martedì 12 dicembre 2017

Comincia la gara!

Allora ... salve amici, eccomi qui dopo mesi e mesi di blocco dello scrittore.
Oggi non vi ammorberò con baggianate politiche, tanto lo sapete già cosa penso, no?, ma vi chiederò un aiuto e un parere. Non è che io non abbia idee su cosa scrivere, anzi, è che forse ne ho troppe. Ho cominciato tre romanzi (TRE!) e tutti loro si sono arenati. Saprei come farli ricominciare, saprei dove farli andare a parare, per quanto si possa sapere a un decimo del libro dove questo andrà a infilarsi, ma non ho la spinta a farlo.
Ma, se qualcuno apprezzasse una delle storie, se qualcuno fosse interessato a sapere come finisce, chissà, magari ricomincerei a scrivere.
Mah! E chi lo sa?
Comunque, ecco la gara, oggi, domani e dopodomani, pubblicherò qui quanto ho scritto e spero che qualcuno lo legga, si diverta a farlo, e mi dica quale delle tre storie è più divertente, interessante, bella.
Cominciamo con le prime 12.000 parole di una storia fantascientifica che, non avendo la minima idea di come intitolarla, ho nominato sul computer come "Androidi à la Dick." (scusatemi, non è un titolo, è una boutade).
Eccola, e buona lettura!

ANDROIDI A' LA DICK

Capitolo 1

“Solo e pensoso i più deserti campi,
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti,
ove vestigia uman la rena stampi.”
Francesco Petrarca.

I

Disoccupato. Walter Rossi era un disoccupato. Da sei mesi, tre giorni e sedici ore, minuto più minuto meno, da quando la ditta di trasporti per cui aveva lavorato per sei anni aveva chiuso.
All’inizio aveva dormito, non era una di quelle ditte che adorino le ferie, se mi capite, e in quei sei anni era stato a casa solo per l’influenza e per la nevicata che aveva bloccato la città per due giorni. E così all’inizio, per le prime due settimane, aveva semplicemente dormito fino a tardi. Fino alle dieci, un paio di volte fino alle dieci e mezza, godendo come una scimmia quando gli capitava di aprire gli occhi e di vedere la radiosveglia che con le sue cifre rosse urlava che erano le sette e mezza. E che lo fossero pure, cavolo, lui tanto non doveva mica alzarsi.
Poi aveva cominciato a sbattersi un po’ per trovare un altro lavoro, che i soldi non crescono mica sugli alberi diceva nonna, e così aveva portato curriculum, o curricula, non ricordava mai se per il latino si usava il plurale, e aveva fatto colloqui e risposto ad annunci su quelle patetiche riviste che hanno sempre sparato in prima pagina un titolo su millecinquecento posti alle Poste o duemila posti al McDonald, come se ci credesse qualcuno, sì, mille e cinquecento posti, sì, e poi gli asini che volano e un ricco che va in galera.
Quattro mesi era durata quella fase, prima in maniera gagliarda, poi con convinzione, successivamente con speranza, dopo questo per abitudine e le ultime due settimane con una calma disperazione. C’è crisi gli rispondevano, oppure gli offrivano uno stage, non pagato naturalmente, con orari folli naturalmente, con una molto vagamente vaga prospettiva di assunzione a tempo determinato al termine dello stage, e molto vagamente lui pensava che avrebbe voluto dare fuoco a quelle persone e molto realmente se ne usciva da quegli uffici per tornarsene a casa dai suoi.
E ora, da un mesetto o poco più, si era trasformato in un personaggio da romanzo ottocentesco, uno di quei giovin signori la cui unica apparente occupazione era girare per le vie della città notando particolari delle vite altrui ora in prima ora in terza persona, tranquillo come un lama tibetano che se ne sta lì a canticchiare il suo “OOM” in attesa dell’illuminazione. Per lui niente illuminazione, però, come anche pochi o nulli erano i particolari che notava durante le sue passeggiate, a non voler contare le cacche di cani, i cani, i padroni di cani, i ciccioni a torso nudo alle finestre, i vecchietti che parlavano di parenti morti e, una sola volta, una tizia che si spogliava davanti alla finestra. Belle tette, piccole ma sode. Anche come flaneur era un fallito, ma non per questo si arrendeva, si alzava presto, presto per un disoccupato sono le nove, guardava gli annunci dei cerca lavoro, bisogna salvare le apparenze, faceva colazione e poi, fresco e tranquillo, usciva a passeggiare con la sua giacchetta leggera e le sue scarpe da tennis.
Anche quel giorno era uscito, erano le dieci e mezza, la temperatura erano ventidue stupendi gradi celsius, la brezza da est era frizzante e fresca e il cielo era una tavola blu dipinta da un paesaggista del Quattrocento. Doveva passare davanti ai giardini della scuola, a quell’ora non c’erano gli studenti ma i bidelli a pulire, e come al solito i bidelli erano un uomo sui quarantacinque grasso, una donna sulla cinquantina simile a una biglia e due bobby. I bobby, la grande invenzione del millennio, il primo concreto passo dell’umanità verso la fantascienza, gli androidi amichevoli che vi aiuteranno sorridendo e che vi renderanno felici.
Mah! Anche lui ne aveva uno in casa, bobby 34587, detto Yury Gagarin, faceva le pulizie, lavava i piatti, stirava le camicie, e sapeva anche fare le torte al cioccolato, ma di felicità non sapeva portarne più di un tostapane.
Alzò la mano per salutare i bidelli e i due bobby furono i primi a rispondergli con quel loro sorriso stampato di chi è nato per servire e ama farlo. Beati loro che facevano quello che amavano fare, lui come archeologo non aveva trovato lavoro e si era buttato sull’arte impiegatizia. – Salve signore! – dissero all’unisono i due sgorbi di metallo e plastica, poi fu il turno della biglia umana che sorrise come solo le donne grasse sanno fare e poi toccò all’uomo che portava le cuffie come sempre. Quelle ti friggeranno il cervello diceva la nonna quando lui le portava a ciclo continuo da ragazzo nella sua fase rock, e ora, stava diventando un vecchietto, lo pensò anche lui. L’uomo alzò la mano per salutarlo, accennò un sorriso e … rimase fermo. Immobile, il sorriso trasformato in una smorfia, la mano intrappolata in un saluto senza fine, la scopa di saggina stretta nell’altra mano. Walter si fermò a guardarlo, incredulo, aspettando che si muovesse, ma non lo fece, fino a che i due bobby si mossero e andarono a soccorrerlo. In men che non so dica lo avevano portato all’interno mentre la donna chiamava i soccorsi col suo cellulare.
Non era la prima volta che vedeva una cosa simile, gli era successo di vedere una scena quasi uguale il mese prima. Anzi, togliamo il quasi, era stata proprio la stessa cosa; solo che a bloccarsi era stato un bobby. Fermo accanto all’inferriata che circondava il giardino della scuola, grandi finestroni con tende beige nel grosso stabile pieno di bambini, goffi personaggi dei fumetti disegnati, colorati e ritagliati da mani infantili lo salutavano da di là dei vetri con le loro manone con quattro dita, Walter rimase in attesa di qualcosa che non avvenne. Se doveva arrivare un’ambulanza, ci stava mettendo troppo per la sua pazienza, aveva altro da fare che starsene lì, era un fannullone serio lui, che poi a starsene lì in piedi davanti a una scuola elementare magari ti prendono anche per un maniaco e ti inseguono con forconi e torce come il mostro di Frankenstein.
