domenica 22 novembre 2009

Evoluzione II,8.

Sono un bel po' di giorni che non curo il mio piccolo inutile blog e, anche se avessi avuto un qualche sparuto lettore, ormai si saranno arresi e saranno passati ad attività più utili e divertenti.
Bah! E chi se ne frega, basta che qui ci siamo io e te, mio caro, inesistente, Lettore, io qui che scrivo e tu lì, chissa dove, che leggi.
C'è una cosa che ho pensato in questi ultimi giorni, dopo aver visto in tv un programma sui due assassini di Erba, Olindo e Rosa, sapete, e dopo aver cominciato a leggere "I sommersi e i salvati" di Primo Levi.
Quello che ho cominciato a pensare, caro Lettore, quello che sto rimuginando, è quanto poco separi ognuno di noi dal commettere il Male assoluto, l'omicidio.
Secondo tutti gli esperti i due simpatici coniugi di Erba non sono affatto matti, cosa che penso anche io, ma sono solo un pochetto scentrati, parola non precisamente scientifica ma che rende bene il concetto.
Questi due strani tipi si sono trovati e si sono innamorati, formando tra loro un indissolubile connubbio in cui si sentivano sicuri e tranquilli, come piselli nel loro bacello, si potrebbe dire.
La famigli dei vicini, i Marzouk, erano per loro un'insopportabile fonte di disturbo e di stress, tanto che, dopo aver fatto causa ai "rumorosi" e "fastidiosi" vicini, si sono trovati per così dire costretti ad ucciderli tutti per proteggere il loro modus vivendi.
Ora, per chiunque è chiaro che un ragionamento simile è assolutamente folle e staccato dalla realtà, ma ora vi voglio proporre un quesito:
Allora, nessuno uccide per uccidere, forse solo i serial killer, ma a pensarci bene, come dice il dottor Lecter, l'assassinio e accessorio, loro desiderano; infatti il serial killer, autore degli omicidi più gratuiti, uccide in realtà per poter provare quel piacere che la sua mente malata gli impedisce di provare altrimenti.
Per quali altre ragioni si uccide?
Beh, per rubare; o per eliminare che ci ha visti fare qualcosa di sbagliato e potrebbe denunciarci; o per eliminare un concorrente in affari o in amore, anche se in questo caso si torna n realtà al primo caso, quello del furto; oppure perchè si è in guerra, per difendere il suolo natio e la Patria, rischiando la nostra vita per le nostre madri e le nostre sorelle; oppure, ed è il caso più ben visto, si uccide per llegittima difesa, cioè per salvare l nostra vita.
Ed eccoci al dunque. Se io infilo un pugnale di quindici centimetri nella pancia di un uomo e ce lo rigiro per bene, questo è un omicidio. Questo non può cambiare; però posso averlo fatto perchè quest'uomo stava mangiando l'ultimo gelato alla nocciola, e io volevo il gelato alla nocciola.
Oppure perchè stava rubando i gioielli di mia nonna, e io sono affezionato a mia nonna buonanima.
Oppure perchè ha il mio stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore e la sua morte, che sia avvenuta a casa sua o a casa mia, salverà il destino della mia Patria.
Oppure perchè quest'uomo stringendo le sue mani sul mio collo, mi sta strangolando e quello è l'unico modo di salvarmi la vita, e io ci tengo un bel po' alla mia vita.
L'atto è sempre lo stesso, e anche il motivo che me lo fa compiere: uccidendolo farò una cosa che migliorerà la mia condizione.
L'unica differenza sta nell'importanza del cambiamento, che va da praticamente nulla a totale.
E' l'educazione a dirci quando usare la violenza, è la nostra salute mentale a farcelo capire, è la propaganda che ci raggiunge a condizionarci in una direzione o nell'altra.
Che ne dite? Sono solo gli sproloqui di un deficiente? Oppure trovate che io abbia detto qualcosa che abbia un senso?
VOrrei però precisare che queste mie righe un po' sconclusionate non sono e non vogliono essere un invito o un incitamento ad uccidere, quindi se volete liberarvi di quella palla al piede di vostra suocera, primo non fatelo, secondo, se lo fate, non dite che vi ho incitati io.
E ora il nuovo capitolo:

