giovedì 14 dicembre 2017

E oggi per voi il terzo candidato!

Come promesso, eccovi il terzo moncone di romanzo, buona lettura e votate, votate, votate! (sono 18.000 parole, è un po' lunghino!)

“Mai così tanto fu dovuto a così pochi.”
Winston Churchill.


Ci sono momenti che cambiano il corso di una vita, lo sappiamo tutti, no?
Molti anni fa, all’università, il mio migliore amico mi disse che andava a un colloquio di lavoro a una multinazionale dei trasporti marittimi e mi chiese se volevo andare anch’io; pensai che non sapevamo le lingue, non sapevamo “bene” le lingue, se mi capite, che studiavamo lettere antiche e che non avevamo un curriculum adatto e gli risposi di no. Logico, direi. E ora lui è un quadro di quella grande azienda, è sposato con una splendida donna e ha un meraviglioso bambino. Io … nessuna di queste cose.
Anni dopo mio nonno ebbe dei problemi di salute, aveva 85 anni, e che cavolo, e dato che non avevo nulla da fare, nulla di redditizio da fare avendo risposto no alla domanda del mio amico anni prima, andai a vivere da lui lassù in paese per non farlo stare solo e ricordargli che medicine prendere. E così quel simpatico vecchietto ebbe qualcuno a cui raccontare le sue assurde storie dei tempi della Guerra, si capiva da come pronunciava la parola che ci voleva la maiuscola, e io ebbi un sacco di assurde e divertentissime storie da ascoltare.
Per essere onesti mio nonno non ci stava più tanto con la testa, come ho già detto aveva 85 anni, e non è che dessi tanto peso al fatto che quello che raccontava non stesse né in cielo né in terra. La maggior parte delle volte i nomi dei suoi compagni d’arme, diceva così, cambiavano da un giorno all’altro e avvenimenti accaduti il martedì sul monte su a nord finivano per accadere il giovedì nella vallata a sud.
Raccontava queste corbellerie, parola che già secoli fa definì l’Orlando Furioso, a me e a chi gli passava accanto, e tutti mi dicevano che già da giovane era famoso per essere un incredibile contaballe. Però era bello ascoltarlo, una volta che si fosse superata la barriera dei termini dialettali con cui condiva i suoi sproloqui era davvero bello e interessante. Non ho mai creduto a nessuna parola che fosse uscita da quella boccaccia sdentata, naturalmente.
Poi peggiorò, l’unico cambiamento prevedibile quando dagli 85 anni navighi velocemente verso i 90, credo. Cominciò a ridere meno, quando raccontava dei nazisti dell’Ahnenerbe e dei suoi amici partigiani, si vedeva che aveva paura, che si trasformava in molta paura quando calava la notte. Eh sì, non furono molto belli per lui quegli ultimi due anni, anche se io gli stavo vicino e lo aiutavo a fare l’orto e a stare dietro alle galline.
E poi morì, la fine è nota, no? Morì e io rimasi in questa vecchia casa che pensai di trasformare in un agriturismo. L’ho fatto, nei mesi estivi e in quelli con clima decente in primavera e autunno mi dà da vivere, d’inverno ci sto da solo. Parlo un po’ di lingue, non bene ma tanto da farmi capire, e mi piace conoscere gente nuova, quasi quanto mi piace starmene da solo quando fuori la neve copre tutto di un manto bianco che pare nascondere il resto del mondo.
Ed è proprio quando c’era la neve che è successo, c’è stato un altro di quei momenti che vi dicevo prima, uno di quelli che cambiano il corso di una vita.
Stavo leggendo Repubblica, un articolo su un processo a un vecchio nazista, sembrano immortali quei bastardi, non so se lo avete notato. Era un nazista strano, ammetteva le sue colpe e chiedeva scusa per i suoi crimini. E quel nazista disse una frase, era all’incirca così: - E quel giorno capii di essere finito nella parte sbagliata dell’Inferno. – mi bloccai col giornale in mano, in mezzo alla stanza surriscaldata dalla stufa a legna. Mio nonno la diceva sempre, a un certo punto dei suoi racconti diceva sempre che aveva capito di essere finito nella parte sbagliata dell’Inferno.
Mi vennero dei dubbi, mi vennero delle curiosità, e nulla prude più di un dubbio infiocchettato di curiosità. Cercai vecchi giornali, cercai negli schedari dell’epoca, cercai nel cimitero. Molte cose che aveva detto mio nonno erano vere. Allora cercai altro, andai nei boschi a cercare di trovare i luoghi di cui mi aveva parlato, io e il mio cagnetto in mezzo ai boschi rinsecchiti dall’inverno, e molte cose c’erano. Cose che era normale trovare, cose che era strano trovare e cose che assolutamente uno non dovrebbe trovare, non nel mondo reale, almeno.
Trovai la vecchia colonia, un rudere ormai, trovai le celle, trovai i laboratori, trovai le gabbie e trovai degli schedari mezzi bruciati in cui molti documenti erano ancora leggibili. Documenti più folli dei racconti di un vecchio in stato confusionale.
Viaggiai un po’, in quella stagione potevo, trovai persone descritte dal nonno e le convinsi a parlare. È facile far parlare i vecchi, nessuno li ascolta mai e basta fargli capire che si vuole starli ad ascoltare e loro partono in quarta. Non tutti confermarono quanto detto dal nonno, alcuni sì, però. Gli altri probabilmente non volevano passare per matti oppure avevano passato tutta la loro vita a dirsi che erano solo ricordi sbagliati, sogni presi per verità, follie giovanili.
Ricostruii le parti mancanti, un po’ a Roma, un po’ ad Amburgo, un po’ a Tel Aviv. Tutto tornava.
E poi, tornato a casa, cercai le ultime cose. Trovai la tomba, so scavare una tomba, è il lavoro che ho studiato, trovare e scavare vecchie tombe, e dentro … dentro c’era qualcosa che non dovrebbe esistere. E poi mi feci coraggio e andai a cercarli. Sapevo dove andare, in mezzo a quei boschi che nessuno cura più da settanta anni, su per vallate travolte da frane e incuria. Fu un viaggio lungo e difficile, rischiai di farmi male, rischiai di cadere giù per un baratro e delle pietre franarono giù a pochi metri da me. Ma andai avanti, vallata dopo vallata, crinale dopo crinale. E … e li trovai.
Vidi dove vivevano, li vidi da lontano, li sentii parlare. E tornai a casa senza disturbarli.

Cosa avevo in mano? Storie assurde? I vaneggiamenti di alcuni vecchietti? Dei macchinari in rovina e una fossa piena di cose troppo strane per essere vere? E infine dei poveracci dimenticati dal mondo?
Non avevo nulla in mano, se non una storia. Dei pezzi di storia, con più buchi che pieni. E allora farò l’unica cosa che si può fare con una storia, raccontarla inventando dove manca un pezzo.
Eccola.


I

1

Il puzzo era così forte da sembrare una parete solida che li respingeva. Chiese ai suoi due accompagnatori di fermarsi e scese dal fuoristrada per vomitare. Per fortuna aveva mangiato da molte ore e sputò solo un po’ di bava; i due SS sorridevano e sembravano non accorgersi di quella nuvola invisibile di fetore che li avvolgeva, ma si fermarono accanto a lui e gli diedero una sigaretta dicendo che forse lo avrebbe aiutato ad abituarsi. Seduto a terra con la schiena appoggiata alla portiera del fuoristrada ricordò che anche Virgilio faceva fermare per un po’ Dante dietro ad un sarcofago per dargli tempo di abituarsi all’odore dell’Inferno. Aveva sentito delle storie sui Campi e su quello che era in realtà la soluzione finale di cui parlava il Fuhrer, storie brutte, troppo orrende per crederci, ma quell’odore … Come diceva Dante? “Ecco comincian le dolenti note …” era un verso all’inizio dell’Inferno se la memoria lo aiutava.
- Ora va meglio. – disse anche se non era vero, ma non voleva fare la figura della femminuccia davanti a quei due SS. Risalì sul fuoristrada e vide quell’enorme Lager avvicinarsi nell’aria caliginosa di quell’inizio di autunno. C’era un grosso cancello di ferro, con una scritta sopra. Non diceva “Lasciate ogni Speranza o voi ch’entrate”, no. Se le storie che aveva sentito erano vere, quel “Il lavoro rende liberi” era peggio della scritta di Dante, era anche una presa in giro. Quanta gente aveva mandato lì da quando era cominciata la Guerra? Duemila? Tremila? Di più? Ingoiò una boccata di fumo mentre quella puzza gli entrava fin dentro il cervello e guardò quel filo di fumo nerastro che si alzava da una ciminiera un po’ distante. Un velo di cenere grigia e soffice copriva tutto, l’erba, gli alberi, le garitte delle guardie.
Quando entrarono i due SS lo guidarono verso la baracca del comandante, lo lasciarono fuori e poi tornarono da lui ignorandolo. Un capitano della Wermacht evidentemente non era al loro livello e non meritava di parlare in prima persona.
Suonò una sirena, un suono lugubre e poi, all’improvviso, una specie di stridio di cicale gli rispose. Non erano cicale, le cicale non marciano. Girarono dietro all’angolo della baracca e le vide, le cicale destinate a morire dopo una stagione. I loro sandali di legno facevano quello strano suono, centomila sandali di legno sbattuti in terra come scarponi militari.
Per un attimo pensò che avrebbe urlato, avrebbe urlato così forte da svegliare i morti e poi sarebbe fuggito via. Scheletri ricoperti da pelle grigiastra, luridi pigiami a righe appoggiati a corpi che li riempivano meno di grucce in un armadio. I loro occhi, spenti, occhi di morti che sono obbligati a camminare. Un ufficiale della Wermacht non urla, non fugge. Rimase fermo, sull’attenti, zitto, mentre il comandante e i due SS parlavano e ridacchiavano come se davanti a loro ci fosse stato un paesaggio noioso.
Un attendente portò un voluminoso schedario e il comandante cominciò a scorrere l’elenco di nomi col dito guantato. A ogni nome che passava faceva come un piccolo schiocco con la lingua, poi girava una pagina e guardava con attenzione i nomi seguenti. Nomi seguiti da numeri, date, numeri di matricola, annotazioni. Disse all’attendente un numero e quello corse a dirlo a una persona dentro a un ufficio.
L’altoparlante gracchiò una o due volte, poi una voce stentorea urlò un numero. -542768 - disse.
Per qualche istante non successe nulla, poi uno di quei morti viventi fece un passo avanti, un suo simile un po’ più in carne si mosse marziale verso di lui, gli esaminò il pigiama e il braccio e lo trascinò davanti a loro.
Eccolo, l’uomo che lo avrebbe aiutato a prendere l’assassino dei suoi uomini. Ecco il medium.