Riprese il suo giro con le mani in tasca, un motivetto senza alcun titolo che potesse ricordare sulle labbra e un sorriso ogni volta che un gatto gli passava davanti alzando la sua codina. Ciao micio, diceva, e subito il gatto si avvicinava ronfando e gli schiacciava il lato della testa contro la mano chiusa a pugno. Arrivò in cima alla via in pochi minuti e si guardò intorno, città, colline che cominciavano a ingiallire, mare, nuvole, una grossa nave alla fonda e ancora colline. Pace, calma. Ma che diavolo era successo a quel bidello? Si era piantato come un’auto che abbia beccato in pieno un palo, un attimo prima era lì che stava facendo il suo lavoro e un attimo dopo era immobile come un manichino.
Ricominciò la passeggiata, prima di cominciare la discesa c’era un tratto di circa duecento metri in piano. Giunto all’altezza della magnolia alzò gli occhi verso la finestra al primo piano, dove una volta, circa un mese prima, aveva visto la donna che si cambiava. Era un guardone? Boh! La finestra era chiusa, non c’era più caldo come un mese prima e la signora, anche se in deshabillé, doveva aver pensato di stare al calduccio. Si accucciò ad allacciarsi la scarpa, sempre la destra si slacciava, trentasette anni e ancora non sapeva allacciarsi le scarpe, Dio!, poi si rialzò e vide la vecchietta col bobby. Tutte le mattine alla stessa ora, puntuali come i personaggi meccanici di uno di quei grandi orologi settecenteschi, il Moro che picchia il gong, la giovinetta che porta i panni, la vecchietta che cammina dando il braccio al suo fido bobby. La vecchietta sembrava trasalire a ogni passo, doveva avere i piedi ridotti malissimo, un caso di alluce valgo da antologia,così imparava a portare i tacchi da giovane, il bobby invece era felice. Siamo felici di servire, era stato uno dei primi slogan quando li avevano lanciati, degli androidi di plastica bianca, bianco avorio a dire il vero, alti come un uomo di altezza media e sottili come degli adolescenti, capaci di fare tutto quello che fa un uomo e felici di farlo al nostro posto. Ecco la fantascienza che avevamo tanto aspettato, degli schiavi bianco avorio felici di essere schiavi.
Che poi … lo schiavo dovrebbe essere quello che io, badrone biango, costringo a fare qualcosa, ma tra la vecchietta e il bobby sembrava lei quella che stesse facendo il giro controvoglia. Li guardò allontanarsi, lui con la sua andatura da ballerino, chissà perché dovevano aver fatto dei robot che sembravano tutti froci, e lei che oscillava sui suoi vecchi piedi appesa al braccio di plastica del suo servo. Se un giorno si rivoltassero come in ogni decente film di fantascienza, pensò, per quella vecchia non cambierebbe niente, il robot la costringerebbe a uscire tutte le mattine per sfizio e lei dovrebbe seguirlo. Sorrise a questo pensiero e si voltò a guardare il giardino alle sue spalle, un uomo sulla settantina e un bobby stavano rastrellando il prato ricoperto dalle foglie di un melo. L’uomo a destra, il bobby a sinistra. Chi si somiglia si piglia, era una di quelle frasi fatte che odiava, ma in quel caso era vero. L’uomo e il robot si muovevano nello stesso modo, stesso movimento con le braccia per spostare il mucchio di foglie e allungare in avanti il rastrello, stessa andatura e stessi passi laterali per coprire tutta la superficie di erba ingiallita. E la finestra sopra i due si aprì e apparve la signora dell’altra volta, i capelli castani raccolti da un cerchietto, occhiali con montatura di plastica, una canottiera bianca e poi … sotto non la vedeva, c’era il muro. Non sembrò vederlo, stava guardando il panorama che anche lui aveva guardato, mare, colline, nave alla fonda e palazzi un po’ ovunque. Continuò a guardarla e lei, spostandosi verso l’interno, si sfilò la canottiera dalla testa, un capezzolo marrone occhieggiò per un attimo prima che lei sparisse dietro al muro.
Ricominciò a camminare canticchiando e considerando la possibilità che in realtà la giovane donna lo avesse visto e avesse fatto in modo di dargli del proibito, come dicevano al liceo, ma più probabilmente la simpatica fanciulla era solo un po’ miope e molto scema e faceva le cose senza pensarci. La discesa era sempre più veloce, Walter camminava a passo veloce sorpassando vecchietti accompagnati dai loro bobby e donne che tornavano a casa con le borse della spesa in mano ai loro … bobby. Erano sempre di più, e non sembravano affatto la fantascienza. Il rumore del traffico lo avvolse nuovamente quando arrivò al piano e lui, slalomando veloce tra clienti indaffarati nella corsa tra un negozio e l’altro, fornitori con i loro carrelli che andavano di corsa a riempire gli scaffali svuotati dai clienti di cui sopra, mamme con in bimbi piccoli per mano e, immancabili, i vecchi che camminavano al centro del marciapiede con le mani dietro alla schiena, si diresse come ogni giorno verso casa. Cominciava ad avere fame e, se non avesse fatto in fretta, avrebbero cominciato a cucinare mamma e Yuri Gagarin e, se di una cosa era sicuro nella sua vita, era di trovare la loro cucina immangiabile come un semolino scotto e sciapo, anche se si trattava di arrosto.
- Salve signor Walter! – disse incredibilmente convinto della sua euforia il bobby, neanche i cani erano così irrimediabilmente leccaculi, - Posso fare qualcosa per lei? –
- Puoi dirmi che non avete cominciato a cucinare te e mamma. – gli rispose appendendo la giacca ll’appendiabiti e togliendosi la polo che gettò in lavatrice.
- Non abbiamo cominciato a cucinare, io e la signora Lia. –
- Bene, Yuri. – gli disse infilandosi la maglietta di un gruppo hard rock che il bobby aveva ripiegato così bene da farla sembrare appena tirata fuori dalla confezione e non vecchia di undici anni – E ora puoi dirmi invece se tu e mamma avete cominciato a cucinare? – e solo chi conosce il servilismo giapponese di un robot può capire la lieve ma importantissima differenza semantica tra le due domande.
- No, signor Walter, non abbiamo ancora cominciato a cucinare. – gli disse il bobby accennando un sorriso, che erano programmati per essere servili e amare essere schiavi, ma erano molto intelligenti e, in alcuni casi come quello del buon Yuri Gagarin, anche molto ironici.
- Bene, ammasso di ferraglia, prendi della carne di maiale e mettila nel microonde, poi preparami sul tavolo patate, salsa, aglio e rosmarino e cipolla, voglio vedere se riesco a insegnarti a cucinare lo stufato. –
- Io so cucinare lo stufato, signor Walter. –
- Sì, ma sembra cacca molliccia il tuo stufato. –
- Che schifo! – urlò suo padre che era in sala a guardare il televideo e che, come al solito, pur essendo duro d’orecchio quando si parlava direttamente con lui, dimostrava di avere un udito sopraffino per ascoltare i discorsi che non lo riguardavano – Non dire cacca quando si parla di cibo. –
- Cacca. Cacca. Cacca. – gli disse e poi cominciò a cucinare con il bobby che sghignazzava sotto voce.

