attutire la caduta; diede una bella facciata e si rimise poi a sedere facendo una specie di risata. – Penso che non sia andata troppo bene. – disse, mentre Elena gli si avvicinava e gli prendeva una mano nelle sue.
- Penso anche io che ci sia ancora da lavorare sul centro motorio del tuo computer. – disse accarezzandolo e sentendosi stupida perché sapeva benissimo che sul dorso delle mani non aveva sensori tattili.
- Signora Marina, pensa che riuscirà a ripararmi? – chiese con la consueta gentilezza il droide.
- Certo Sal, ancora qualche giorno di lavoro per me e di convalescenza per te e poi potrai andare a vivere con Elena. –
- Non vedo l’ora di andare a casa della signorina Elena, che mi tratta tanto bene e mi ha detto che mi insegnerà a curare il giardino. – disse il droide volgendo il viso a Elena e muovendo le sue rigide fattezze di plastica in uno sguardo da cocker.
Marina si sedette vicino a lui e gli disse: - E io non vedo l’ora che tu sia guarito perché mi hai salvato la vita e ti voglio far diventare il droide più felice del mondo. –
“ Se i droidi possono essere felici… - pensò Marina che cominciava a chiedersi se per caso Elena se lo volesse anche scopare quel vecchio rottame. – Ora puoi spegnerti Sal, riprendiamo domani. – disse e cominciò a riporre gli attrezzi che usava per riparare il droide che aveva pezzi un po’ di tutti i colori, come tutte le macchine aggiustate ricorrendo allo sfasciacarrozze.
- Si signora Marina. Arrivederci signora Elena, a domani. –
- A domani Sal. – disse Elena mentre il droide si sconnetteva e i suoi occhi si spegnevano.
- Come mai ci vuole tanto? Avevi detto che non era poi tanto lesionato. – le chiese Elena prendendo la borsa e infilandosi la giacca.
- Ci sono stati tanti danni nei banchi di memoria e in tutte le parti del computer che si sono salvate, sia a livello di hardware che di software. Più lo riparo e più ne scopro. Penso che ci vorrà almeno una settimana. –
- Ma ci pensi che se non lo avessi preso io lo avrebbero già portato alla demolizione? È così buono! –
- È solo la sua programmazione Elena, se io gliela cambiassi potrei renderlo odioso come una suora. –
- Non il mio Sal. – disse Elena accarezzando la calotta cranica del droide spento – Il mio Sal è buono di natura, ne ho avuto la prova durante la rapina. –
- Se lo dici tu. – disse Marina accompagnandola alla porta – A domani cara. –
- A domani. – disse Elena e andò via in bicicletta.
Marina la guardò allontanarsi e rientrò in casa. Attese qualche minuto per essere sicura che non tornasse e fece scattare un interruttore che lei stessa aveva posizionato sulla testa del droide. Sal si svegliò subito, ma parlò con un tono di voce diverso e si alzò in piedi senza problemi. – Ciao Marina. – disse con una voce che assomigliava tantissimo a quella di Enrico – Sei da sola? –
- Sì caro. – disse e baciò il droide, - Giornata dura? –
- Lo saprai appena ti metterai la coroncina dell’amore. – disse lui e rise, come stava facendo a venti chilometri di distanza Enrico chiuso nella sua stanza dentro all’ala top secret dell’IIT.
Lei si mise la coroncina e l’accese. Il suo trasmettitore che aveva un raggio di pochi metri si collegò a quello del droide che invece aveva una portata di chilometri e riusciva a raggiungere quello indossato da Enrico. Immediatamente i pensieri dei due si fusero con una facilità che non c’era stata le prime volte, sembrò quasi che la loro natura fosse quella di pensare insieme. Il droide si sedette su di una sedia immobile, e i due innamorati cominciarono a pensare uno nella mente dell’altro e a fare l’amore masturbandosi l’uno usando le mani dell’altro.
Dopo l’amore mangiarono, scambiandosi idee e sentimenti, ridendo di cose che solo uno dei due sapeva fino ad un istante prima, uniti in un modo che sembrava loro realizzare l’idea platonica dell’amore, due metà che si incontrano e si riuniscono finalmente in un intero.
Come sempre da quando avevano usato le coroncine la prima volta, dormirono collegati, perdendo un altro po’ di loro stessi.
È infatti nel sonno, sognando, che noi impariamo davvero, accettando dentro di noi quello che ci viene da fuori. Sognando uno i sogni dell’altro si scambiavano i ricordi fondendo le loro memorie in un guazzabuglio incomprensibile di notizie, come aveva scoperto troppo tardi Silvio Ferrero.
Ogni notte di più Enrico e Marina si perdevano in una nuova mente comune, senza neanche accorgersi di questa loro strana morte.

domenica 8 novembre 2009

Evoluzione II, 6.

Ecco il sedicesimo capitolo, belli, se esistete leggetelo, se no... Eh be', se non esistete il problema non si pone, no?

VI

Il sergente Giuseppe Salvi, un uomo alto un metro e ottanta e pesante ottantotto chili senza neanche un grammo di ciccia, era coricato su un letto con una di quelle ridicole camiciole da ospedale che per una qualche stramba ragione non si potevano chiudere sul culo. Di fronte a lui, su due letti simili stavano i suoi due amici, i caporali Mazzi e Sensini, ugualmente abbigliati.
Nelle loro braccia erano infilati gli aghi di tre flebo di soluzione salina arricchita di sali minerali e ferro, che avrebbero aiutato i loro corpi a rendere più facile la mutazione.
Dottori e infermiere avevano evidentemente una paura folle e anche il colonnello Mariani, quello che sembrava pronto a sparare alla propria madre per il Bene del Paese, quello la cui parte più umana era il braccio meccanico, sudava freddo e continuava ad asciugarsi le mani sui pantaloni.
- Allora signori… - disse loro un giovanotto sulla trentina che si stava evidentemente cacando addosso – adesso vi inietterò una soluzione contenente circa centomila microsonde, che in pochi istanti infetteranno il vostro organismo e cominceranno a moltiplicarsi. –
- E poi? – chiese Christian che non sembrava neanche lui troppo calmo.
- Poi…- disse il giovanotto interrompendosi per tossire – poi le sonde cominceranno a modificare i vostri corpi e i vostri cervelli, creando dei dispositivi atti a collegare le vostre cortecce cerebrali e i vostri corpi callosi gli uni con gli altri. Nel frattempo la vostra epidermide comincerà ad assumere una colorazione tendente al verde per la clorofilla, così che vi basterà bere e essere colpiti dalla luce solare per nutrirvi. –
- Fico! – disse Nicola con una faccia che però sembrava voler dire tutt’altro.
- E infine la vostra pelle diventerà molto più resistente, si piò dire come la pelle di un cinghiale, rendendovi molto meno vulnerabili. –
- Come sarà pensare tutti insieme? – chiese Beppe.
- Pensiamo che, essendo in tre, il computer centrale, che si trova nei sotterranei qua sotto, interverrà nei vostri pensieri per armonizzarli e renderli compatibili, quindi durante la connessione non sarà proprio corretto parlare di vostri pensieri individuali, ma sarebbe più giusto ipotizzare una mente unica, ma nel frattempo divisa in tre cervelli. –
- Ipotizzare? – disse Christian, - ma sapete cosa ci state facendo? –
- Si! – disse Mariani. – Il dottor Loi, cioè il giovane in camice bianco che vi ha appena spiegato cosa vi sta per accadere, ha testato questa tecnologia su cavie animali e su umani, tra cui lui stesso.
Lo stesso Loi ha collaborato col dottor Bertini utilizzando una prima versione di questa tecnologia. –
- Bene. – disse Beppe ben sapendo che come superiore in grado tra i tre doveva dare lui il buon esempio – E allora cosa aspettiamo? Via con l’iniezione! –
Un altro dottore, Bertini probabilmente pensò Beppe, prese il tubicino della sua flebo e vi iniettò il contenuto di una siringa da insulina. Per un minuto o due non successe nulla, poi sentì come un calore salirgli dal centro del petto, fino ad allargarsi alla punta delle dita.
- Sento un po’ caldo. – disse, poi sentì anche una specie di formicolio alle dita dei piedi, che si trasformò velocemente in un dolore acuto. – Sento male! – urlò mentre il dolore risaliva inarrestabile il suo corpo fino alla testa.
Urlò mentre il suo corpo si fletteva come un arco troppo teso sul letto, mentre gli elettrodi collegati al suo petto impazzivano fino a portare il monitor ad una linea piatta.
- Mio Dio! – urlò Enrico lanciandosi sul sergente aprendogli la camiciola sul petto – Lo sapevo che non dovevamo! – disse mentre cominciava un massaggio cardiaco. – Ecco cosa voleva scrivere Ferrero! – disse rivolto a Mariani che gli fece cenno di stare zitto.
Continuò il massaggio cardiaco mentre Bertini ungeva col gel le due piastre del defibrillatore, ma in quel momento il monitor ricominciò a battere un normale ritmo cardiaco e il sergente si svegliò tirando un grosso respiro.
- Mamma mia! – disse – Che dolore orrendo. –
- Come va? – gli chiese Loi con l’espressione di chi ha appena visto la morte passargli accanto.
- Bene. Bene direi, come se nulla fosse. – e si guardò le mani - Non sono verdi. –
- Dovrebbe volerci qualche minuto. – disse Enrico auscultandogli il cuore.
- E non sento neanche nulla di diverso nella mia testa. –
- Anche per quello ci vuole qualche minuto e poi non è collegato a nessun altro.
Non penso neanche che la attaccheremo a qualcuno, finchè non sapremo che cosa le è successo. – disse battendogli una mano sul braccio.
- Perché? – chiese Mariani – Mi sembra che il sergente stia benissimo. –
- Ma gli si era fermato il cuore! Non lo ha visto? Stava morendo! Non possiamo andare avanti con l’esperimento, non avremmo neanche dovuto cominciarlo! –
- Lei andrà avanti come previsto. – disse con voce calma Mariani, sempre che i signori caporali vogliano tenere fede agli impegni che hanno preso. –
Nicola e Christian, bianchi come stracci per lavare in terra, si guardarono deglutendo due o tre volte, poi dissero: - Se il sergente è d’accordo noi vorremmo procedere. –
Beppe, il cui colorito ora era effettivamente di una tonalità un po’ troppo grigiastra per essere naturale, li guardò negli occhi e annuì. Poi si passò una mano sulla testa rasata e si accorse che un piccolo spuntone metallico stava sbucando al centro del suo cranio. – Su ragazzi, via! –
Christian fece cenno di sì con la testa e tese il braccio con la flebo a Enrico che prese da un vassoio una seconda siringa e gli si avvicinò. Guardò con odio il colonnello e inietto il liquido nella flebo senza neanche guardare in faccia il caporale. Si allontanò di qualche passo e rimase in attesa guardando il monitor, dove il cuore di Christian continuava a battere tranquillamente il suo ritmo un po’ accelerato dalla paura.
Dopo circa due minuti e mezzo Christian cominciò ad agitarsi, dicendo di avere caldo e di sentire dolore. Anche lui urlò e si contorse sul letto, ma il suo cuore, pur essendo impazzito, non si fermò. Dopo meno di un minuto era tutto finito e si guardava intorno come chi è appena scampato ad un incidente.
- Tocca a me! – disse Nicola tendendo a sua volta il braccio verso Enrico. – Via il dente via il dolore! – borbottò mentre il liquido scendeva nel tubicino e gli entrava in circolo.
Anche per lui vennero il calore e il dolore, le fitte e la tachicardia. Ebbe anche lui un arresto cardiaco e anche lui si riprese da solo dopo meno di un minuto. Mentre tutti guardavano lui Beppe si accorse di vederlo da due angolazioni diverse. Si stupì e rise, sentendo il pensiero di Christian “ Che cazzo sta succedendo?”
“ Stai tranquillo!” pensò “siamo in collegamento.”
Risero insieme guardando Nicola che si passava una mano sulla faccia sudata e sentendo quanto la sua mano era fredda.
- Va tutto bene! – disse Beppe – Noi tre stiamo bene e siamo pronti per la nostra missione. – e tutti e tre scesero dal letto e scattarono sull’attenti di fronte a Mariani.
- Mio Dio! – disse sottovoce Enrico vedendo quei tre uomini con le loro piccole antenne in testa e la loro pelle di varie tonalità di verde che si muovevano all’unisono come gli storni quando volano in cielo. – Mio Dio che cosa abbiamo fatto! –

venerdì 6 novembre 2009

Evoluzione II,5.