2

Quel giorno, come accadeva molto spesso, l’appello durò di più. Non sembrava mancare nessuno, non sembrava che nessuno fosse in disordine, si erano mossi a tempo ed erano arrivati tutti lì nel piazzale in maniera ordinata. Eppure l’appello non finiva. La cosa buona era che non era inverno e non era estate, in una bella giornata d’autunno non era poi così male starsene in piedi al sole visto che le nuvole continuavano a passare avanti e indietro facendo ombra. Non era male a parte il dolore ai piedi, naturalmente.
E poi, dopo forse tre quarti d’ora, non portando l’orologio dal 1941 faceva fatica a capire queste sottigliezze, arrivò la ragione del ritardo. Due SS, due ufficiali, accompagnati da un ufficiale della Wermacht che sembrava guardarsi intorno all’incirca come Dante all’Inferno. Era da un po’ che lui non reagiva più così a quello che si trovava davanti, all’incirca dal 1941.
Comunque l’ufficiale delle SS più alto si avvicinò al capitano del Lager e gli parlò, quello prese uno schedario e scorse col dito indice un elenco di nomi. Là in mezzo c’era il suo nome che nessuno diceva più da quando Helena e Sarah erano morte, nel 1941. Il capitano lesse, rilesse, indico all’SS un punto e poi scandì un numero. Un attendente corse in un ufficio e subito dopo l’altoparlante gracchiò il 542768. 542768? E che volevano quei tre da lui? Fece un passo avanti prima che il capitano dovesse ripetere il suo numero e aspettò. Un kapò gli si avvicinò, controllò il numero sulla giacca e sul braccio e, afferratolo con violenza per la spalla lo trascinò davanti ai quattro ufficiali; cadde quasi in terra quando lo lasciò andare, si era molto indebolito lavorando al sole in quell’estate, sicuramente prima di Natale avrebbe raggiunto Helena e Sarah là nel fumo sopra al camino.
- Ecco l’haftelinge 542768! – urlò marziale il kapò e ritornò nei ranghi. Lui rimase lì in attesa, che fossero parole, legnate o una pistolettata in fronte tanto non avrebbe potuto evitarle.
- Shimon Kastorp? – gli chiese l’SS più basso e lui per un attimo molto lungo non rispose. Quello era stato il suo nome fino al 1941, ma da due anni non lo era più.
- Sei Shimon Kastorp, giudeo? – gli chiese di nuovo a una tonalità molto più alta.
- Sissignore, sono Shimon Kastorp, signore. –
- Vieni con noi. – gli disse l’SS più alto e lui li seguì dentro la baracca del capitano. Lo fecero entrare e si sedettero, i due SS, il capitano e l’ufficiale della Wermacht, che ancora non aveva parlato e sembrava essere sul punto di soffocare per la puzza che ammorbava il lager. Anche lui si ricordava di averla sentita nei primi tre giorni lì, in effetti. Si sedettero e rimase una sedia libera, una sedia … era dal 1941 che non si sedeva su una vera sedia, l’ultima volta aveva tenuto in braccio Sarah.
- Siediti, Shimon! – gli disse l’SS alto.
Si sedette facendo un fracasso spaventoso con le gambe della sedia sul pavimento. – Scusate. – disse col fare servile che aveva imparato lì al secondo giorno di internamento, ma loro sembravano non essersi accorti del rumore.
- Vuole dell’acqua, signor Kastorp? - gli chiese l’ufficiale.
- Cosa? – signore? Non stava bene quell’uomo, lui non era il signor Kastorp, era 542768. – Sì, grazie. – gli rispose e quello gli riempì un bicchiere di vetro con acqua così fresca che lo appannò. Lo prese e la bevve talmente in fretta da farsi venire una fitta di mal di testa al centro delle fronte.
- Quest’uomo ha bisogno di mangiare qualcosa. – disse allora l’ufficiale sollevandogli la manica e controllando il suo braccio. Lo aveva avuto così sottile intorno ai sette anni, probabilmente.
- Non siamo qui per dare da mangiare ai Giudei. – disse l’SS basso, ma l’ufficiale della Wermacht disse: - Io ho fame e voglio che quest’uomo mangi. - “Uomo”, che bello, sicuramente lo avrebbero ucciso, ma lo avevano chiamato uomo.
Portarono dello stufato pieno di patate e rape e gliene versarono una grossa razione in un vero piatto e lo poté mangiare con un vero cucchiaio. E poi pulì il piatto con del pane bianco. Si sforzò per non piangere davanti a loro.
Quando ebbero finito lo stufato il giovane ufficiale disse che voleva un caffè e fu molto chiaro nel far capire due caffè. E così gli portarono una tazza di caffè che era una brodaglia orrenda, lui era vissuto a Trieste e sapeva bene cos’era un caffè, ma lo bevve e si perse quasi in quel gusto. Il caffè è una bevanda da uomini liberi, non da bestie o ubermensch.
Alla fine l’ufficiale si accese una sigaretta e gliene offrì una, ma lui rispose: - Non fumo, signore, grazie. – e pensò che era impazzito, a una domanda si risponde sempre sì, un’offerta si accetta sempre anche se ti offrono di mangiare una cacca di cane, il no non esiste; ecco l’effetto di essere chiamati signore e di aver bevuto un caffè.
- Bene, dicono che faccia molto male in effetti. – gli disse e inspirò sorridendo. Poi lo guardò e disse: - Signor Kastorp, i nostri due amici delle SS mi dicono che lei è l’uomo che può aiutarmi, ma io non lo so. Lei è un medium? –
Un medium? Era un medium lui? Da due anni a questa parte era una bestia da soma, un bue grasso prima dell’ingrassamento, un asino carico di tronchi che aspetta solo che una zampa gli ceda per essere ammazzato a legnate dal suo padrone. Ma anni prima, quando aveva avuto un nome e una famiglia, effettivamente era stato un medium. Annuì.
- Signor Kastorp, mi intenda, io sono venuto qui con un viaggio di tre giorni in treno, e ho un problema vero. Io so che lei faceva il medium, conoscevo il suo nome, ma quello che voglio sapere è se lei è realmente un medium o se non fosse piuttosto un prestigiatore o illusionista molto bravo a ingannare le persone. – gli disse continuando a fumare ma stando attentissimo a non sputargli il fumo in faccia.
Shimon ci pensò un attimo e la sua vita gli passò davanti agli occhi. – Nossignore, non sono un illusionista e non sono un truffatore. Io i poteri li avevo davvero. –
- Li aveva? –
- Sono due anni che non esercito. – gli disse evitando di dire che era molto difficile toccare gli altri e vedere qualcosa di diverso da famiglie perdute, torture subite e morti imminenti. Quando sai già tutto di un altro non puoi prevedere nulla.
- Va bene, signor Kastorp. Ora le darò alcuni oggetti e lei li toccherà. Funziona così il suo potere, no? –
- Sissignore, tocco degli oggetti e so qualcosa dei loro possessori. Quasi sempre.-
- Bene. Ecco il primo. – disse e poggiò sul tavolo una fiaschetta da liquore che tirò fuori da una borsa piena di roba. Shimon la prese e se la rigirò tra le mani, sentì una musica, un cane che abbaiava, degli spari, puzza di mostarda e odore di disinfettante, e poi gli sembrò di accarezzare la testa di un bambino. E terra, terra e alberi che frusciavano nel vento. – Questa fiaschetta l’aveva suo padre in guerra, fu contaminato dall’iprite e rimase cieco per qualche giorno, tornò a casa in Baviera e visse con la famiglia in campagna. È morto ed è sepolto sotto a una quercia. –
L’ufficiale lo guardò quasi spaventato e anche i due SS e il capitano del lager sembrarono stupirsi con lui. Poi l’ufficiale gli diede un’altra fiaschetta molto più rovinata, arrugginita, ammaccata, sporca di terra. lui la toccò e disse: - L’operaio che l’ha fatta beve troppo e pensa che la moglie lo tradisca. Lei invece l’ha comprata tre giorni fa e l’ha presa a pietrate e l’ha sporcata per fare questa prova. –
L’ufficiale sorrise, poi infilò la mano nella borsa e tirò fuori una serie di oggetti. Il primo era un portafoglio di cuoio, sporco e rotto. Glielo poggiò di fronte e aspettò.
Shimon sapeva che qualcosa non andava in quel portafoglio, come in tutte quegli altri oggetti posati in ordine davanti a lui, lo sapeva come lo aveva saputo la volta che gli avevano fatto toccare il coltello con cui era stata uccisa la donna che appariva come spettro nel castello dove era stato nove anni prima in Austria, e sapeva che come quella volta avrebbe visto in modo più chiaro delle solite visioni confuse.
Ma neanche lui era pronto a vedere in quella maniera. Tutto a un tratto Shimon smise di essere lì in quel pigiama e fu un altro da un’altra parte. Appena toccò quel portafogli fu …

3

Fu … era di nuovo di turno a fare la guardia per tutta la notte. Di guardia, di notte, in un pidocchioso paesucolo della Transilvania che era da considerare Patria Tedesca perché abitato da Sassoni. E se erano Tedeschi, ‘sti Sassoni, perché parlavano a quella maniera? Su trecento che erano ce ne erano due che riuscivano a parlare in tedesco, il prete e il borgomastro, o come cavolo si chiamava il sindaco lì tra i monti.
Transilvania! A dire il vero lui pensava che se lo fosse inventato Stoker per Dracula quel nome, non aveva mica capito che si svolgeva in un posto davvero esistente quel romanzo.
Che poi … ecco, da solo, di notte, con la luna piena alta nel cielo, in Transilvania e circondato da casette che sembravano la scenografia di un film dell’orrore come li facevano in America prima della Guerra, quelli con Frankenstein che alla fine bruciava nel mulino inseguito dai villici, casette di legno sbilenche alle sue spalle e una foresta di abeti lugubri e striminziti davanti, pensare a Dracula non era una grande idea.
Si appoggiò al muro della sua garitta e si accese una sigaretta. Se non si sbagliava le facevano con sempre meno tabacco, sembrava di fumarsi la carta da sola.
La luna splendeva per davvero, alla faccia che luce che faceva. Si vedeva tutto come se fosse stato disegnato a china, i pipistrelli che volavano afferrando al volo le zanzare, i topi che sgattaiolavano lungo i bordi dei muri, un cinghiale che, solo per un attimo, aveva fatto capolino tra due alberi a un centinaio di metri da lui. Non era poi così male starsene lì da solo, poteva pensare e far finta di essere ancora giù in Baviera e di stare per andare a bersi una birra coi suoi amici. Altro che la guerra e gli ufficiali, altro che il Reich millenario e lo spazio vitale. Lui voleva starsene a casa, con i suoi amici, con Helga, in negozio con papà a vendere zappe e rastrelli e piantine di cavolo.
Un rumore lo strappò a queste piacevoli fantasie e lo fece ripiombare nella sua scomoda divisa troppo pesante per la temperatura ancora estiva di quell’inizio di autunno. Qualcuno stava camminando tra le case a pochi metri da lui. Voleva vedere chi era e se stava andando a incontrare qualcuno, non lo avrebbe fermato.
Si nascose dentro alla garitta in totale silenzio e la vide. Era una ragazza, aveva un nome tipo Alana, Elena, qualcosa così … stava camminando silenziosamente, ma … barcollava? Stava male? E perché usciva dal paese se stava male? Il dottore viveva a una cinquantina di metri da lì, era in paese quella sera. Forse avrebbe dovuto aiutarla. O no? non barcollava più, camminava spedita, anche se ogni tanto si fermava e si massaggiava le gambe come se avesse avuto continui crampi. Che stranezza. Gli passò praticamente davanti ma non lo vide. Era distratta, si guardava intorno e sembrava annusare l’aria.
Poi la vide accelerare, arrivò a una trentina di metri da lui e, all’improvviso, emise una specie di gemito. Aveva sentito sua madre gemere così, quando aveva partorito Hanna. Poi la ragazza prese il suo vestito e se lo sfilò dalla testa. Era nuda. Nella luce della luna fu uno spettacolo inaspettato e conturbante, anche se per i suoi gusti era un filino troppo robusta. Poi, lanciato il vestito in un cespuglio, corse verso gli alberi.
Rimase colpito, quasi tramortito, l’ultima donna nuda che aveva visto era stata quella prostituta polacca al bordello tre mesi prima. Chiuse gli occhi e tentò di ricordare quel corpo pallido nella luce nitida della luna, i glutei e la schiena muscolosi, i seni leggeri che si muovevano al ritmo del suo passo, i capelli sciolti sulla schiena che alla luce della luna sembravano d’argento.
E di nuovo, come pochi minuti prima, fu un rumore di passi a strapparlo alle sue fantasie. Conosceva il rumore di quei passi, scarponi dell’esercito. Tre soldati, gli sembrava. Passarono davanti a lui sghignazzando, così infoiati per quello che volevano fare da non pensare che se c’era una garitta doveva esserci anche un guardiano. Cosa volessero fare a quella povera pazzoide era chiaro, erano l’esercito occupante, erano tre e pure armati e lei era una bella ragazza nuda nel bosco.
Doveva avere l’età di Hanna quella ragazza, non avrebbe permesso che la toccassero, quei porci, camerati o non camerati che fossero. Lasciò il suo posto e li seguì col fucile in mano, quando dal bosco dove erano scomparsi seguendola arrivò un urlo pieno di orrore e dolore, sembrava la voce della ragazza, ma stravolta così tanto da non essere quasi riconoscibile. Accelerò il passo ed era già alle porte del bosco quando arrivarono le altre grida. Grida di uomini, grida in tedesco. Si fermò un attimo e poi, sudato di un sudore gelido e puzzolente di paura, entrò tra gli alberi dove il buio era quasi solido.

4

Da ragazzo aveva visto su un libro una serie di foto, primi piani di un attore, in un bianco e nero estremamente nitido, foto in cui l’attore faceva le varie espressioni modificando i suoi lineamenti in maniera straordinaria. Ecco, a quello aveva pensato vedendo Kastorp che prendeva in mano il portafoglio del caporale Hans Scheuble, la faccia magra e ossuta dell’internato era sembrata per un breve istante della plastilina calda, i suoi lineamenti si erano mossi come acqua di un ruscello e poi, improvvisamente, pur essendo rimasti esattamente uguali a se stessi, si erano trasformati in una qualche maniera in quelli di Scheuble. Anche la sua voce era cambiata, era passato dal suo accento austriaco a quella pesante cadenza bavarese che tanto bene lui aveva conosciuto in quegli anni di guerra.
Poi Kastorp finì di parlare e, dopo aver detto “… solido” rimase per un attimo fermo. Sembrava come spento, gli occhi spenti come uno che sta morendo di sonno. La sua mano destra, posato delicatamente in terra il portafoglio sembrò muoversi come animata da vita propria verso il secondo oggetto, un accendino di metallo che era appartenuto a Theodor Erickson, e una volta che lo ebbe afferrato si trasformò di nuovo. In un attimo aveva l’atteggiamento, l’espressione e la voce di quell’odioso soldato che gli aveva causato tanti problemi in ogni singolo posto dove erano stati. Disse:
“L’avevamo seguita per un bel po’, quella troietta, stavamo bevendo in una locanda dove servivano una specie di birra che sapeva di piscio e il mio amico Peter, lui sì che è forte, a un certo punto mi dà di gomito e mi indica, fuori dalla porta in quella stradina fangose e pidocchiosa, quella ragazzetta che avevamo già visto in giro nel pomeriggio. Era sola, girava per strada di notte, quella troietta, e sembrava ubriaca, o qualcosa di simile. Mi piace farmi le ragazze ubriache, è più difficile che poi il giorno dopo si ricordino la mia faccia e mi indichino a un padre armato di fucile.
E così usciamo da quella locanda lasciando sul tavolo qualche marco e cominciamo a seguirla in silenzio. Parlava da sola, la fighetta, si lamentava e agitava le braccia come per scacciare delle mosche, poi si grattava come se fosse stata piena di pulci. E chi se ne frega delle pulci, cazzo, di certo non mi avrebbero fermato. E così la seguiamo per quella rognosissime stradine deserte illuminate dalla luna e ridacchiamo in silenzio pregustando la cavalcata che stiamo per farci, no, ed ecco che quella povera puttana arriva alla fine del paese, si ferma un attimo come per un crampo e poi, ancora non ci credo, è andata camminando a passo veloce verso il bosco e, mentre camminava, si è tolta il vestito. Era nuda, nuda come mamma l’aveva fatta.
Le siamo corsi dietro senza più preoccuparci di essere sentiti, oramai eravamo fuori dal paese e anche se avesse urlato … con i nostri fucili potevamo tranquillamente gestire lei e un paio di quegli zotici. Ci siamo infilati tra gli alberi e per un attimo ci siamo fermati, il buio era come una parete dipinta di nero, continuammo a passo più lento e poi, qualche decina di metri davanti a noi, intravedemmo una specie di radura illuminata dalla luce della luna.
La ragazza era inginocchiata in terra, con le mani appoggiate tra le foglie secche. Mugolava, si lamentava, qualcosa così. Gettai a terra il fucile e mi avvicinai a lei slacciandomi la cintura, ero davvero eccitato, non so se mi capite, c’avevo una Grande Berta nei pantaloni …” disse ridendo e poi riprese con uno sguardo feroce sul volto “ … e quando le arrivo accanto questa tizia si gira e …” e qui la faccia di Kastorp divenne una maschera di terrore che fece accapponare la pelle all’ufficiale che lo stava ad ascoltare con molta attenzione “ … e quando si gira … i suoi occhi erano lampi gialli, con le pupille verticali come un gatto. E fa un urlo come da animale e si mette in piedi, solo che non era una donna … cioè, lo era ma non lo era più. Stava cambiando davanti a i miei occhi, sentivo stridere le sue ossa mentre cambiava forma e poi, nel tempo di un battito di ciglia, quella bestia orrenda mi si è scagliata addosso e ho sentito i suoi artigli che mi aprivano il petto e la faccia.”
E poi … fu con un sudore gelato sulla schiena che l’ufficiale vide la mano di Kastorp andare alla medaglietta che avevano trovato stretta tra le dita di Theodor la mattina dopo quella maledetta notte di luna piena in cui lui aveva perso quattro uomini in quella maniera indegna. La medaglietta doveva appartenere alla ragazza. L’uomo prese la medaglietta e parve come gonfiarsi, per un attimo sembrò essere un abito che qualcosa, qualcosa di non umano, stava indossando. I suoi lineamenti furono totalmente stravolti e scattò in piedi lanciandosi contro di loro con le mani simili ad artigli. Stava ringhiando, ruggendo anzi, come un leone, e fu allora che l’SS più alto lo colpì alla tempia col calcio del fucile.
L’uomo cadde a terra con la faccia coperta di sangue e la medaglietta gli sfuggì di mano. Era solo un uomo quasi morto di fame adesso, uno scheletro a malapena ricoperto di pelle.
- Direi che è l’uomo che cercavamo. – disse l’SS parlando al suo camerata ignorando platealmente l’ufficiale, poi si girò verso il comandante del Campo e disse: - Lui viene con noi. – e solo dopo, voltandosi verso di lui, disse: - E anche lei, capitano, ci servirà anche lei. –