VIII

Lu Ann Wilder parlava col dottor Teubner in portoghese, pensando che per i locali i loro dialoghi pronunciati con pesantissimi accenti tedeschi e inglesi dovevano essere esilaranti come le comiche degli anni Venti.
Con Suleiman aveva parlato in inglese, che lui parlava con uno strano e gradevole accento anglo-arabo, avendo studiato in Inghilterra.
Quello schifoso neonazista che era arrivato da due giorni e che chissà perché Teubner aveva accettato al ricovero come ospite, parlava inglese come la caricatura del soldato tedesco nei film di guerra e ora che quei tre si erano incontrati, si erano messi a parlare tra loro nell’unica lingua che condividevano, cioè il Francese, escludendola così dai loro discorsi. Dopo un po’ che stava lì a sentirli parlare come dei mangiarane uscì all’aperto a godersi l’aria finalmente fresca dopo una giornata in cui la temperatura aveva superato i quaranta gradi.
Suleiman le piaceva molto, anche se doveva avere almeno una decina di anni meno di lei. Erano sei mesi che non aveva un uomo, l’ultimo era stato Kevin Sanders, l’avvocato di famiglia.
Era un bell’uomo, ma non sapeva bene perché non la convinceva; era convinta che avesse sempre un doppio fine.
Scattò in piedi e dovette trattenere un urlo. Kevin Sanders non esisteva! Era solo il personaggio interpretato dal suo amico Michael, un attore omosessuale che conosceva da otto anni. Si ricordava bene, ora, delle risate che si erano fatti girando la scena di sesso, dovendo stare attenti a non mostrare tette o chiappe stando sempre sotto le lenzuola.
L’ultimo uomo con cui era stata era Jim, il giardiniere. Oppure si sbagliava e anche Jim era un amante di Madison Rockwell? Tentò di ricordare se le era piaciuto, se lo avevano fatto in casa sua o nella casa sulla spiaggia di Madison. Ma la casa sulla spiaggia di Madison era solo un po’ di pareti di compensato in un teatro di posa.
Piangeva tentando di ricordare il nome dell’attore che interpretava Jim, o se lui le aveva detto all’orecchio Lu Ann o Madison. Non riusciva a ricordare.
Si alzò e camminò fino al limitare dello spiazzo davanti all’ospedale, vicino alla foresta che non era per nulla illuminata dalla luna nel cielo. Il suo primo amore era stato Antony, un ragazzo italoamericano che aveva conosciuto in Colorado quando era andata a sciare con i suoi; aveva quindici anni allora. Ma se i suoi genitori non l’avevano mai portata a sciare, loro preferivano portarla in una fattoria a cavalcare.
Mugolò il suo dolore alla luna, sola in mezzo a un cortile al centro di una foresta, tentando di capire chi era, ma la luna non la poteva aiutare.

venerdì 13 novembre 2009

Evoluzione II,7.

Scusate il ritardo, ragazzi, ma non ho avuto tempo di curare il mio piccolo, fetido, inutile blog.
Per esempio ieri su la7 ho visto un meraviglioso documentario sul pericoloso mestiere dell'archeologo. Io faccio l'archeologo, non accrditato perchè non esiste un albo e nessuno ti dirà mai che sei un archeologo, è una cosa che devi sentirti da te, e posso giurarvi che non mi è mai crollata addosso una tomba e che non ho mai incontrato nessun faraone maledicente ( e se è per questo neanche nesuna archeologa stile Rachel Weisz che fosse la reincarnazione di un'antica egizia). L'unico pericolo per un archeologo è quello di rompersi le palle, essere sfruttato, prendere l'insolazione, morire di fame, farsi venire lividi su braccia e gambe spostando secchi pieni di terra.
E ora, miei cari, dopo questo mio antipatico e inutile sfogo, eccovi il capitolo 17 del mio romanzo incompiuto:

VII

L’androide tentò di alzarsi e cadde a terra senza neanche alzare le braccia per attutire la caduta; diede una bella facciata e si rimise poi a sedere facendo una specie di risata. – Penso che non sia andata troppo bene. – disse, mentre Elena gli si avvicinava e gli prendeva una mano nelle sue.
- Penso anche io che ci sia ancora da lavorare sul centro motorio del tuo computer. – disse accarezzandolo e sentendosi stupida perché sapeva benissimo che sul dorso delle mani non aveva sensori tattili.
- Signora Marina, pensa che riuscirà a ripararmi? – chiese con la consueta gentilezza il droide.
- Certo Sal, ancora qualche giorno di lavoro per me e di convalescenza per te e poi potrai andare a vivere con Elena. –
- Non vedo l’ora di andare a casa della signorina Elena, che mi tratta tanto bene e mi ha detto che mi insegnerà a curare il giardino. – disse il droide volgendo il viso a Elena e muovendo le sue rigide fattezze di plastica in uno sguardo da cocker.
Marina si sedette vicino a lui e gli disse: - E io non vedo l’ora che tu sia guarito perché mi hai salvato la vita e ti voglio far diventare il droide più felice del mondo. –
“ Se i droidi possono essere felici… - pensò Marina che cominciava a chiedersi se per caso Elena se lo volesse anche scopare quel vecchio rottame. – Ora puoi spegnerti Sal, riprendiamo domani. – disse e cominciò a riporre gli attrezzi che usava per riparare il droide che aveva pezzi un po’ di tutti i colori, come tutte le macchine aggiustate ricorrendo allo sfasciacarrozze.
- Si signora Marina. Arrivederci signora Elena, a domani. –
- A domani Sal. – disse Elena mentre il droide si sconnetteva e i suoi occhi si spegnevano.
- Come mai ci vuole tanto? Avevi detto che non era poi tanto lesionato. – le chiese Elena prendendo la borsa e infilandosi la giacca.
- Ci sono stati tanti danni nei banchi di memoria e in tutte le parti del computer che si sono salvate, sia a livello di hardware che di software. Più lo riparo e più ne scopro. Penso che ci vorrà almeno una settimana. –
- Ma ci pensi che se non lo avessi preso io lo avrebbero già portato alla demolizione? È così buono! –
- È solo la sua programmazione Elena, se io gliela cambiassi potrei renderlo odioso come una suora. –
- Non il mio Sal. – disse Elena accarezzando la calotta cranica del droide spento – Il mio Sal è buono di natura, ne ho avuto la prova durante la rapina. –
- Se lo dici tu. – disse Marina accompagnandola alla porta – A domani cara. –
- A domani. – disse Elena e andò via in bicicletta.
Marina la guardò allontanarsi e rientrò in casa. Attese qualche minuto per essere sicura che non tornasse e fece scattare un interruttore che lei stessa aveva posizionato sulla testa del droide. Sal si svegliò subito, ma parlò con un tono di voce diverso e si alzò in piedi senza problemi. – Ciao Marina. – disse con una voce che assomigliava tantissimo a quella di Enrico – Sei da sola? –
- Sì caro. – disse e baciò il droide, - Giornata dura? –
- Lo saprai appena ti metterai la coroncina dell’amore. – disse lui e rise, come stava facendo a venti chilometri di distanza Enrico chiuso nella sua stanza dentro all’ala top secret dell’IIT.
Lei si mise la coroncina e l’accese. Il suo trasmettitore che aveva un raggio di pochi metri si collegò a quello del droide che invece aveva una portata di chilometri e riusciva a raggiungere quello indossato da Enrico. Immediatamente i pensieri dei due si fusero con una facilità che non c’era stata le prime volte, sembrò quasi che la loro natura fosse quella di pensare insieme. Il droide si sedette su di una sedia immobile, e i due innamorati cominciarono a pensare uno nella mente dell’altro e a fare l’amore masturbandosi l’uno usando le mani dell’altro.
Dopo l’amore mangiarono, scambiandosi idee e sentimenti, ridendo di cose che solo uno dei due sapeva fino ad un istante prima, uniti in un modo che sembrava loro realizzare l’idea platonica dell’amore, due metà che si incontrano e si riuniscono finalmente in un intero.
Come sempre da quando avevano usato le coroncine la prima volta, dormirono collegati, perdendo un altro po’ di loro stessi.
È infatti nel sonno, sognando, che noi impariamo davvero, accettando dentro di noi quello che ci viene da fuori. Sognando uno i sogni dell’altro si scambiavano i ricordi fondendo le loro memorie in un guazzabuglio incomprensibile di notizie, come aveva scoperto troppo tardi Silvio Ferrero.
Ogni notte di più Enrico e Marina si perdevano in una nuova mente comune, senza neanche accorgersi di questa loro strana morte.