Ciao ragazzi! Vi voglio segnalare una cosa divertentissima da leggere. Si trova sul Venerdì di Repubblica uscito oggi, ed è un raccontino di due paginette di Niccolò Ammaniti, penso che sia la prefazione del suo nuovo romanzo che è ora in edicola.
Andatevelo a leggere, è stupendo, racconta le avventure sue e del suo gruppetto di amici sfigati quando da piccoli andavano a giocare a Villa Ada. Sembra di leggere il King degli anni ottanta, quello di the Body o di It.
E ora, ecco a voi il capitolo quindicesimo della mia grande opera. Boom! Chi ride lassù in galleria?

V

Nel grosso capannone tre fabbri stavano lavorando con delle lamiere per sagomarle esattamente secondo i progetti disegnati da Daoud. L’aria era gonfia di martellate e i tre sentirono appena la voce di Daoud che gli urlava nelle orecchie: - Precisione assoluta ragazzi, deve essere preciso al millesimo di millimetro. – ma tanto sapevano già cosa aveva detto, erano due giorni che non gli diceva altro.
- Ma come cazzo funzionerà questo cassone? – chiese Pablo.
- Vedi Pablo – rispose – in quel barile giallo con il simbolo della radioattività che abbiamo sepolto nella botola qua fuori, ci sono due belle palle di uranio arricchito, una grossa e una piccola. Dentro alla bomba costruiremo una specie di canna di fucile e un’esplosione sparerà la palla piccola contro quella grossa a tutta velocità. –
- E allora? –
- E allora l’uranio è così denso e pesante che la palla piccola penetrerà in quella grossa fondendosi con essa ad una pressione assurda. Gli atomi si avvicineranno tanto, si chiama massa critica, che le radiazioni prodotte da uno potranno spaccarne degli altri, e così via in una velocissima catena di scissioni che produrranno più energia di un milione di tonnellate di tritolo, facendo esplodere la bomba e tutto quello che si troverà nel raggio di tre chilometri. –
- Cioè Torino. – disse Pablo.
- Torino e tutti i suoi abitanti. E tutti quelli che abitano nel raggio di otto chilometri moriranno per lo spostamento d’aria e il calore, e nel raggio di venti per le radiazioni. Puff! Un secondo di luce e due bei milioni di morti. – disse ridendo.
- Madre di Dio! – borbottò Pablo.
- È una guerra Pablo, e non l’ho cominciata io. Forse così finirà. – gli batté una mano sulla spalla e disse: - Su Pablo, non li uccidi mica tu. Voi volevate una tonnellata di oppio grezzo e noi volevamo un posto sicuro dove lavorare. Do ut des. –
- Cosa? –
- È latino. Vuol dire una cosa in cambio di un’altra. La regola d’oro del capitalismo. –
Pablo non rispose e guardò i tre fabbri che continuavano a martellare le loro lamiere e i due tecnici che collegavano un sacco di robe elettroniche a un computer portatile. Daoud lo vide deglutire e un po’ lo invidiò. Lui non riusciva più a provare terrore per il suo piano e questo era terribile.
- Va be’, mi sembra che il lavoro vada avanti anche senza di me ora. Prendo la jeep e vado a trovare quella bella americana per sapere se è una spia e ce lo abbiamo nel culo. – e si diresse alla porta.
- Daoud! – lo richiamò Pablo – Se non è una spia, buona scopata! – e rise.
Daoud, ma uscendo dal campo calava sulla sua personalità la maschera di Suleiman, saltò sulla Jeep scassata dell’oasi per le scimmie e uscì dal recinto del campo. Subito all’esterno cominciava la foresta, intricata di alberi e cespugli che potevano nascondere qualunque tipo di animale feroce; solo la stretta e fangosa cicatrice rossa della strada interrompeva il verde soffocante, una strada che era pattugliata da almeno una decina di uomini armati pronti a uccidere chi sembrasse pericoloso. Solo un pazzo avrebbe potuto tentare di attaccare il campo.
Il rombo del motore riusciva solo parzialmente a coprire i versi delle scimmie che saltavano da un albero all’altro tutto intorno a lui, e l’aria sotto gli alberi, pur se più fresca che sotto il sole al centro del loro cortile,era di un’umidità soffocante.
Dopo poco più di mezz’ora di strada arrivò all’ospedale del vecchio dottore tedesco. Scese dall’auto con in braccio un piccolo cebo che aveva portato per i bambini, sapendo quanto si sarebbero divertiti a vederlo saltare sui loro letti.
Entrò nella baracca che fungeva da sala d’aspetto e vide come si aspettava Lu Ann che parlava col vecchio dottor Teubner; quello che davvero non si aspettava era di trovare lì dentro anche il giovane skinhead che aveva viaggiato al suo fianco sull’aereo. Quello che era sicuro di avere già incontrato un’altra volta nella sua vita.

lunedì 2 novembre 2009

Evoluzione II,4.

E' in arrivo sul blog binario l'episodio quattordici del romanzo evoluzione. Chi vuole leggerlo è pregato di affrettarsi alle porte di entrata: Eccolo!

IV

Il grave problema di cui era stato avvertito con quella telefonata il colonnello Mariani, si era verificato solo una decina di minuti prima quando un giovane soldato incaricato di accompagnare a casa sua per prendere le sue cose il dottor Ferrero, aveva disobbedito agli ordini e lo aveva lasciato solo.
- Devo andare in bagno. – aveva detto Ferrero – Mi sento un po’ male. – e si era diretto verso la porta del bagno.
- Mi è stato ordinato di non lasciarla mai da solo. – disse il soldato che aveva l’espressione di chi non sa assolutamente cosa fare.
- Se vuole seguirmi anche nel cesso, - disse Ferrero con quella sua voce che suonava un po’ stridula in quel momento – entri subito, perché sto per farmela nei pantaloni. Però vorrei farle notare che siamo all’ottavo piano e qua dentro vedrebbe solo un uomo in preda ad un attacco di diarrea. – e lo guardò stando sulla porta.
- Va bene. – disse il soldato che era arrossito moltissimo, - Vada pure da solo, ma non chiuda a chiave e stia solo cinque minuti. Poi entro. –
- Tra cinque minuti sarò fuori da qui. – disse Ferrero, e chiuse la porta senza girare la chiave.
“ Quattro minuti e cinquantacinque.” pensò, abbassò rumorosamente la tavoletta del cesso per far credere al militare che stava davvero facendo quello che aveva detto e cominciò a spogliarsi. Prima la giacca, poi la camicia e infine la maglietta della pelle.
Si guardò allo specchio, esaminando i muscoli che esercitava con tanto impegno; aveva le spalle abbastanza larghe e il torace era di un’ampiezza accettabile. Fece una smorfia vedendo la grossa cicatrice all’interno dell’avambraccio sinistro e guardò con attenzione le cicatrici subito sotto ai capezzoli. Si passò le dita sui sottili e radi peli che gli erano cresciuti al centro del petto e pensò “ quattro minuti.”
Si calò i pantaloni e i boxer e non fu soddisfatto vedendo i fianchi larghi e le caviglie sottili. Le gambe, malgrado i muscoli e i peli continuavano a sembrare quelle di una donna. Prese in mano il pene che era stato costruito da un bravo chirurgo con quei tessuti tolti dal braccio e sorrise guardando quella goffa salsiccia di carne con dentro uno stantuffo per avere un’erezione che aveva avuto il coraggio di provare solo una volta con una sua amica lesbica che si era offerta volontaria.
“Tre minuti.” pensò accarezzandosi le palle di silicone che erano alloggiate in uno scroto ricavato dalle sue vecchie grandi labbra e fece un sorriso amaro pensando che non avrebbe mai saputo quale sia il dolore che si prova a prendere un calcio nelle palle. E neanche cosa si provi a venire spruzzando sperma. Il chirurgo era stato bravo e gli aveva collegato il nervo preso dal braccio al clitoride e si era masturbato tante volte stringendo in mano quella specie di wurstel di carne umana, una volta lo aveva usato anche dentro a quella sua amica, ma non aveva mai avuto un orgasmo maschile.
“ Due minuti.” pensò e prese in mano le forbicine che usava per tagliarsi le unghie. Si sedette a terra perché non voleva che il soldato lo sentisse cadere e entrasse prima del tempo per salvarlo. Infilò con decisione le lame delle forbici nel collo ai lati della giugulare e le chiuse.
Il getto di sangue arrivò fino sulla parete alla sua sinistra e sentì subito che la testa gli girava. Era nata femmina e aveva combattuto tutta la vita per diventare uomo, con delle sofferenze e dei segreti che erano solo suoi; non poteva permettere che qualcun altro se ne appropriasse e li pensasse nella sua testa. Morì così da uomo, seduto nudo in terra nel suo bagno, guardando quelle povere cose che aveva tanto sofferto per ottenere a differenza di tutti gli altri uomini che ci nascevano senza neanche rendersi conto della fortuna che avevano avuto.
“ Un minuto.” Pensò sapendo che sarebbe stato uno dei suoi ultimi pensieri, mentre il sangue non schizzava più dal suo collo, ma fluiva sempre meno abbondante sul suo torace. Fu allora che pensò a quello che gli aveva raccontato il giorno prima Loi e capì cosa non andava in quell’aneddoto. “…e così la mia amica Elena quel giorno è andata a fare pipì in mezzo ai cespugli, ma io avevo paura delle vipere e sono andato nel prato. E così alla fine lei la ha fatta con tutta calma e io, guarda, uno schifo, mi sono accucciato e mi è entrata l’erba dentro, uno schifo!”
Nella sua particolare situazione di uomo nato donna e rimasto tale fino a ventuno anni, Silvio non si era accorto della stranezza del racconto, ma ora, in punto di morte e avendo saputo dal colonnello che Loi e la moglie avevano usato il collegamento neurale per un qualche strambo gioco erotico, capì che gli effetti dall’unione di due menti erano irreversibili. Enrico non era più in grado di distinguere i propri ricordi da quelli della moglie.
Con la vista annebbiata, “A proposito, come mai c’era così buio?” pensò, intinse un dito nel lago di sangue in cui era seduto e scrisse sul muro “ Non usate la fusione, è pericolosa.”, ma il braccio cadde dopo le prime due lettere e il buio coprì tutto. Non sentì il soldato che bussava ed entrava e neanche l’urlo che rimbombò nella piccola stanza.

sabato 31 ottobre 2009

Evoluzione II,3.

Il tredicesimo capitolo, se fossi un auperstizioso non italiano, potrei pensare alla possibilità che possa portare sfiga.
Ma non sono superstizioso e se lo fossi avrei paura del 17.
E quindi, miei inesistenti lettori, eccovi un nuovo capitolo di paura!