5

Lo portarono in una stanza vicino alla baracca del comandante e gli lasciarono fare una doccia. Acqua calda, sapone, un asciugamano. Si lavò e per un po’ riuscì quasi a dimenticarsi il dolore allo zigomo. Per un breve attimo gli sembrò di essere di nuovo un uomo. Si asciugò e questi gesti così normali, così borghesi, gli fecero notare cosa era diventato il suo corpo. Era uno scheletro pallido, con la pancia un po’ gonfia perché si può dimagrire quanto si vuole, ma l’intestino non cambia il suo volume. Persino i piedi erano rinsecchiti, oltre che ricoperti da piaghe per il contatto con quegli orrendi sandali di legno.
Si rivestì con degli abiti che gli avevano lasciato lì, abiti di altre persone che adesso erano nel campo, o in pigiama o sotto forma di cenere grigia. Si vestì con cura, scegliendo i vestiti che gli stavano meglio. Alla fine sembrava quasi un uomo normale, magari un uomo che i dottori stanno per mandare in un sanatorio sulle montagne come accadeva anni prima.
Uscì dalla baracca e vide i due SS e l’ufficiale della Wermacht; i due non lo guardarono neanche, l’ufficiale invece gli fece un cenno col capo e poi tornò ad avere la stessa espressione stravolta di prima. Il suo spettacolino con quegli oggetti lo aveva scioccato più del Campo di concentramento, ma ora l’ambiente mortifero che li circondava sembrava stare facendo di nuovo presa su di lui.
- Vieni, giudeo! – disse l’SS alto e lo precedette verso la macchina. Era stato nel ’41 che era andato in auto per l’ultima volta, in taxi a trovare sua madre. Era morta nel ’42, glielo avevano fatto sapere in qualche modo dei conoscenti.
Salì in macchina dietro, vicino all’ufficiale che sembrava più vecchio di dieci anni rispetto a quando era entrato. Partirono ed arrivarono al cancello, lo varcarono e lesse la scritta in ferro battuto che lo sovrastava. “Il lavoro rende liberi” diceva.
In effetti il suo lavoro lo stava rendendo libero, da internato era diventato adesso un importante collaboratore per una missione segreta. A segnalare il suo essere ebreo c’era solo una fascia sul braccio con la stella a sei punte. Respirò a pieni polmoni allontanandosi dal Campo, notando che l’odore di centomila persone moribonde riunite insieme in pochi chilometri quadri era molto simile a quello dell’allevamento di maiali che stava anni prima vicino alla casa di suo nonno. In effetti era quello che facevano in quel posto, trasformavano uomini in animali e poi quegli animali li macellavano. Era per rendere le cose più semplici ai macellatori, una intera vita civile avrebbe reso loro difficile la macellazione di esseri umani, ma di animali …
E come un animale aveva vissuto per due anni, cercando cibo nei rifiuti, sopportando, anzi no, ignorando le botte, sorvolando sulla morte della sua famiglia come una gatta non piange i suoi micini ammazzati da un’inondazione.
Allontanandosi dal Lager assaporò l’umanità insita nella sua nuova situazione e tremò al pensiero di quando, leniti i dolori e la fame, il dolore per quanto accaduto lo avrebbe investito con tutta l’enormità del suo orrore. E fu allora, mentre il fuoristrada si allontanava così tanto dal Lager da essere uscito dall’orbita del suo odore, che ricordò finalmente per bene le visioni che aveva avuto toccando quegli oggetti.
Le prime due visioni erano state una cosa mai provata, era diventato davvero un’altra persona, aveva smesso di essere sé stesso ed era stato altro, ma l’ultima … quello che era entrato in lui era … quello era perdere la propria umanità, quello era diventare un animale. E verso quello lo stavano portando i suoi nuovi “compagni”. Si girò indietro a guardare quella sterminata pianura e, per quanto sembri impossibile, pianse all’idea di allontanarsi da quel luogo di morte. Quello verso cui stava andando era, semplicemente, peggiore.

II

1

La sera prima, mentre poltriva nel letto alla luce di una candela massaggiandosi i suoi nuovi calli sul palmo delle mani, aveva pensato che quella era senza dubbio la quiete prima della tempesta.
Il 10 settembre era partito da Genova e col treno era arrivato più nell’interno che poteva, poi aveva preso una corriera e infine era arrivato fin lì a piedi. In paese lo avevano accolto bene, erano già arrivati prima di lui altri ragazzi fuggiti dalla città e altri ne erano arrivati dopo. In definitiva, dopo un mese e mezzo, in quel paesino di sì e no centotrenta abitanti, c’erano nascosti in bella vista una ventina di sedicenti partigiani. Erano fuggiti per non essere arruolati nella Repubblica di Salò, erano fuggiti perché oppositori politici, erano fuggiti per desiderio di avventura, ma fino ad allora, fino a quel 20 ottobre, l’unica cosa che avevano trovato era stata una pace irreale ma ristorante, tra gente pacifica e ospitale che li aveva accettati; forse li avevano accettati perché quasi tutti i giovani erano via, in guerra o prigionieri di Inglesi o Russi e una quarantina di braccia di giovanotti facevano molto comodo nei campi, ma comunque li avevano accolti.
Lui viveva in casa del Bartolo, un vecchio con tre denti in bocca che beveva mirabolanti quantità di vino finendo per cantare canzoni di inarrivabile volgarità ogni sera che veniva in terra. Il figlio di Bartolo era stato catturato a El Alamein nel ’42 e qualche volta ce l’aveva fatta a scrivere al padre per dirgli, misericordiosamente, che stava bene e che lo trattavano ancora meglio. Bugie pietose, si capiva, in un campo di prigionia nel Corno d’Africa … trattato bene? Ma va’!, ma il vecchio ci credeva, o voleva crederci, e lui di certo non lo avrebbe disilluso. Comunque mentre il buon caporale Bacigalupo faceva le sabbiature a spese di sua Maestà Giorgio VI Ettore dormiva nella sua stanza e faceva il suo lavoro nei campi, nel bosco e tra i filari di vite appollaiati lassù sul costone della montagna che sovrastava il paese.
Comunque, pensava la sera prima dopo essere andato a letto con le galline così stanco da non riuscire nemmeno a leggere un paio di pagine del suo adorato “La linea d’ombra”, quella era una quiete irreale. Erano scappati dai fascisti fin lassù, erano scappati dalla guerra in quei pochissimi giorni in cui si era bloccata, ma prima o poi, senza dubbio molto più prima che poi, la guerra li avrebbe raggiunti. E si era addormentato godendosi la pace di quel momento di tregua.
E quella mattina, alle dieci e mezza, in piedi su un costone di roccia e intento ad impilare ciocchi di legno sulla schiena di un povero mulo che era stato chiamato Adolf da Bartolo perché dargli una legnata fosse almeno un po’ divertente, Ettore vide arrivare la tempesta che avrebbe ammazzato la quiete. Mentre andava via, quella noiosa quiete, la rimpiangeva già. Dieci camion tedeschi, alcune moto con sidecar, un paio di fuoristrada. Un’ottantina di soldati, più o meno, e dei prigionieri, se non vedeva male. E, malgrado grazie alla sua miopia si fosse risparmiato l’arruolamento e la guerra, con addosso i suoi occhiali non vedeva affatto male. Vicino a lui c’era un cavo d’acciaio che stava appeso tra il monte e la piazza del paese, una funivia che nessuno usava mai perché erano più comodi i muli. Prese il ciocco di legno che avevano tinto appositamente di rosso, lo agganciò al cavo e lo spinse giù. Sarebbe arrivato in fondo almeno un’ora prima dei crucchi, e solo una quarantina di minuti prima di lui, se si sbrigava a scendere.
Salutò Bartolo che lo abbracciò singhiozzando e corse giù per il sentiero di pietre allisciate dal passaggio di generazioni millenarie di contadini e boscaioli. Aveva poco tempo per prendere le sue cose, qualche abito, un paio di coperte, due o tre libri e il fucile da caccia di papà. E poi sarebbe tornato su, verso quelle capanne che se ne stavano sul monte in un altopiano stretto e lungo che nella maggior parte dei casi era nascosto dalle nuvole basse. Lì sarebbe cominciata la vera lotta della loro Resistenza.
Non dirò che scese correndo tanto da rischiare l’osso del collo, ma poco ci mancava; arrivò in trentotto minuti, era un record rispetto alle volte che l’aveva fatta velocemente come prova, e così aveva un paio di minuti in più. Sembra poco, sì, ma è la differenza tra uscire di corsa e dare un’ultima occhiata alla propria ex stanza per accorgersi di aver lasciato sul comodino la custodia degli occhiali.
Comunque tutti gli altri ragazzi erano già partiti, per andare alla pianetta si saliva da un’altra parte e quindi non li aveva incontrati, e lui doveva essere l’ultimo. E, se non si fosse sbrigato, sarebbe stato anche il primo a finire tra le grinfie dei Crucchi. Maledetti Crucchi, quanto li odiava. Entrò in casa del Bartolo, prese lo zaino da montagna di papà, lo riempì con le sue, poche, cose e respirò per l’ultima volta l’odore di una casa. Lassù, a trovare posto, avrebbe avuto per tetto un insieme scombinato di tegole di legno e per pareti dei tronchi mezzi marci per i decenni di pioggia. Uscì a passo veloce e prese per il sentiero che passava dietro al negozio della Mirella.
- Ciao Ettore. – gli disse lei riportando in casa la bandiera rossa che suo marito Emiliano, come Zapata se non lo avevate capito, aveva inastato vicino alla porta appena era caduto il Duce. Meglio metterla via, eh sì.
- Ciao Mirella; spero di rivederla presto. – ma non è che ci sperasse poi ‘sto gran che, pensava che almeno un paio di stagioni le avrebbe dovute passare lontane dal paese a soffrire il freddo, la fame e a schivare i proiettili di quei maledetti.
- Speriamo, Ettore. – gli disse e gli mise in mano una caciotta stagionata e una bella forma di pane dalla crosta dura e marrone. Era gentile, cavolo, non è che il cibo abbondasse per nessuno in quel novembre del ’43.
- Grazie Mirella. – le disse abbracciandola con il braccio libero e poi, prima di mettersi a piangere come un bambino, si incamminò lasciandola alla sua opera di rifascistizzazione del negozio.
Girò per la stretta viuzza lastricata con ciottoli del torrente, salutò un paio di contadini che, imperturbabili e impermeabili ai cambiamenti umani come l’arrivo di un esercito invasore, stavano zappettando l’orto intorno ai cavoli tardivi. Poi scavalcò il ponticello a schiena d’asino e si trovò nel bosco. Per un centinaio di metri si andava in piano, poi cominciava la salita. Lì era, se aveva calcolato bene, a 400 metri sul livello del mare, ma la cosiddetta Pianetta era a circa mille e duecento metri. Sarebbe arrivato morto, più o meno.
Aggiustandosi lo zaino che gli stava segando una spalla e cominciando a pensare se fosse il caso di tagliarsi già una bella fetta di caciotta per sbafarsela in mezzo a due fettone di pane, vide qualcuno davanti a sé. Miriam, la ragazza torinese. Lui era lì per scelta, per combattere per il Bene, come amava pensare vergognandosi subito per l’ingenuità di una frase così infantile, ma lei era lì per salvarsi la pelle. Miriam Levi non era un nome bello da portare in un’Italia occupata dai nazisti, o almeno non lo era se non volevi vincere un viaggio premio verso i famigerati Campi di cui si vociferava a mezza voce da un po’ stupendosi delle enormità che sembravano avvenire là tra Germania e Polonia.
- A bella! – le disse raggiungendola e notando come la poverina, un metro e cinquantotto con le scarpe e quarantasei chili con i vestiti invernali addosso, oscillasse sotto al peso del suo zaino e del sacco che portava passandolo continuamente da una mano all’altra.
- Ettore! – gli disse lei fermandosi e sorridendo. Bella non era, non tanto almeno da notarla per prima se avesse girato per strada insieme a un gruppo di amiche, ma quando sorrideva ti apriva il cuore. – Pensavo di essere l’ultima. –
- Ero su col Bartolo a caricare il povero Adolf, li ho visti io gli stronzi. –
- E quanti sono? –
Una pietosa bugia? O la crudele realtà? Sempre meglio la realtà, almeno poi non si rimane delusi dopo. – Tanti Miriam, un’ottantina almeno, con camion, fuoristrada e moto col sidecar. –
Il bel sorriso della ragazza si spense e le sue sopracciglia si piegarono all’ingiù come quelle di un cocker. Un’ottantina di persone che non vedevano l’ora di accopparti non erano certo una bella cosina da sentirsi annunciare. Doveva distrarla, cavolo, che cavaliere del belino sarebbe stato se no? – Dammi un po’ quel sacco e prendi questo pane e ‘sta caciotta. – le disse.
Lei obbedì e lo guardò mentre camminavano su per la salita. Aspettava altre indicazioni? – Nella tasca della mia giacca, la tasca destra, attenta che taglia. –
Lei gli infilò la mano in tasca e tirò fuori il suo coltello dalla lama intaccata. – Due belle fette di pane e un bel po’ di formaggio, se non le dispiace, Madama. –
Lei riuscì a fare tutto continuando a camminare e, strano a dirsi, non fece nemmeno cadere nulla a terra, e, dopo avergli dato il panino, si servì a sua volta. Continuarono a salire in silenzio, mangiando quella meraviglia di merenda che forse era così buona solo perché condita col miglior condimento dai tempi dell’antica Sparta, la fame. Poi, quando ormai erano all’altezza del colle su cui fianco meridionale sorgeva il paesetto dove avevano vissuto fino ad allora, a nemmeno un terzo della salita quindi, lei volle riprendersi il suo sacco e cominciarono a camminare l’uno di fianco all’altro, in silenzio, presi dai loro tristi pensieri. Era guerra ormai, la tregua era solo un ricordo che sbiadiva sempre di più.


