venerdì 30 ottobre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 3.

Terza puntata, forse meno pulp del solito, ma mica si può sgozzare un nemico ogni due righe, no? Buona lettura!

3

Un mese. Un mese di convalescenza, di esercizio, un mese di rincorsa per colpire meglio attaccando.
Quando, ancora ragazzino, era sceso dalla nave dei pirati in quella grande terra chiamata Ifriq, aveva visto degli animali simili ai cavalli. Erano erbivori e dovevano scappare a una miriade di predatori, ma a differenza di tutti gli altri erbivori non facevano nulla per mimetizzarsi con l’ambiente. Loro erano bianche e nere in una sconfinata pianura i cui colori andavano dal verde più tenue al giallo più brunito. Erano visibilissime, un vero pugno in un occhio.
Quando lo aveva fatto notare a Tito, l’uomo che era stato la cosa più simile a una figura paterna che avesse mai avuto, quel piccolo uomo così abbronzato da sembrare un pezzo di legno ricoperto dalla corteccia, aveva riso e gli aveva detto che non doveva guardare una zab da sola, ma doveva guardarle quando erano insieme, migliaia di zab che correvano insieme. E lui aveva aspettato e, quando un leone dai denti a sciabola si era avvicinato, le zab si erano riunite in un enorme branco e si erano messe a correre. E così Okaka aveva capito. Le zab si mimetizzavano come tutti gli altri erbivori, solo che si mimetizzavano da zab. Le loro ridicole righe bianche e nere, quando correvano in gruppo sollevando una nuvola di polvere, le rendevano indistinguibili una dall’altra e così i leoni dai denti a sciabola avevano enormi problemi a scegliere tra tutte una preda.
E così fece Okaka, il gigante nubiano passò quel mese a fare l’abitante di Dagshepan tra gli abitanti di Dagshepan, mangiò a dismisura il loro cibo, coltivò la loro terra e tirò i loro aratri, partecipò alle loro feste e ai loro riti e, quando capitò che gli si offrissero, giacque con le loro donne. E intanto si rinforzava e si preparava a combattere, mentre nella foresta che circondava il villaggio la sua amica non morta faceva lo stesso nutrendosi di animali selvaggi.
Poi una notte, pochi giorni prima dell’arrivo degli alti sacerdoti dei Bousi, sgattaiolò dalla pianura sfuggendo alla vista acuta e al fiuto dei cani da pastore che sorvegliavano il gregge e si addentrò nella foresta. Quasi subito un tremito nell’aria gli passò accanto e una bava di aria gelida gli percorse la schiena, poi qualcosa si mosse con incredibile velocità tra gli alberi e l’urlo lancinante di un cervo strappò la notte. Neanche una decina di respiri dopo Leka, ormai simile a una demone dal fascino letale, gli apparve accanto.
- Ciao piccola. – le disse.
- Ciao gigante. Vivi in uno strano posto, sai? –
- Perché, Leka? –
Lei guardò verso la pianura con gli occhi che fiammeggiavano nel buio, sorrise e poi disse: - Perché vivi tra un gregge di pecore che si stanno dirigendo tutte contente al macello. –
- Lo hai capito anche tu? –
- Io so delle cose, gigante, io vedo cose che tu non puoi nemmeno immaginare … quel monte avvolto da nubi là in fondo, quegli uomini che vedo andare su e giù per le sue pendici, io vedo cosa c’è dietro … morte. Morte e dolore. –
- Lo avevo già capito. Tra un paio di giorni farò in modo di andare lassù e potrebbe servirmi il tuo aiuto. –
Lei gli appoggiò una mano gelida sul braccio e disse: - Ci sarò e … mangerò a sazietà. Che squadra, eh? – e rise con un suono come di cristalli tintinnati che gli gelò il sangue nelle vene. Fino a quando avrebbe permesso a quella cosa di aggirarsi per il mondo succhiando sangue, fino a quando la ragazzina che era stata avrebbe nascosto ai suoi occhi la cosa che era diventata?
- Che brutti pensieri, gigante! – disse lei girandogli attorno con la velocità del vento – Pensavo che mi volessi bene! – e svanì nella notte lasciando dietro di sé solo quella strana risata.
Tornò alla pianura pieno di dubbi e fece molta fatica a ingannare uno dei mostri che si era avvicinato alla foresta là dove lui e Leka si erano incontrati, ma anni di combattimenti e agguati lo avevano forgiato come un’arma infallibile e riuscì a tornare sano e salvo alla capanna dei suoi amici senza che nessuno si fosse accorto della sua assenza.
Una delle donne della casa, una ragazza di forse sedici anni che ancora non aveva partorito e che era alta almeno un paio di dita più di lui, si infilò nel suo letto e il gigante nubiano pensò che fosse utile, nonché dilettevole, comportarsi da bravo maschio di Dagshepan, ma, mentre la donna dagli enormi seni si muoveva mugolando sopra di lui, i sacerdoti dei Bousi scendevano dal monte verso il villaggio. E, come Leka, vedevano cose che lui non poteva immaginare, e avevano visto lui.

mercoledì 28 ottobre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 2.