II

- Vi dico che la quarta trilogia di Guerre Stellari sarà la migliore. – disse sicuro J.D. che amava qualunque film fosse fracassone e pieno di esplosioni.
- Se è come la terza non penso. – disse Walter.
- Perché? – gli chiese Marta che al cinema andava solo per vedere film romantici e film romantici strappalacrime, tipo quelli dove c’è una ragazza incredibilmente bella e piena di capelli che in realtà ha il tumore e sta facendo cicli di chemio deliranti, così che poi, quando il bel fusto si è innamorato di lei, all’improvviso gli schiatta tra le braccia e lui si avvia a un’inconsolabile vita di rimpianti.
- Tu li hai visti i nove film precedenti? –
- Uno o due. Forse un pezzo di un altro. Non erano belli? –
- Bellissimi. – disse J.D.
- Capolavori. – aggiunse Marco.
- Non ascoltare questi due pazzoidi, Marta la bella, ti fidi di me? –
- Come lo farei di un aspide. –
- Brava. Allora, Guerre stellari. Prima trilogia, bella, molto bella. Il primo film merita dieci e lode, il secondo nove e il terzo con quei cazzo di orsetti, tra il sei e il sette. Voto medio … otto e mezzo. La seconda trilogia, vediamo … il primo cinque più, il secondo sei e mezzo e il terzo, ma sì dai, abbondiamo, otto. Voto medio, mente aiutami!, sei e mezzo ad andarci larghi. La terza trilogia poi, mio Dio, non era neanche più di Lucas, tutti e tre sul sei e mezzo, solo perché c’era Harrison Ford. Capito cara mia? –
- Niente di che, quindi. –
- Esatto! –
- Matti! Siete tutti e due matti! – disse J.D. mentre Marco annuiva ridendo.
- No, no. Altro che matti. Questa donna, questa splendida donna, ha appena detto la sacrosanta verità, niente di che. –
- Ma allora perché vi piacciono tanto se non sono un gran che? – chiese Marta? –
- Perché è Guerre Stellari. Ci sono le spade laser e Darth Fener – disse imitando l’enfisematico respiro del gran cattivo – e poi ci sono i salti nell’iperspazio e c’è Han Solo che fa quelle battute fuori luogo che fanno tante ridere. –
- Diventeremo magrissimi. – disse J.D. provocando le risate degli altri due maschi.
- E c’è la principessa Leila in bikini con Jabba the Hut. – disse Marco.
- Ecco! – disse Walter indicandolo con il bicchiere di bianco in mano e facendo cadere qualche goccia del vino sul tavolo – Perché c’è la principessa Leila in bikini, e non interessa che la Fisher non sia poi ‘sta gran figa, non interessa che ti basta aprire il computer per vedere qualunque tipo di donna nuda in qualunque posizione, la principessa Leila in bikini vicino a Jabba the Hut è per ogni maschietto di questo pianeta il primo e più indimenticabile sogno erotico che si abbia avuto, la principessa Leila in bikini è il metro di paragone su cui misurerai la figaggine di ogni donna che capiterà nella tua vita. E questo ci porta immancabilmente al cinema a rivedere i nuovi episodi della saga perché non possiamo fare a meno di aspettarci di emozionarci di nuovo come la prima volta che abbiamo visto i salti nell’iperspazio, le spade laser, Darth Fener, Yoda e … la principessa Leila in bikini. È una coazione a ripetere, per quanto il film precedente possa averci deluso, e “la Minaccia fantasma” per esempio ci ha deluso tutti quanti un bel po’, torneremo come pastorelli di Lourdes alla grotta per avere una nuova visione che ci faccia tornare bambini e felici. –
- E col cazzo duro per la principessa Leila in bikini. – disse Marco.
- Ecco. – disse Walter muovendo di nuovo il bicchiere verso di lui – Rozzo ma sincero. Molto rozzo, ma crudelmente sincero. –
- Quindi come al solito, quando si tratta di maschi, si riduce tutto a un’erezione. – disse Marta – Dovevo aspettarmelo. – e rideva.
- Guarda lì. – disse Marco indicando due ragazzini sui nove anni che stavano giocando in mezzo alla strada, era una zona a traffico limitato naturalmente, accompagnati da due bobby che li controllavano chiacchierando tra loro di chissà quali argomenti robotteschi. – Li vedi quei due maschietti? –
- Sì. –
- Ecco. Fino a quell’età il bambino pensa con la testa che ha sulle spalle, appena un po’ dopo prende il sopravvento l’altra testa e il suo mondo cambia. –
- Dovrei dirmi stupita da questa rivelazione? – disse lei mangiando un salatino con un pezzo di uovo sodo sopra.
- No Marta, sappiamo bene che conosci con dovizia di particolare le teste maschili. – disse J.D. prendendosi subito una bicchierata di acqua fredda in faccia.
- Stronzo. – gli disse lei ridendo fino a sentirsi male mentre i due bambini chiamavano i loro robot perché partecipassero al loro gioco. Ognuno dei bambini parlò all’orecchio del suo bobby e subito dopo uno dei due allargò le spalle e con voce cavernosa disse: - Vivo o morto tu verrai con me. – e fece finta di sparare all’altro.
- Hasta la vista, baby. – rispose l’altro e fece a sua volta fuoco con il dito indice tra le urla di gioia dei due bimbi.
- Maschi. – disse Marta con aria di sufficienza arrotolandosi su un dito un lungo ricciolo nero.
- Se fossero femmine li farebbero giocare alle signore bobby che bevono il tè. – disse Walter facendo scoppiare a ridere i due amici mentre Marta lo guardava con velata ostilità.
Per un po’ mangiarono in silenzio guardando i due bambini che giocavano con i loro robot, e non si capiva se ridessero di più i due poppanti o i loro accompagnatori metallici, in un profluvio di finti spari, frasi da film e versi da cattivo colpito al cuore da un raggio laser.
- Che poi a me sentire uno di quei cosi che dice le battute di Terminator, sarò scemo ma … - disse J.D.
- Ti fa paura? – chiese Marco.
- Terminator è quello del robot assassino che vuole ammazzare il capo della Resistenza? – chiese Marta.
- Vedi che allora ce l’hai una cultura? – disse Walter – Sì, è quello. C’è stata una guerra coi robot e hanno vinto loro. –
- Le macchine, non i robot. – lo corresse J.D.
- Le macchine, sì. E sterminano gli umani schiacciandoli sotto ai loro cingolati mentre in cielo volano degli strani aerei pieni di luci blu. Ma questi robot non potranno mai ribellarsi. –
- Ha parlato la sibilla. E perché non potrebbero ribellarsi? – gli chiese J.D.
- Perché i bobby sono fatti a una certa maniera … la tua mente funziona in una certa maniera, hai degli impulsi e dei bisogni, devi mangiare, scaldarti, prolungare la tua vita e riprodurti. –
- Io soprattutto riprodurmi. – disse Marco.
- Guarda che da solo nella tua stanza con la tua mano non vale. – disse Marta.
- Se vuoi darmi un aiutino … -
- La smettete? Stiamo tentando di fare un discorso serio, noi. Noi siamo mossi da questi impulsi, queste pulsioni e tutto quello che facciamo è in certo qual modo generato da un incontro tra questi bisogni fondamentali. Loro di bisogni fondamentali ne hanno due e due soltanto. Servire i loro padroni e non danneggiare mai un umano. Non sono inferiori a noi, non sono più scemi o più incapaci, pensano come noi e forse anche meglio di noi, ma la loro mente è mossa solo da queste idee, servire il proprio padrone e non danneggiare mai alcun essere umano. Quindi nessuno di loro potrà mai ribellarsi a un umano perché sarebbe per loro innaturale come lo è per noi buttarci nel fuoco. –
- Ma a volte gli umani si danno fuoco. – disse J.D.
- Gli umani a volte sono matti, i robot non lo sono mai. – disse Marco.
- Ma si guastano. – disse Marta – Una volta ne ho visto uno che si è piantato come un vecchio computer quando aveva troppi programmi aperti. Se ne è rimasto lì che sembrava il soprammobile più grosso e brutto del mondo. –
- Ieri … - disse Walter – Ieri mattina ho visto un tizio, un bidello della scuola elementare, mi stava salutando e si è piantato proprio così. Non avevo mai visto nulla di simile. Chissà cosa aveva. –
- Sarà stato un ictus, oppure un aneurisma. – disse Marta che era un medico.
- Oppure era un robot in incognito. – disse J.D. e risero tutti quanti passando poi ad altri discorsi scemi e divertenti come quelli che avevano sempre fatto.
Ma quella notte, coricato nel suo letto senza riuscire ad addormentarsi malgrado la camomilla che si era preparato, Walter ripensò alla frase di J.D. prima di chiudere finalmente gli occhi e sognò di robot cattivi, robot che, sotto alla sorridente e simpatica faccia di un bobby, nascondevano il teschio metallico di terminator.