III

Come al solito Beppe era arrivato per primo, non si era mai presentato ad un appuntamento con meno di otto minuti di anticipo e anche questa volta non si era smentito. Nicola arrivò e lo salutò portandosi la mano alla fronte con una noncuranza che rivelava la loro lunga frequentazione. Per ultimo arrivo Christian, sempre in ritardo a differenza del capo, ma capace di colpire un centesimo a duecento metri, anche di notte o usando per la mira gli occhi di un droide guasto. Anche lui salutò Beppe, ma con un qualcosa che assomigliava già un po’ di più a un saluto militare.
- IIT. – disse Nicola leggendo la targa alla destra della porta - Che cosa sarebbe? –
- Istituto italiano di tecnologia. – disse Christian buttando a terra la sigaretta e schiacciandola col piede.
- E cioè? –
- Un posto dove lavorano un sacco di teste d’uovo. –
- E noi che ci facciamo qui? – chiese rivolgendosi a Beppe.
- Ordini. –
- E di chi? –
- Di un superiore. –
In quel momento si aprì la porta e ne uscì un soldato che disse: - Il colonnello Mariani vi aspetta. – e li fece entrare.
Lo seguirono su per le scale e poi in lunghi corridoi dai pavimenti lucidi e dalle pareti dipinte in colori chiari. Incontrarono droidi come quelli che si vedevano per strada e altri che invece nessuno avrebbe avuto in casa per ancora molti anni. Nessuno di loro era un grande esperto di tecnologia, ma videro dei robot che non si muovevano affatto come macchine, ma con una grazia da predatori, e altri droidi che li salutarono con un saluto militare che sembrava molto umanamente ironico.
Finalmente il soldato li fece entrare nell’ufficio di Mariani, che videro essere un colonnello alto e robusto, sui quarantacinque anni e con una protesi polifunzionale al posto del braccio destro che stranamente non era ricoperta di pelle sintetica. Beppe, che era capace di valutare le persone con un solo sguardo, pensò di lui che fosse una persona che sarebbe stata capace di ordinare la fucilazione della propria madre, se l’avesse ritenuto necessario.
- Sergente Salvi, caporale Mazzi, caporale Sensini, benvenuti all’IIT. –
I tre scattarono sull’attenti e lo salutarono.
- Riposo signori, sedetevi pure. – aspettò che si fossero accomodati e poi disse: - Vi è stato detto perché vi ho convocati qui? –
- No signore. – rispose Beppe.
- E avete una qualche idea del perché siate qui? –
- Con permesso signore – disse Beppe – penso che per un progetto vi serva la nostra esperienza come gruppo d’assalto. –
- Sì e no, sergente Salvi, sì e no. – si sedette di fronte a loro e fece cenno al soldato di chiudere la porta ed allontanarsi. – Ora vi dirò quale è la gravissima situazione in cui ci troviamo in questo momento e vi farò una domanda in nome del nostro paese. Una domanda, non un ordine, ma spero che voi mi risponderete sì.
I tre si guardarono tra loro sorpresi, poi Beppe disse: -Avanti, signore. –
- Allora, signori, - disse alzandosi e andando alla finestra – I nostri servizi segreti ci hanno avvertito di un attentato terroristico che colpirà una non meglio precisata città italiana tra pochi giorni. Un attentato in cui sarà usata una bomba atomica.
Noi sappiamo chi la sta costruendo e dove lo sta facendo, ma il posto è controllato da almeno cinquanta uomini armati pesantemente, pronti a difendersi da qualunque tipo di attacco.
Quello che ignoriamo è chi abbia fornito il materiale al nostro “piccolo chimico” e chi si preoccuperà di portare l’ordigno a destinazione. Ignoriamo tutto dell’organizzazione a monte e a valle del nostro fisico della domenica, e per noi sgominare l’organizzazione nella sua interezza è importante quanto impedire che questa bomba arrivi a destinazione, per questo non possiamo semplicemente bombardare il luogo dove la stanno costruendo come avrete già sicuramente pensato. –
- Quindi noi siamo stati convocati perché siamo un gruppo particolarmente addestrato in questo genere di missioni… - disse Beppe prima di essere interrotto con un gesto da Mariani.
- Voi siete stati convocati perché siete ritenuti da chi comanda le persone più adatte al tipo di missione che abbiamo in mente. – disse, poi chiese a Beppe: - Sergente Salvi, da quanto tempo collaborate con la polizia utilizzando i caschi ricetrasmittenti ottico-neurali? –
- Più o meno un anno e mezzo, signore. –
- E vi trovate bene? Ci sono dei problemi per voi ad agire con quell’equipaggiamento? –
- No signore. – rispose Beppe – La vostra idea è di mandarci nel teatro delle azioni con il nostro solito equipaggiamento? –
- No, signori. Il nostro piano prevede… - cominciò a dire il colonnello quando il telefono cominciò a trillare interrompendo- lo – Avevo detto di non essere interrotto per nessun motivo. – disse al suo interlocutore, poi si mise ad ascoltare con attenzione con una espressione sempre più seria, annuendo e borbottando ogni tanto un “sì”. Dopo circa un minuto disse: - Trovate subito l’assistente del dottor Ferrero e fatelo venire qui da me, gli dirò io in che situazione ci troviamo. – e mise giù il telefono.
- Cazzo! – disse sottovoce picchiando il pugno di plastica contro il palmo della mano, poi si girò verso di loro e ricominciò come se non fosse neanche stato interrotto. – Come vi dicevo il nostro piano è un po’ diverso.
C’è una nuova tecnologia, molto più moderna, che vi permetterà di agire molto più velocemente eliminando del tutto il rischio di incomprensioni ed errori.
Non avendo molto tempo vi spiegherò in breve cosa voglio da voi:
L’idea è di iniettarvi delle microsonde, cioè dei piccoli nanorobot simili a virus artificiali, che produrranno in voi delle piccole mutazioni assolutamente reversibili, che vi collegheranno l’uno con l’altro rendendo le vostre menti un’ unica rete di pensieri.
Queste nanosonde vi renderanno anche più forti e resistenti alla fame, nonché quasi invulnerabili, permettendovi tra l’altro di mimetizzarvi nell’ambiente dove agirete. Con voi verranno inviati anche alcuni droidi di nuova generazione, che forse avrete notato a spasso per i corridoi, che sono forse le armi più letali mai progettate dall’uomo. Anche queste macchine saranno collegate alla vostra rete mentale e saranno quindi una specie di estensione dei vostri corpi. –
- È un po’ strano, signore. – disse Beppe deglutendo, - Penso di parlare anche a nome dei miei uomini dicendo che non capiamo il perché di queste novità. –
- Un perchè c’è, sergente, ed è che noi non vogliamo solo distruggere questa cellula terroristica, ma debellare tutta la rete di cui fa parte, e per fare questo dobbiamo entrare in possesso di tutte le informazioni di cui sono a conoscenza le persone presenti sul luogo. –
- Continui pure, prego. –
- Queste nanosonde non agiscono solo sui vostri corpi e sulle vostre menti, ma sono in grado di moltiplicarsi ed infettare altre persone. Voi sarete dotati di speciali organi artificiali con cui potrete pungere altre e iniettare nei loro corpi nanosonde che li renderanno parte della rete. –
- Come vampiri. – disse Nicola – Bello! –
- Vede caporale Mazzi, so anch’io quanto possa suonare strana e innaturale questa storia, ma dovete capire che nel momento stesso in cui il terrorista sarà stato infettato con le sonde… -
- Noi sapremo tutto quanto saprà lui, e non potrà più nasconderci nulla. – disse Beppe – Anzi, se la nostra mente collettiva sarà abbastanza forte da annullare la sua individualità, egli stesso vorrà aiutarci nella nostra missione. È così? –
- Sì sergente Salvi, è proprio questo che noi abbiamo in mente. – disse e si alzò – E ora se permettete sono stato avvertito pochi minuti fa di un grave problema che devo andare a risolvere.
Tornerò tra circa tre quarti d’ora e vorrei avere in quel momento una risposta definitiva alla nostra proposta. A tra poco, signori. – li salutò e loro scattarono sull’attenti quando lui uscì.

giovedì 29 ottobre 2009

Evoluzione II,2.

Ciao Belli! Come vi va la vita? A me discretamente mediocremente, spero che a voi vada meglio. Siete soddisfatti della politica in Italia? Anche voi preferireste mille volte vivere in un paese governato dal nepotista Sarkozy o dal noioso e scialbo Brown. Il mondo reale vi fa un po' schifo? Buttatevi nel mondo della finzione, leggetevi un bel libro, guardate un bel film e, se vi avanza un pochino di tempo, leggete anche il dodicesimo capitolo del mio romanzo finora incompiuto. Eccolo bello fresco per voi:

II

Marina aveva collegato gli hard disk del droide al suo portatile e stava tentando di capire quanto si fosse salvato della sua memoria. La sua prima diagnosi, cioè che si fosse salvata del tutto, era risultata un po’ troppo ottimistica, in quanto una scheggia di un proiettile aveva lesionato un dei dischi portandosi via un bel po’ di dati e rendendo molto problematica la lettura di quelli che si erano salvati.
- Ciao cara. – disse Enrico entrando, ma lei si accorse subito della sua espressione, strana almeno quanto la sua voce.
- Cosa c’è? – gli chiese alzandosi e baciandolo.
- Niente, Marina, solo che per qualche giorno dovrò fermarmi in laboratorio e non potrò tornare a casa. – disse, indicando con un cenno del capo il militare che si era fermato sulla porta ad aspettarlo.
- Ma che diavolo sta succedendo? – chiese lei, ma lui le fece cenno di no con la testa e disse: - Ti ho detto che non è niente, devo solo stare qualche giorno fuori. – e fece un sorriso falso come una banconota fotocopiata.
- Signor Loi, tra poco dobbiamo muoverci. – disse il soldato - Andiamo a prendere le sue cose. –
Enrico salì le scale seguito dal soldato che non faceva nulla per nascondere la pistola che portava nella fondina, mentre Marina rimase giù in preda al panico. Sapeva bene il progetto a cui stava lavorando il marito, dopo quelle ultime notti non c’erano più segreti tra di loro, così come sapeva che lui aveva violato un bel po’ di leggi e regolamenti portando fuori dal laboratorio le coroncine e usandole con lei.
- Eccomi cara! – disse lui scendendo le scale con una valigia molto gonfia in mano, seguito dalla sua ombra verde kaki. – Cosa stai facendo lì? – le chiese indicando la testa del droide smontata sul tavolo.
Marina per un istante non capì neanche la domanda, poi si scosse e rispose: - Sto tentando di riparare il droide che ha aiutato Elena durante quella rapina, ma ho dei problemi con i dischi di memoria. –
Enrico fu velocissimo, raggiunse il tavolo e armeggiò per due o tre secondi col cranio di plastica che conteneva i dischi. – Così dovrebbe andare meglio. – disse poggiando sul tavolo la testa, e infatti sullo schermo del computer apparve una pagina di dati che lei non era ancora riuscita a leggere. – Vieni qua bella! – le disse allargando le braccia e abbracciandola – Ci vediamo presto. – e uscì seguito dal soldato che sembrava sull’orlo di una crisi coi fiocchi.
Marina lo vide salire sull’auto col soldato e lo salutò mentre si allontanava. Tornò in casa con le lacrime che erano ormai traboccate dalle palpebre e le stavano scivolando sulle guance, quando vide una cosa appoggiata tra le parti elettroniche dentro alla calotta cranica del droide. Sorrise, perché era il trasmettitore della corona neurale che avevano usato le notti precedenti. Con l’antenna del droide, che poteva collegarsi alla casa produttrice per dei download di aggiornamento, avrebbero potuto collegarsi in qualunque momento.

mercoledì 28 ottobre 2009

Evoluzione II,1.