domenica 8 novembre 2009

Evoluzione II, 6.

Ecco il sedicesimo capitolo, belli, se esistete leggetelo, se no... Eh be', se non esistete il problema non si pone, no?

VI

Il sergente Giuseppe Salvi, un uomo alto un metro e ottanta e pesante ottantotto chili senza neanche un grammo di ciccia, era coricato su un letto con una di quelle ridicole camiciole da ospedale che per una qualche stramba ragione non si potevano chiudere sul culo. Di fronte a lui, su due letti simili stavano i suoi due amici, i caporali Mazzi e Sensini, ugualmente abbigliati.
Nelle loro braccia erano infilati gli aghi di tre flebo di soluzione salina arricchita di sali minerali e ferro, che avrebbero aiutato i loro corpi a rendere più facile la mutazione.
Dottori e infermiere avevano evidentemente una paura folle e anche il colonnello Mariani, quello che sembrava pronto a sparare alla propria madre per il Bene del Paese, quello la cui parte più umana era il braccio meccanico, sudava freddo e continuava ad asciugarsi le mani sui pantaloni.
- Allora signori… - disse loro un giovanotto sulla trentina che si stava evidentemente cacando addosso – adesso vi inietterò una soluzione contenente circa centomila microsonde, che in pochi istanti infetteranno il vostro organismo e cominceranno a moltiplicarsi. –
- E poi? – chiese Christian che non sembrava neanche lui troppo calmo.
- Poi…- disse il giovanotto interrompendosi per tossire – poi le sonde cominceranno a modificare i vostri corpi e i vostri cervelli, creando dei dispositivi atti a collegare le vostre cortecce cerebrali e i vostri corpi callosi gli uni con gli altri. Nel frattempo la vostra epidermide comincerà ad assumere una colorazione tendente al verde per la clorofilla, così che vi basterà bere e essere colpiti dalla luce solare per nutrirvi. –
- Fico! – disse Nicola con una faccia che però sembrava voler dire tutt’altro.
- E infine la vostra pelle diventerà molto più resistente, si piò dire come la pelle di un cinghiale, rendendovi molto meno vulnerabili. –
- Come sarà pensare tutti insieme? – chiese Beppe.
- Pensiamo che, essendo in tre, il computer centrale, che si trova nei sotterranei qua sotto, interverrà nei vostri pensieri per armonizzarli e renderli compatibili, quindi durante la connessione non sarà proprio corretto parlare di vostri pensieri individuali, ma sarebbe più giusto ipotizzare una mente unica, ma nel frattempo divisa in tre cervelli. –
- Ipotizzare? – disse Christian, - ma sapete cosa ci state facendo? –
- Si! – disse Mariani. – Il dottor Loi, cioè il giovane in camice bianco che vi ha appena spiegato cosa vi sta per accadere, ha testato questa tecnologia su cavie animali e su umani, tra cui lui stesso.
Lo stesso Loi ha collaborato col dottor Bertini utilizzando una prima versione di questa tecnologia. –
- Bene. – disse Beppe ben sapendo che come superiore in grado tra i tre doveva dare lui il buon esempio – E allora cosa aspettiamo? Via con l’iniezione! –
Un altro dottore, Bertini probabilmente pensò Beppe, prese il tubicino della sua flebo e vi iniettò il contenuto di una siringa da insulina. Per un minuto o due non successe nulla, poi sentì come un calore salirgli dal centro del petto, fino ad allargarsi alla punta delle dita.
- Sento un po’ caldo. – disse, poi sentì anche una specie di formicolio alle dita dei piedi, che si trasformò velocemente in un dolore acuto. – Sento male! – urlò mentre il dolore risaliva inarrestabile il suo corpo fino alla testa.
Urlò mentre il suo corpo si fletteva come un arco troppo teso sul letto, mentre gli elettrodi collegati al suo petto impazzivano fino a portare il monitor ad una linea piatta.