III

Come isole sperdute in un mare di noia, alcune date volevano dire qualcosa anche per un disoccupato come Walter. Il sedici settembre era una di queste, santissimi Cornelio e Cipriano, due santi che ognuno di noi conosce benissimo, no? Si dà il caso che questi due sconosciuti martiri famosi per … per una morte orrenda per mano dei Romani, probabilmente, fossero i santi a cui era dedicata la chiesetta a una navata, orrenda, del paese di Belcolle, minuscolo grumo di case perso tra le colline dove il nostro Walter aveva passato tutte le estati della sua infanzia e della sua giovinezza; là aveva ancora casa suo zio Antonio detto Tonino che tutti gli anni, per la sagra dei patroni, sì, bisognava chiamarla sagra e non festa, lo invitava a passare qualche giorno con la sua famiglia. Mamma e papà avevano smesso da tempo di osservare questo pellegrinaggio in cerca dei ricordi dell’infanzia e così quel 14 settembre, lunedì, Walter era sul treno che lo avrebbe portato nella micragnosa stazioncina dove lo zio Tonino, gran cercatore di funghi e noto evasore fiscale, lo sarebbe andato a prendere col suo suv. Nella sua infinita lotta con la lingua inglese che non aveva mai studiato a scuola e che cercava inutilmente di imparare da una quindicina di anni, Walter si era portato un libricino di Joseph Conrad con testo inglese a fronte e saltava così da una pagina pari, in inglese, a una dispari, in italiano, tentando di convincersi che sì, era andato a leggersi la traduzione, ma non perché non avesse capito cosa il gran polacco volesse dire, ma solo per assicurarsi di aver capito bene le sfumature di significato delle preziose parole.
- Cazzo. – disse poi tra sé e sé richiudendo il libro e riponendolo nel suo zaino beige, - Il giorno che imparerò l’inglese Yuri smetterà di pulire il pavimento dicendo che deve andare a pisciare. – e cominciò a guardare dal finestrino.
Colline verdi, appena ombreggiate di una sfumatura giallo rossastra che nella luce del mattino sembrava oro. Case, casette di campagna unifamiliari e qualche orrendo palazzo di addirittura sei piani che solo una tangente all’assessore all’urbanistica poteva spiegare in quel contesto agreste. Un terrazzo con tre pastori tedeschi, uno sembrava più giovane degli altri due, lungo e sottile dove gli altri erano robusti e pesanti. Se non ricordava male l’anno prima aveva visto lo stesso terrazzo e gli stessi due cani, solo che si stavano accoppiando come ricci. L’accoppiamento era evidentemente andato a buon fine. Un fiume carico d’acqua giallastra, un paio di giorni prima aveva cominciato a piovere più forte e nella notte c’era stato un grosso acquazzone, due germani reali che nuotavano tranquilli, erano maschi, un airone bianco fermo sulla sua zampa sinistra che aspettava dei pesci distratti, un pescatore immerso fino alle ginocchia nell’acqua, gli stivali marroni che gli arrivavano all’altezza delle anche, teneva la canna in una mano e una sigaretta nell’altra. Due gabbiani stavano camminando sulla riva e una femmina di germano reale nuotava appena più in là, seguita da quattro piccoli ormai cresciuti fin quasi alla taglia adulta. Prima di entrare in galleria intravide un cinghiale che trotterellava veloce sull’altra riva, seminascosto dalle fronde delle acacie.
Appena la parete nerastra e umida della galleria riempì il finestrino con la sua oscillante linea bianca si voltò verso l’interno del compartimento e vide che il suo silenzioso compagno di viaggio stava leggendo un libro che parlava di robot.
- Sembrerebbe un gran bel tomo. Robotica applicata alla sociologia. –
- Lo è. Vorrei metterlo tra i libri di testo l’anno prossimo. –
- Insegna? –
- Robotica all’università. –
- Io ho studiato lettere classiche e archeologia. –
- Una mia amica ha fatto i suoi stessi studi, quindi so che non devo nominare assolutamente Indiana Jones e Lara Croft. –
- Lo ha appena fatto. –
- Oh! È vero. –
- Ma non è poi così vero ‘sto fatto, soprattutto non bisogna chiederci delle mummie, delle piramidi e dei dinosauri. Diventiamo verdi, enormi e spacchiamo tutto. –
- Capisco, come se mi parlano di Terminator e di Robocop. –
- Ecco. Io sono Walter. – disse porgendo la mano all’uomo calvo con una corona di cappelli corti grigi intorno alla testa lucida e abbronzata.
- Gianfranco. – rispose l’altro stringendogli la mano.
- Bella giornata, eh? –
- Dopo la pioggia di stanotte, non credevo proprio. –
- Ci sono stati così tanti fulmini … persino il mio bobby sembrava un po’ a disagio. Possono avere paura, i bobby? –
- O sì. Possono avere paura, essere felici, arrabbiarsi e essere depressi. –
- Come noi. Poveracci. –
- Eh sì, li abbiamo fatti troppo a nostra immagine e somiglianza. Però non gli abbiamo dato la bocca per mangiare le mele. –
- Furbi come faine, eh? –
L’uomo rise e appoggiò il libro sul sedile dopo aver chiuso il libro mettendoci il biglietto dentro a mo’ di segnalibro. Si stiracchiò e sbadigliò rumorosamente. – Davvero palloso, quel libro, i miei studenti mi odieranno. –
- Tipico dell’università. – disse Walter, poi pensò che aveva un’occasione perfetta per togliersi qualche dubbio. – Scusi, mi saprebbe dire per quale ragione a volte i robot si bloccano come un fermo immagine? –
- È lo stallo. Sono dei normali computer, dopotutto, e a volte, dovendo gestire molti programmi aperti nello stesso momento, si sovraccaricano di calcoli e si bloccano. Basta un bel reset di solito, oppure se è più grave basta cancellare un po’ di memoria. Sono macchine. –
- Capisco. – disse Walter sorridendo e pensando che aveva visto una persona che doveva avere anche lei troppi programmi aperti insieme. E se … - E scusi, non vorrei rompere, ma avrei un’altra domanda. Perché i bobby hanno proprio quella forma? Cioè, cinque dita nelle mani, lineamenti mobili, alti come noi e fatti all’incirca come noi, ma … diversi, simili a ometti dei playmobil, se mi capisce. –
- Per la forma e le dimensioni, lo spiegava Asimov in un suo libro. Devono camminare sulle nostre strade, salire le nostre scale, guidare le nostre auto e passare per le nostre porte, tutto questo utilizzando strumenti di ogni genere fatti per noi. Il nostro mondo è stato plasmato nei millenni per la nostra forma e solo una macchina che abbia la nostra forma vi si può muovere agevolmente. – sorrise, era un bravo professore, senza dubbio – Ha capito? –
- Sì. E per l’aspetto … plasticoso? Non potevano farli più simili a noi? –
- Conosce la teoria del giapponese Mori nota come “La valle del perturbante”? –
- No. Sembra roba alla Tolkien –
- Direi di no. Noi cerchiamo nelle cose o negli animali con cui abbiamo a che fare una corrispondenza con noi, e più la somiglianza è forte, più proviamo empatia, è per questo che un gatto ci piace più di una tartaruga e un boxer ci pare più bello di un pastore tedesco, i loro lineamenti sono più facilmente assimilabili alla nostra immagine mentale di un uomo. –
- Ah! –
- Però c’è un problema, noi troviamo i cani più belli degli squali perché ci assomigliano di più, ma troviamo inquietanti gli scimpanzé perché ci assomigliano troppo. Lo aveva mai notato? –
- Sì, fanno un po’ impressione, quando non fanno ridere. –
- Ridere è un modo di esorcizzare la paura. L’empatia che proviamo per i cani è nella curva crescente del grafico che esprime le nostre reazioni, maggiore somiglianza uguale maggiore empatia, ma lo scimpanzé si sposta troppo oltre nell’assomigliarci, e cade in quella che è chiamata la valle del perturbante, un crollo verticale dell’empatia che provoca disgusto e rifiuto, fino a che la somiglianza diventa totale e si arriva alla totale identificazione con l’animale, che a quel punto però è un uomo. Nelle macchine comunque è uguale, se gli dai due occhi ti viene più facile parlargli, se hanno una bella voce stai più tranquillo con loro, se hanno lineamenti mobili ti verrà più facile interagire con loro, ma se la somiglianza è troppo alta, se si supera il culmine di quella famosa curva, subentra il disgusto, la paura, il disprezzo. E così i bobby hanno quell’aspetto tipico dei robot fin dal film Metropolis di Fritz Lang. –
- Ma allora, quanto potrebbero essere somiglianti a noi i robot? Cioè, potrebbero costruire un robot così perfetto da sembrare, che so … un bidello grasso e sudato? –
- O mio Dio! E chi vorrebbe comprarlo per tenerlo in casa? – e rise subito imitato da Walter, - Capisco imitare … - guardò Walter socchiudendo un po’ gli occhi, poi abbassò la voce e si avvicinò per dire queste altre parole: - Ha mai sentito parlare dell’oasi Tussaud? –
- No. Cos’è, una palude dove le statue di cera si riproducono in libertà? –
Il professore rise così forte da far rimbombare il compartimento, gli diede una pacca sulla spalla e, dopo qualche istante riuscì a rispondergli. – No, mio Dio, le statue di cera che fanno il nido, mio Dio! Che forte! No, l’oasi Tussaud è, come dire, un parco di divertimenti molto elitario, viene pubblicizzato poco perché la gente, forse, non è pronta. Molte persone non saranno mai pronte, penso, e così è solo il passaparola a diffondere la notizia della sua esistenza. Ha varie sedi, in Italia ce ne sono tre, una è qua vicino, presso Alessandria. – Si infilò una mano nel taschino e tirò fuori un foglietto, vi scarabocchiò qualche riga in una scrittura simile all’arabo o al demotico che doveva essere corsivo. – Ecco, l’indirizzo, l’orario di apertura e … diciamo che potrebbe chiamarla una parola d’ordine per entrare. –
Walter lesse quelle parole, per fortuna aveva dato papirologia e aveva l’occhio allenato per gli scarabocchi illeggibili. – E cosa … -
- Mi ascolti. Li ha 200 euro a disposizione? –
- Sì. –
- Bene, si presenti lì, dica questa parola e, se serve, faccia il mio nome, che sarebbe professor Gianfranco Levi, poi risponda sinceramente a tutte le domande che le faranno, glielo consiglio vivamente. E poi, quando ci incontreremo di nuovo, potrà dirmi quanto possano essere somiglianti a noi i robot. –
- Ora sono davvero curioso. – disse Walter che voleva saperne di più, cavolo, ci voleva una parola d’ordine per entrare, ma l’altoparlante annunciò la sua stazione, il treno già stava rallentando e doveva prendere zaino e borsa. Strinse di nuovo la mano al professor Levi e, mentre stava uscendo, quello gli disse: - E Walter, se non mi crede e pensa che sia una truffa, guardi i polpastrelli. –
- Cosa? –
- Segreto. Vada lì e lo saprà. – e quella fu l’ultima volta che lo vide.
Sceso dal treno incontrò lo zio Tonino che era ancora ingrassato e, per qualche giorno, immerso nell’atmosfera paesana di Belcolle, si dimenticò dei bobby e del segreto del professor Levi, ma una volta tornato a casa decise che sarebbe partito per Alessandria entro la fine del mese. Doveva solo inventare una scusa con quei ficcanaso di mamma e papà.

