mercoledì 7 giugno 2023

Recensione di "Ultima notte a Soho" di Edgar Wright.

 

Prima di parlare di “Ultima notte a Soho” permettetemi una premessa sul rapporto tra cinema horror e problemi ritenuti socialmente rilevanti.

Il cinema di genere, soprattutto nella sua declinazione thriller e horror, tende per sua natura a sintonizzarsi sulle paure e le pulsioni della società che lo crea e a cui è rivolto. La cosa può essere causata dalla genialità degli autori o dei produttori o forse è più che altro un naturale risultato del fatto che i suddetti autori e produttori sono parte della società.

Per esempio nella seconda metà degli anni '40 negli Stati Uniti vi fu il problema del ritorno a casa di milioni di reduci di guerra che dovevano essere reinseriti nel mondo del lavoro, trovando però i “loro” posti occupati dalle donne che, durante la guerra, erano andate a lavorare nelle fabbriche e negli uffici al posto dei giovani uomini arruolati e mandati oltre oceano. Ecco quindi che il cinema di genere, nelle sue declinazioni maschile e femminile, creò due tipi di personaggi femminili: nei film del genere commedia romantica, genere femminile per eccellenza, il personaggio della protagonista passò dal “maschiaccio” in pantaloni di Katharine Hepburn alla romantica mogliettina in gonnellina e capelli cotonati che cucinava la cena per il marito al ritorno dal lavoro; mentre nel noir, genere “maschile”, nacque il personaggio della dark lady, la cattiva, una donna bella e affascinante, non giovanissima, che è ricca e manipola e ostacola il protagonista, di solito un investigatore privato, ma comunque, sempre, un reduce di guerra, nelle sue indagini e nella sua vita.

Ecco il messaggio: donne, ci siete servite in fabbrica, ma ora i maschietti sono tornati ed è ora che torniate al vostro posto, a infornare torte di mele e a sfornare giovani e biondissimi bambini americani.

Nel decennio successivo, quello in cui il cinema “alto” produce storie di giovani tormentati come Brando in motocicletta o James Dean in auto, mentre le letteratura ci racconta la storia di ragazzi che avrebbero tutto e che si disperano tentando di capire dove finiscano le oche del parco in inverno, nascono tutta una serie di film su ragazzi violenti in moto o, nel molto più ruspante genere horror, di giovani licantropi o mostri di Frankenstein adolescenti.

Avremo poi, dopo la guerra in Vietnam e l'omicidio Kennedy, tutto il filone delle invasioni aliene con mostri travisati tra noi e storie di congiure governative con poveri uomini innocenti ipnoticamente “programmati” per andare e uccidere ad un certo comando.

Negli anni '70 in cui Redford imperversava nel cinema “alto” combattendo contro congiure governative ne “I tre giorni del Condor” o, più realisticamente, scopriva gli altarini di Nixon in “Tutti gli uomini del Presidente”, il cinema di genere si buttava su falsi viaggi su Marte e intere cittadine spazzate via dal governo per la caduta di satelliti segreti.

Negli anni '80 poi, con l'edonismo reaganiano e una società mai così spietata e classista, si arrivò a film visionari come Society di Yuzna dove i ricchi divoravano letteralmente la classe inferiore o degli alieni molto, ma molto capitalistici, governavano attraverso messaggi subliminali ubiqui la povera gente in “Essi vivono” di Carpenter.

Ora, dopo questo (troppo) lungo preambolo, passerò al film di cui voglio parlare. “Ultima notte a Soho” di Edgar Wright.

Prima un'altra, doverosa, premessa. Provo una incredibile, e totalmente immotivata, antipatia per l'attrice Anya Taylor Joy, una delle due protagoniste del film, e praticamente ogni volta che entrava in scena speravo che un'auto tirasse sotto il suo personaggio e quindi questo ha impedito una mia empatica vicinanza nei confronti della povera Sandie.