2

In un mondo perfetto, in una storia perfetta, in un momento delicato e importante come la fuga dai nazisti tutto sarebbe stato serio, drammatico, accompagnato da musica d’organo in un’ipotetica colonna sonora. Ma la vita non è perfetta, le persone non sono perfette e quello che ci accade è se va bene casuale. E così, quando finalmente Ettore e Miriam arrivarono, sudati come lottatori di sumo, in cima al monte sulla famigerata Pianetta, non trovarono una nuova Utopia, una Città del sole abitata da illuminati combattenti per il bene e la libertà, ma una ventina scarsa di giovanotti incazzati che litigavano per accaparrarsi i posti migliori urlando come pescivendoli.
Ettore e Miriam li sentirono litigare già da una ventina di metri sotto, chiedendosi tra l’altro se quelle voci alterate potessero arrivare fino giù dove già i Tedeschi dovevano aver cominciato a sistemarsi in paese. Poi, una volta sbucati dal sentiero sullo stretto pianoro, capirono subito che sarebbe stata una missione davvero disperata trovare un buco dove dormire. Forse, almeno lei che era una donna, avrebbero potuto lasciarle un posto a lei, no?, pensava Ettore, ma quando provarono ad avvicinarsi alla capanna più grande un tizio non troppo alto ma dalle braccia muscolose come uno scaricatore di porto li accolse dando una bella spinta a Ettore.
- Ma che cazzo fai? – gli chiese Ettore più stupito che arrabbiato, ma poi, vedendo lo sguardo del piccoletto nerboruto pensò bene di non continuare a parlare e di allontanarsi con la povera Miriam che sembrava sull’orlo delle lacrime. Si allontanarono dalla massa urlante di giovani eroi della Resistenza che non stavano dando un bello spettacolo di sé e si guardarono intorno. Sulla destra, dopo un grande castagno, c’era un sentiero che sembrava salire più in alto. Lo imboccarono e, dopo qualche minuto, sbucarono su una specie di valletta artificiale tenuta su da un muro a secco. Sarà stata al massimo trenta metri per cinque, una specie di corridoio che dava da un lato su una parete di roccia ricoperta di muschi e felci e dall’altra sullo strapiombo, ma a una sua estremità c’era una piccola capanna dal tetto di tegole rosse ingrigite dai licheni che sembrava stare su grazie alla loro speranza più che per la robustezza delle travi.
- Lo hai mai visto quel film? – le chiese lui.
- Quello in cui un omone vede Charlot come un pollo arrosto che cammina? – gli rispose lei appoggiando in terra la sacca e tirandone fuori due mele. Una la diede a lui e si misero a mangiarla in silenzio guardando quella catapecchia tutta fessure e spifferi e pensarono che quella sarebbe stata la loro casa, evidentemente.
- “Casa dolce casa” come si suol dire. – disse Ettore.
- Se lo dici tu, Ettore. – e si infilarono nella stamberga cominciando a posare le loro cose. C’erano un lettino e un pagliericcio, e lui, da gentiluomo, le lasciò il letto. Poi, vedendo quello che avevano intorno e ricordando la scena della lite una trentina di metri sotto a loro, fecero una cosa che sembrò loro impossibile. Scoppiarono a ridere. E risero a lungo, per fortuna, risero a lungo.

3

Nisus erat portae custos, acerrimus armis. Niso era di guardia alla porta, minacciosissimo con addosso le sue armi, traducendo a memoria. Con queste parole, se si ricordava bene, Virgilio introduceva nell’Eneide il personaggio di Niso, quello che con Eurialo si infiltrava nottetempo nell’accampamento dei Rutuli di Turno. Eurialo e Niso erano un calco di Ulisse e Diomede nell’Iliade ed erano poi serviti come modello per Cloridano e Medoro nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. Ecco quello che lui sapeva di missioni segrete, infiltrazioni in campo avverso, spionaggio e raccolta informazioni: pagine di libri vecchi di secoli, pagine di libri scritti in versi.
E ora, al chiaro di una luna che sarebbe stata piena di lì a due notti e che, tra i rami coperti ancora da rade foglie e mossi dal vento capriccioso di quella notte fredda, sembrava fare buio con quelle chiazze di ombra in movimento più che rischiarargli la strada, lui, Ettore Parodi di Genova, nome di battaglia Bimbo, stava scendendo giù dalla sua scomoda ma abbastanza sicura catapecchia che divideva con quella sagoma di Miriam, per andare a vedere con i suoi occhi cosa stessero facendo i crucchi giù in paese, scoprire perché avessero requisito e attrezzato per i loro scopi il vecchio sanatorio vicino a Santa Lucia, riallacciare i contatti con i loro collaboratori giù in paese, la Quinta Colonna li avevano definiti quei tre scemi, recuperare un po’ di vettovaglie e tornare su all’alba per ragguagliare il soviet.
Naturalmente tutte queste assurde parole non erano farina del suo sacco. Piuttosto che dire ragguagliare avrebbe baciato il culo di Adolf, come gli veniva anche da ridere a sentire parlare di soviet. Soviet? Ma che cavolo! Era antifascista lui, e certo che lo era! Era liberale lui? Certo che sì. Era democratico? E che cavolo, e se non che ci stava a fare lassù, a curarsi il mal sottile? Ed era anche di sinistra, certo che lo era, voleva che tutti avessero diritti, che tutti avessero possibilità, che nessuno fosse lasciato indietro e che tutti avessero un lavoro, cure mediche, istruzione e assistenza, ma da qui a volere un soviet … gli veniva da ridere, ma …
Ma fare la guerra, come avrebbe detto di lì a pochi anni a proposito della Rivoluzione un altro che combatteva contro i suoi stessi nemici a migliaia di chilometri di distanza, non è un pranzo di gala. E di ventidue partigiani che se ne stavano nascosti là in mezzo alle sempiterne nubi che avvolgevano il monte Odino, ce ne erano solo tre che sapessero imbracciare un fucile e solo due che fossero stati in guerra, Alfonso detto Boris che era tornato dalla campagna di Russia con tre dita di meno nei piedi e Sergio che aveva combattuto dal ’16 al ’18 tra il Piave e Trento. Erano quasi tutti studenti, ragazzi inesperti in tutto tranne che nel leggere libri e credere in ideali assurdi e così a comandarli erano naturalmente venuti a trovarsi gli unici che avessero un minimo di inquadramento e di disciplina, i comunisti. Erano tre, come ho già detto prima, il piccoletto che gli aveva dato uno spintone, Stefano, nome di battaglia il Fascina, Pippo di Milano, nome di battaglia Tersite perché non era mai d’accordo con nessuno e, capo dei capi perché più vecchio e perché aveva combattuto nella Grande guerra, Sergio detto il Cinese, un uomo tranquillo e carismatico che parlava sempre con calma e che era in grado di convincere tutti a seguirlo. A suo giudizio, dato che lui amava ascoltare il significato delle parole e non il tono di voce con cui venivano dette, il più cretino di tutti.
E quei tre, avendo deciso che era ora di smetterla di stare lì rintanati come vigliacchi e che bisognava partecipare alla lotta di insurrezione con azioni di sabotaggio e guerriglia, avevano messo ai voti nel soviet chi dovesse andare giù. Ed era stato votato lui, probabilmente perché stava antipatico al Fascina.
E così stava scendendo giù per il sentiero, mezzo intirizzito dall’aria fredda, sicuro che sarebbe finita male, con lui morto in terra senza nemmeno aver dato un bacio a Miriam. Perché … e sì, si era preso una cotta per quella ragazza intelligente e sarcastica che era capace di metterlo al tappeto dicendo qualche monosillabo e che oramai si sognava di notte. Era stato nella prima notte passata lassù, sì, avevano acceso un mozzicone di candela per mettersi a letto, nascondendolo dietro a un pezzo di carta perché dalla finestra non si vedesse troppo la luce. Che poi, essendo almeno ottocento metri sopra ai Tedeschi, che quelli distinguessero la luce di una candela sarebbe stato davvero una iella incredibile, ma tant’è … comunque si stavano infilando sotto alle coperte e lui sapeva che quella ragazza carina dal sorriso bellissimo era lì a pochi passi da lui. Erano giovani, sani, in fuga e probabilmente destinati a una fine prematura e drammatica, e così si era messo a fantasticare sul fatto che lei avrebbe potuto alzarsi dal suo materasso e andare da lui, e poi si sarebbero spogliati e … e allora lei, nel buio totale che li avvolgeva dopo che lei aveva spento il moccolo, aveva detto: - Non pensarci neanche, Ettore. –
- A cosa? – le aveva detto arrossendo nel buio.
- A quelle cose, lì, lo sai. Siamo da soli, magari domani moriremo, io sono un uomo e lei è una donna … quelle cose lì, lo sai benissimo. Non pensarci neanche. – e si era voltata dall’altra parte ridacchiando. E lui, la testa nascosta sotto le coperte, le guance così arrossite da avvertirne il calore, il cazzo dolorosamente duro nei pantaloni di fustagno che indossava anche sotto alle coperte, aveva capito di essere perdutamente innamorato di lei.
E ora, scendendo giù per la stradina ripida e scivolosa su cui a volte si affacciavano cinghiali e gatti dagli occhi che luccicavano nel buio, Ettore fantasticava su azioni eroiche che avrebbe compiuto, avrebbe lottato con i Crucchi ammazzandone un paio, avrebbe strappato il fucile a uno di loro e con la baionetta, ce la avranno avuta ancora la baionetta o no?, con questa maledetta baionetta ne avrebbe accoppato anche altri tre e poi, ferito a una coscia da una pugnalata di un crucco morente, sarebbe risalito su portandosi i loro fucili e le loro munizioni. Tutti lo avrebbero acclamato alla capanna grande, ma poi Miriam lo avrebbe portato su e, abbassatigli i pantaloni avrebbe cominciato a pulirgli la ferita con un panno bagnato. E, malgrado il dolore della ferita avrebbero cominciato a … a fare delle cose che non è che lui conoscesse troppo ben, vergine e inesperto com’era, ma sapeva che … insomma, come doveva andare a finire, quello lo sapeva. E così camminava giù per il sentiero, lo sguardo distratto e il pisello duro contro i bottoni della patta, quando un rumore forte e cadenzato lo aveva strappato violentemente dalle oniriche cosce sudate della bella Miriam per ricacciarlo in quella fredda, pericolosa e buia notte in cui si trovava a camminare.
Lo conosceva quel rumore, o sì. Rumore di stivali, rumore di Tedeschi che camminavano. Erano in due, camminavano sbattendo violentemente a terra i piedi e parlavano ad alta voce. Si precipitò giù per il pendio e si nascose tra le frasche rinsecchite dall’autunno sperando che i due non si girassero a guardare da quella parte. Erano due soldati, fucile in spalla ed elmetto piatto in testa, sembravano litigare in quella loro bella lingua che è così simile al clangore di un disastro ferroviario e non sembravano proprio in vena di mettersi a guardare nel fosso per cercare la sua faccina. Meglio, non aveva certo voglia di morire con le ginocchia nel fango, cavolo, non aveva nemmeno detto a Miriam che gli piaceva.
Comunque i due crucchi passarono vicino a lui senza vederlo continuando a parlare a voce altissima, e quello più alto, crucco A, tentava di calmare quello un po’ ciccione, crucco B, che invece agitava le braccia come un napoletano e continuava a urlare in faccia al camerata. Cosa stesse dicendo lo ignorava, aveva studiato francese al liceo, ma una parola riuscì ad afferrarla perché la urlò almeno tre volte, scandendola come se fosse stata di importanza capitale. “Berserkir” era la parola, ne era quasi sicuro, ma non aveva la minima idea di cosa potesse significare.
Comunque i due tedeschi lo superarono e andarono su per un sentiero che si dipartiva da quello principale pochi metri più in alto e che, dopo un giro che si faceva in un’ora e mezza, riportava in paese per il lato opposto a quello che avrebbe raggiunto lui in una decina di minuti. Risalì sul sentiero, si ripulì i pantaloni infangati e, oramai con l’umore rovinato, si rimise a camminare giù per la stradina acciottolata.
Si fermò per qualche istante a guardare il sanatorio che avevano requisito i tedeschi, risplendente nella notte come la Ville Lumiére a causa dei riflettori che avevano installato tutto intorno a una recinzione appena montata e, incuriosito e spaventato, continuò a camminare. Di lì a poco avrebbe scoperto cosa era successo al suo amico Bartolo e la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