IV

Portare il proprio curriculum a una ditta di trasporti che aveva sede proprio a Occimiano, a non più di tre chilometri da questa famosa Oasi Tussaud, cioè unire l’utile, a essere ottimisti, al dilettevole, a voler credere al professor Levi. Mamma e papà erano troppo antichi per sollevare l’obiezione che esistevano le e-mail, cavolo, persino Giulio Cesare doveva aver spedito più e-mail di mamma e papà messi insieme, sembravano nati nell’Ottocento, quei due, non negli anni sessanta.
E così se ne stava in treno con un libro in mano, “Non è un paese per vecchi” di McCarthy, grande lettura, e ogni tanto smetteva di leggere il libro e riguardava il foglietto che usava come segnalibro, quello su cui il professor Levi aveva scritto quelle oscure parole. L’indirizzo era chiaro, aveva controllato e risultava che vi fosse una zona industriale e una palestra con centro ricreativo, l’orario era … aperto ventiquattro ore su ventiquattro, manco ci fosse bisogno di scriverlo, e la parola d’ordine era un nome, Yul Brinner.
L’aveva cercato e aveva scoperto che era stato un attore del Novecento, famoso per la sua testa pelata e per un bel po’ di film, tra cui “I magnifici sette”, “Il Re ed io”, “Taras bulba” e infine, e qui pensava di essere giunto al quibus, un film di fantascienza intitolato “Il mondo dei robot”. Lo aveva guardato, bel film, un parco di divertimenti a tema, mondo romano, selvaggio west e medioevo, con dei robot perfettamente simili all’uomo che interpretavano gli abitanti. Volevi sparare al pistolero nella piazza di Carson City? Andavi lì e gli sparavi, con il bel trucco che lui aveva un’arma che su di te non aveva effetto. Volevi essere il cavaliere che lotta al torneo e batte il cavaliere nero? Fatto.
Volevi essere l’imperatore che si fa la ballerina egiziana durante un’orgia al garum? Fatto anche quello. Naturalmente poi, come in tutta la fantascienza robotica, arrivava il guasto e i robot si ribellavano facendo una bella strage.
Quindi aveva cominciato a farsi un’ideuzza di quello che avrebbe trovato entrando nell’Oasi, robot simili a personaggi famosi, da cui il nome Tussaud che aveva giustamente legato al museo delle cere, con magari la ripetizione di scene famose dei film. Ci sarebbe stato da farsi un po’ di risate, anche se non pensava proprio che potessero essere più realistici di una statua di cera dotata di voce.
Scese dal treno e col taxi andò a portare il suo curriculum, “Le faremo sapere” dissero e lui archiviò quei fogli come carta gettata nel secchio dell’indifferenziata, poi si fece portare dal taxi al paese di San Salvatore. Pagò il tassista e andò in un bar, ottimo caffè e brioche davvero ignobile, poi rilesse l’indirizzo e si incamminò verso l’Oasi.
Dall’esterno non è che fosse poi ‘sto gran che. Un muro di cinta alto tre metri, all’interno vedeva degli alberi e qualche tetto. Una caserma, ecco, sembrava una caserma. Andò al portone e suonò il campanello. Gli aprì un bobby, - Salve signore. –
- Questa è l’oasi Tussaud? –
- Sì. Potrei sapere chi l’ha indirizzata qui, signore? –
- Il professor Levi. – cazzo se erano riservati, ‘sti gran bastardi.
- Ah. – disse socchiudendo gli occhi, il gesto che facevano quando stavano cercando qualcosa nei loro schedari mentali – Sì, nostro cliente da … anche nostro consulente. E … dovrebbe averle detto anche qualcos’altro, no? –
- Yul Brinner? –
- Sì. – disse il robot sorridendo, finalmente, poi aprì la porta e disse: - Entri pure, signor? –
- Rossi. Walter Rossi. –
- Benvenuto all’Oasi Tussaud, signor Rossi, spero che si diverta. –
- Grazie. – e seguì il robot per un corridoio sulle cui pareti stavano esposti decine e decine di poster di film di ogni epoca. Dall’alto un sacco di telecamere li controllavano. Alla fine entrarono in un ufficio e il robot si sedette al posto di comando.
- Duecento euro. – disse il robot e lui gli porse i 4 biglietti da 50. La macchina li prese con un sorriso gentile. Era la prima volta che aveva a che fare con un bobby che facesse un lavoro, come dire … di concetto; era strano, diverso da tutti gli altri. – Da compilare. – gli disse porgendogli un plico di tre fogli ricoperti di domanda a risposta multipla. “Ami i fiori?”, diceva la prima e la seconda era un’incredibile “L’ultimo sogno che si ricorda era …” seguito da quattro possibili risposte che erano: “Incubo”, “Erotico”, “Fantastico” e infine “Ricordi d’infanzia”.
- Devo rispondere al questionario? – chiese al robot che sembrava quasi un po’ annoiato, chissà quante volte gli avevano fatto le stesse domande.
- Sì, signor Rossi, e maggiore sarà la sua sincerità, maggiore sarà la sua soddisfazione. –
- Sembrano le domande della visita del militare. –
- Me lo hanno già detto altre volte. Non è un po’ giovane lei? –
- Me lo hanno raccontato dei colleghi, domande assurde. –
- Eh sì. Su, signor Rossi, prima risponde, prima … - non finì la frase.
Barrò le caselle che gli sembravano corrette e tentò di essere sincero, e se era un robot a fargli quel questionario capiva adesso, era proprio perché non avrebbe avuto probabilmente remore a rispondere sinceramente a domande intime a una macchina, ma avrebbe potuto averne con un uomo.
- Fatto. –
- Bene, signor Rossi. – disse il bobby prendendo i fogli e mettendoli in uno scanner, poi girò verso di lui uno schermo sormontato da una piccola web-cam con il led acceso e disse: - Un’ultima cosa e abbiamo finito. Guardi queste immagini senza muoversi. –
- E poi cosa … -
- Deve solo guardare. –
Partì un montaggio velocissimo di scene di film, alcuni li conosceva, altri gli dicevano qualcosa ma non faceva davvero in tempo a collegarli a un titolo, altri ancora, semplicemente, gli erano ignoti. Due minuti dopo era finito. Il bobby ruotò di nuovo verso di sé lo schermo e si batté sul viso, dove un uomo avrebbe avuto i denti, la penna, gesto che doveva aver imparato in anni e anni di contatto con gli umani, poi sorrise e disse: - Ecco fatto signor Rossi, deve andare nella via gialla al numero trecento e tre. – e gli diede un cartoncino con questo strano indirizzo. Non era un cartoncino, però, era tipo carta di credito, con una banda magnetica. Una chiave. Strinse la mano al robot, uscì all’esterno da un’altra porta e si trovò in un cortile, per terra delle bande colorate portavano verso tre porte. Banda rossa, banda verde e banda gialla. Seguì quella gialla e si trovò in una strada con villette a schiera su entrambi i lati. Ogni casetta aveva un piccolo giardino sul davanti con alberi e cespugli curati. Un grosso numero civico spiccava vicino alle porte. C’erano svolte e vie laterali, con cartelli che indicavano quali numeri civici fossero in quelle zone, dopo cinque minuti di cammino trovò la zona dei numeri intorno al trecento. Altre persone gli passavano accanto, uomini e donne, alcuni entravano nelle case e altri ne uscivano, da una finestra vide una donna che guardava fuori. Bella, una giovane donna coi capelli rossi. Mentre entrava nel vialetto del trecentotre si rese conto di conoscerla, o forse … assomigliava all’attrice di quel film assurdo, “Il grande Leboswky”, sì, ecco, assomigliava a … boh!
Passò la carta nell’apposita fessura e, dato che la porta non si aprì da sola, bussò e sentì dei passi che si avvicinavano dall’altra parte, la porta si aprì e … incredibile, era incredibile. Pensava che avrebbe dovuto essere ridicolo, aveva tutto per essere ridicola la scena, ma non gli venne da ridere. Carrie Fisher gli aveva aperto la porta, anzi, no, Leila Organa gli aveva aperto le porta, vestita come quando era prigioniera di Jabba the Hut, un bikini di metallo a coprirle il petto e una pezza triangolare di stoffa lunga fino a terra a coprirle il ventre. Avrebbe dovuto ridere, no? e invece disse: - Salve. –
- Salve, bello. – disse lei prendendogli il bavero della giacca e trascinandolo nella casetta con un sorriso malizioso. L’Oasi Tussaud era un bordello per ragazzini mai cresciuti, l’Oasi Tussaud era stupenda.
Fu dopo qualche ora, tra un salto nell’iperspazio e l’altro potremmo dire, che si ricordò di quella cosa che gli aveva detto Levi mentre usciva dallo scompartimento. Prese una mano di Leila e le guardò i polpastrelli. Non aveva normali impronte digitali, ma le creste formavano un codice a barre. – Cosa c’è bello? – gli chiese lei con quella voce che solo alcune donne hanno dopo aver fatto bene all’amore.
- No, solo una cosa che mi avevano detto. Prese il suo cellulare e lo puntò sull’indice della bella ginoide e cliccò. Subito venne fuori una sigla, “Ro-Sim-1-3696. LEY.”
- È il tuo nome? –
- Sì. Ma puoi chiamarmi principessa. –
- D’accordo, principessa. – le disse e si tuffò di nuovo in una galassia lontana lontana.
Fu davvero un gran bel giorno, uno splendido giorno pieno di divertimento e soddisfazione. Sarebbe stato solo quella notte che tutto avrebbe cominciato ad andare a catafascio. Ma lui, quella mattina e quel pomeriggio, non lo sapeva ancora.