Seconda puntata della nuova e super pulp avventura del gigante nubiano Okaka. Vi ricordo che il nome il protagonista lo aveva avuto in onore del giocatore della Samp, ora nella Samp non c'è più, ma mica potevo cambiargli il nome in Muriel, no? Buona lettura!

2

Gli dissero in seguito che era rimasto privo di sensi per tre giorni, ma quando esaminò le sue ferite si rese conto che un uomo normale sarebbe semplicemente morto nelle sue condizioni. Presto una nuova cicatrice rosta avrebbe percorso il suo enorme petto color dell’ebano, ma oramai da anni aveva smesso di contarle.
Comunque passarono alcuni giorni prima che riuscisse ad alzarsi in piedi, e fu forse una decina di giorni dopo il suo arrivo che uscì dalla capanna delle brave persone che lo avevano accolto e curato.
Per un paio di giorni fece una vita da vecchietto, a letto fino a tardi e poi a letto preso la sera, un passeggiata con un bastone al pomeriggio e un bel po’ di tempo seduto a guardare il mondo che si muoveva intorno a lui. Fu strano per un essere che era più azione che altro come lui, ma fu anche interessante.
La gente che abitava in quella enorme pianura era la più strana che avesse mai incontrato, e aveva avuto a che fare con uomini scimmia cannibali una vota su un’isola nel Mare dei Mostri, ma questi li battevano di un bel po’. L’ultima volta che aveva misurato la sua altezza, e aveva solo 14 anni all’epoca, era alto sette piedi. Solo una volta aveva incontrato un uomo più alto di lui, ed era un povero disgraziato che sembrava tenuto in piedi dai vestiti e che si appendeva miseramente ad un bastone per non cadere quando c’era una bava di vento.
Qui a Dagshepan, questo era il nome del loro paese, almeno la metà degli uomini era più alta di lui e il più basso che aveva incontrato era alto solo un paio di dita meno di sei piedi e mezzo. E le donne? Le donne erano alte almeno sei piedi, tutte, e un paio erano alte esattamente come lui. Erano tutti grandi e grossi, con spalle larghe e, le donne, fianchi robusti e seni enormi. Gli uomini coltivavano la terra senza dei buoi che tirassero l’aratro, perché erano loro a tirarlo. Ecco, quegli uomini erano effettivamente forti come dei buoi.
Ogni donna aveva almeno un paio di figli, sembravano esserci solo coppie di gemelli, ma di solito ogni donna sembrava avere almeno tre coppie di figli, e tutti i bambini erano cicciottelli e alti per la loro età.
La pianura era totalmente coltivata a frumento, legumi e verdure e la terra sembrava la più grassa e fertile che mai fosse stata zappata da mani umane. Tutto intorno alla radura stava la foresta infestata da quei mostri e nulla, non un muro e nemmeno una palizzata, separava quella terra benedetta dall’abbondanza da quell’oscura selva da cui arrivavano ringhi e fischi così acuti da perforare le nubi. A difesa di Dagshepan non c’erano fortificazioni, fossati o soldati, no, c’erano solo quegli enormi animali bianchi alla cui famigli apparteneva l’essere che lo aveva trovato prima che perdesse i sensi.
Sembravano essere una versione bianca, buona e pacioccona, di quegli esseri spaventosi che abitavano nella foresta, una specie di uccello predatore alto circa dieci piedi, dal muso simile a quello di un coccodrillo e con delle dita artigliate molto robuste sulle ali. Venivano chiamati Critton e giravano per tutto il giorno avanti e indietro, controllando la foresta e correndo là dove si era sentito un verso di un loro simile non addomesticato, si coricavano nei momenti di calma a prendere il sole lungo i sentieri e lasciavano che i bambini giocassero salendo addosso alle loro groppe. Erano come degli enormi cagnoloni, solo più brutti.
Già alla seconda giornata di passeggiate e riposini sulla panchina il gigante nubiano aveva capito alcune cose. Quelle persone erano forti ma lente, buone e gentili ma irrimediabilmente stupide, e avevano una stranissima composizione riguardo alla popolazione.
Si era accorto quasi subito che non c’erano vecchi. I più anziani sembravano avere quarant’anni o giù di lì, ed erano donne che avevano ancora i figli da allattare. Gli uomini adulti erano pochi, forse un quarto delle donne e le famiglie erano formate invariabilmente da un marito e quattro mogli. I bambini erano maschi e femmine, metà e meta come è naturale,e così era fino ai diciassettenni, ma dai diciotto anni in poi tre quarti dei maschi sparivano.
Fu solo quando si era ormai ripreso quasi del tutto che capì la cosa che gli ronzava in testa da un po’. Fu quando sentì un urlo agghiacciante arrivare dal bosco a non più di mezzo migliaio di passi da lui. Conosceva quel verso, la bestia che lui aveva ferito a morte aveva gridato proprio così. Dopo l’urlo della bestia morente aveva sentito una risata che conosceva bene, la risata cristallina di Leka. Appena la risata arrivò al suo orecchio un terzetto di animali corse facendo tremare la terra nella direzione del grido. “Sembrano cani da pastore che hanno sentito un lupo.” pensò e di colpo si rese conto che tra sé e sé aveva già paragonato gli uomini del posto a dei buoi e le donne, grandi, prosperose e sempre intente ad allattare dei figli ciccioni, a delle vacche. Dagshepan, quella terra benedetta dall’abbondanza, era un allevamento. Quegli animali, i critton, erano messi a guardia del gregge da un padrone che poi, di questo gregge, doveva in qualche modo nutrirsi. E la cosa doveva andare avanti da un bel po’, considerando come quegli umani fossero stati selezionati per bene per diventare ottime e mansuete bestie da carne.
Il padrone, il mangiatore di carne umana, doveva evidentemente vivere sulla montagna che sorgeva al centro della pianura e la cui cima, dove sorgeva secondo i suoi ospiti la sacra e inavvicinabile fortezza di Qasrdag-nor sempre nascosta dalle nubi in tempesta.
Secondo quella povera gente là vivevano gli dei Bou-si, quelli che avevano salvato, innumerevoli generazioni prima, i loro antenati che si erano persi nella foresta venendo decimati dai mostri, e là, presso gli dei, andavano ogni trimestre i prescelti, giovani uomini e persone in là con gli anni, per godere in eterno delle gioie del Paradiso.
Là, su quel monte perso tra le nubi, sarebbe presto salito anche lui, perché voleva proprio incontrare questi famosi Bou-si e i loro sacerdoti che, secondo i suoi amici, sarebbero arrivati tra loro di lì a un mese.