4

La lite col Politburò, i due crucchi litiganti e gesticolanti, quel cavolo di sanatorio circonfuso di luci e contornato di reticolati come un carcere, e poi la fame che gli stava venendo e il freddo. Se a questo si univa il poco tempo che avrebbe avuto una volta giù in paese per fare una grande quantità di cose, il suo umore era sempre peggiore. Non riusciva nemmeno a ripensare a Miriam, ci provava ad immaginarsela mentre mangiavano insieme delle patate lesse, mentre giocavano a carte, mentre lei si cambiava per la notte e lui aspettava fuori dalla baracca che lei lo richiamasse dentro sforzandosi per non sbirciare dalle fessure tra le assi, ma proprio la sua mente non voleva concentrarsi su di lei. Era come se si stesse preparando per qualcosa, come se si aspettasse da un momento all’altro qualcosa di molto brutto.
E invece vide arrivare un cane. Era Carlomagno, il cane di Bartolo. Era di razza carlomagna probabilmente, era alto circa come un bracco e peloso all’incirca come una pecora un mese dopo la tosatura. Era un cane buono e pauroso, un grosso batuffolone di pelo innocuo. Si spaventò vedendolo scendere al buio per il sentiero, ma quando lui lo chiamò caracollò allegro verso di lui. Aveva una macchia nera sul muso, lo toccò e capì subito che con una luce diversa quel nero sarebbe stato rosso. Il cane era macchiato di sangue, qualcuno gli aveva dato una botta molto forte sul muso facendogli saltare un paio di denti. Si sentì ribollire il sangue, per quanto la metafora sia orrenda e abusata, gli sembrò proprio di avere del liquido bollente dentro. Perché chi maltratta un cane buono deve essere proprio marcio dentro, e perché, ci pensava solo ora, Bartolo non avrebbe mai permesso che gli toccassero il cane senza reagire.
Scese giù col cane e, dopo pochi minuti, vide una strana forma in mezzo alla strada carrabile in cui andava a sbucare il sentiero. Una specie di grossa X, come uno spaventapasseri. Accelerò e capì quasi subito che non era fatto di paglia, quel fantoccio. Era Bartolo. Avevano incrociato due legni lunghi un paio di metri, lo avevano legato a braccia e mani aperte sui quattro bracci della croce e poi … ringhiò alla notte intorno a lui come un animale, lo avevano ucciso a colpi bastone, forse avevano usato il retro del fucile. E poi, scritto col suo sangue, gli avevano messo un cartello appeso al collo, con su scritto, in italiano corretto “Ha imparato a non chiamare come il Fuhrer il suo asino. Chi toccherà questo corpo prima di un mese imparerà a sua volta a non farlo”.
Si guardò intorno e, guidato dal ronzio delle ultime mosche che non erano ancora state uccise dal freddo, vide anche Adolf. Con lui erano stati magnanimi, una fucilata alla tempia. Si sedette in terra piangendo, un uomo buono era stato ucciso come lui non avrebbe ammazzato un cane rabbioso, un uomo buono a cui lui voleva bene era morto attaccato a una croce ucciso da degli animali, da umani peggiori degli animali. Prese una pietra e la scagliò lontano, nel campo buio, continuando a piangere.
- Non sono stati i Tedeschi da soli. È stato quel fascista che è venuto con loro, lo chiamano Toti. – gli disse una voce dal buio sotto a un albero. Era Mirella.
- C’è un italiano con loro? –
- Un uomo sulla cinquantina, alto e robusto, il più cattivo di tutti. Ha voluto che stessimo a guardare mentre lo ammazzavano con i cani dei fucili. C’è voluto tanto, più di cinque minuti. Poi, mentre stavano andando via, si è girato e ha sparato all’asino. –
Ettore non le rispose, non avrebbe saputo cosa dire. Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto strappare quel corpo martoriato da quel patibolo e seppellirlo, ma qualcuno avrebbe pagato al suo posto se lo avesse fatto. Poi dal buio uscì anche il prete, Don Andrea, un vecchio prete tranquillo che camminava col bastone. Arrivò vicino al corpo e lo asperse con l’acqua santa dicendo delle parole in latino a bassa voce. Poi Mirella, quando lui si fu allontanato, prese un pugno di terra e la gettò sul corpo. Anche Ettore lo fece e poi pensò che se lui era Niso, o Ulisse, Mirella era Antigone. Sorrise suo malgrado e poi andò verso il paese con i due anziani. Gli raccontarono quanti erano i crucchi, gli dissero dove stavano e gli riferirono il poco che sapevano su cosa i crucchi stessero facendo nel sanatorio di Santa Lucia. Pare che avessero dei prigionieri, dei poveracci in pigiama a righe che sembravano dei morti viventi, e che ci fossero molti dottori che giravano in camice, camice con gradi da SS.
Poi, rifornitolo di pane, salami e caciotte, lo lasciarono al suo viaggio di ritorno. Arrivò su che albeggiava e dopo meno di un’ora erano tutti in assemblea per decidere cosa fare. Naturalmente, e purtroppo, tutti seguirono l’idea del Cinese. L’idea peggiore.

5

- Si può sapere che cavolo stai facendo la sopra? – gli chiese Miriam guardandolo da sotto in su con le mani sui fianchi e un’espressione a metà tra il divertito e l’indispettito.
- Non si capisce? – le chiese lui di rimando piantando un altro chiodo col martello.
- No. Sembri uno scimmione che dà martellate su un tetto per sfogarsi. –
- Grazie. – le rispose lui e posizionò un’altra scandola sulle travi.
- No, davvero, che stai facendo? –
- Rifaccio il tetto, che l’altra sera pioveva dentro. – le rispose continuando a lavorare.
- Non servirebbero le tegole per farlo? –
Lui la guardò poggiando in equilibrio precario il martello. – Uso le scandole. –
- Che sarebbero … -
- Tavolette di legno, si inchiodano l’una sull’altra in modo che l’acqua ci scivoli sopra, come le tegole. Le usano su sulle Alpi. –
- E dove le hai prese le scandole? –
- Con l’accetta, ho tagliato a fette un po’ di tronchi. – le rispose e ricominciò a posizionare quelle fettone un po’ storte di legno sul tetto. Naturalmente erano poche.
- E lo avresti fatto quando sei andato via? – gli chiese lei appendendosi alla trave e tirandosi su con l’agilità di una scimmietta. Era piccola e magra, ma agile come una gatta.
- Sì. Ero senza dubbio più utile quassù che là nel soviet. – e dicendo soviet alzò gli occhi al cielo e fece una specie di fischio o sibilo con le labbra.
- Non mi chiedi cosa abbiamo deciso? –
- Attacco in forze alle truppe occupanti. Useremo tutte le nostre armi e li danneggeremo tanto da renderli innocui e indifesi. Giusto? –
- Sì, le parole sono state all’incirca quelle. –
Lui sorrise e si sedette sul tetto che cigolò in maniera preoccupante. – Sono state le parole che ha detto il Cinese quando ho finito di raccontare quello che avevo visto. Era naturale che si sarebbe votato così. –
- Hai ragione. A te non piace il Cinese, vero? –
- Penso che sia un uomo coraggioso che si lancerebbe contro il nemico senza paura. Penso che sia un uomo onesto che combatte per i suoi ideali. Penso che se gli lasciassi i miei soldi e lui stesse morendo di fame, tornando da lui me li renderebbe tutti. – le rispose.
- Però non ti piace lo stesso. – disse ancora lei.
- No. Parla bene, è più anziano di noi, argomenta le sue idee con calma e sembra così autorevole, perché ha fatto la guerra, perché è stato in Russia, perché lui ha esperienza, ma … -
- Non ti piace lo stesso. –
- No. Perché fondamentalmente è un cretino. Pensa di avere ragione, sa di avere ragione, anzi. E quindi è un cretino.
Crede di sapere come è fatto l’uomo e vuole cambiare gli uomini che ha intorno perché combacino con la sua idea di uomo, ma la sua idea è sbagliata. La sua idea è bella, l’uomo può migliorare, se educhi l’uomo sarà perfetto, la società con la sua proprietà privata e la sua religione ci corrompe, ma il Cinese ha solo sostituito una religione con un’altra, un Paradiso nell’aldilà con una Rivoluzione nell’aldiquà, un profeta morto in croce con un Marx morto in Inghilterra. E ti dirò di più, il Cinese è talmente convinto, talmente sicuro delle sue idee che sarebbe capace di uccidere chi non le condivide, lui non ascolta, non chiede, non si mette in dubbio, lui sa e purtroppo è così serio e calmo quando parla che tutti gli danno ragione. –
- Quindi non ti piace perché è comunista? –
- No. Non mi piace perché è cretino. I Tedeschi hanno ucciso a quella maniera indegna Bartolo? E allora lui vuole attaccarli, perché c’è la guerra, perché noi siamo la Resistenza, perché vanno puniti. Sono le sue idee, quindi sono di per sé stesse giuste. E invece non lo sono, perché quei bastardi sono più di noi, sono meglio armati di noi, sono meglio asserragliati di noi e, soprattutto, sono meglio addestrati di noi, e attaccarli così, tutti insieme, in un battaglia campale potremmo dire, servirà solo a farci ammazzare dal primo all’ultimo, se qualcuno non sarà così sfortunato da finire nelle loro grinfie per finire nei Campi su in Germania. –
- E perché non le hai dette laggiù queste cose? - Gli chiese lei sedendosi accanto a lui e dandogli una mela che aveva tirato fuori da una tasca.
Lui sorrise di nuovo, poi rise e le mise una mano sulla spalla. – Miriam, tu mi chiedi perché non ho detto queste cose? Perché non sono un eroe, Miriam, queste cose le sanno tutti, ma sono dei ragazzi, ragazzi con un ideale, la razza peggiore del mondo. Cosa vogliono quei ragazzi? Combattere, uccidere o essere uccisi e chi avesse detto loro quello che già sapevano, non solo non avrebbe cambiato minimamente la decisione che sarebbe stata presa, ma durante l’attacco, chissà come, chissà perché, sarebbe stato ucciso da un colpo di fucile proveniente dalle sue spalle, perché codardo, perché antirivoluzionario, perché fascista. Loro sanno di avere ragione e chi non gliela dà è contro di loro, e io, che non sono un eroe, andrò con loro all’attacco e quando ci sarà da sparare sparerò e quando ci sarà da scappare inseguito dai crucchi, scapperò. –
Lei lo guardò per qualche secondo, lo sguardo un po’ stupito, e si vedeva che stava rimuginando su quello che aveva detto. Dio, quanto la amava, Dio!
- Non è molto coraggiosa come scelta. – gli disse alla fine. Sembrava delusa.
- No. Potevo difendere la libertà contro una massa soverchiante di idioti o potevo andarmene a rifare il tetto lasciandoli a loro stessi. Ho scelto la seconda possibilità e lo rifarei altre mille volte. Sei delusa? –
Lei non gli rispose, prese un legnetto caduto da un albero sul tetto e lo lanciò via. Stava ancora pensando, era anche lei giovane e pronta a combattere e le parole di lui erano troppo … adulte? Non gli rispose, ma gli poggiò un mano sulla gamba e continuò a guardare lontano, verso la vallata dove stano i Tedeschi.
Lui si godette quella mano, era bello quel contatto fisico ed era bello che lei stesse pensando così a lungo alle sue parole. Anche lui ci stava pensando ancora, poi le chiese: - E quindi, quando si va all’attacco del nemico? –
- Dopodomani sera, ci sarà la luna piena. –
- Bene. – disse lui sorridendo, poi si rimise ad aggiustare il tetto e disse di nuovo: - Bene. –

Due notti dopo avrebbero scoperto che laggiù non c’erano solo soldati tedeschi, ma qualcosa di peggio.

6

Scendevano giù per il sentiero alla luce incerta della luna piena e, dopo un po’, alcuni cominciarono ad accompagnare la loro marcia poco cadenzata con un canto corale. Forse era stato il Fascina a cominciare, era senza dubbio da lui cantare l’internazionale in quel momento. Cominciarono in pochi, poi a poco a poco si unirono gli altri. “Compagni avanti al gran partito, noi siamo dei lavorator! …” e fu dopo qualche minuto di quella idiozia che Ettore sbottò ad alta voce. – Vogliamo anche metterci dei campanacci al collo come le vacche per avvertirli del nostro arrivo? – disse parlando quasi tra sé e sé. Un silenzio carico di rancore gli rispose e così, in silenzio, continuarono a scendere.

Arrivati in paese si sparpagliarono per le vie camminando lungo i muri per non essere visti. Ogni tanto, da qualche porta socchiusa e illuminata all’interno da una piccola candela, qualcuno dava loro un fucile da caccia carico. Anche Ettore, che pensava che quello che stavano facendo fosse una cazzata che li avrebbe senza alcun dubbio portati alla morte di lì a pochi minuti, si sentì galvanizzato ogni secondo di più.
Sì, sarebbe morto facendolo, ma quei crucchi maledetti, quel Toti che gli avevano detto essere stato l’aguzzino di un vecchio innocente, sarebbero morti per mano sua. O sì, se ne sarebbe portati dietro un bel po’, ne avrebbe uccisi un bel po’ col fucile di suo padre e, se necessario, con le sue mani.

Erano quasi al sanatorio, era una ventina di minuti che camminavano in mezzo al paese svoltando di qua e di à per quelle stradine tortuose. Fu allora che sentirono il rumore dei passi. Passi di soldati, passi di scarponi pesanti. Si nascosero dietro agli angoli, nelle rientranze delle porte, alcuni dietro ad alberi che li coprivano a malapena come nei cartoni animati.
Erano due soldati, due ragazzi di una ventina d’anni, e stavano venendo verso di loro. Si mossero il Walter, che aveva fatto la campagna di Russia, e il Fascina. Li presero alle spalle e li sgozzarono. Ci misero un bel po’ a morire, e anche se non riuscirono a gridare fecero un sacco di versi, di gorgoglii, di pianti soffocati dal sangue che sgorgava nella loro gola.
Walter si allontanò in fretta e ricominciò ad avanzare verso il sanatorio, ma il Fascina ebbe una crisi di tremiti e cadde in terra piangendo. Una cosa è cantare a pieni polmoni che si inzupperanno di sangue degli invasori i nostri campi, un’altra è sgozzare con le proprie mani un ragazzo di vent’anni mandato lì probabilmente contro la sua volontà. La Guerra fa queste cose, ti trasforma in un assassino, ti mostra i tuoi limiti, appiana le liti. Ettore, non riuscendo a smettere di fissare gli occhi di quel povero ragazzo che visti da vicino mentre moriva non sembrava un crucco ma solo un poveretto che chiamava la mamma, si avvicinò al Fascina e lo abbracciò. Il Fascina tremava e continuava a ripetere come un indemoniato “No No No No No …” e lui lo stringeva a sé chiamandolo Stefano con il tono di una madre. E intanto, fissandolo da terra il ragazzo tedesco moriva. Dopo un minuto o due il Fascina riuscì ad alzarsi e raggiunsero gli altri.

Erano intorno al sanatorio, all’ombra degli alberi. Era stata eretta una recinzione, di rete metallica e filo spinato, c’erano delle torrette di avvistamento con guardie armate, c’erano fari elettrici che illuminavano la fascia di terreno spianato davanti a loro. Ettore pensò che era un suicidio ancora più inutile di quello che aveva pensato su alla capanna. Tutto l’ardore di prima lo abbandonò in fretta e gli rimasero la paura e lo schifo per la morte di quel povero ragazzo. Tra pochi minuti, probabilmente, sarebbe morto sputando sangue come lui.
Guardò il Cinese e gli fece cenno di no agitando la mano. Non potevano attaccare, sarebbe stata una follia inutile. Il Cinese lo guardò con disprezzo e, forte della sua idiozia piena di sé, si lanciò allo scoperto sparando una fucilata al soldato sulla torretta davanti a lui. Lo prese di striscio, a un braccio, ci volle più o meno un secondo, forse due, prima che quello rispondesse al fuoco con il suo mitra.
Intanto si erano lanciati tutti verso la recinzione e tre di loro, Walter, il Balilla e Pippo detto Tersite furono falciati dal fuoco della mitraglietta. Poi cominciarono a sparare anche gli altri. L’attacco durò ancora qualche secondo, poi cominciò la fuga. E infatti fu alla schiena che fu colpito Nostromo, il più incredibile raccontatore di barzellette sconce del mondo. Ettore lo superò e passò di corsa vicino a Pippo che agonizzava a terra, stava chiamando la mamma mentre il sangue gli usciva dal lato sinistro della bocca.