V

Sognò Guerre Stellari, naturalmente, lui era Han Solo. Ci furono anche brutti sogni, sogni di mostri, sogni di morti orrende e, anche, sogni di tipo paranoico, quei sogni in cui sai qualcosa e non puoi dirla a nessuno, sogni in cui la cosa che sai ti rende diverso, anche se in realtà sono gli altri ad essere diversi. Quando si svegliò verso le nove e tre minuti per un attimo il terrore di quell’ultimo sogno gli passò ancora i suoi gelidi e umidi artigli sulla schiena facendogli ritirare le palle fin dentro alla pancia mentre il suo cuore batteva come la batteria di un rocchettaro pazzo, ma in pochi istanti quella paura si diradò sotto i colpi del sole che si infilava tra le fessure delle persiane. Si alzò ripensando ancora a quanto la cosa più falsa che avesse fatto in vita sua, dopotutto la bella Leila non era in realtà niente di più di una bambola gonfiabile incredibilmente perfetta, fosse stata la più perfetta esperienza della sua vita. Alla faccia di Slow food e di tutti i cantori della genuinità.
Fece colazione parlando con mamma, stranamente parlava di morti e malati, che varietà, che allegria!, parlò di politica con papà, come al solito ci uscì una mezza lite, decise con il buon Yuri cosa fare per pranzo e controllarono quali piante erano da potare, quali da buttare e quali da ammirare per la loro bellezza. Del terzo tipo ce ne erano poche, naturalmente. Poi uscì per il suo giro, c’era qualche nuvola a oscurare il sole ogni due per tre, e il vento era costante e fresco. La sua giacchetta sarebbe andata bene, andava sempre bene. Si camminava bene, clima ideale per gironzolare senza meta, che non fosse la finestra di quella stramboide. Forse era davvero un maniaco.
Davanti a lui un operaio portava in spalla un elettrodomestico molto grosso, probabilmente un frigorifero. Perché non usasse un carretto era un mistero degno di un romanzo di Kolosimo. Era sudato marcio, il poveretto, se fosse stato un cavallo ci si sarebbe potuti aspettare che stramazzasse al suolo da un momento all’altro con la bocca piena di schiuma. Anche Leila sudava, chi l’aveva costruita era stato così preciso da farle anche sudare le ascelle. Se non fosse stato per quei polpastrelli avrebbe potuto anche essere … cioè, chiunque intorno a lui avrebbe potuto essere un robot. L’idea lo colpì come una fucilata alla schiena. Sudare, avere l’alito cattivo, avere la pelle lucida o perdere i capelli, nessuna di queste cose voleva dire che si era veri. Aveva mai guardato i polpastrelli alle persone?
Dopotutto non aveva mai saputo dell’esistenza di quei robot “ricreativi”, da quello che ne sapeva lui, e tutte le altre persone al mondo a parte un ristretto numero di eletti, i robot erano solo quelle cose di plastica e metallo che sembravano dei grossi giocattoloni per bambini. Ma i robot erano anche altro. Se avessero preso il Primo Ministro e lo avessero sostituito con un robot uguale identico a lui, chi se ne sarebbe potuto accorgere? Anche lui da ragazzino aveva passato come tutti una fase complottista, aveva studiato con un totale impegno, che chissà come era negato alle materie scolastiche, i vari priorati di Sion, le varie Roswell, i comitati alla Bilderberg e cupole planetarie varie fermandosi solo, non era mai stato così scemo, di fronte ai rettiliani. Adesso quelle idee folli ritornavano tutte alla sua mente e continuava a ripensare a quel bidello. Certo, se senti rumore di zoccoli pensi a un cavallo e non a una zebra, se un uomo si blocca probabilmente ha avuto un ictus, ma le zebre esistono, Dio Cristo, e qualche volta potrà anche capitare di vederne trotterellare una per una città.
Quasi soprappensiero girò verso via Fillak e cominciò a passeggiare in quel brutto viale sormontato da un viadotto tanto sgraziato quanto alto. Gli alberi erano ancora verdi e nelle aiuole l’erba stava ricominciando a crescere intorno agli stronzi di cane che nessun padrone raccoglieva. Il traffico era molto tranquillo, poche auto che sfrecciavano poco sopra al limite. Davanti a lui una madre portava il passeggino vicino al quale caracollava sui suoi piedini tondeggianti un bambino dalle gambe incredibilmente corte e cicciose. Dall’altro lato della strada un uomo camminava a passo veloce nella sua stessa direzione, con addosso una maglietta che doveva essere stata rossa prima di una lunga serie di lavaggi sbagliati. Camminava in fretta, si vede che doveva arrivare da qualche parte il prima possibile.
Si sedette su una panchina a distanza di sicurezza dalla donna e dal bambino che doveva evidentemente essere l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia urlatrice e provò a leggere il giornale. Brutte notizie, naturalmente, i giornalisti sanno trasformare in una brutta notizia anche le notizie migliori. Se trovassero la cura per il cancro il titolo sarebbe qualcosa tipo: “Milioni di oncologi sul lastrico!”, però leggere di cose prosaiche come guerre e carestie in paesi lontani serviva ad allontanare quelle idee folli e paranoiche che solo pochi minuti prima gli vorticavano per il cervello. Stava giusto leggendo dei bombardamenti americani in Iraq, ma da quanti anni gli Yankee bombardavano quel maledetto paese, quando vide qualcosa con la coda dell’occhio. Un uomo con la maglia rossa sbiadita camminava a passo veloce verso la periferia. Era lo stesso, prima andava in giù e ora andava in su, ma sempre in fretta. Scosse la testa sorridendo e si rimise a leggere il pensoso articolo di fondo del giornalista esperto di Medio Oriente che spiegava il perché e il percome della guerra e la soluzione che era lì a portata di mano e che nessuno era così furbo, tranne lui, da capirlo. Girò pagina e guardò con occhio critico la pubblicità della borsa da mille euro che occupava pagina cinque. A parte che la borsa faceva schifo, che c’entrava una modella nuda con una borsa? Che poi le borse le comprano le donne e una donna nuda attira l’occhio di un uomo, il suo l’aveva attirato, e quindi è come richiamare l’attenzione dei vecchi sdentati se si vende il croccante di mandorle. E se fosse stata una bobby anche quella modella? Ecco di nuovo il complottista che si faceva vivo. E poi vide di nuovo l’uomo. Scendeva a valle, a passo veloce. Dieci minuti prima andava giù, poi era tornato su e ora, di nuovo, scendeva. Mai che portasse un pacco o un sacchetto, mai che parlasse al cellulare con qualcuno che lo chiamava per dirgli che aveva dimenticato qualcosa. No, camminava in fretta ora di qua ora di là.
Lo guardò allontanarsi fino a che fu difficile distinguerlo in mezzo ai tronchi dei platani. Si rimise a leggere il giornale, politica, si rischiava la crisi di governo naturalmente, ma ogni poche parole guardava l’altro lato della strada. E poi lo vide, tornava di nuovo in su, a passo veloce. Ora era davvero strana la cosa, prima era ancora possibile, l’uomo in rosso sbiadito esce di casa per andare a fare x, ma si rende conto a metà strada che non ha con sé l’importantissimo documento y, così torna a casa, lo prende e riscende in strada rifacendo la stessa strada di prima. Ma ora … cazzo, ora non aveva senso. Lo vide passare davanti a lui con quel passo frettoloso e lo guardò con attenzione. Non camminava in fretta, che so, come un cardiopatico a cui abbiano detto di passeggiare a passo veloce tutte le mattine, aveva proprio fretta. Scomparve a monte del ponte e, dopo pochi minuti, eccolo lì che tornava in su.
Era fastidiosa, quella cosa, come un dente spezzato su cui non puoi fare a meno di tornare con la punta della lingua, era fastidiosa anche se avrebbe dovuto essere solo divertente. Anche il robot-Leila che gli apriva la porta vestita da schiava di Jabba avrebbe dovuto essere ridicola, ma non lo era.
Gli dava fastidio quell’uomo che andava su e giù come un pendolo, sapeva benissimo che doveva esserci una spiegazione semplice, che so, l’Alzheimer o qualcosa di simile, ma la fretta con cui si muoveva, la sicurezza con cui andava avanti e indietro gli ricordava il modo in cui si era bloccato il bidello. Che polpastrelli avrebbe trovato se avesse attraversato la strada e avesse afferrato una mano a quell’uomo? Quando lo vide tornare per l’ennesima volta in giù non resistette più e si alzò per andarsene da quel maledetto viale.
Sarebbe andato in alto per godersi il panorama, non c’era niente di meglio di un bel cielo blu pieno di nuvole bianche con colline verdi e mare.