Ed eccoci arrivati al secondo blocco di capitoli. Comincio oggi a pubblicarlo, ma non so se qualcuno vorrà leggerlo. Sapete tutti perchè... Siamo tutti preoccupati per Lui che ha la scarlattina!
E ora che ho detto questa stronzata, se ne aggiungo un altro milione lo raggiungo, dimentichiamoci lo Psiconano e torniamo al fetido frutto della mia immaginazione. Si entra nel vivo dell'azione, ecco il nuovo capitolo:

CAPITOLO II
I

La bella donna bussò alla porta e da dentro una voce con un accento strano disse di entrare.
- Buongiorno. – disse lei entrando – Volevo vedere il famoso dottore delle scimmie di cui tutti parlano da un po’ di giorni. –
Il giovanotto dall’aria mediorientale si guardò alle spalle con sguardo incuriosito, poi disse: - Ah, parla di me! – e le diede la mano. – Suleiman al Karoun, piacere di conoscerla. –
- Lu Ann Wilder, piacere mio. –
- Wilder, come Billy, il regista? –
- Sì, ma non siamo parenti, purtroppo. –
Suleiman le indicò una sedia e le offrì un bicchiere di the freddo. – Si occupa anche lei di scimmie? –
- Non lo so, per ora mi guardo intorno e mi do un po’ da fare qua e là. –
- Ottimo modo di passare il tempo. – disse lui alzando il bicchiere. – Alla salute di chi si dà da fare! –
- Alla salute di chi studia le scimmie! – rispose lei e rise.
- Vuole vedere le nostre scimmie, signora Wilder? Sono molto carine e amano regalare pulci a tutti quelli che vedono. –
- Sarà un vero piacere, forse potrò ricambiare con qualche zecca. – e risero tutti e due andando verso il capannone dove erano tenute le scimmie.
Entrando nel capannone Suleiman salutò un uomo che stava seduto lì con un giornale con una donna nuda in copertina.
- Sembra un delinquente. – disse lei sottovoce quando chiusero la porta.
Suleiman aprì una gabbietta e prese un giovanissimo cebo che stava abbracciato a un peluche abbastanza lurido; lo diede a Lu Ann che lo prese in braccio, poi disse: - Lo è. –
- Cosa? –
- Un delinquente, il tizio fuori, è un trafficante di coca. –
La temperatura del capannone era tanto alta da essere quasi insopportabile, ma Lu Ann sentì davvero un brivido nella schiena. – Sta scherzando, vero? –
Suleiman sorrise – No, tutta questa struttura, tutta l’oasi di protezione delle scimmie l’ha fatta costruire un narcos colombiano per far felice suo figlio malato di leucemia. Tutte le persone che vede qua intorno e che le sembrano dei brutti ceffi, molto probabilmente sono trafficanti armati fino ai denti. –
- E lei lavora qui? Lei mi sembra un brav’uomo. –
- Vede signorina Wilder, io ho da fare un lavoro, che è molto importante per me, e se questi tizi mi possono aiutare, qualunque sia il motivo che li spinge a farlo, io lavoro con loro. Io faccio qualcosa per loro e loro permettono a me di fare quello che voglio fare più di ogni altra cosa al mondo. –
- Cioè curare e studiare queste scimmiotte. – disse lei stuzzicando col dito il nasino della scimmietta che si era stretta al suo seno.
Suleiman fece un’espressione un po’ strana e annuì. – Sì, aiutare questa scimmie. –
- Ma io non l’ho già vista da qualche parte? – chiese lui sfiorando il muso della scimmia.
Lu Ann sorrise e disse: - Penso di sì, forse mi ha visto in televisione. –
Suleiman la guardò con gli occhi che quasi gli saltavano fuori dalla testa, ma in quel momento la porta fu aperta di colpo.
- Dottor al Karoun, è arrivato quel materiale che stava aspettando! – disse l’uomo che stava seduto fuori.
- Bene Pablo, arrivo subito. – riprese la scimmiotta e la mise dentro alla gabbietta. – Se permette ora ho da fare, signorina Wilder. – e la accompagnò alla porta e poi alla jeep.
Lu Ann rimase un po’ stupita per il comportamento del giovane dottore, ma si calmò quando lui le disse: - Sarei contento di rivederla per continuare quel discorso sulla televisione. – le disse dandole la mano.
- Se le va bene, potrei tornare la settimana prossima. – disse lei, e partì vedendo cinque persone che saltavano giù da un camion scassato e ne scaricavano una cassa molto pesante. Accelerò e tornò verso la sua capanna nel villaggio vicino.
- Chi era, Daoud? – chiese il tizio della rivista porno.
- Una signorina americana che voleva vedere le scimmie. – rispose esaminando il bidone che conteneva l’uranio e la droga.
- Può essere pericolosa? –
- Penso di no, ma la vedrò la settimana prossima e ne saprò di più. -

martedì 27 ottobre 2009

Evoluzione I,10.

Ed eccoci al decimo capitolo, è a suo modo un piccolo traguardo, finisce il primo blocco della storia. Vorrei ricordarvi di nuovo che la storia non l'ho finita e, se nessuno di voi mi incoraggia a farlo, non lo farò mai. Scrivetemi alla mia e-mail digiacomo.stefano@gmail.com oppure alla mia pagina di anobii che trovate digitando lo stesso indirizzo. Se non lo fate, arrivati al capitolo 35, la storia si interromperà di botto e non sapremo mai come finisce.
E ora, eccovi il capitolo dieci:

X

Il colonnello Mariani non aveva mai capito perchè fosse stato scelto come ufficiale di collegamento per i progetti a possibile uso militare dell’IIT, ma i suoi superiori lo sapevano bene: perchè anche se aveva dei grossi problemi ad accendere il suo computer senza farlo esplodere, era veloce a capire gli ordini ed ancor più rapido a farsi obbedire.
Ascoltò quindi con attenzione quello che il generale gli riferì al telefono quella mattina, comprese gli ordini ed espresse la più totale convinzione sulla ragionevolezza di questi ultimi con uno dei suoi famosi “Signorsì”, che erano ugualmente potenti e rispettosi con il superiore presente o al telefono.
Col berretto sotto l’ascella uscì a passo veloce dal suo ufficio e si diresse attraverso quei lunghi corridoi al reparto di biomeccanica molecolare in cui da alcuni giorni lavoravano al loro importantissimo progetto il dottor Loi e il dottor Ferrero.
Il soldato di guardia alla porta scattò sull’attenti vedendolo arrivare e gli fece un perfetto saluto a cui lui rispose con un cenno del capo, poi aprì la porta ed entrò nel nuovo corridoio.
Già avvicinandosi sentì la voce bassa del dottor Loi e quella più acuta e impostata di Ferrero che discutevano ad alta voce dei problemi che ogni momento sorgevano nella realizzazione delle microsonde.
- Buongiorno dottori! – disse entrando e trovandoli intenti ad esaminare una grossa vasca di plastica in cui si muovevano una decina di topi glabri e verdi dalle cui teste spuntavano delle piccole antenne simili a corni.
- Buongiorno a lei colonnello! – disse Loi, mentre Ferrero accennava un ridicolo saluto militare. Odiava Ferrero, c’era qualcosa in lui che glielo rendeva sgradevole come l’odore della gorgonzola.
- Come vanno i nostri piccoli topolini? – chiese guardando quelle orrende bestiole che si muovevano a tempo nella loro piccola prigione.
- Abbiamo avuto qualche piccolo problema quando ne abbiamo collegato mentalmente più di due alla volta, ma forse abbiamo trovato la soluzione. – disse Ferrero prendendo in mano uno dei topi.
- Che problema c’era? –
- Gli si erano incasinate le menti, sembrava che non capissero più niente e allora stavano fermi o davano delle testate nel muro.-
- Bello! – disse il colonnello.
- Ma come le ha detto Silvio abbiamo trovato una soluzione. – disse a sua volta Enrico gettando dei semi di girasole ai topi che cominciarono a mangiarli insieme, tutti nella stessa posizione - Ha mai sentito parlare del progetto SETI? –
- Sì, mi sembra che si tratti di un progetto di ricerca di messaggi alieni nella fascia delle onde radio che riceviamo con i radiotelescopi. – rispose Mariani guardando quei topi che mangiavano come piccole macchine; gli facevano schifo, quasi quanto Ferrero.
- Esatto, e per fare quel lavoro ci vogliono capacità di calcolo che nessun computer ha. – disse Loi.
- E allora i realizzatori hanno avuto un’idea: tutti quelli che vogliono possono donare la potenza inutilizzata del loro computer quando sono in rete, e a ogni piccolo microprocessore il mega computerone centrale dà una piccola parte di calcoli. – disse Ferrero, e Mariani pensò che solo un essere come lui poteva dire “megacomputerone”.
- E allora? –
- Allora signor colonnello, noi facevamo funzionare i cervelli di questi animali con un collegamento in rete, che è ancora gestibile quando a sovrapporsi sono due sole menti e due sole memorie, ma quando queste aumentavano nelle testoline di queste bestiole c’era l’equivalente delle urla del mercato del pesce e loro non capivano più nulla. –
- E il SETI che cosa c’entra con tutto questo? – chiese Mariani un po’ esasperato.
- Il fatto è che il computer centrale del SETI non è alla pari degli altri, ma è gerarchicamente al di sopra. È lui che affida i lavori e divide i compiti, ignorando i lavori individuali che ogni computer fa in quel momento e facendolo intanto andare avanti nel suo compito all’interno del gruppo. –
- Ed è questo che abbiamo fatto noi con i topi. – disse Ferrero posando l’orrendo topo nella vasca – Questo terminale è collegato via radio con le loro menti e le comanda facendoli lavorare tutti insieme, annullando le idee individuali di ognuno di loro, o meglio fondendole insieme, ma permettendo nello stesso tempo a ognuna di queste bestie di agire, camminare o risolvere i problemi che si trovano davanti. –
Mariani guardò i topi che ora stavano tutti fermi col naso rivolto all’insù verso di lui, tutti verdi e lucidi e con quelle schifose antennine al centro del cranio. – E cosa sanno fare questi aborti? –
- Be’, -rispose Ferrero – noi gli abbiamo fatto fare questo. – e gli porse un mangiarino da uccellini diviso in otto comparti. In ognuno di essi si trovavano biglie e cilindretti di quattro diversi colori, perfettamente separati. – Glieli abbiamo buttati nella vasca in un bel mucchio e abbiamo dato ordine al computer di dividerli per forma e colore. Ce l’hanno fatta in meno di due minuti. –
Mariani annuì soddisfatto. Poi disse: - Potreste venire di là con me? –
I due professori lo seguirono nella sala dedicata alle conferenze, dove Mariani li fece sedere davanti alla scrivania. Lui rimase in piedi.
- Sapete che le vostre ricerche ricevono grossi finanziamenti dall’esercito perché è possibile immaginare un loro uso a livello bellico? –
- È per questo che riferiamo a lei i nostri risultati. – disse Loi.
- Bene. – disse Mariani. – Quando pensate che questa tecnologia possa essere applica- ta? –
- Sui topi o… - chiese Ferrero.
- Sull’uomo naturalmente. – rispose freddo Mariani.
- Vede signor colonnello, si tratta di una tecnica molto invasiva, che va a toccare la mente e la struttura fisica dei soggetti. – disse Loi – Non so se sia giusto ipotizzarne un utilizzo umano. –
- Non vi ho chiesto questo. Io vi ho chiesto quando sarà utilizzabile. –
- Ma signor colonnello… - disse Ferrero – La mente umana non è la mente di un topo, e il corpo è totalmente diverso. Potrebbe essere molto pericoloso. –
- E poi chi potrebbe voler fare da cavia? – chiese Enrico.
Mariani lo guardò e sorrise. – Da quel che ne so lei e la sua bellissima signora, per esempio. – disse.
Enrico Loi lo guardò incredulo e arrossì, non sapeva neanche lui se per la vergogna o per la rabbia. – Ma come vi siete…-
- Lei ha portato fuori da qui materiale classificato come top secret, signor Loi, pensava che non ce ne saremmo accorti e che non ci saremmo accertati dell’uso che ne avrebbe fatto? – disse il colonnello interrompendolo – Comunque grazie a lei e alla sua bella moglie sappiamo che questa tecnologia, almeno nella sua prima versione, funziona alla grande. – sorrise con evidente soddisfazione e disse: - Di nuovo: quando pensate che questa tecnologia sarà utilizzabile? –
Ferrero fece per rispondergli come prima, ma Enrico lo precedette: - Ci dia un mese e mezzo e l’avremo adattata all’uso di cui parla lei. –
Mariani andò alla finestra e diede le spalle ai due dottori. – Ora vi svelerò un segreto che dovrete portarvi nella tomba. Ne va della vita di centinaia di migliaia di persone. –
I due lo guardarono perplessi.
- Sappiamo da fonte sicura che un terrorista islamico sta costruendo una bomba atomica da quindici chilotoni in un nascondiglio sicuro in Brasile. È protetto da almeno cento narcos armati fino ai denti e solo lui sa come arriverà in Brasile l’uranio arricchito e chi lo porterà a destinazione.
Sappiamo per certo che l’obbiettivo finale è una città italiana, ma non abbiamo la minima idea di come la bomba potrà arrivare a destinazione, o chi la potrebbe portare.
È assolutamente indispensabile catturare vivo il terrorista e sapere tutto quello che sa lui, chi gli ha dato l’ordine di agire, chi ha ideato il piano, chi lo aiuta e chi riceverà la bomba.
Non trovate che un piccolo gruppo di soldati che siano stati equipaggiati con la vostra invenzione potrebbero agire velocemente e, semplicemente contaminando il terrorista con le microsonde, potrebbero scoprire tutto quello che ci interessa? –
I due dottori annuirono, pensando a una bomba atomica piazzata in mezzo ad una città.
- Sappiamo che la bomba sarà pronta tra dieci giorni, e che dovrà esplodere tra ventidue giorni esatti. I volontari li ho già trovati, sono i militari migliori che si possa sperare di avere ai propri ordini. Le vostre microsonde saranno pronte da qui a otto giorni? –
Ferrero scosse la testa. – Non è possibile, ci vuole più tempo.-
- E se…- disse Enrico guardandolo – E se noi lavorassimo in collegamento mentale con le mie corone. Potremmo fare molto prima! –
- No, io non lo farò! –disse con voce alterata Silvio Ferrero.
- Se servirà, ve lo ordinerò. – disse Mariani, - Posso farlo e lo farò. –
- Non potete costringermi! – urlò Ferrero alzandosi in piedi su gambe che sembravano non reggerlo – il dottor Loi forse non si rende conto… -
- Dottor Ferrero, - disse Mariani – queste sono cose che riguardano la sicurezza nazionale, lei non immagina neanche che cosa sono autorizzato a fare in casi come questi. È meglio per lei se mi obbedisce di sua volontà, perché mi creda, conosco altri modi per farglielo fare. -
Ferrero si sedette con le lacrime agli occhi e si coprì la faccia con le mani. Mariani chiamò il militare che era fuori di guardia e gli diede questi ordini: - Sergente, faccia accompagnare a casa i dottori Loi e Ferrero e gli faccia prendere abiti ed effetti personali per qualche giorno. Gli faccia anche salutare i parenti, se ci sono, ma non li lasci mai soli. Entro due ore dovranno essere qui. –
- Signorsì signore! – disse il sergente scattando sull’attenti.
- Ci vediamo presto, signori. – disse Mariani ai due dottori e li fece uscire.