- Mio Dio! – urlò Enrico lanciandosi sul sergente aprendogli la camiciola sul petto – Lo sapevo che non dovevamo! – disse mentre cominciava un massaggio cardiaco. – Ecco cosa voleva scrivere Ferrero! – disse rivolto a Mariani che gli fece cenno di stare zitto.
Continuò il massaggio cardiaco mentre Bertini ungeva col gel le due piastre del defibrillatore, ma in quel momento il monitor ricominciò a battere un normale ritmo cardiaco e il sergente si svegliò tirando un grosso respiro.
- Mamma mia! – disse – Che dolore orrendo. –
- Come va? – gli chiese Loi con l’espressione di chi ha appena visto la morte passargli accanto.
- Bene. Bene direi, come se nulla fosse. – e si guardò le mani - Non sono verdi. –
- Dovrebbe volerci qualche minuto. – disse Enrico auscultandogli il cuore.
- E non sento neanche nulla di diverso nella mia testa. –
- Anche per quello ci vuole qualche minuto e poi non è collegato a nessun altro.
Non penso neanche che la attaccheremo a qualcuno, finchè non sapremo che cosa le è successo. – disse battendogli una mano sul braccio.
- Perché? – chiese Mariani – Mi sembra che il sergente stia benissimo. –
- Ma gli si era fermato il cuore! Non lo ha visto? Stava morendo! Non possiamo andare avanti con l’esperimento, non avremmo neanche dovuto cominciarlo! –
- Lei andrà avanti come previsto. – disse con voce calma Mariani, sempre che i signori caporali vogliano tenere fede agli impegni che hanno preso. –
Nicola e Christian, bianchi come stracci per lavare in terra, si guardarono deglutendo due o tre volte, poi dissero: - Se il sergente è d’accordo noi vorremmo procedere. –
Beppe, il cui colorito ora era effettivamente di una tonalità un po’ troppo grigiastra per essere naturale, li guardò negli occhi e annuì. Poi si passò una mano sulla testa rasata e si accorse che un piccolo spuntone metallico stava sbucando al centro del suo cranio. – Su ragazzi, via! –
Christian fece cenno di sì con la testa e tese il braccio con la flebo a Enrico che prese da un vassoio una seconda siringa e gli si avvicinò. Guardò con odio il colonnello e inietto il liquido nella flebo senza neanche guardare in faccia il caporale. Si allontanò di qualche passo e rimase in attesa guardando il monitor, dove il cuore di Christian continuava a battere tranquillamente il suo ritmo un po’ accelerato dalla paura.
Dopo circa due minuti e mezzo Christian cominciò ad agitarsi, dicendo di avere caldo e di sentire dolore. Anche lui urlò e si contorse sul letto, ma il suo cuore, pur essendo impazzito, non si fermò. Dopo meno di un minuto era tutto finito e si guardava intorno come chi è appena scampato ad un incidente.
- Tocca a me! – disse Nicola tendendo a sua volta il braccio verso Enrico. – Via il dente via il dolore! – borbottò mentre il liquido scendeva nel tubicino e gli entrava in circolo.
Anche per lui vennero il calore e il dolore, le fitte e la tachicardia. Ebbe anche lui un arresto cardiaco e anche lui si riprese da solo dopo meno di un minuto. Mentre tutti guardavano lui Beppe si accorse di vederlo da due angolazioni diverse. Si stupì e rise, sentendo il pensiero di Christian “ Che cazzo sta succedendo?”
“ Stai tranquillo!” pensò “siamo in collegamento.”
Risero insieme guardando Nicola che si passava una mano sulla faccia sudata e sentendo quanto la sua mano era fredda.
- Va tutto bene! – disse Beppe – Noi tre stiamo bene e siamo pronti per la nostra missione. – e tutti e tre scesero dal letto e scattarono sull’attenti di fronte a Mariani.
- Mio Dio! – disse sottovoce Enrico vedendo quei tre uomini con le loro piccole antenne in testa e la loro pelle di varie tonalità di verde che si muovevano all’unisono come gli storni quando volano in cielo. – Mio Dio che cosa abbiamo fatto! –