Mentre fuggiva in mezzo agli alberi sentendo i proiettili sibilargli accanto Ettore controllò che Miriam fosse vicina a lui. C’era, ed era illesa per fortuna. Intanto si chiedeva chi fossero quei poveracci che aveva visto in un recinto all’aperto, dei tizi magri e smunti vestiti con dei pigiami a righe. E poi, quando ormai fuggivano da un bel po’, sentirono il rumore del cancello e un suono che non si sarebbero mai aspettati di sentire. Un ululato.

7

Qualcosa aveva ululato. Qualcosa che sicuramente non era un cane, i cani non ululano così.
Aveva visitato a 9 anni il Museo di Storia Naturale, si ricordava il lupo impagliato, l’ultimo lupo della Liguria, ucciso se si ricordava bene a inizio secolo. Cosa si erano portati i crucchi, dei lupi? E quanto cazzo erano grandi i lupi in Germania? Continuò a correre tentando di fare molte cose insieme, correre più veloce che poteva, non perdere di vista gli altri, vedere dove andava, non far rimanere indietro Miriam, sfuggire ai Tedeschi, capire cosa fosse a ululare guardandosi indietro, schivare proiettili che non venivano però sparati e non sbattere in un muro o in un albero. Troppe cose, otto cose da fare insieme erano forse sei o sette di troppo per lui, tempo mezzo minuto e inciampò su qualcosa e rovinò a terra. C’era fango, se era fango, c’erano pietre e foglie marcite. Mancò una pietra appuntita di meno di un centimetro, si stortagnò un polso e picchiò rovinosamente il fianco destro a terra. Ma, soprattutto, ruppe gli occhiali.
Gli mancavano sei diottrie all’occhio sinistro e sette al destro, Talpa era il suo soprannome a scuola. I suoi genitori gli avevano insegnato ad essere previdente e aveva degli occhiali di scorta. Li aveva su alla capanna, a ottocento metri di dislivello e almeno sette chilometri di distanza. Rimase per qualche istante in terra, appoggiato sulle mani e sulle ginocchia a vedere il mondo nebbioso che gli stava fisso davanti agli occhi. Piangeva.
- Ma che diavolo stai facendo, Ettore? – gli chiese Miriam prendendolo per un braccio e sforzandosi di tirarlo su. – Alzati, merda! – e gli diede uno strattone che non lo smosse per niente ma fece quasi cadere a terra lei.
- Non vedo niente senza occhiali! – le disse guardandola e riuscendo a vedere solo una sagoma confusa nel buio.
- Ma vai a quel paese, Ettore! – gli disse e lo tirò di nuovo. Questa volta lui accompagnò il suo sforzo e si mise in piedi. Lei lo tenne per un braccio e ricominciò a correre trascinandoselo dietro. Non è che non vedesse nulla, fino a un paio di metri vedeva abbastanza, a parte l’oscurità che c’era dove passavano sotto all’ombra di un albero o di un muro, ma più in là di quella distanza diventava tutto confuso, una specie di muro grigio tendente al nero. Corse zigzagando appeso al braccio di Miriam sentendo montare dentro una paura che mai aveva provato prima, era indifeso come un bambino, non sarebbe nemmeno riuscito a trovare un muro dietro al quale nascondersi se gli avessero sparato addosso, era solo un peso che rallentava quella povera ragazza.
E, mentre pensava queste belle cose di sé quasi assordato dai battiti del suo cuore, accadde qualcosa che non riuscì a vedere abbastanza bene da capirla. Qualcosa di enorme, qualcosa di enorme, fortissimo e peloso, lo scaraventò via come lui avrebbe potuto lanciare via una bambola di pezza. Volò in quella tenebra indefinita aspettando di rompersi il collo contro una pietra e intanto sentì Miriam gridare. Erano grida di terrore e di dolore, qualcosa la stava aggredendo e quel qualcosa ringhiava e ruggiva. Atterrò facendosi male, ma non così tanto da non riuscire a rialzarsi, si mosse verso le grida e i ringhi e, dopo un po’, intravide qualcosa di enorme e indistinto che infieriva su un corpo abbandonato in terra. Si lanciò come un kamikaze su quella cosa sentendo la sua pelle che si accapponava sempre più a ogni passo che faceva, ma Miriam era in pericolo.
E poi, prima di poter vedere con chiarezza cosa fosse quell’animale, un fischio acuto echeggiò tra i muri degli orti e quella cosa, qualunque cosa essa fosse, si staccò da Miriam e corse via. Lui accelerò e si accucciò vicino alla ragazza che era priva di sensi ma ancora viva. Era ferita, tagli e lacerazioni sul viso e sul torso, le mani ferite nel tentativo di difendersi. La prese in braccio e, dolorante e quasi cieco, riprese la strada verso la salvezza. E come riuscì ad arrivare fin lassù con in braccio Miriam semplicemente è una cosa che non sapeva allora e mai seppe spiegare in futuro. Successe e basta.

III

1

Ed ecco di nuovo la luna piena. E di nuovo in quel posto maledetto dove quattro suoi uomini erano morti il mese prima. E in più adesso c’erano quei maledetti SS, fanatici assassini sadici, con quei dottori dell’Ahnenerbe che sembravano gli scienziati pazzi dei film horror.
Ma quello che proprio non sopportava, quello che davvero gli era intollerabile, era che adesso non era più lui a comandare i suoi uomini, no, era diventato solo il tizio a cui dare gli ordini, senza spiegazione, perché lui li riportasse ai soldati.
E adesso, doveva muovere i suoi uomini, mettere in pericolo i suoi uomini, senza che quei pazzi sadici avessero sentito il benché minimo bisogno di spiegargli cosa sarebbe successo. – Tenga pronti i suoi uomini, capitano! – gli aveva detto Schumacher, così, come a un fattorino, e poi l’altro, quello alto e secco come un palo telegrafico, Warner, gli aveva detto che uno dei suoi uomini avrebbe dovuto fare da esca.
- Da esca? Cosa vuol dire? –
- Uno dei suoi uomini farà da esca, ne scelga uno. – gli aveva risposto.
- I miei uomini non sono esche. – gli rispose ad alta voce e quello lo guardò con disprezzo. – Il mio era un ordine, capitano. Se il Reich vuole che un suo uomo faccia da esca, un suo uomo farà da esca. Ora vada a sceglierlo. – ed era uscito dalla stanza della casa che avevano requisito come base operativa. Dopo qualche secondo passato a far sbollire la rabbia si diresse verso l’uscita pensando a come avrebbe presentato la cosa ai suoi uomini. Avrebbe potuto dire che era un onore, una cosa rischiosa per il bene della patria … che schifo! Mica poteva dirgli: “Ragazzi, mi serve uno di voi che si infili su un amo per attirare con i suoi movimenti il pesce a cui diamo la caccia.” No, l’onestà sarebbe stata troppo anche per i suoi uomini. Avrebbe mentito. Che schifo.
Nel corridoio c’era aperta una porta, era dove tenevano Kastorp. Se pensava al Campo, a quella gente rinchiusa là a marcire … lui combatteva a fianco di quelli che bruciavano nei forni dei poveracci. Lui aveva mandato laggiù un sacco di poveracci. Che schifo! Gli faceva tutto schifo ormai, solo il suo senso dell’onore gli faceva indossare quella divisa ogni mattina, ma si faceva schifo da solo. Che onore c’era in quella divisa? Comunque gli avrebbe fatto piacere vedere Kastorp, era un brav’uomo e lui era l’unico a trattarlo da persona. Si sarebbe fermato un po’ a fare due chiacchiere con lui, lo tenevano sempre chiuso lì dentro come un animale … si affacciò e rabbrividì.
Kastorp era incatenato al muro con quella catenina appesa al polso. Stava urlando, stava ringhiando anzi. Gli facevano delle domande e quella cosa che sembrava abitarlo ruggiva, così loro gli davano una scossa e quella povera cosa rispondeva con un cenno del capo.
Ecco un altro schifo. Invece che entrare lì e ammazzare quegli orrendi aguzzini il nostro capitano uscì di corsa e vomitò nel giardino. Se non fosse stato per quel maledetto senso dell’onore … per un attimo rimase fermo a guardare la pozza di vomito e tentò di trovare in sé un po’ di coraggio, ma il soldato ebbe il sopravvento e andò verso l’accampamento dei suoi uomini. Avrebbe mentito ai suoi uomini causando probabilmente la morte di almeno uno di loro mentre quei mostri avrebbero continuato a torturare Kastorp. Era senza dubbio finito nella parte sbagliata dell’inferno, e meritava di starci.

Lo scienziato dell’Ahnenerbe stava attaccato a quel cassone di radio e scriveva su un foglio quello che gli dicevano i suoi colleghi. I suoi soldati non sapevano da dove prendessero le notizie, lui sì. Aveva visto l’altra radio nella stanza dove torturavano il povero Kastorp costringendolo a rimanere in contatto con quella maledetta catenina. Se aveva visto bene la radio e il pungolo elettrico con cui lo colpivano per permettergli di rispondere alle domande erano attaccate alla stessa batteria. Comunque lo scienziato, un giovanotto che tutti chiamavano dottor Bischoff stava ascoltando con attenzione ciò che gli dicevano in cuffia, poi scrisse qualcosa e disse: - Sta arrivando. Da destra. – e tutti si misero nella posizione che gli era stata assegnata in precedenza.
La luna era alta nel cielo, enorme nell’aria gelida e tersa, il paesaggio sembrava disegnato a china da un Gustave Dorè molto ispirato, diciamo che mancava solo l’anima di Virgilio là in fondo alla selva.
Ma non fu Virgilio a spuntare all’improvviso da dietro a una macchia di alberi, a voler citare per forza la Commedia fu più che altro la lupa, anche se non sembrava poi così tanto una lupa. Aveva un che di umano, ancora un po’, e se non altro camminava ancora su due gambe, anche se le braccia erano così lunghe da sfiorare il terreno. Era ricoperta di pelo rado, quasi a ciocche come un gatto a pelo lungo quando fa la muta, le orecchie erano enormi, quasi più da volpe che da lupo, stile dio Anubi degli Egizi e il muso … il muso era di una bruttezza inenarrabile, come una faccia umana stirata su un muso da lupo, un qualcosa che dava i capogiri solo a vederla per come era fuori posto.
I denti erano giganteschi, molto più appuntiti di quelli di un animale e così anche gli artigli. Ed era una femmina, quello si vedeva bene, due seni umani rimanevano in congruamente su quel petto affilato da cane. Comunque era enorme, spaventosa, un incubo capace di trasformare in gelatina le ginocchia di un uomo.
Questa cosa, non gli veniva in mente un’altra definizione, si stava lanciando sul suo uomo che era nella radura davanti alla buca profonda sei metri che avevano scavato in quei giorni ricoprendola poi con rami e frasche per nasconderla. Non sembrava una bestia che potesse cadere in un inganno così vecchio e banale, non con quegli occhi che brillavano gialli come fuochi nella notte. Erano occhi crudeli, orrendi, ma molto intelligenti.

Saltò sul suo uomo, Johannes, un ragazzotto di diciannove anni che non vedeva l’ora di lasciarci la pelle per la Nazione Germanica, povero cristo rimbecillito dalla propaganda. E cadde nel buco. Successero entrambe le cose, come nessuno di loro aveva previsto. E quindi cadde nel buco trascinandosi giù il povero soldato che gridò come una pecora sgozzata. Loro si lanciarono avanti con le loro reti, inutili con lui vicino, i loro fucili, egualmente inutili con lui stretto tra le zampe della Bestia, e le loro bombe a mano, ultima possibile difesa in caso la Bestia fosse stata troppo potente anche per le loro armi, ma gettarle nella buca avrebbe ucciso anche Johannes. E così arrivarono di corsa e poterono vedere solo quell’enorme mostruosità che sbranava quel povero ragazzo girando ogni tanto il suo orrido muso verso di loro in un ringhio disperato e feroce intramezzato dalle urla del ragazzo. Fece in tempo a vedere Johannes che si reggeva le budella e poi, mentre pensava di buttare una bomba per farlo almeno finire di soffrire, quel maledetto Bischoff arrivò col suo passo leggero e lanciò nella buca una bomboletta che emise del fumo grigio.
Per qualche istante la bestia reagì urlando più forte, poi cominciò, probabilmente per la frustrazione, a sballottare contro le pareti di terra l’inerme soldato e poi, da un momento all’altro, crollò a terra.
- Scendete a prenderla, le catene sono là dalla mia radio. – disse il dottor Bischoff e andò a riferire ai suoi colleghi. Non parlò del povero soldato che aveva donato le sue viscere al Reich, doveva essere l’ultimo dei suoi pensieri.