lunedì 26 ottobre 2009

Evoluzione I,9.

Eccovi il nuovo capitolo, vi piacerà come gli altri? Se volete farmelo sapere, il mio indirizzo è digiacomo.stefano@gmail.com.
E ora, leggete pure:

IX

Il vecchio dottore estrasse la siringa dal braccio del bambino che tentava eroicamente di non piangere per il dolore provocato dall’iniezione, ma quando il medico gli strofinò addosso il batuffolo di cotone zuppo di disinfettante, il bruciore fu più forte di lui e si aprirono le cateratte del cielo.
- Ma non ce l’ha un disinfettante che non bruci? – chiese accarezzando il faccino scuro del bimbo la bella donna bionda che gli aveva portato l’ennesima infornata di bambini da vaccinare. – Guardi che glielo posso portare io. –
- Voi giovani non sapete sopportare dei piccoli dolori che sono invece indispensabili per forgiare il nostro corpo e il nostro carattere. – disse in quell’incredibile portoghese pronunciato alla tedesca – Se io usassi uno di quegli inutili intrugli che non bruciano, questo bambino non sentirebbe un minuscolo bruciore che tra un minuto avrà già dimenticato, ma potrebbe prendere un’infezione che in questo clima caldo e umido potrebbe essere letale. –
“Vecchio nazista del cazzo!” pensò sorridendo la bella donna che non aveva la minima idea di essere andata così vicina alla realtà. – Se lo dice lei, dottor Teubner, però mi sembra un po’ un’esagerazione! –
- Quando avrà visto dei bambini col braccio in cancrena che vengono operati senza anestesia per salvargli la vita, allora mia giovane amica americana, capirà quello che le ho detto. – ed evitò di dirle, ma anche di ricordare a sé stesso, che quei bambini erano stati da lui feriti apposta per saggiarne la resistenza al dolore e all’infezione.
- Buona giornata allora, dottor Teubner, penso che tornerò la settimana prossima con altri bambini da vaccinare e un po’ di medicine fresche. – disse lei uscendo col bambino per mano e facendolo poi salire sulla jeep insieme agli altri sei.
Cantò una canzoncina coi bambini guidando con prudenza sulla strada di terra battuta devastata dalle piogge dei giorni precedenti, sbirciando ogni tanto i suoi occhi nello specchietto retrovisore per vedere quanto riusciva ad aggrottare la fronte. Sorrise vedendo delle piccole rughe formarsi sopra le sopracciglia, mentre i capelli corti erano ormai tornati di un bel biondo naturale, con appena una decina di capelli bianchi sulle tempie.
- Signora Lu Ann, - chiese il piccolo Ricardo – dove vivevi tu prima? –
- A Los Angeles piccolo. – rispose voltandosi un istante per guardarlo.
- E che lavoro facevi? –
- Facevo l’attrice in una soap opera, che si intitola “Le ore dell’amore”.
- Cos’è una soap opera? – chiese il bambino.
- È come le vostre telenovele, sai quelle che tua madre guarda al pomeriggio sul televisore del parroco? –
- Sì, a me fanno schifo! –
- Anche a me. – disse lei, poi cantò di nuovo l’attacco della canzoncina di prima e tutti i bambini si misero a cantare sturandole le orecchie.
Lu Ann Wilder era una donna di quarantadue anni nata in Oregon; era stata la tipica ragazza americana che amava fare shopping e ballare nel coro delle ragazze pon pon, fino a quando a diciotto anni aveva partecipato ad un concorso di bellezza che aveva vinto, essendo alta un metro e settantadue, avendo gli occhi azzurri e i capelli biondi e due tette davvero belle, anche se non molto grosse.
Uno dei premi del concorso era la possibilità di fare un provino per la soap opera “Le ore dell’amore”, e passato questo si era inaspettatamente trovata ad essere la piccola Madison Rockwell, la figlia della protagonista.
Inizialmente la sua parte era quella di una quattordicenne, anche se il personaggio che interpretava era nato solo quattro anni prima e l’attrice che aveva sostituito era una bambina di otto anni. In poco tempo, due anni o giù di lì, gli autori del programma avevano dato sempre più importanza al suo personaggio facendolo crescere molto in fretta e dandole molte storie d’amore.
A soli vent’anni Lu Ann aveva così recitato il primo parto di Madison, seguito due anni dopo dalla nascita delle piccole gemelline che l’avevano ormai resa nonna da nove anni.
A ventitre anni si era rotta una gamba scendendo le scale e subito gli autori avevano fatto rompere una gamba a Madison sciando in Colorado. Quando sette anni prima gli autori le avevano fatto capire che la sua faccia era sempre molto bella ma forse un po’ troppo matura per essere una mangiatrice di uomini, si era fatta un lifting durante un viaggio dell’indomabile Madison in Europa.
Aveva passato gli ultimo ventidue anni a vivere due vite in una, da una parte con la sua esistenza da travet della recitazione, obbligata ad andare ogni mattina agli studi a passare dieci ore in quei cubicoli male illuminati a dire battute orribili, senza la speranza di poter migliorare, perché sapeva benissimo di non essere un’attrice come Julianne Moore o Robin Wright che erano partite da soap opera simili per approdare poi al grande cinema.
Dall’altra parte aveva vissuto la vita di Madison, con i suoi undici matrimoni, i tre figli e i mille accadimenti assurdi che rendevano divertente la sua vita per gli spettatori.
Nella vita di Madison era già, ad una età ferma ormai da dieci anni a circa trentacinque anni, nonna di due nipoti di circa vent’anni, ma come Lu Ann aveva avuto un breve matrimonio con un tecnico del suono, finito senza la nascita di figli dopo appena un anno.
Tre mesi prima, durante un viaggio promozionale in Italia, fatto in occasione di un’inutile premiazione tipo serata degli oscar, aveva visto folle di casalinghe salutarla per strada chiamandola col nome di Madison e, quella notte, si era rigirata nel letto tentando di ricordare come si fosse rotta la gamba.
Non riuscì a ricordare se fosse stato scendendo le scale o sciando e si rese conto con orrore che non sapeva più bene chi fosse.
Di lì a un mese le era scaduto il contratto e semplicemente non lo aveva rinnovato, lasciando ad un’altra attrice, più giovane di lei, la parte di Madison Rockwell.
Svegliandosi nel suo letto la prima mattina della sua nuova vita, capì che doveva andare in un posto dove Madison non esisteva, in un luogo dove per tutti lei sarebbe stata Lu Ann Wilder, una donna di quarantadue anni che non aveva bisogno delle iniezioni di botulino che la produzione le aveva imposto il mese prima.
A scuola aveva studiato il portoghese, però in Portogallo la tivù trasmetteva “Le ore dell’amore”, quindi la scelta cadde sul Brasile. Decise di visitare l’Amazzonia e così per caso arrivò al piccolo ospedale di quel vecchissimo medico tedesco e lì si era fermata, facendo finalmente qualcosa solo come Lu Ann.

domenica 25 ottobre 2009

Evoluzione I,8.

Anche ieri ho saltato l'appuntamento, vi chiedo scusa ma ho avuto altro da fare.
Vi è piaciuto il capitolo 7? Volete leggere anche l'8? Sto forse parlando da solo? Purtroppo temo proprio di sì.
Comunque, miei cari lettori, eccovi il capitolo 8:

VIII

Anche se sei mesi prima Elena Risso aveva perso il suo ottimo impiego in comune perché all’ennesimo “taglio di spese straordinario per riempire il buco di bilancio lasciato dal precedente governo”, i suoi superiori avevano dovuto sostituire la metà degli impiegati con droidi, non era disoccupata perché aveva trovato lavoro nella piccola azienda di autotrasporti di due suoi vicini che erano troppo vecchi per prendere in considerazione qualcosa di così moderno come i robot, o anche le ferie pagate, lo straordinario retribuito e la fine della schiavitù.
Come quasi tutti i giorni era uscita dal lavoro con un quarto d’ora di ritardo e arrivò così a casa che Marina già l’aspettava dal portone.
- Ciao Mari, scusa per il ritardo ma quei due pazzi dei Rossetti…-
- Lo so, lo so. – disse Marina e risero.
Salirono le scale che erano state appena ridipinte e puzzavano ancora di vernice e, quando entrarono in casa, Elena disse: - Come mai sei così allegra? –
Marina sorrise e le disse: - Non dovrei dirtelo perché c’entra un po’ col lavoro di Enrico, ma ce l’abbiamo finalmente fatta. –
Le due donne erano amiche fin dai tempi delle medie ed erano talmente in confidenza che Marina non dovette specificare altro; Elena sapeva benissimo quale problema vi fosse tra lei e il marito da quando i dottori dell’ospedale l’avevano rimessa in piedi con quell’impianto alla base del cranio.
- Davvero cara? – le disse stringendole la mano – E come avete fatto? –
- È un segreto. – rispose – ma ti posso dire che non mi sono mai sentita così bene da quando eravamo fidanzati ed andavamo in gita in tenda d’estate e facevamo l’amore sui prati con le pecore intorno a belare. – e rise come una ragazzina.
- Sono troppo felice per te! – disse Elena, poi si alzò e aggiunse: - cambiamo discorso se no te lo chiedo ancora tante volte come avete fatto che ti trapano le orecchie. – e andò nella stanza vicina.
- Dove vai? – le chiese Marina.
- Torno subito. – disse la voce da dietro al muro in mezzo a rumori di cianfrusaglie buttate in uno scatolone – E avrò bisogno del tuo aiuto. – e arrivò posando sul tavolo una scatola che conteneva i pezzi di un droide rotto.
- E questo che cos’è? Vai in giro per sfasciacarrozze? – chiese Marina guardando i poveri resti di un robot che sembrava essere stato usato come bersaglio da una banda di pistoleri.
- Questo è AM2738, il droide a cui io e tutti gli altri ostaggi della rapina in banca dobbiamo la vita. Senza i suoi occhi quelli dei corpi speciali non sarebbero potuti interve-nire. – e dicendo questo accarezzava la mano immobile del robot. – E mentre ci salvava, questo ammasso di rottami ha anche trovato il tempo per farmi coraggio. –
- E temo che sia anche l’ultima cosa che ha fatto, - disse prendendo la testa che era divisa in due pezzi uniti da pochi lembi di plastica – non ho mai visto uno scempio simile. –
- Si può riparare? – chiese Elena – Ho comprato questi pezzi dal padrone che li voleva buttare via. –
Marina esaminò la testa cercando di capire quali pezzi si fossero salvati, poi esaminò il corpo che era spezzato all’altezza della vita e a cui si erano staccati una gamba e mezzo braccio destro. – Penso che avesse ragione lui, è danneggiato molto gravemente. –
- Ma tu sei una maga con computer e diavolerie simili, lo eri da ragazzina e poi ti sei laureata proprio in quegli argomenti. Si può ripararlo o no? –
- Costerà quasi come comprarne uno nuovo e non penso che funzionerà come prima. –
- Avrà ancora i suoi ricordi? – le chiese quasi sul punto di piangere.
- Be’, sì, direi che gli hard disk sono intatti, la memoria dovremmo salvarla. –
- Mi aiuterai? –
Marina sorrise e disse: - Hai forse dei dubbi? –
- E allora cominciamo, dimmi che pezzi servono. –
Marina posò sul tavolo la testa del droide e disse: - Usciamo subito e andiamo dal mio amico Walter, che li compra per rivendere i pezzi usati, che faccio prima a dire quelli che non ci servono. – E uscirono spingendosi come due bambine stupide, ricordando i vecchi tempi.
- Prima hai parlato di quando da ragazza andavi in campeggio con Enrico e ruzzolavate allegri nei prati, ma ti ricordi della volta che siamo venuti anche io e Andrea? – chiese ridendo Elena.
- E come scordarselo? – disse trattenendo una risata Marina, - Non è la volta che siamo andate da sole per funghi e che ci siamo perse? –
- Che idiote! – disse Elena – Mio Dio che figura di merda. Abbiamo girato da sole nel bosco per almeno tre ore. –
- Io direi anche quattro, non ne potevo più. –
- E ti ricordi quando dovevamo fare pipì e tu non l’hai voluta fare tra i cespugli perché avevi paura delle vipere? –
Marina rise tenendosi la pancia, poi annuì con la faccia rossa e gli occhietti stretti stretti. – Questa proprio non la ricordavo più. Com’era, che tu l’hai fatta tra i cespugli e io ti ho detto che eri stupida, e così sono andata nel prato e ho detto che l’avrei fatta lì, no? –
- E poi quando ti sei abbassata i pantaloni ti ho sentito urlare.-
- Che schifo, non hai idea, mi sono accucciata e non me lo aspettavo, l’erba era lunga e mi si è infilata lì, ho fatto un salto…-
- Mi ricordo, troppo divertente. – disse ridendo Elena. Ridevano ancora quando entrarono nel negozio di ricambi usati per droidi.

venerdì 23 ottobre 2009

Evoluzione I,7.

Ieri niente capitolo, chiedo scusa, ma non mi funzionava la connessione. Oggi rifunziona, Boh! Misteri dell'informaticcia, come dice Catarella.
Se qualcuno legge 'ste stronzate che scrivo sarà felice di poter leggere il nuovo capitolo, questo:

VII

Enrico Loi e il colonnello Mariani arrivarono con alcuni minuti di anticipo davanti alla porta del regno di Giulio Ferrero, il reparto di biomeccanica molecolare. Si guardarono senza sapere cosa dire e Enrico sorrise vedendo il colonnello con la mano finta che guardava incuriosito il foglio su cui erano stampati i nomi dei professori che lavoravano lì con le loro qualifiche. Lo stesso Enrico faceva fatica a capire la maggior parte delle materie in cui erano laureati, ma il buon colonnello sembrava leggere delle scritte in cinese.
- Buongiorno signori. - disse Ferrero aprendo la porta, - Se volete seguirmi nel mio laboratorio delle meraviglie… - e fece loro strada in un corridoio su cui si aprivano delle porte, in quel momento a dire il vero tutte chiuse, fino ad una grande sala conferenze illuminata dal sole.
- Sapete entrambi cosa è la biomeccanica molecolare, vero? –
- A grandi linee. – rispose Enrico.
- Io un po’ meno.- disse il colonnello abbassando un poco lo sguardo, - Le sarei molto grato se potesse farci una piccola lezione introduttiva. –
- Bene! – disse Il dottor Ferrero, - Voi conoscete le macchine, quelle cose fatte di vari pezzi che interagendo tra loro effettuano un lavoro? –
I due annuirono e lui continuò: - Con macchine io intendo cose semplici come un paio di forbici, formate da due leve affilate e una vite a fare da fulcro, ma anche cose un pochino più complesse, come un orologio, che è formato da centinaia di pezzi, o un computer, che è formato addirittura da milioni e milioni di pezzi. –
Enrico annuì convinto mentre il colonnello sembrò un po’ colpito da questo apparentamento tra il computer e le forbici.
- Vede colonnello, il computer, anche questi immensi computer che lei vede tutti intorno a noi, anche quelli che si trovano nelle teste di quei simpatici droidi che lavano per noi i piatti e le strade, il computer è in realtà sempre la stessa macchina che Pascal inventò nel ‘600. Una serie di leve alzate o abbassate, che fanno di conseguenza alzare o abbassare delle altre leve. Più leve ci sono più sono grandi i calcoli che il computer può fare. –
Andò alla lavagna e fece un piccolo cerchio, grande come una moneta da un euro. – Con tante leve così la macchina può fare le addizioni e le sottrazioni. –
Disegnò allora un cerchio grande come un pugno. – Così può fare divisioni, moltiplicazioni e forse estrarre radici quadrate. –
Fece un cerchiò grande come una testa e poi uno col diametro di circa mezzo metro. – Col primo di questi il computer può gestire Word, e col secondo farci divertire con Lara Croft. –
Mettendosi sulle punte dei piedi disegnò un cerchio grande quanto era alta la lavagna e poi disegnò uno spicchio di un cerchio immenso, che spuntava appena nel rettangolo di ardesia.
- Con questo posso simulare molti pensieri umani e far muovere un droide che scopa in terra e lava i piatti e con quest’ultimo… - e batté il dito sullo spicchio – con questo immenso cumulo di levette il signor Loi può leggere la mente di un topo e inserirne i pensieri nella testa di un altro. Capito? –
- Sì. – rispose un po’ imbarazzato il colonnello.
- Bene, bene, bene. Allora, tutte queste leve, lame, pistoni, ruote dentate e viti senza fine, sono costruite con metallo o legno o plastica, ma comunque con materiali simili al mondo visibile, formati da lunghe catene di molecole. Materiali che non potremo mai miniaturizzare più di tanto.-
Li guardò per vedere se avevano capito e, almeno per quel che riguardava Enrico fu soddisfatto del tutto. – Però le stesse identiche cose noi le possiamo fare su un altro piano dell’esistenza, cioè quello degli atomi. –
Disegnò sulla lavagna che aveva cancellato parlando una linea lunga quanto tutta la superficie nera, e vi scrisse sotto “più piccola levetta costruibile” e poi fece al di sotto un trattino lungo due millimetri, praticamente un punto, e vi scrisse “stessa leva costruita con atomi”.
- Come vedete noi possiamo costruire macchine potentissime delle dimensioni di un nostro globulo rosso, e forse questo è ancora più importante, queste macchine possono essere programmate per riprodursi all’interno di un corpo, utilizzando proprio le risorse del loro ospite. –
- Come un virus. – disse Enrico.
- Esatto! – rispose Ferrero sorridendo – Un virus artificiale che possiamo programmare per fare qualunque cosa. – aprì la porta e disse loro: - Seguitemi! Tra poco vedrete che quando dico qualunque cosa, intendo proprio quello che ho detto.- e uscì dalla stanza seguito dai suoi due incuriositi ospiti.
Entrò in una stanza dove c’erano molte gabbie simili a quelle dei ratti di Enrico e ne prese tre.
- Questo è H913/12, ma noi lo chiamiamo Lattuga. – disse indicando un topo totalmente glabro, dalla pelle verde oliva, che correva su una ruota in una gabbia in cui non c’era cibo ma solo acqua e un blocchetto di sali minerali. – Gli abbiamo iniettato dei piccoli robot, che chiamiamo microsonde, che gli hanno trasformato le cellule della cute facendogli produrre clorofilla; è più di sei mesi che non mangia e si nutre solo di luce solare, acqua e sali minerali.
Indicò poi un topo all’apparenza normale, che se ne stava tranquillo nel suo angolino pieno di cotone a leccarsi una zampina. – Questo è L612/21, Ursus per gli amici, ed è un po’ speciale anche lui…- disse, e lo scagliò con la forza di un giocatore di baseball contro il muro di cartongesso. Il ratto picchiò sul muro e cadde a terra totalmente intatto, correndo verso i piedi di Ferrero.
- Scusate l’eccessiva teatralità, ma ho sempre sognato di essere un campione. – disse ridendo e ripose Ursus nella sua gabbietta. – Come potete notare questo piccolo animaletto ha quasi sfondato il muro. – e indicò una bella infossatura nella parete.
Mentre i due ospiti si guardavano increduli prese il terzo topo e gli fece un grosso squarcio sulla schiena con un bisturi. Il taglio si rimargino immediatamente senza lasciare alcuna cicatrice. – E anche questo è opera delle nostre microsonde. –
Vedendoli tanto stupiti che sorrise pensando che i loro occhi sembravano sul punto di cadere in terra, sfoderò l’ultima meraviglia, quella per cui li aveva fatti venire lì.
- Se avrete la pazienza di attendere alcuni minuti, potrete scoprire cosa c’entra tutto questo con l’incredibile invenzione del dottor Loi. – Prese un altro ratto e gli iniettò davanti a loro il contenuto di una fiala che stava in una scatola insieme a un telecomando da automobilina. – Bastano tre o quattro minuti perché le sonde si moltiplichino e facciano il loro lavoro. – disse posando il ratto nella sua vaschetta.
Il ratto corse a bere e Enrico e il colonnello Mariani videro distintamente un piccolo bozzo formarsi sulla sua testa, per poi aprirsi e lasciare emergere una piccola antenna. Tempo tre minuti e il ratto si calmò e tornò a leccarsi la zampa, ignorando l’antenna che gli era cresciuta in testa.
- E ora… - disse Ferrero prendendolo dalla vasca e posandolo in terra, - …vai con lo spettacolo! – e cominciò a guidare il ratto per il pavimento usando il telecomando, facendogli fare tutti i movimenti che voleva.
- Pensate che questa piccola cosa possa in qualche modo interessarvi o volete continuare a usare quelle scomode coroncine che è così facile rompere o perdere? –

mercoledì 21 ottobre 2009

Evoluzione I,6.