martedì 27 ottobre 2015

Gli dei di Dagshepan.

Prima di tutto, vorrei porgere le mie scuse a chi avesse cominciato a leggere Berserker. Quella storia, come un torrente dopo la pioggia, pareva scorrere rigogliosa e gorgogliante, ma si è presto inaridita. Chi lo sa, magari un giorno mi tornerà in mente e la continuerò.

Oggi però comincia una nuova storia del gigante nubiano, il guerriero Okaka che già avete potuto conoscere ne "I cinghiali di Marit". La nuova storia mi è già abbastanza chiara in mente e quindi, malgrado la mia patetica incostanza, dovrei riuscire a finirla in pochi giorni.
Comunque, eccovi la prima puntata che, naturalmente è pulp, molto pulp, pure troppo!

GLI DEI DI DAGSHEPAN

1

Quel ramo del lago che volgeva a meridione aveva portato Okaka fino a una foresta che, dopo nemmeno un’ora che vi era entrato, era diventata fitta e buia come le foreste che avvolgono il sognatore in quegli incubi in cui un qualcosa di orribile sta per saltarti addosso e tu non riesci a muoverti.
Continuò ad andare a sud, malgrado la luce che passava attraverso alle fronde fosse così debole e diffusa da rendergli impossibile capire in quale direzione si trovasse il sole. Il gigante nubiano tentò di capire dove fosse il nord nel modo che gli avevano insegnato da bambino, guardando su quale lato dei tronchi crescesse il muschio, ma l’ombra e l’umidità erano così compatte e onnipresenti in quell’intrico di alberi plurisecolari che il muschio non cresceva solo su ogni lato dei tronchi, ma muschi più giovani crescevano come viscide escrescenze sul muschio più antico.
Continuò a camminare per ore, con i moscerini che ininterrottamente lo pungevano per succhiargli il sangue dalla nera pelle sudata. Dopo un po’ smise di scacciarli agitando la mano e li lasciò fare. Poi, il sole doveva essere probabilmente oramai molto basso sull’orizzonte, si accorse che tutto si era quietato intorno a lui. Niente fruscii di serpi o schiocchi di merli intorno a lui, nessuno scoiattolo rosicchiava noci diverse braccia sopra alla sua testa, nessun cinghiale dai denti ritorti correva lontano al rumore dei suoi passi. Silenzio, totale e innaturale silenzio, solo il rumore dei suoi piedi che schiacciavano il molle terriccio ricoperto dalle foglie marce. Continuò a camminare guardandosi intorno nella foresta di secondo in secondo più buio, la sua lama di ossidiana ora stretta in mano e gli occhi spalancati nel buio per notare anche il minimo movimento.
Avrebbe voluto vedere vicino a sé, come spesso capitava, il baluginare della presenza di Leka, la sua compagna non morta che ovunque lo accompagnava combattendo con lui i nemici peggiori, ma da qualche giorno la ragazzina defunta tra le sue braccia alcuni mesi prima sembrava essersi offesa ed evitarlo quando poteva. L’aveva ferita quando aveva aggredito quella vecchia per succhiarle il sangue, nel villaggio a un paio di giorni di cammino alle sue spalle, ma non era la prima volta che litigavano quando la fame di lei diventava troppo forte in assenza di nemici da distruggere.