venerdì 6 novembre 2009

Evoluzione II,5.

Ciao ragazzi! Vi voglio segnalare una cosa divertentissima da leggere. Si trova sul Venerdì di Repubblica uscito oggi, ed è un raccontino di due paginette di Niccolò Ammaniti, penso che sia la prefazione del suo nuovo romanzo che è ora in edicola.
Andatevelo a leggere, è stupendo, racconta le avventure sue e del suo gruppetto di amici sfigati quando da piccoli andavano a giocare a Villa Ada. Sembra di leggere il King degli anni ottanta, quello di the Body o di It.
E ora, ecco a voi il capitolo quindicesimo della mia grande opera. Boom! Chi ride lassù in galleria?

V

Nel grosso capannone tre fabbri stavano lavorando con delle lamiere per sagomarle esattamente secondo i progetti disegnati da Daoud. L’aria era gonfia di martellate e i tre sentirono appena la voce di Daoud che gli urlava nelle orecchie: - Precisione assoluta ragazzi, deve essere preciso al millesimo di millimetro. – ma tanto sapevano già cosa aveva detto, erano due giorni che non gli diceva altro.
- Ma come cazzo funzionerà questo cassone? – chiese Pablo.
- Vedi Pablo – rispose – in quel barile giallo con il simbolo della radioattività che abbiamo sepolto nella botola qua fuori, ci sono due belle palle di uranio arricchito, una grossa e una piccola. Dentro alla bomba costruiremo una specie di canna di fucile e un’esplosione sparerà la palla piccola contro quella grossa a tutta velocità. –
- E allora? –
- E allora l’uranio è così denso e pesante che la palla piccola penetrerà in quella grossa fondendosi con essa ad una pressione assurda. Gli atomi si avvicineranno tanto, si chiama massa critica, che le radiazioni prodotte da uno potranno spaccarne degli altri, e così via in una velocissima catena di scissioni che produrranno più energia di un milione di tonnellate di tritolo, facendo esplodere la bomba e tutto quello che si troverà nel raggio di tre chilometri. –
- Cioè Torino. – disse Pablo.
- Torino e tutti i suoi abitanti. E tutti quelli che abitano nel raggio di otto chilometri moriranno per lo spostamento d’aria e il calore, e nel raggio di venti per le radiazioni. Puff! Un secondo di luce e due bei milioni di morti. – disse ridendo.
- Madre di Dio! – borbottò Pablo.
- È una guerra Pablo, e non l’ho cominciata io. Forse così finirà. – gli batté una mano sulla spalla e disse: - Su Pablo, non li uccidi mica tu. Voi volevate una tonnellata di oppio grezzo e noi volevamo un posto sicuro dove lavorare. Do ut des. –
- Cosa? –
- È latino. Vuol dire una cosa in cambio di un’altra. La regola d’oro del capitalismo. –
Pablo non rispose e guardò i tre fabbri che continuavano a martellare le loro lamiere e i due tecnici che collegavano un sacco di robe elettroniche a un computer portatile. Daoud lo vide deglutire e un po’ lo invidiò. Lui non riusciva più a provare terrore per il suo piano e questo era terribile.
- Va be’, mi sembra che il lavoro vada avanti anche senza di me ora. Prendo la jeep e vado a trovare quella bella americana per sapere se è una spia e ce lo abbiamo nel culo. – e si diresse alla porta.
- Daoud! – lo richiamò Pablo – Se non è una spia, buona scopata! – e rise.
Daoud, ma uscendo dal campo calava sulla sua personalità la maschera di Suleiman, saltò sulla Jeep scassata dell’oasi per le scimmie e uscì dal recinto del campo. Subito all’esterno cominciava la foresta, intricata di alberi e cespugli che potevano nascondere qualunque tipo di animale feroce; solo la stretta e fangosa cicatrice rossa della strada interrompeva il verde soffocante, una strada che era pattugliata da almeno una decina di uomini armati pronti a uccidere chi sembrasse pericoloso. Solo un pazzo avrebbe potuto tentare di attaccare il campo.
Il rombo del motore riusciva solo parzialmente a coprire i versi delle scimmie che saltavano da un albero all’altro tutto intorno a lui, e l’aria sotto gli alberi, pur se più fresca che sotto il sole al centro del loro cortile,era di un’umidità soffocante.
Dopo poco più di mezz’ora di strada arrivò all’ospedale del vecchio dottore tedesco. Scese dall’auto con in braccio un piccolo cebo che aveva portato per i bambini, sapendo quanto si sarebbero divertiti a vederlo saltare sui loro letti.
Entrò nella baracca che fungeva da sala d’aspetto e vide come si aspettava Lu Ann che parlava col vecchio dottor Teubner; quello che davvero non si aspettava era di trovare lì dentro anche il giovane skinhead che aveva viaggiato al suo fianco sull’aereo. Quello che era sicuro di avere già incontrato un’altra volta nella sua vita.

lunedì 2 novembre 2009

Evoluzione II,4.

E' in arrivo sul blog binario l'episodio quattordici del romanzo evoluzione. Chi vuole leggerlo è pregato di affrettarsi alle porte di entrata: Eccolo!