2

Il suo attendente gli portò un caffè e uscì dalla stanza. Lui aprì la finestra e andò a sedersi sulla sedia a sdraio per gustarsi quegli ultimi raggi di sole. Quel grosso palazzo era stato costruito proprio per quello, perché la gente potesse uscire sui terrazzini e prendersi il sole. Qualcosa di buono c’era, dopo anni di guerra passati a dormire in tende umide e fangose o in ruderi senza il tetto a causa dei combattimenti, ora aveva una stanza, una colazione, un pranzo e una cena caldi, un vero letto e un panorama.
E anche i suoi uomini avevano tutto questo, solo che stavano in due per ogni stanza. E che i suoi uomini stessero comodi, al caldo e al sicuro per lui era molto importante. Per gli alti papaveri dell’esercito i suoi uomini erano solo numeri, mandiamo mille soldati in più là, sono morti cento soldati qua, possiamo permetterci duemila caduti lì, ma per lui erano persone, ragazzi che non avevano ancora vissuto la loro vita e che dipendevano da lui per poterlo fare in futuro. I suoi uomini erano l’unica parte della Wermacht di cui ancora gli interessava; che si fottessero tutti gli altri, lui aveva i suoi uomini e loro avevano lui.
E qua gli si rovinò il piacere del caffè. Anche Johannes era un suo uomo. Avrebbe voluto sparargli un colpo in testa, quella notte di tre settimane prima, tanto soffriva per gli squarci che quella cosa gli aveva fatto. Il dottore aveva tentato di ricucirlo e gli aveva dato la morfina, ma lui aveva continuato a urlare. E poi quei maledetti dell’Ahnenerbe avevano preso Johannes e la Cosa e li avevano portati via nella loro tenda. Le urla erano continuate per un po’ e poi, all’improvviso, si erano interrotte. Lui si era avvicinato alla tenda e aveva chiesto di entrare. Un suo uomo era morto e lui doveva vederlo; era un suo dovere e lui avrebbe dovuto scrivere alla famiglia.
E invece … lo avevano cacciato in malo modo, stavano lavorando. – Devo prendere le piastrine di Johannes. – aveva detto lui e quelli gli avevano risposto che il soldato Messner non era affatto morto. Ora dormiva. Così gli aveva detto l’altro bel tomo dell’Ahnenerbe, il dottor Von La Salle. – Fatemi vedere il mio uomo. – aveva detto e quello stronzo, quel maledetto stronzo pieno di sé, gli aveva riso in faccia. – Il suo uomo adesso è al servizio dell’Ahnenerbe, non è più ai suoi ordini. Vada pure, adesso. – gli aveva detto chiudendo la porta e lasciandolo lì nella notte che cominciava ad albeggiare.
E ora erano tutti lì, sugli Appennini alle spalle di Genova, in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini che i sapientoni dell’Ahnenerbe, che bruciassero all’Inferno dal primo all’ultimo, avevano trovato con i loro potenti mezzi, probabilmente facendo oscillare un pendolino su una carta geografica del mondo. E non erano soli, c’erano gli scienziati con una squadra di medici ed infermieri, i due ufficiali delle SS con una squadra di giovani reclute SS che non facevano altro che allenarsi a tutte le ore del giorno e della notte mostrandosi evidentemente scocciati ogni qual volta che lui o uno dei suoi “semplici” soldati si permetteva di incontrarli e di scambiare due parole con loro. E poi c’erano quei venti prigionieri dei campi. Dieci uomini e dieci donne arrivati lì in condizioni pietose, pieni di cimici e pidocchi, così magri che gli si potevano contare le costole attraverso la lercia divisa da internato, tutti tra i diciotto e i vent’anni e, malgrado il trattamento subito, in buona salute. Ora, lì nel sanatorio dove si erano acquartierati, li trattavano meglio, li curavano, li lavavano, li nutrivano e li tenevano al caldo, ma li sottoponevano anche a strani allenamenti e addestramenti, roba più da cani pastore che da persone.
E poi, nascosti nelle stanze più interne, la Cosa, Kastorp e Johannes. La loro presenza era un segreto ben custodito e quindi lo sapevano ormai tutti. Era stato il cuoco a dire che doveva esserci altra gente, almeno tre persone, e tutti avevano visto i dottori e le SS andare molto spesso nelle stanze interne e proibite. Lui se ne era fregato degli ordini e dei divieti, una mattina che quei matti erano tutti impegnati nell’addestramento delle reclute SS, e mai aveva visto addestrare dei soldati con fischietti e frustini, si era infilato nel corridoio che portava all’ala sinistra del sanatorio e aveva aperto un po’ di porte. Laboratori, sale con lettini, sale con gabbie, e alla fine, in fondo, tre stanze le cui porte, blindate, potevano essere aperte solo dall’esterno. Era entrato nella prima e aveva trovato Kastorp. Aveva messo su una decina di chili e sembrava di nuovo un uomo. Gli occhi invece erano peggiorati, erano gli occhi di un pazzo. Tutti gli spigoli presenti nella stanza erano stati imbottiti e non indossava né cintura né lacci. Il letto aveva delle cinghie pronte per contenerlo.
- Salve, signor Kastorp. – gli disse entrando.
L’uomo lo guardò e sembrò fare fatica a mettere a fuoco chi fosse, poi sorrise e disse: - Salve capitano. Anche lei qui? –
- Sì. Siamo tutti qui, nelle mani di questa gente. – gli rispose.
Kastorp sorrise, un sorriso straziante nella sua tristezza e poi gli chiese una cosa: - Avrebbe una sigaretta? –
- No. Se vuole gliela porto la prossima volta che vengo. Ma lei non fuma, mi pare. –
- Non fumo, infatti. Era per dare sbadatamente fuoco al letto per crepare e essere libero. – gli disse e sorrise. Questo era un sorriso molto più deciso, la sola idea di farla finita lo aveva rallegrato.
- Signor Kastorp … - disse e si fermò; cosa avrebbe potuto dirgli?
- Capitano, le dispiacerebbe spararmi un colpo in testa? – gli chiese sedendosi sul letto.
- Io non posso. – gli rispose vergognandosi della sua pavidità.
- Lo sapevo, capitano, ma dovevo tentare. – gli disse e poi aggiunse: - E ora vada, di là c’è un suo amico e non ha tanto tempo prima che tornino. –
Lui uscì dalla stanza e aprì la porta successiva. Sul letto dormiva una ragazza, se non si sbagliava l’aveva vista là in Transilvania … e all’improvviso capì, era quella ragazza che i suoi uomini avevano seguito nel bosco quella notte, quella era la Cosa. Ora sembrava solo una ragazzina che dormiva in una cella dopo aver pianto.
Richiuse la porta e aprì la successiva. Sul letto, intento a leggere un libro di avventure in mare, l’Isola del tesoro, c’era Johannes. Era totalmente guarito e gli era passata anche quella tremenda acne che lo deturpava. Saltò in piedi vedendolo e scattò sull’attenti.
- Riposo, Johannes. – gli disse rendendosi conto che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire così presto da quelle ferite, e che nessun uomo normale sarebbe potuto guarire totalmente da quelle ferite. Rabbrividì all’idea di essere nella stessa stanza con lui, ma era sempre uno di suoi uomini, un ragazzo troppo giovane per la guerra che era stato afffidato a lui. – Come ti trattano? –
- Bene, capitano, solo che non mi fanno uscire. Come stanno i camerati? –
- Bene, Johannes, bene. Ti salutano tutti. – guardò l’orologio che portava al polso e disse: - Ora devo andare, soldato. Tornerò a trovarti appena potrò. – e uscì guardando il ragazzo che lo salutava con un Heil Hitler da antologia. Si chiuse la porta alle spalle e pensò che voleva fuggire, voleva scappare via da quel posto dove succedevano cose simili, voleva fuggire e portare con sé i suoi uomini. Poi si ricompose, aggiustò la divisa e, senza farsi notare, tornò sui suoi passi uscendo dall’ala proibita. Sarebbe tornato a prendere il sole, sì, un po’ di sole gli avrebbe fatto bene.

3

Secondo la gente del posto non aveva mai fatto così caldo in autunno. Meglio, dopo l’inverno che aveva passato combattendo nei Balcani, di tutto poteva avere voglia meno che di vedere muri di neve intorno a sé.
Malgrado nelle zone intorno a loro, come i tutta l’Italia dopo quella cagata di Armistizio l’8 di settembre, infuriasse la lotta contro quelli che nei loro dispacci venivano denominati banditi e che tra di loro si definivano partigiani, nella loro zona tutto era tranquillo. Sapeva naturalmente che sul monte di fronte al loro campo, da qualche parte in quelle strette vallate nascosti da boschi fitti e impossibili da attraversare per chi non li conoscesse bene, si erano nascosti alcuni ragazzi renitenti alla leva nella Repubblica Sociale, ma fino a che loro non fossero venuti giù a dare fastidio ai suoi uomini, lui non avrebbe rischiato la vita di nessuno dei suoi per andarli ad acciuffare. Volevano stare nascosti sul monte come capre? Facessero pure, lui e i suoi uomini per la prima volta da mesi avevano un tetto sopra le loro teste e un po’ di quiete dai combattimenti.
Il nostro capitano stava pensando queste cose mentre passeggiava per il giardino del sanatorio, quando gli venne incontro il tenente Schimdt, un ragazzo che sembrava essere passato attraverso 11 anni di regime nazista senza esserne minimamente toccato. Anche perché il suo unico argomento di conversazione era il Bayern di Monaco e almeno su quell’argomento i nazisti fino ad allora si erano astenuti dal dire qualcosa. Comunque era piacevole parlare con qualcuno che non rispondeva ripetendo a memoria le frasette inventate da Goebbels.
- Salve, capitano. – gli disse Schmidt salutandolo militarmente – Bella giornata, eh? –
- Caldo. Per essere la fine di ottobre è caldo. Ma dopo tutto siamo nella terra dove crescono i limoni, no? –
Schmidt lo guardò sforzandosi di non far notare che non aveva capito il riferimento, poi sorrise e disse: - Non li avevo visti i limoni, qua intorno. Belli comunque, e profumati. - Eh sì, Goethe non giocava nel Bayern in effetti.
Mentre la conversazione languiva furono richiamati da un fischio a malapena udibile. Veniva dalla zona del giardino che era stata recintata per trasformarla in Lager per i prigionieri. Andarono a vedere e rimasero per qualche minuto in silenzio a guardare cosa stavano facendo i due dell’Ahnenerbe insieme a quel sergente che avevano fatto venire dalla sezione cinofila. Stavano lanciando dei bastoni ai prigionieri e quelli dovevano andare a prenderli e riportarli. Quando lo facevano venivano premiati con un biscotto, se si rifiutavano venivano picchiati con un bastone. Altri, più in là, stavano marciando e, quando Bischoff suonava quello strano fischietto, svoltavano a destra o a sinistra oppure si fermavano a seconda di quanti fossero stati i fischi. Ogni volta che eseguivano correttamente l’esercizio, biscottino, per ogni errore, di nuovo, bastonata. Stavano addestrando dei cani, solo che erano persone.
Il capitano e il tenente si allontanarono dalla recinzione in silenzio e svoltarono l’angolo. Lì c’erano quelle reclute delle SS, quelli che avevano stampato in faccia “Io sono un bravo nazista” e che disprezzavano gli altri esseri umani all’incirca come gli Spartani disprezzavano gli Ateniesi. Questi li stava addestrando von La Salle insieme all’assistente di quel sergente. Anche qui biscottini e fischietti, solo che questi si lanciavano anche addosso a dei pupazzi in un corpo a corpo stile lotta greco-romana. E anche qui i comandi erano dati con il fischietto quasi inudibile e c’erano gli stessi premi e punizioni.
Si allontanarono anche da lì e uscirono dal sanatorio cominciando a passeggiare per il paese. Un pastore passò con un paio di capre e li salutò con un certo astio negli occhi. Erano invasori dopotutto, non poteva dargli torto. Gli disse “Buongiorno” con la miglior pronuncia italiana di cui era capace.
- Era un fischietto ad ultrasuoni, lo usano per addestrare i cani. – gli disse all’improvviso il tenente Schmidt. Era spaventato, povero ragazzo, neanche il fischietto ad ultrasuoni aveva mai giocato nel Bayern.
- Sì. –
- Capitano, perché addestrano come cani quei prigionieri e quelle reclute? Perché mai li addestrano come cani? –
- Sono esperimenti di cui non … come dire? Nessuno ai piani alti ritiene che dobbiamo saperne più di quanto sappiamo, Schmidt. Ti va come risposta? –
- Ma, capitano! Non pensa che c’entri quella cosa che ha ucciso Johannes? E se quei matti volessero contaminare quelle persone? Capitano … -
- Schmidt, nessuno ha chiesto il nostro parere, mi pare. Però ci hanno dato degli ordini. Ciò dovrebbe bastarti, direi. – gli rispose vergognandosi come un verme, lui aveva disubbidito agli ordini, lui era andato nell’ala in cui gli era stato proibito andare, lui aveva visto la ragazza che con la luna piena diventava quella cosa, lui aveva visto che Johannes era ancora vivo e perfettamente sano. Lui era il perfetto soldato di quel regime di merda che era diventata la Germania, tra sé e sé sbraitava e, quando doveva agire, era il più fedele degli esecutori. Che schifo! – Schmidt, anche io ho le stesse idee che hai tu, è naturale, ma gli ordini che abbiamo ricevuto … - gli stava dicendo quando arrivò quell’odioso italiano che i fascisti avevano mandato ad aiutarli e affiancarli nella gestione del paese. Un cretino fatto e finito, un tizio grande e grosso che raccontava a tutti delle sue azioni eroiche nella Grande Guerra per impressionarli e non si rendeva conto che qualunque soldato, vedendolo, notava come prima cosa che aveva i piedi piatti. E con quei piedi non lo avrebbero mai arruolato, neanche nella Grande Guerra.
- Salve, podestà. – gli disse sperando che avesse da fare al sanatorio e che non li disturbasse col suo tedesco osceno. Se c’era una persona a questo mondo che per lui era classificabile come subumano, ecco, il podestà Toti era quello.
- Dovete venire con me, subito. C’è un contadino che ha fatto una cosa inaudita. – disse e corse verso la parte orientale del paese. Lo seguirono e arrivarono davanti a un contadino che li stava aspettando accanto a un mulo carico di legna. Il labbro del contadino era spaccato da un pugno e il sangue gli colava sulla barba grigia. Lo conosceva quel contadino, lo chiamavano Bartolo ed era innocuo.
- Lo ha picchiato lei questo vecchio? – chiese a Toti.
- Certo! Gli chieda come si chiama il mulo, su! – gli disse l’omone tutto eccitato. Gli piaceva picchiare, maledetto, gli piaceva picchiare i vecchi indifesi.
- Parla il tedesco il signore? –
- No. –
- E allora glielo chieda lei, per favore. – e mentre diceva questo si stavano avvicinando anche quattro di quei giovani SS che erano incuriositi dalla loro scenetta.
Toti fece una domanda al vecchio e quello, impettito, rispose: - Adolf. –
- Ha capito, capitano? Ha chiamato il suo mulo Adolf. –
- E allora? – non gli piaceva quella storia, sia Toti che i giovani SS sembravano avere una gran voglia di menare le mani.
Toti fece un’altra domanda e il vecchio li guardò tutti in faccia. Quanto odio c’era in quella faccia, peccato che stava su un corpo che definite indifeso era poco. Rispose ad alta voce e fece cenno a Toti di tradurre. Stava impettito, ma gli tremavano le mani. E poi Toti tradusse le sue parole dicendo: - Dice che lo ha chiamato Adolf perché così, quando gli deve dare delle legnate, almeno si diverte. – e qui cominciò la sarabanda.
Lo trattarono come un animale, peggio anzi, e lui non intervenne. Lui e Schmidt si guardarono e il tenente fece l’atto di poggiare la mano sulla pistola per … per fare qualcosa, ma lui lo fermò. Codardo in tutto, che schifo.
Per fortuna quel povero vecchio non durò troppo, probabilmente gli cedette il cuore dopo un po’ di botte. Toti e le SS si divertirono un bel po’ con lui, però, e alla fine l’italiano sparò anche al mulo freddandolo lì sul posto. Non riuscì ad uccidere il cane del vecchio, però, dopo un calcio scappò e continuò ad abbaiare disperato dal limite del bosco a un centinaio di metri da loro.
Lui e Schmidt si allontanarono prima che tutto finisse, disgustati. E il tenente disse: - Vorrei tornare al fronte, capitano, vorrei tornare al fronte. – e lui gli diede una pacca sulla spalla. Erano finiti dalla parte sbagliata dell’Inferno, non c’era dubbio.