Prima di farvi leggere il sesto capitolo, vi dò un suggerimento. Andate sul sito di Repubblica e guardatevi le foto del papa in preda alla bufera. E' l'imperatore di Guerre Stellari! E' lui! E' Palpatine! Cioè, non ci sono dubbi, è lui e basta.
E ora, dopo 'sta cazzata, eccovi il capitolo di oggi:

VI

Guardò incredulo il sacchetto di plastica che conteneva i suoi piercing e se lo infilò sorridendo in tasca. Aveva fatto suonare il metal detector come un carillon per ben due volte e lo avevano costretto a spogliarsi fino a rimanere in mutande, davanti a tutti.
La cosa più divertente era stato vedere la faccia di tutti quegli stupidi italiani quando avevano visto la svastica tatuata sul suo pettorale sinistro e il ritratto di Hitler che aveva sul braccio destro. Lo avevano guardato come una cacca, e così lui aveva guardato loro, inutili coglioni che non sapevano neanche in che mondo vivevano.
Lui non era come loro, lui aveva degli ideali sani e puri, e per questi ideali era pronto a fare qualunque cosa.
Il suo compito adesso era andare in Brasile, sul fiume Japurà, nell’oasi ricovero gestita da quel vecchio santo del dottor Teubner. Lui sapeva bene chi era quel vecchio novantenne, o almeno chi era stato più di sessanta anni prima. Era stato uno di quegli uomini che in nome del simbolo che lui portava tatuato sul petto aveva osato tentare di cambiare il mondo. Lui sapeva che quel vecchio era in realtà il maggiore Ludwig von la Salle, un medico nazista che aveva lavorato a Auschwitz con Mengele.
Il suo compito era trovarlo e assicurarsi che fosse proprio lui, e poi fare quello che era giusto fare.
Sull’aereo si sedette vicino a lui Suleiman, che vedendolo ebbe l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Fu dopo un’ora di volo che pensò di essersi confuso a causa della somiglianza di quello Skinhead con l’attore Ed Norton in un film di una quindicina di anni prima, American History X. Solo un mese dopo avrebbe ricordato dove loro due si erano già incontrati.
Il nazi, che dal passaporto risultava chiamarsi Edmund Strauss, lo aveva invece riconosciuto subito, era una delle sue caratteristiche quella di non dimenticare più un volto, e si era messo subito a leggere una rivista in tedesco mettendo bene in mostra la piccola svastica che era tatuata sulla sua mano destra. Questo avrebbe dovuto sviarlo abbastanza da fargli dimenticare la sua faccia appena scesi dall’aereo.
Suleiman comunque smise presto di pensare al nazi seduto di fianco a lui, dopotutto pensò, odiavano gli stessi nemici, e chiuse gli occhi ripensando a quella che era stata la sua vita fino a due anni prima.
Era sempre stato il migliore della classe, dall’asilo alle superiori, e aveva percorso in un lampo l’università, esattamente come suo fratello, per quanto in campi molto diversi.
Il suo sogno fin da bambino era sempre stato quello di essere il primo uomo a mettere piede su un pianeta lontano anni luce e per quello aveva scelto quel ramo di studi. La guerra intorno a lui gli era sempre sembrata qualcosa di temporaneo e non aveva mai provato odio per gli Israeliani, come anche suo fratello.
Poi quei bastardi avevano sbagliato a lanciare un missile e tutta la sua famiglia era morta, come anche la sua gamba; mentre era intrappolato sotto le macerie, senza sapere ancora se sarebbe sopravvissuto, aveva deciso che quello che, forse, sarebbe uscito da lì, non sarebbe stato un tranquillo studioso di fisica teorica, ma un patriota pronto alla morte.
Quando aveva poi visto il cadavere del fratello, aveva detto di essere lui, perché nessuno prenderebbe sul serio uno studioso di scimmie con la coda prensile, nessuno avrebbe potuto crederlo un terrorista pronto ad uccidere.
Due anni di preparativi lo avevano portato fin a questo punto:
era in viaggio verso il Brasile dove, vicino alla frontiera con la Colombia, avrebbe incontrato i suoi contatti, dei trafficanti di coca che usavano come copertura un’oasi di protezione della fauna e lì avrebbe montato la bomba. Sorrise scivolando nel sonno, al pensiero del plutonio che viaggiava in un contenitore a tenuta stagna attaccato con una calamita alla chiglia di un mercantile americano. Tempo dieci giorni e i suoi compagni lo avrebbero preso nel porto di Rio e lo avrebbero portato da lui insieme all’oppio puro che era chiuso con lui nel contenitore magnetico. I suoi amici colombiani sarebbero stati contenti e lui avrebbe potuto lavorare alla sua vendetta.
Anche Edmund si addormentò e sognò il suo passato. Sognò la sua infanzia nel Kibbutz, sua sorella Sara e i suoi genitori, sempre con la pelle scottata dal sole. Sognò suo nonno, che aveva sempre preferito parlare in tedesco perché non aveva mai imparato bene l’ebraico, suo nonno che gli raccontava sempre dei campi di concentramento, dove i Tedeschi avevano tentato di ucciderlo.
Poi sognò il servizio militare, i bus esplosi e i pezzi di bambini che aveva visto penzolare dagli alberi una volta, e i posti di blocco e i volti di quei poveri ragazzi palestinesi, in fondo così simili a lui, che sembravano volerlo uccidere con lo sguardo.
E poi sognò anche l’arruolamento nel Mossad, l’addestramento che aveva cancellato in lui ogni umanità, trasformandolo in una macchina, interessata solo a compiere la sua missione. Malgrado l’addestramento aveva pianto e aveva vomitato quando si era fatto fare quei tatuaggi, si era sentito sporco quando si era dovuto infiltrare tra quei nazisti di merda a Dresda, fingendo di essere uno di loro, di parlare e di pensare come loro.
E poi sognò la sua missione, quel giovanissimo medico che più di sessanta anni prima aveva torturato e ucciso un migliaio di bambini, che aveva mandato a morire alle camere a gas centinaia di migliaia di poveretti con un alzata di sopracciglio. E ora quel vecchio avrebbe pagato, ma non prima di aver fatto i nomi di quelli che lo avevano aiutato a salvarsi, di quelli che si erano nascosti come lui in Sudamerica.
E infine sognò il momento in cui si sarebbe fatto togliere quei tatuaggi e sarebbe tornato a casa, un momento che purtroppo non sarebbe mai arrivato.
Così quei due ragazzi, quei due impostori che si erano già incontrati una volta in passato, dormivano vicini, ignari l’uno dei segreti dell’altro e ignari anche del futuro che li avrebbe attesi di lì a pochi giorni.

martedì 20 ottobre 2009

Evoluzione I,5.

E siamo così arrivati al quinto capitolo. Voi, miei cari, inesistenti, lettori, come trovate il sudato parto della mia mente? Orrido? Patetico? Squallido? O qualcuno di voi lo triva leggibile? Boh! Mi sa tanto che sto parlando da solo.
Comunque, eccovi il capitolo di oggi:

V

Gli attentati aerei avvenuti negli ultimi undici anni avevano reso le operazioni di imbarco di una lentezza e di una difficoltà kafkiane, ma quando i controllori si trovavano di fronte ad un mediorientale come lui, nelle sue condizioni, si precipitava allora nella commedia dell’assurdo.
- Allora signor Al Karoun, ci spieghi di nuovo il motivo del suo viaggio. – disse con fare sgarbato il poliziotto italiano che lo aveva fermato e portato in un piccolo ufficio sporco e buio.
“ E dire per piacere no?” pensò Suleiman, poi disse: - Sono un ricercatore specializzato in primati del nuovo mondo e sto andando in Brasile per un periodo di studio nell’oasi di ricerca del fiume Japurà, dove mi tratterrò per almeno un anno per studiare i cebi cappuccini.-
- Che sarebbero? –
- Sono delle scimmie platirrine tipiche della foresta pluviale del Sudamerica, ormai in via d’estinzione. L’oasi sul fiume Japurà è uno degli ultimi luoghi al mondo dove si possono osservare allo stato libero.
- Come mai un arabo si interessa al Sudamerica? – chiese un altro poliziotto che aveva un unico sopracciglio che andava da un lato all’altro della fronte. – Non ne avete scimmie in Africa? –
- E come mai uno con la faccia da contadino del Medioevo fa il poliziotto? – scappò di bocca a Suleiman. – È quello che ho studiato, è il mio campo. E poi io sono palestinese e non ne abbiamo di scimmie lì. –
- E la gamba come l’ha persa? –chiese allora il primo poliziotto.
- È stata una bomba israeliana, hanno colpito il mio palazzo e la mia gamba è rimasta lì sotto con tutta la mia famiglia. –
- Ci parli di suo fratello. – disse allora l’altro.
- Chi? –
- Suo fratello Daoud. Non lo ricorda più? –
- Daoud era il mio gemello ed è morto due anni fa nel bombardamento del mio palazzo. Certo che lo ricordo.- li guardò con odio – Perché mi chiedete di lui? –
- Lui non era un biologo, no? –
- No. –
- Non era un fisico? – chiese il primo poliziotto.
- Un fisico nucleare? – aggiunse l’altro.
- Sì, e allora? –
- Be’, stiamo parlando di un fisico nucleare, uno che ha a che fare con le bombe. –
Scattò in piedi battendo i pugni sul tavolo. – L’unica volta che mio fratello ha avuto a che fare con le bombe è stato quando gli Ebrei lo hanno ammazzato! Lui era un fisico teorico e studiava la teoria delle stringhe! –
- Si calmi signor al Karoun. – disse il monosopracciglio, - Si tratta di domande che dobbiamo fare. Cosa ha detto che studiava suo fratello Daoud? –
- La teoria delle stringhe. È una teoria che dovrebbe spiegare l’origine dell’universo coniugando la teoria della relatività e la fisica quantistica. – e vide i volti dei due poliziotti trasformarsi in dei punti interrogativi viventi. –
- Va bene, va bene, signor al Karoun. – gli rese il passaporto e poi aggiunse: - Daoud era suo fratello gemello? –
- Sì. –
- Lei odia chi lo ha ucciso? –
Suleiman sorrise e disse: - Perché non posso? –
- Purtroppo in questo mondo di merda siamo costretti a sospettare di chi è nella sua situazione. – e gli porse la mano.
Suleimani gliela strinse sorridendo, ma l’altro disse: - Dovremmo perquisire la sua gamba.-
- Cosa? – urlò quasi.
- Dovremmo controllare l’interno della sua protesi. – disse guardandolo negli occhi.
Suleiman poggiò la scarpa sulla sedia, tirò su la gamba del pantalone mettendo in mostra un polpaccio di plastica bianca lucida e disse: - Ma lo sapete quanto ci vuole a rimettersela e a collegarla di nuovo all’impianto neurale? –
- Va bene così, signor al Karoun. – disse allora il primo poliziotto – Non c’è bisogno che la tolga. Tanto ci troveremmo solo circuiti e motori. – aprì la porta e disse: - Buon viaggio signor al Karoun, e ci saluti le scimmie. –
L’altro poliziotto non era assolutamente d’accordo, ma quello “buono” gli fece cenno di stare zitto e diede di nuovo la mano a Suleiman.
- Grazie, agente. – rispose e andò ad imbarcarsi tirando un sospiro di sollievo.
Il primo poliziotto lo guardò allontanarsi e chiuse la porta.
- Fatto! – disse il monosopracciglio – Dici che c’è cascato? –
- Direi di sì. – disse il primo – Quel bastardo è assolutamente convinto di averci fatto fessi. Se non gli avessimo chiesto del fratello si sarebbe insospettito. –
- Sì, ma se penso a quello che vuole fare e noi lo lasciamo andare così. –
- È solo così che potremo prenderli tutti. E poi stai tranquillo, il nostro buon Daoud tra un mesetto rimpiangerà amaramente di non essere stato fermato all’aeroporto. –

lunedì 19 ottobre 2009

Evoluzione I,4.