IV

Il grave problema di cui era stato avvertito con quella telefonata il colonnello Mariani, si era verificato solo una decina di minuti prima quando un giovane soldato incaricato di accompagnare a casa sua per prendere le sue cose il dottor Ferrero, aveva disobbedito agli ordini e lo aveva lasciato solo.
- Devo andare in bagno. – aveva detto Ferrero – Mi sento un po’ male. – e si era diretto verso la porta del bagno.
- Mi è stato ordinato di non lasciarla mai da solo. – disse il soldato che aveva l’espressione di chi non sa assolutamente cosa fare.
- Se vuole seguirmi anche nel cesso, - disse Ferrero con quella sua voce che suonava un po’ stridula in quel momento – entri subito, perché sto per farmela nei pantaloni. Però vorrei farle notare che siamo all’ottavo piano e qua dentro vedrebbe solo un uomo in preda ad un attacco di diarrea. – e lo guardò stando sulla porta.
- Va bene. – disse il soldato che era arrossito moltissimo, - Vada pure da solo, ma non chiuda a chiave e stia solo cinque minuti. Poi entro. –
- Tra cinque minuti sarò fuori da qui. – disse Ferrero, e chiuse la porta senza girare la chiave.
“ Quattro minuti e cinquantacinque.” pensò, abbassò rumorosamente la tavoletta del cesso per far credere al militare che stava davvero facendo quello che aveva detto e cominciò a spogliarsi. Prima la giacca, poi la camicia e infine la maglietta della pelle.
Si guardò allo specchio, esaminando i muscoli che esercitava con tanto impegno; aveva le spalle abbastanza larghe e il torace era di un’ampiezza accettabile. Fece una smorfia vedendo la grossa cicatrice all’interno dell’avambraccio sinistro e guardò con attenzione le cicatrici subito sotto ai capezzoli. Si passò le dita sui sottili e radi peli che gli erano cresciuti al centro del petto e pensò “ quattro minuti.”
Si calò i pantaloni e i boxer e non fu soddisfatto vedendo i fianchi larghi e le caviglie sottili. Le gambe, malgrado i muscoli e i peli continuavano a sembrare quelle di una donna. Prese in mano il pene che era stato costruito da un bravo chirurgo con quei tessuti tolti dal braccio e sorrise guardando quella goffa salsiccia di carne con dentro uno stantuffo per avere un’erezione che aveva avuto il coraggio di provare solo una volta con una sua amica lesbica che si era offerta volontaria.