4

Il colonnello Warner lo aveva fatto entrare dopo tre quarti d’ora di anticamera, due giorni dopo la richiesta di un incontro, e ora, dopo averlo fatto sedere davanti a lui, invece che parlargli si beveva un tè. Sorbiva piccolissimi sorsi di tè da quella grande tazza decorata da una svastica, non aveva idea che esistessero oggetti simili, si chiedeva se esistesse anche la carta igienica così decorata, e dopo aver bevuto il sorsetto borbottava dei versi di soddisfazione intramezzati a dei “Sì-sì-sì” davvero ridicoli.
Comunque rimase lì, seduto a guardarlo bere il suo buonissimo tè, deciso a non fargli il piacere di mostrare quanto era incazzato. Sarebbe stato divertente per quel porco di SS che lui si mettesse a urlare, no? E invece lui avrebbe aspettato lì, calmo e tranquillo, fin a che il bastardo si fosse degnato di ascoltare quello che gli doveva dire.
Il colonnello Warner si asciugò la boccuccia col tovagliolo, raccolse con cura le briciole dei biscotti e le versò nella tazza, si stiracchiò in maniera educata, sbadigliò coprendosi la bocca con la mano e poi, con molta calma, gli chiese: - Capitano, aveva chiesto di parlare con me? –
- Sì, colonnello. Le vorrei parlare di quello che è accaduto due giorni fa … - e qui fu interrotto dal colonnello che gli disse: - Scusi capitano, ma le devo dire subito che potrò concederle solo pochi minuti, perché stanotte ci dovrebbe essere una svolta nel nostro progetto Berserkir. –
E se aveva poco tempo doveva perderlo bevendo il tè? Ma che fosse maledetto, lui e i suoi guerrieri mitologici del cazzo! – Colonnello, quell’italiano che ci hanno affiancato … è un assassino. Ha ucciso un povero vecchio con le sue mani, lo ha torturato! E ora il corpo di quel vecchio è lì a marcire al vento e al sole senza che nessuno possa seppellirlo, pena la morte. – quasi sputò fuori queste parole che lo stavano soffocando.
Il colonnello lo guardò intrecciando le dita sul ventre, sorrise appena e disse: - Lo so, capitano. Naturalmente lo sapevo già. – si alzò e si spostò davanti alla finestra, era buio, ma da dietro al monte il cielo già si schiariva per la luna piena, di nuovo la maledetta luna piena. – Da quel che mi risulta quel vecchio, come lo chiama lei, aveva offeso il nostro Fuhrer e se ne vantava in giro per il paese.
- Era un povero vecchio innocuo che non faceva male a nessuno. – disse lui.
- Aveva chiamato Adolf il suo mulo perché così era più divertente prenderlo a legnate. Sono state all’incirca queste le sue parole, no? –
- Quello che quell’italiano e alcuni suoi uomini hanno commesso è stato un omicidio! Hanno ammazzato un uomo inerme! –
- Capitano, lei in questa guerra non ha ucciso nessuno? –
- Ho ucciso dei nemici, dei soldati con le armi in pugno, dei banditi – doveva chiamarli banditi davanti a lui – che volevano uccidere i miei soldati. –
- E quel vecchio non era forse un bandito che stava offendendo quanto di più sacro e importante ci sia nella nostra amata Patria? –
Certamente no, sacro quel nanerottolo austriaco? – Era un vecchio in un paese occupato da stranieri, colonnello. Era solo un vecchio che parlava troppo. –
- Era un vecchio che meritava la morte. – disse il colonnello in tono lapidario. Poi disse: - Ha altro da chiedermi, capitano? Dovrei andare ora. –
Lo doveva dire o no? Sì, doveva. – Quell’omicidio avrà delle conseguenze. Quei banditi che si sono nascosti sul monte reagiranno e ci attaccheranno, e qualcuno dei nostri sarà ferito o morirà. Se ne rende conto, colonnello? –
- Siamo in guerra, capitano, non a un pranzo di gala! – rise a questa sua battuta, odiava chi rideva delle proprie battute. – E poi lo spero bene, i suoi soldati si stanno inflaccidendo con questa vita borghese, e non so cosa stia aspettando per andare a stanare quei maledetti banditi. Aspetta forse il disgelo? Lo sa che siamo ancora in autunno, capitano? –
Sorrise mentre immaginava di freddarlo sul posto con una pistolettata in fronte, sarebbe caduto sul suo bel tappeto sotto alla sua fiammante svastica appesa al muro. – Lo so benissimo, colonnello. Solo che non mi sembrava il caso di mettere in pericolo i miei soldati per cercare un branco di ragazzini armati di fucili da caccia che probabilmente non sanno nemmeno usare. Non sono abituato ad ammazzare ragazzini, quando non è strettamente necessario. –
- E allora in guerra cosa fa, di solito? Ricama all’uncinetto? –
- Colonnello, io sono un capitano della Wermacht! Io pretendo rispetto! – disse scattando in piedi ed alzando un po’ la voce, non tanto da gridare, ma abbastanza da far sentire da chi fosse stato nell’anticamera ad origliare.
Il colonnello lo guardò con disprezzo e disse con voce sibilante: - Veda di pretendere cose che merita, vigliacco. – e forse lì ci sarebbe scappato il morto, ma sentirono uno sparo dall’esterno, un fucile da caccia al cinghiale, dal suono. Lui corse fuori dimenticandosi, per il momento, dell’epiteto offensivo che gli era stato affibbiato, ma il colonnello non lo seguì fuori. Chiamò al telefono qualcuno e disse: - Sono arrivati, dottore, ne approfitti per l’esperimento con l’esemplare 1. –

5

Per uscire dal sanatorio doveva percorrere due lunghi corridoi e una grande sala. Quando arrivò fuori, e aveva corso davvero veloce, la sparatoria era già finita. Konrad, di guardia sulla torretta, era ferito a un braccio ma era stato in grado di sparare agli assalitori; in terra, alle luci dei fari, si muovevano, forse agonizzanti tre partigiani. Il capitano si guardò intorno contando i suoi uomini. Ne mancavano solo due che erano fuori di ronda. Si avvicinò alla recinzione e guardò i feriti, tre ragazzi vestiti praticamente di stracci, armati di vecchi fucili da caccia. Era stato una specie di suicidio?
E poi, quando stava per dare l’ordine di andare a raccogliere i feriti, sentì aprire un cancello i cui cardini cigolarono alle sue spalle. Era dove addestravano quei prigionieri? Si girò a guardare e vide che i tizi dell’Ahnenerbe stavano portando fuori una cassa coperta da un telo. No, non era una cassa, era una gabbia. La aprirono davanti al cancello dopo averlo spalancato, poi infilarono dentro un bastone elettrico e diedero una scossa alla cosa che c’era dentro. Un urlo lancinante uscì da quelle sbarre che, nella notte buia, nascondevano il contenuto. E poi una cosa uscì dalla gabbia e galoppò nella notte. Era quella cosa che aveva visto il mese prima, ma gli sembrava più grande. E più, come dire, animalesca ancora.
- Fuori ci sono due miei uomini! – urlò a quei pazzi – Nel paese c’è pieno di civili! –
Gridò ancora correndo verso di loro. – Richiamate subito quella cosa, Santo Dio, ci sono due soldati e un sacco di civili, mi avete capito? –
- Capitano, - disse Bischoff – Quell’essere è assolutamente sotto controllo. –
- Quella cosa sotto controllo? Ma lei è pazzo o deficiente? –
- Si allontani, capitano, stiamo sperimentando l’arma che finirà questa guerra. Questa è l’arma che permetterà al Reich di governare il mondo per i prossimi mille anni. –
Era deficiente, questo era certo. – Bisogna far rientrare i miei uomini, e bisogna soccorrere quei feriti prima che la cosa torni. – disse ignorando volutamente la follia detta dallo scienziato.
- I suoi uomini non sono importanti, capitano, e quelli sono solo dei banditi. Immagino che se sopravvivessero li passeremmo per le armi. –
Non gli risultava che quello fosse il trattamento tipico per dei prigionieri di guerra, non nel mondo civile. E poi tra la fucilazione e essere sbranati da … - Richiami subito quella cosa, se può farlo, così andremo a cercare i miei uomini e soccorreremo quei feriti. –
- Capitano, lei sta vaneggiando. È in corso un esperimento di importanza capitale e non sarà certo lei a farcelo interrompere. – gli rispose e si girò di nuovo verso la sua radio che emetteva un continuo bip-bip che variava quando lui muoveva l’antenna ora in una ora in un’altra direzione.
Si allontanò da quei pazzi e disse ai suoi: - Ragazzi, là fuori ci sono Schauble e Steiner. Chi ha il coraggio di seguirmi là fuori per cercarli, venga con me. Non giudicherò chi rimarrà dentro. – e andò a prendere il fucile e a mettersi l’elmetto. Quando arrivò al cancello erano in tre i suoi pronti ad uscire, voleva bene a quei ragazzi, a loro e agli altri che non se la sentivano. Mise la mano sulla maniglia e sentì la voce del colonnello. – Fermo lì, capitano, è in corso un esperimento. – gli disse puntandogli contro una pistola.
- Là fuori, con quel mostro che tentate di comandare, ci sono due miei uomini e almeno un centinaio di civili. – gli rispose avvicinandosi a lui tentando di ignorare la pistola.
- I suoi uomini sono soldati e sanno di poter morire, quelli che lei chiama civili sono solo nemici. –
Deglutì la sua rabbia e il suo disprezzo per quell’uomo e per tutto quello che lui e la sua divisa rappresentavano, poi si voltò e, ignorando la pistola, andò al cancello. Lo aprì ignorando il grido di avvertimento dell’SS e uscì. Sentì uno sparo, in aria, per fortuna, e andò verso uno dei feriti. Era un ragazzo, magro e coi capelli neri e corti. Stava borbottando mentre il sangue gli usciva dalla bocca, diceva una parola che lui conosceva bene, “mamma”. Lo prese per le spalle e lo trascinò dentro, e, mentre rientrava insicuro di sé e del suo coraggio, vide i tizi dell’Ahnenerbe suonare nel loro fischietto. Dopo poco tempo, non più di un minuto, la cosa tornò, sporca di sangue e ululante e si infilò da sola nella gabbia. L’esperimento era finito, evidentemente, e purtroppo sembrava aver avuto successo.
E fu in quel momento, tenendo la mano di quel povero ragazzo che moriva e parlandogli con le poche parole di italiano che ricordava dai discorsi di sua nonna che veniva da Alba, il capitano capì che quelli non erano più i suoi compagni. Mentre il ragazzo moriva piangendo il capitano decise che nella guerra tra gli uomini e le bestie, lui stava dalla stessa parte di quei pazzi suicidi che li avevano attaccati quella notte.

6

Lui non era più niente. Tutto quello che era stato adesso non c’era più. Era stato un tedesco, era stato un militare, era stato un ufficiale e ora, ora non era niente. Era solo un uomo che correva.
Era un assassino, un ricercato, un traditore. Era un morto che camminava, un condannato a morte, un traditore della patria. Correva verso il nulla probabilmente, correva a perdifiato non riuscendo a credere a quello che aveva fatto.
Eppure … eppure non si era mai sentito così nel giusto come in quel momento. Aveva salvato delle persone, o almeno ne aveva rimandato, per quanto possibile, la morte. E aveva ucciso dei mostri.
E così correva, sicuramente lo stavano inseguendo i suoi ex soldati, lo stavano inseguendo le SS, forse lo stavano inseguendo anche quelle cose. Si sarebbe sparato in bocca quando lo avessero preso, non si sarebbe fatto torturare. Comunque correva, correva come un ragazzino, correva come quando davanti a sé si ha tutta una vita e nessun limite, correva lontano da quello che aveva fatto negli anni passati.
Sentì un colpo alla testa, come un sasso o una puntura di insetto, continuò a correre e, nemmeno un secondo dopo, sentì lo sparo. Il sangue gli colò giù per la tempia e il collo e capì, gli avevano sparato da molto distante, lo avevano colpito alla testa. Era un morto che correva allora, la morte gli stava colando giù nella divisa insieme al sangue. Continuò a correre mentre la vista gli si annebbiava e le gambe cominciavano a tremare, il mondo cominciò a farsi scuro e i rumori intorno a lui sembrarono trasformarsi in un rombo, corse ancora sulle sue gambe di ricotta e tutto oscillò intorno a lui come in un sogno, poi cadde e la notte lo ingoiò.

Rotolò giù nel torrente che era pieno d’acqua, rotolò giù per il pendio scosceso e fangoso. Affondò nell’acqua senza nemmeno annaspare e la corrente lo portò giù. E fu una donna a raccoglierlo appoggiato a un tronco, una donna il cui figlio era ancora vivo perché lui aveva tradito i suoi. Lo trascinò fino alla sua casa e lo curò aspettando l’arrivo dei crucchi. Che venissero pure, lei non avrebbe abbandonato a morire nel fiume un brav’uomo.

Scesero di corsa fino al torrente e videro dove era entrato in acqua. Corsero lungo la riva per chilometri prima di convincersi che la corrente aveva ormai portato il corpo del traditore lontano, verso il mare. Tornarono al sanatorio e non lo cercarono più.