Era sopravvissuto fino a quasi trenta primavere senza di lei e avrebbe continuato a farlo malgrado la sua malcelata rabbia. Si fermò ruotando su sé stesso e finalmente, le pupille dilatate come quelle di una civetta nel buio, intravide una forma che gli si avvicinava passando tra i tronchi squamosi. Era alto più di lui, il doppio di un uomo adulto, imponente e con gli occhi illuminati dall’interno da un lampo di maligna luce rossa. Fece finta di non averlo visto e rilassò totalmente i muscoli della schiena e del braccio. Era più facile scattare dopo essersi lasciato andare a un attimo di riposo. E poi la bestia attaccò.
Fu velocissima, un attimo il gigante nubiano la vedeva a una ventina di passi da lui e il momento dopo gli stava saltando addosso da un’altezza simile al tetto di una capanna. Si lasciò cadere terra e rotolò sul fianco con la lama stretta per il suo manico di corno di olifante e evitò per meno di un capello la zampata dell’animale. Aveva zampe da uccello, ricoperte di scaglie e con un grande artiglio centrale, affilato come una lama di ossidiana. Fece scattare la sua mano e inflisse un enorme squarcio su quella zampa; la bestia gridò facendogli sanguinare le orecchie da tanto acuto fu il suono, poi si rivolse verso di lui e lo aggredì con le zampe anteriori che, muovendosi contro di lui, fecero il rumore delle vele sbattute dal vento. Doveva avere le penne, come un’aquila enorme dotata di mani artigliate. Una zampa lo afferrò squarciandogli un pettorale dalla spalla allo sterno, ma il nubiano ignorò il dolore e conficcò la sua lama nel petto muscoloso dell’animale. Un altro grido, più forte e stridulo del primo, artigliò le tenebre della notte e, intorno a loro, almeno otto grandi animali fuggirono via lamentandosi. Erano un branco di predatori e lui aveva ucciso l’avanguardia dell’attacco. Si alzò a sedere incombendo sull’animale morente che respirava gorgogliando e guaendo e, per rispetto per un prode cacciatore, lo sgozzò interrompendo la sua agonia. Poi, con il sangue che sgorgava nero dal collo squarciato, si coprì il volto, il petto e le braccia. Così, sperava, gli altri animali si sarebbero tenuti lontani. E poi, mentre si fasciava il petto e la spalla con una fascia di stoffa ricoperta di un unguento medicamentoso a base di bava di pipistrello delle grotte di Roan-Ahan, vide una luce baluginare nella foschia davanti a lui.
Si incamminò zoppicando, era stato colpito anche alla gamba destra dall’animale e solo ora, calata la furia del guerriero, se ne accorgeva, e, superati due enormi alberi, si trovò tra i cespugli di rovi che contornavano quella che sembrava una sconfinata pianura punteggiata da case. Una di queste case illuminate da torce era a non più di trecento passi da lui. Si incamminò verso quell’abitazione che sembrava indifesa così vicina a quel branco di predatori mostruosi, quando nella luce della luna calante una figura bianca ed enorme gli si avvicinò. Era simile a quello che lo aveva attaccato, ma il suo odore era più gentile e le sue piume, lunghe e morbide, erano bianche invece che brunastre e tigrate. Il grosso muso da coccodrillo con gli occhi da aquila si abbassò su di lui e la bestia, che aveva un collare di cuoio, lo annuso, poi lanciò un fischio e dalla casa uscirono delle persone che cominciarono a correre verso di lui. Fu in quel momento che la perdita di sangue dalla grossa ferita lo indebolì così tanto da fargli perdere i sensi. E così, addormentato e appoggiato su una lettiga, Okaka entrò nella strana terra di Dagshepan.