VI

- Charlize Theron. – disse Marco con espressione sicura.
- Charlize Theron? – chiese Marta.
- Sì. –
- Per me è la Portman. Natalie Portman è stata, è e sarà sempre la donna più bella del mondo. – disse J.D.
- Vi sbagliate tutti. La donna più bella del mondo è … - stava dicendo Walter quando Marta lo interruppe dicendo: - Lo sappiamo, Walter, la principessa Leila Organa. – e tutti cominciarono a ridere.
- No. Tu l’altro giorno non mi hai capito. Io ho detto che la principessa Leila in il Ritorno dello Jedi è il metro di paragone con cui tutti i maschi di quel paio di generazioni che ci contornano misureranno la bellezza di ogni donna con cui avranno a che fare. –
- L’altro giorno avevi detto “figaggine” e non bellezza. – disse J.D.
- Io mi evolvo. – disse Walter come a voler intendere che J.D. era solito invece continuare a scheggiare le selci utilizzando come percussore le sue arcate sopracciliari.
- Walter 2.0 – disse Marta. E rise di nuovo buttando giù un altro sorso di spritz.
- Non paragonarmi a un robot. – disse Walter che ormai da qualche giorno continuava a notare piccoli particolari di nessuna importanza che però gli facevano sembrare le persone intorno a lui come provenienti dalla valle del perturbante. Per ora i suoi amici gli sembravano ancora abbastanza umani, o almeno non meno umani del solito.
- Scusa. Preferisci un cinghiale? –
- SGRUNT! – le disse arricciando il naso e mostrando i denti.
- Sì, preferisce il cinghiale. Comunque se non è la bella principessa chi è per te la donna più bella del mondo? –
- Claudia Cardinale. Claudia Cardinale in “C’era una volta il West”.
- Ah! – disse J.D. con la sua solita espressione furba. Strinse gli occhi e annuì. – Vero. Non proprio la più bella forse, ma nella top ten, sì. –
- E io? – chiese Marta?
- Tu cosa? –
- In classifica come sto messa? –
- Perché, sei una donna tu? – le chiese Marco.
- Stronzo! –
- Solo per le tue narici, cara, solo per le tue narici. –
Per un po’ avevano fatto il pieno di stronzate e continuarono a bere in silenzio mangiando ogni tanto un salatino e sorridendo quando gli capitava di guardarsi in faccia. Quante volte avevano fatto questi discorsi da quando si conoscevano? Migliaia, sembrava a Walter, gli sembrava che fossero mille anni e non quindici quelli da cui erano amici. A volte gli sembrava di essere un ragazzino in un corpo di quasi quarantenne, altre volte si sentiva centenario o giù di lì. Strana la mente umana, no?
- La conoscete la valle del perturbante? – chiese a un tratto ai suoi amici.
- Sì. È un racconto di Conan Doyle con protagonista Sherlock Holmes. – gli rispose J.D.
- Quello è “La valle della paura”, cretino. – disse Marta.
- Grazie. – e bevve d’un fiato il suo vino rosso.
- No, davvero raga’, l’avete mai sentita quest’espressione? –
Marco annuì mentre masticava un mini tramezzino con burro e acciuga, lo deglutì e disse: - C’entra con la somiglianza all’uomo di animali e macchine. È la ragione per cui un film d’animazione in 3D ci piace se i personaggi sono stilizzati come fumetti e ci dà invece fastidio se sono realistici. Per quanto l’animazione sia perfetta c’è sempre qualche particolare sbagliato e così il nostro cervello si fissa su quello e tutto ci appare sbagliato in una maniera impercettibile ma importantissima. –
- Ecco. È una teoria nata per i robot, è per quello che i bobby sono così … come dire, simili ai robot dei film di fantascienza. Se fossero troppo simili a noi ci farebbero schifo. – disse fermandosi appena prima di cominciare a raccontare dell’Oasi Tussaud. Quello era un segreto, cavolo.
- Ma lo sapete che certi pazzi dicono che … - disse Marco guardandosi intorno e controllando che nessun bobby fosse a portata di orecchio – Girano delle leggende metropolitane su robot uguali agli umani che girano tra noi, non si sa perché, forse per controllarci, forse per influenzarci, o … boh!, una delle solite teorie del complotto, sapete. –
- Di solito dovrei zittirti con una battuta, caro il mio pazzoide, - disse Marta – ma devi sapere che tra noi medici girano altre voci, cioè, non è che ne parli col primario, ma dopo un paio di bicchieri con i colleghi a volte qualcuno ne parla … cioè, ragazzi, non so se sia vero, ma pare che a volte, operando delle persone, o soccorrendole dopo un incidente, qualche medico abbia trovato delle cose strane … parti meccaniche, ossa che hanno un’anima metallica, sensori al posto di organi umani. – e rise.
- Spari stronzate, mia cara? – le chiese J.D.
- Sono voci, niente di più, ma pare che sia successo molte volte. Sembrano umani, sanguinano, quando li apri sembrano normali, organi normalissimi, sangue rosso, gli intestini puzzolenti, ma poi trovi qualcosa che … qualcosa che non dovrebbe essere così, come se fossero stati costruiti. –
- E tu ne hai mai visto uno? – le chiese Marco che sentiva di nuovo quella strana sensazione simile a una scheggiatura in un dente. Lui conosceva robot che a qualunque tipo di contatto o di esame, anche molto ravvicinato, sembravano umani.
- Sono ancora qui, quindi direi di no. – disse lei.
- E questo cosa vuole dire? – le chiese Marco.
- Beh, queste storie, come ogni storiaccia di questo genere prevede che il malcapitato dottore che ha visto … delle stranezze chiamiamole, finisca male. Incidenti, cadute, esaurimenti nervosi da ricovero immediato, omicidi. Roba così. –
- E io che ti stavo ancora ad ascoltare! – disse J.D. – Potevi dirlo subito che erano stronzate da complottisti internettari! –
- Io vi ho raccontato quello che so, ragazzi, anche a me sembrano cazzate, ma qualcosa c’è. –
- Io ti credo. – disse Walter.
- Ecco l’altro coglione. – disse J.D. – Ma è noto che vanno sempre in coppia. – disse ancora, poi finì la birra e chiamò il bobby cameriere che li aveva serviti.
- Sì, signore? – disse il robot.
- Tu non puoi mentire a un uomo, vero bobby? –
- Io? No, signore, io sono nato per servire gli umani e non mentirei mai agli umani. –
- Bene. Da quello che ne sai, c’è in atto una congiura per sostituire alcuni di noi umani o tutti gli umani del pianeta con dei robot ultra moderni? –
- Non è in atto nessuna congiura di questo genere, signore. – e il suo sorriso tipico si era un po’ appannato, non gli piaceva rispondere a quelle domande.
- E dimmi un po’, e ricordatevi che non ci può mentire, da quello che ne sai, qualcuno di noi rischia di essere rapito nottetempo per essere sostituito da un androide come ne l’invasione degli Ultracorpi? –
- Non so cos’è questa invasione degli ultracorpi, signore. – e ora davvero il bobby aveva la faccia di uno che avrebbe preferito fare un bel bagnetto nell’acido piuttosto che stare lì a parlare con loro.
- Si tratta di un vecchio film, degli alieni invadevano il mondo sostituendo gli umani con dei baccelli, te li mettevano sotto il letto e quando dormivi dal baccello usciva un alieno identico a te e tu morivi. Allora, bobby, qualcuno di noi rischia anche lontanamente di fare questa fine? –
- No signore. Assolutamente non c’è questo rischio. – disse con un’espressione più tranquilla, poi aggiunse come se fosse una spiegazione: - Noi siamo solo nati per servire. – e andò dentro al bar.
Walter non disse nulla, non voleva passare per matto, ma quel robot gli aveva ricordato qualcuno. Da piccolo, a cinque o sei anni, aveva chiesto a papà come nascevano i bambini e papà, arrossendo, gli aveva spiegato che l’uomo e la donna si baciavano e si accarezzavano e poi … poi lo avrebbe capito da più grande. Ecco, l’espressione di papà allora era stata proprio uguale a quella del robot. Non che fosse la faccia di uno che mentiva, quello no, ma quella d uno che stia nascondendo qualcosa, ecco, forse sì.