Allora, il film è tecnicamente un gioiello. Effetti speciali, di quelli “invisibili” che servono per la storia e che non la sostituiscono, perfetti e ipnotizzanti. Attori meravigliosi, i giovani e i vecchi, vero e proprio florilegio questi ultimi, di divi del cinema british degli anni Sessanta, scenografie e ambienti di una bellezza abbacinante e direzione, anche coreografica, degli attori, da applausi a scena aperta. E, il che non guasta, musica anni Sessanta di quella stupenda, anche se il vecchio fan di Lost che sta nascosto in me nel momento in cui Sandie cantava “Downtown” di Petula Clark si è inevitabilmente distratto ricordando Desmond laggiù nel bunker che schiacciava un tasto ogni 99 minuti.

La storia, dopo i primi minuti in cui l'ingenua ragazzina con poteri medianici lascia il paesino che fa sembrare le varie “Midsomer pizzaefichi” di Barnaby delle metropoli tentacolari, scorre che è una meraviglia e ci si trova a seguire sempre più rapiti la storia delle due ragazze e della loro inesorabile caduta agli inferi.

La storia delle due, ingenue, protagoniste ci porta per mano in un incubo a occhi chiusi e aperti che per una delle due è la vita in mano a uno sfruttatore (come fa bene il laido Matt Smith!) e che per l'altra è una continua fuga tra incubi e apparizioni di fantasmi senza volto.

E poi, alla fine, il colpo di scena, la ragazzina non aveva capito niente, non era un fantasma quella in cui si immedesimava e non volevano ucciderla i fantasmi, veri, che la perseguitavano, ma chiedevano il suo aiuto. E la vecchina, la ancora viva e assassina Sandie, dà sfogo alla sua pazzia tra tazze di tè avvelenate e forbici piantate nella panza del ragazzo corso in soccorso, più inutile in effetti del cuoco Halloran nel film Shining.

Fino a qui tutto bene, ma, ahimè, il regista si ricorda che la nostra società in questo momento teme due mostri, il “patriarcato” dei “maschi bianchi eterosessuali”, MBE, e i malvagi uomini violentatori e sopraffattori alla Weinstein e così sbrocca, senza rendersi conto che già, nel suo film, non esistono personaggi maschili positivi se non un ragazzo di colore, quindi non MBE, perché il personaggio di Lindsay, sia nella versione giovane di Claflin che in quella vecchia di Stamp, è comunque laido da morire e il poliziotto che ascolta Thomasin è un pirla che vorrebbe farla internare, mentre la poliziotta le crede.

Allora, spoileriamo senza remore, Sandie uccide Il Dott... Jack per legittima difesa col coltello che lui stava per usare per accopparla, ma gli altri li uccide volontariamente dopo averli attirati in casa sua, serial killer a tutti gli effetti, con capacità muratoriali notevoli, tra l'altro. E qui, dopo aver ucciso una ventina di uomini a pugnalate, dopo aver avvelenato una ragazzina innocente, dopo aver pugnalato un ragazzo buono e indifeso, inspiegabilmente, e intendo davvero inspiegabilmente, smette di cercare di uccidere la protagonista e tenta il suicidio con la faccina triste; e, alla ragazza che un attimo prima voleva ammazzare, dice che “loro se lo erano meritato”. E lei le dà ragione. Erano zozzi? Sì. Erano uomini sgradevoli? Sì. Andavano con una giovane prostituta fregandosene della sua felicità? Sì. Meritavano per questo di essere sgozzati e murati in segreto? Eheeee.... no. E poi, sfidando il ridicolo, l'assassina diventa premurosa e le dice “Scappa e salva il tuo amico!” Ed eccoci al finale taralluccevinesco, con la ragazzina che diventa stilista con una sfilata di abiti bomboniera brutti come la morte e i fantasmi di mammà e Sandie che le sorridono da tutte le superfici riflettenti.

Il film era stato perfetto nel mostrarci la tragica storia di una povera ragazza finita nelle grinfie di una società maschilista e cattiva, nel farci vivere il suo inferno, e poi, con un finale fatto apposta per piacere alle attiviste del Metoo, il regista rovina maldestramente un film che era un vero e proprio gioiello assolutamente “femminista” già nei primi nove decimi di film.

Peccato, con un finale meno didascalicamente schierato e più logico, sarebbe stato un film praticamente perfetto.