“Tre minuti.” pensò accarezzandosi le palle di silicone che erano alloggiate in uno scroto ricavato dalle sue vecchie grandi labbra e fece un sorriso amaro pensando che non avrebbe mai saputo quale sia il dolore che si prova a prendere un calcio nelle palle. E neanche cosa si provi a venire spruzzando sperma. Il chirurgo era stato bravo e gli aveva collegato il nervo preso dal braccio al clitoride e si era masturbato tante volte stringendo in mano quella specie di wurstel di carne umana, una volta lo aveva usato anche dentro a quella sua amica, ma non aveva mai avuto un orgasmo maschile.
“ Due minuti.” pensò e prese in mano le forbicine che usava per tagliarsi le unghie. Si sedette a terra perché non voleva che il soldato lo sentisse cadere e entrasse prima del tempo per salvarlo. Infilò con decisione le lame delle forbici nel collo ai lati della giugulare e le chiuse.
Il getto di sangue arrivò fino sulla parete alla sua sinistra e sentì subito che la testa gli girava. Era nata femmina e aveva combattuto tutta la vita per diventare uomo, con delle sofferenze e dei segreti che erano solo suoi; non poteva permettere che qualcun altro se ne appropriasse e li pensasse nella sua testa. Morì così da uomo, seduto nudo in terra nel suo bagno, guardando quelle povere cose che aveva tanto sofferto per ottenere a differenza di tutti gli altri uomini che ci nascevano senza neanche rendersi conto della fortuna che avevano avuto.
“ Un minuto.” Pensò sapendo che sarebbe stato uno dei suoi ultimi pensieri, mentre il sangue non schizzava più dal suo collo, ma fluiva sempre meno abbondante sul suo torace. Fu allora che pensò a quello che gli aveva raccontato il giorno prima Loi e capì cosa non andava in quell’aneddoto. “…e così la mia amica Elena quel giorno è andata a fare pipì in mezzo ai cespugli, ma io avevo paura delle vipere e sono andato nel prato. E così alla fine lei la ha fatta con tutta calma e io, guarda, uno schifo, mi sono accucciato e mi è entrata l’erba dentro, uno schifo!”
Nella sua particolare situazione di uomo nato donna e rimasto tale fino a ventuno anni, Silvio non si era accorto della stranezza del racconto, ma ora, in punto di morte e avendo saputo dal colonnello che Loi e la moglie avevano usato il collegamento neurale per un qualche strambo gioco erotico, capì che gli effetti dall’unione di due menti erano irreversibili. Enrico non era più in grado di distinguere i propri ricordi da quelli della moglie.
Con la vista annebbiata, “A proposito, come mai c’era così buio?” pensò, intinse un dito nel lago di sangue in cui era seduto e scrisse sul muro “ Non usate la fusione, è pericolosa.”, ma il braccio cadde dopo le prime due lettere e il buio coprì tutto. Non sentì il soldato che bussava ed entrava e neanche l’urlo che rimbombò nella piccola stanza.