Ed eccoci al quarto capitolo. Ma qualcuno li sta leggendo? O sono come un pazzo che predica nel deserto? Che qualcuno mi risponda, vi prego?
E ora, dopo i miei lamenti, a voi la mia opera:

IV

Il giorno dopo quell’incredibile notte d’amore con sua moglie, svegliatosi come drogato dall’esperienza della mente condivisa con la donna che amava, Enrico Loi andò come previsto da un mese a presentare la sua invenzione ai suoi datori di lavoro con le stellette.
- Buongiorno signor Loi. – disse con voce adatta a comandare il colonnello dell’esercito che si trovò davanti nella sala dove avrebbe tenuto la conferenza. – Sono il colonnello Mariani, incaricato dallo Stato maggiore di esaminare quelli che ci dicono essere i rivoluzionari risultati del suo lavoro. –
- Piacere. – disse Enrico tendendogli la mano e vedendo solo allora che il militare aveva al posto del braccio destro una protesi uguale in tutto e per tutto alle braccia dei droidi che facevano le pulizie in tutti i laboratori del centro. Era la prima volta che vedeva una protesi nuda, non ricoperta dalla pelle cosmetica, ma trovò questo un vezzo adatto ad un militare.
Mariani vide che stava guardando la sua mano e disse: - Una bomba in Libano, ma come vede la protesi funziona ancora meglio del mio vecchio mazzo di salsicce. -, e gli strinse la mano con una delicatezza che sembrava stonare con la fredda rigidità di quelle dita di plastica.
- Allora Enrico! – disse con falsa allegria il suo capo Antonio Meucci, proprio come l’inventore del telefono, che se la stava evidentemente facendo sotto dall’emozione, - Siamo pronti per la dimostrazione? –
- Sì capo. – disse lui poggiando sul lungo tavolo, posto davanti all’anfiteatro di sedili su cui avevano preso posto altri militari pieni di decorazioni e una decina di altri studiosi per un totale di almeno trenta lauree specialistiche, i due grossi labirinti di plastica in cui si sarebbero mossi i due topi.
Posò poi ai lati dei due labirinti le tre vaschette in cui stavano i ratti, uno bianco, uno marrone e uno nero.
Prese il primo, Albus Silente, e gli pose sulla testa una coroncina uguale a quelle che avevano usato la notte precedente lui e Marina, accendendola.
- Quello che ho appena messo sulla testa del nostro piccolo ratto è il risultato dei nostri studi degli ultimi anni, una sorta di modem mentale, capace di collegare tra loro le cortecce cerebrali di due esseri facendo così funzionare in rete le loro menti. –
Posò Albus Silente nella stanza di partenza del primo labirinto e pose poi un pezzo di formaggio nella stanza d’arrivo. Prese poi il ratto marrone, che si chiamava James Brown, e
- Ora Albus Silente e James Brown sono una cosa sola, pensano gli stessi pensieri e vedono le stesse cose, potendo addirittura accedere l’uno alla memoria dell’altro, come vedrete tra poco. –
Sollevò la barriera che divideva Albus Silente dal labirinto e questi cominciò ad esplorare i corridoi che si trovava davanti, in cerca del formaggio, mentre James Brown correva senza posa sulla sua ruota.
Dopo cinque minuti e dopo aver sbagliato strada almeno una decina di volte, il ratto bianco trovò finalmente il suo formaggio e lo mangiò, mentre il ratto marrone smetteva di correre sul suo cricetesco tapis roulant.
Spense la coroncina sulla testa di Albus Silente e disse: - Ora questo ratto ha imparato la strada per trovare il formaggio e come lui lo ha fatto James Brown che non si è mai mosso dalla sua gabbia. –
Prese allora il topo nero, Black Jack, e posizionò sulla sua testolina una terza coroncina accendendola.
- E ora Black Jack e James Brown ci faranno vedere una piccola magia. – disse, e posò il ratto nero nel secondo labirinto, in fondo al quale stava li a spargere il suo odore un altro pezzo di formaggio. – Il ratto nero naturalmente non è mai stato in un labirinto simile. – disse e tolse la paratia.
James Brown ricominciò a correre sulla ruota e nello stesso istante Black Jack corse senza indugio tra gli stretti corridoi trovando dopo soli tredici secondi e senza alcun errore, il succulento premio in fondo al percorso.
Tutti gli spettatori scattarono in piedi applaudendo il risultato incredibile delle ricerche del dottor Loi, mentre il colonnello Mariani sfregava l’una contro l’altra le sue due diversissime mani pregustando i possibili utilizzi militari di quella splendida invenzione.
L’unico a non essersi alzato in piedi ad applaudire era stato il dottor Ferrero, responsabile del reparto di microelettronica e biomeccanica molecolare. Era invece corso incontro a Enrico, parlando con lui per tutto il tempo che erano durati i festeggiamenti sugli “spalti” del piccolo teatro.

domenica 18 ottobre 2009

Evoluzione I,3.

Ed eccoci al terzo capitolo, spero che i primi due vi siano piaciuti. A, se trovate qualche imprecisione, non li ho ancora riscritti, ricordate che sono parte di un libro abbandonato!
Ed eccovi il terzo capitolo:

III

Paulo, un bambino indio di circa sette anni che non era mai uscito dal suo piccolo villaggio sulle rive di un fiume dell’Amazzonia, corse con uno straccio stretto intorno alla mano dal vecchio che lui e tutti i suoi parenti chiamavano semplicemente il Dottore.
- Dottore, Dottore! – urlava il bambino – Mi sono fatto male alla mano! –
- Vieni qua Paulo. – disse il vecchio con quella voce che al bambino ricordava tanto quella del Papa, - Ora vediamo un po’ cosa ti sei fatto, piccolo animale.-
Il vecchio, che vecchio lo era davvero avendo ormai novanta anni, era alto un metro e ottantotto ed era ancora dritto come un fuso come gli avevano insegnato nella sua giovinezza in caserma.
- Che brutto taglio. – disse al bambino accarezzandogli la testa con la sua grossa mano su cui spiccavano le macchie marroni dell’età – Mi sa tanto che ci vorranno dei punti. –
Paulo cominciò a piangere tentando di togliere la sua piccola mano sanguinante dalla manona del vecchio, ma questi gli diede uno schiaffo e urlò: - Piccolo animale, nessuno ti ha dato il permesso di andare via! – e lui rimase lì, perché quando il Dottore si arrabbiava era sempre consigliabile obbedirgli.
Pulì la ferita con un disinfettante che bruciò un po’ al bimbo, che tentò inutilmente di trattenere le lacrime, poi gli diede due punti con un ago ricurvo che teneva immerso nell’alcol.
- Ora puoi andare, piccolo animaletto. – disse dandogli uno schiaffetto sul sedere e sorridendo con quei suoi vecchi denti un po’ gialli e consumati, - ma stai attento a non bagnare la ferita! –
Sorrise vedendo quel piccolino dalla pelle scura che correva fuori, poi si alzò e andò a coccolare il suo pastore tedesco che dormiva sul divano. – Andiamo Gunther! – disse in tedesco al cane e uscendo salutò alzando il braccio destro la bandiera con la svastica che pendeva alla destra della porta.
A pochi metri dalla porta della piccola casa in muratura in cui viveva sorgeva il piccolo ambulatorio in cui lavorava ormai da una sessantina di anni, cioè da quando era arrivato lì dalla Germania attraverso il porto di Genova e con l’aiuto dei suoi camerati. In quei tre piccoli ambienti in muratura di fango imbiancata a calce aveva fatto nascere migliaia di bambini e distribuito vaccini, continuando in segreto gli studi sui gemelli del suo vecchio maestro Joseph Mengele, scoprendo che quasi tutte le teorie di quest’ultimo erano sbagliate e dedicandosi così alla genetica e alla selezione della razza, così come coi cani aveva fatto suo nonno Heinrich von la Salle, uno dei padri del cane pastore tedesco.
Sessanta anni di cure e di incroci da lui segretamente predisposti avevano già fatto aumentare di dieci centimetri l’altezza media degli indigeni e di addirittura sedici punti il loro quoziente di intelligenza.
In lunghe chiacchierate con sua moglie Margarita, che era morta ormai da diciotto anni, era giunto alla conclusione che il nazismo, in cui lui credeva ancora con tutto sé stesso, aveva sbagliato nel porre le proprie premesse ed aveva quindi fatalmente fallito nella sua applicazione pratica.
- Vuoi dire che era dunque sbagliato eliminare i Giudei dalla faccia della terra? – gli aveva chiesto nel 1972 sua moglie con lo sguardo inviperito.
- No cara – le aveva risposto posando il bicchiere sul tavolo e parlandole con il tono che suo padre aveva usato un tempo con i suoi studenti all’università – Voglio solo dire che era sbagliata la ragione per cui noi li uccidevamo. -
I Giudei erano in effetti come diceva il nostro beneamato Fuhrer, brutti, avidi e costituzionalmente diversi da noi ariani, ma la genetica ci dice che la differenza non sta nella carne, ma nella loro storia ed evoluzione.
Io stesso non sono un ariano puro, discendendo per parte di padre da un francese, il cui puro sangue germanico era imbastardito dal sangue latino e celtico, ma una decina di generazioni di vita tedesca mi hanno reso forte e sano nella mente e nel corpo come un Goto di duemila anni fa.
Io penso che anche i Giudei, se rieducati e incrociati tra loro selezionandoli come mio nonno fece con degli inutili cani bastardi, potrebbero dare origine in poche generazioni a un essere bello e puro come questo cane. – e aveva indicato Herrmann, il pastore tedesco bisnonno di Gunther che dormiva in quel momento ai piedi della sua sedia.
- I Giudei sono sbagliati dentro. – aveva ribattuto però Margareta – sono diversi da noi quanto e più degli Slavi o dei negri o di questi stupidi indios in mezzo a cui siamo costretti a vivere. –
- No mia piccola… - le aveva detto dopo aver bevuto il suo vino, sorridendole con quell’espressione che aveva sempre quando le sentiva dire una idiozia – Anch’io credevo una volta questo, ma anni di studi e di ragionamenti sulla storia mi hanno fatto ricredere
Quali imperi hanno avuto successo nella storia, pensa un po’?
I Romani hanno creato un impero che è durato quattro secoli e che è crollato solo quando non ce l’hanno fatta ad assimilare i barbari che erano i nostri antenati. Pur essendo geneticamente inferiori, quei popoli latini governarono il mondo perché tutti nel loro Stato venivano trasformati in Romani.
La stessa cosa hanno fatto gli Austriaci nel loro impero farcito di feccia slava e turca, e gli Inglesi nel loro impero sparso tra Indiani e negri.
Ed ora il potere lo hanno gli Americani, con la loro ignoranza e la loro pretesa di essere i migliori in tutto. Per quanto il loro Melting pot mi possa fare schifo, con quell’orribile incrocio di negri e bianchi e giudei e chissà cos’altro, bisogna ammettere che questa loro civiltà per certi versi degenerata, produce dalla feccia dell’umanità quelli che posso indubitabilmente essere definiti dei veri Americani. –
Si alzò e guardò fuori dalla finestra la notte buia e piena di grida e fruscii animali. – Quello che rende un popolo forte, non è una sua presunta purezza, ma la sua capacità di assimilare a sé stesso chiunque venga in contatto con lui, assorbendone i possibili pregi e purgandone i difetti.
È per questo che i Giudei erano nostri nemici – aveva detto allora – non per una loro intrinseca inferiorità, ma perché rifiutavano di disperdersi totalmente nella nazione germanica rinunciando alle loro peculiarità. –
Da allora non avevano più parlato di questo argomento, perché lei non aveva compreso del tutto questa sua nuova concezione del nazismo, e anche perché la demenza aveva cominciato a rosicchiarle la mente poco a poco riducendola presto a una demente incapace di connettere e in fondo indegna di vivere. Di lì a pochi anni era stato costretto a ucciderla egli stesso con una iniezione di veleno, essendo una offesa alla splendida donna che era stata quell’esistenza menomata della mente.
Aveva allora dedicato quelli che sarebbero stati gli ultimi anni della sua vita allo studio della possibile elevazione della razza umana al di sopra del livello bestiale a cui la nostra condizione di bestie bipedi ci condanna, sorprendendosi a volte a passare le notti sveglio, baloccandosi con l’idea di un mondo dove non esistessero più vari uomini con le loro piccole menti simili a candele in una bufera, ma una sola grande e logica mente in cui tutti potessero perdersi e diventare migliori.