VII

Suo padre era sempre stato come J.D., uguale sputato. Avevano sempre qualcosa da dire su ogni persona che gli passava accanto, sempre, e tutto quello che gli passava per il cervello usciva immediatamente fuori attraverso quelle maledette boccacce. E J.D., come papà prima di lui, aveva un unico volume possibile per la sua voce, un volume altissimo stile concerto rock di quelli a cui mandi tuo figlio che sente persino le mosche che volano in un’altra stanza e ti torna che devi urlargli le cose come a un vecchietto. E così camminare per strada con J.D., se da un lato era divertente, dall’altro era una tortura quasi insopportabile perché veniva una gran voglia di abbassarsi fino a misurare non più di una decina di centimetri per potere camminare agevolmente coperti dal marciapiede e sfuggire alle occhiatacce dei malcapitati che si erano sentiti dire “Guarda, quello è nero dalla rabbia.” se neri, “Un pezzo d’uomo!” se bassi, e “Guarda che bella bionda!” se vecchiette con i capelli tinti di uno strano colore giallognolo.
J.D. ne stava proprio raccontando una di quelle sue, una di quelle storiacce che ti fanno morire dal ridere, ma che non vorresti mai far sentire alle vecchiette che ti stanno passando vicino, e invece ogni volta che J.D. stava dicendo, o forse sarebbe meglio dire urlando, una parte divertente, ecco che subito vicino sul marciapiede passava la vecchina di cui sopra.
- Ah, signora, ma allora lei vuole la pizza coi wurstel! – stava dicendo J.D. imitando la voce del pizzaiolo di cui raccontava le avventure – Io pensavo che preferisse le verdure, che so io, i cetrioli! – e qui fece una delle sue risate dal volume omerico mentre Walter si guardava intorno in cerca di facce disapprovanti mentre non poteva fare a meno di ridere. Effettivamente alcuni li stavano guardando, due uomini che stavano portando un vecchio materasso verso il bidone della spazzatura, un giovanotto e la sua ragazza che camminavano mano nella mano, una donna con passeggino e un bobby che giocava a palla con un bambino sui dieci anni.
Walter sorrise imbarazzato mentre J.D. andava avanti con la sua storiella del pizzaiolo che, a naso, sembrava essere destinato a dare effettivamente un qualche tipo di wurstel alla signora e il bobby li guardò rispondendo al suo sorriso e rilanciando al bambino la palla. C’era un po’ di traffico in strada e Walter pensò che sarebbe stato meglio portare il bambino a giocare da un’altra parte, perché i palloni supertele sono famosi per rimbalzare un po’ dove vogliono. Però il bobby stava osservando il traffico, lo vedeva bene.
- E mi dica un po’, signora, le è piaciuto il wurstel? – disse J.D. scoppiando a ridere insieme a Walter, tanto che dovettero fermarsi per un attimo.
- Come va al lavoro? – chiese Walter a J.D., il quale era un restauratore di pareti affrescate, lavoro che per lui era una specie di maledizione e che Walter avrebbe invece voluto fare con tutte le sue forze.
- Bene. – gli rispose, poi fece una smorfia e disse: - Lo sai che c’è una cosa … una stranezza. –
- Adoro le stranezze. –
- Questa ti piacerà. Tre mesi fa avevo partecipato al primo lotto di restauro nella cappella, lo sai, no? –
- Ero venuto a trovarti una volta, stavi ripulendo il volto di santa Rosalia. –
- Santa Chiara. Non puoi davvero credere che in un ciclo di affreschi su san Francesco ci sia santa Rosalia. –
- Era una boutade. –
- Parli francese? Ma va a caghèr! –
- Spicchi davvero bene le lingue, congratulescion! – e risero di nuovo mentre un grosso camion della spazzatura si fermava davanti a loro poco prima del semaforo e ne scendevano due uomini e un bobby lasciando alla guida un altro bobby.
- Comunque, tornando a quella stranezza, io mi ricordo quando ho restaurato quell’affresco, l’ho fatto tra quattro e tre mesi fa, eppure … non so, sai? –
- Cosa c’è? Qualcuno c’ha disegnato un cazzo? Perché io penserei che potresti essere tu il colpevole. –
- Simpatico come la varicella, davvero. No, niente disegni di cazzi, è solo che … un affresco nuovo è liscio, coi colori lucenti, e invece la parte che ho aggiunto io, ti ricorderai, no, mancava una mano di Santa Chiara e io la stavo proprio disegnando quando sei venuto a trovarmi, no? –
- Mi ricordo, la coloravi con tante sottili righe di colore parallele che da lontano sembravano il colore dell’originale, ma erano perfettamente distinguibili da vicino. –
- Ecco, proprio quello. L’ho fatto un mese fa, eppure sembra vecchio. –
- Intonaco del cacchio? – gli chiese mentre con la coda dell’occhio vedeva la palla che lo superava andando verso la strada.
- Non esiste un intonaco così schifoso che dopo un mese … - disse e poi si lanciò in mezzo alla strada per acchiappare il bambino che, correndo dietro alla palla si era buttato in mezzo al traffico.
- Cazzo! – stava dicendo Walter stupendosi per i riflessi dell’amico e notando solo allora che in quel momento il camion della spazzatura aveva cominciato la manovra per re immettersi nel traffico costringendo un auto a spostarsi bruscamente nell’altra carreggiata venendo così a trovarsi perfettamente di fronte a J.D. che stava spingendo sul marciapiede il bambino spaventato che stava tornando verso il suo bobby che stava accorrendo.
- J.D.! – urlò all’amico sentendo il rumore della frenata e vedendo gli occhi dell’amico che si allargavano in un espressione di terrore nell’istante preciso in cui il cofano della grossa auto grigia lo colpivano sbalzandolo in aria, su e in avanti, mandandolo poi a ricadere pesantemente sull’asfalto. Il rumore fu sordo, come un frutto pesante che cade al suolo spaccandosi; le braccia e le gambe erano tutte come sparpagliate sotto al corpo, spuntando ognuna in un punto diverso da quello dove avrebbero dovuto essere, mentre gli occhi di J.D. sembrarono per un solo breve attimo cercare di mettere a fuoco qualcosa davanti a lui prima di perdersi oltre quello che Walter poteva vedere. Corse verso di lui tra le grida di terrore del bambino e delle altre persone intorno a loro, mentre anche un paio di bobby accorrevano, avevano tutti un programma molto avanzato di primo soccorso, ma gli bastò uno sguardo veloce per capire che un corpo che perdeva sangue da così tante parti, compresi la bocca e le orecchie, non aveva alcuna possibilità di salvarsi. J.D. era morto neanche tre minuti dopo aver raccontato una barzelletta su una signora che voleva la pizza col wurstel, perfettamente in linea con lui.
I due bobby cercavano di rianimarlo mentre altro sangue gli fuoriusciva dalle orecchie misto a della roba grigiastra e densa che doveva essere cervello. Per quanto si impegnassero non potevano salvarlo, era chiaro. Solo i due bobby sembravano non rendersene conto. Era un bobby anche quello che gli aveva risposto che loro erano nati solo per servire alla domanda sulla possibile congiura robotica per sostituire gli umani. J.D. due giorni prima aveva fatto quelle domande assurde a un bobby e adesso, una palla lanciata da un plasticone aveva fatto scendere in strada un bambino mentre un camion guidato da un altro plasticone si immetteva nel traffico. Nessuno dei due aveva fatto nulla di dannoso per un umano, questo era certo, ma i loro goffi comportamenti avevano portato un altro umano a mettere sotto l’uomo che aveva fatto quelle domande.
“come ogni storiaccia di questo genere prevede che il malcapitato dottore che ha visto … delle stranezze chiamiamole, finisca male. Incidenti, cadute, esaurimenti nervosi da ricovero immediato, omicidi. Roba così.” Queste erano state le parole di Marta quando raccontava della leggenda metropolitana dei medici su strani umani non troppo umani. E da quel discorso da bar erano nate le domande fatte da J.D. a un bobby non troppo desideroso di rispondere. E ora J.D. era lì in terra, morto e disarticolato come una bambola di pezza. Avrebbe voluto urlare, Walter, avrebbe voluto fuggire o staccare la testa a quei maledetti robot con le sue mani, ma quello che fece fu accucciarsi vicino al suo amico e stringergli la mano. Di certo i due robot si aspettavano che facesse qualcosa di simile.

Capitolo 2

I

Anita De Franciscis pensava davvero che la sua fosse la vita più noiosa del mondo. Si alzava la mattina, si lavava e rifaceva il letto, si vestiva per uscire, andava a fare la spesa, tornava a casa per il pranzo, guardava un po’ di tivù, andava al lavoro alle quattro del pomeriggio e alle otto aveva già finito di fare le pulizie negli uffici che le erano stati assegnati. Per le nove era a casa, per le undici era a letto e la mattina dopo era di nuovo uguale. Sempre così, sempre lo stesso.
Aveva conoscenti, non amici, i suoi erano morti qualche anno prima e fratelli non ne aveva mai avuti. E non aveva manco colleghi, le pulizie oramai le facevano soprattutto i bobby, e non aveva certo voglia di attaccare discorso con un pezzo di plastica semovente. E così la sua vita continuava così, in casa aveva libri che non leggeva, una radio che non accendeva mai, un gatto che accarezzava solo per abitudine, preferendo comunque lui di dormire sul termosifone che accanto a lei nel letto.
A volte pensava di fare qualcosa di diverso, ne aveva una gran voglia a dire il vero, ma poi non sapeva bene come finiva per rifare sempre le stesse cose. Tra queste c’era anche la sua unica stranezza; ogni mattina, verso le dieci e mezza, si cambiava nella sua camera davanti alla finestra aperta. Quasi sempre c’era qualcuno che passava davanti alla finestra, una vecchia con un bobby e un uomo sulla trentina, di altezza e taglia media, che senza farsene troppo accorgere sbirciava sempre verso di lei.
Perché lo faceva? Era forse esibizionista? Non le sembrava di ricordarsi di essere stata una di quelle bambine che si sollevano sempre la gonnellina per mostrare le mutandine rosa di cotone a tutti, e non le sembrava neanche di ricordare di essere stata, al liceo, una di quelle che andavano scollate e stavano sedute a gambe aperte con la gonna corta. Non le sembrava neanche di non esserlo stata, a dire il vero, quello che ricordava era di essere stata molto normale.
E ora, invece, ogni mattina rimaneva a seno nudo davanti alla finestra mentre passavano quei tre. La vecchia non se ne accorgeva mai, il bobby le lanciava un’occhiata come lei lo avrebbe fatto con una nuvola o un fiore, e l’uomo la sbirciava sorridendo appena. E lei? Lei sorrideva? Quella mattina aprì le persiane e pensò di non farlo, cavolo, avrebbe richiuso la finestra e si sarebbe vestita dietro le tende. Era lei a decidere cosa fare e non le cose da fare a decidere per lei. Sì, avrebbe fatto così. Sorrise pensando che sarebbe stato diverso e, quando fu sul punto di muoversi per richiudere l’anta, si tolse la canottiera. L’aria fredda la punse subito, si stava andando verso l’autunno ormai, i suoi capezzoli si inturgidirono e lei rimase ferma a guardare fuori. La vecchietta e il bobby stavano passando, lei oscillava miseramente sui suoi vecchi e disastrati piedi; il bobby alzò lo sguardo e la guardò con la stessa espressione che avrebbe potuto avere vedendo che lo stipite scolpito a volute sopra alla sua finestra era ancora lì. Anche lei era ancora lì, in effetti. L’uomo non c’era.
Fece un passo indietro e si infilò una maglietta vecchia e un po’ scucita che stava lì sullo schienale della sedia. Dove era? Tutte le mattine lo aveva visto lì, sempre. Le era quasi venuto il dubbio, quasi, di spogliarsi davanti alla finestra proprio per lui. Andò in bagno, si vestì velocemente e, contrariamente al solito, uscì di casa prima del dovuto. Di solito faceva una bella colazione, caffè e brioche alla marmellata, sempre uguale, poi rifaceva il letto e, solo allora, usciva. Precisa come un orologio, un piccolo automa che esce dalla facciata del palazzo. E invece uscì, senza nemmeno pettinarsi. In strada rimase un attimo ferma, indecisa, quasi spaventata dalla novità. Le sembrava di non essere mai uscita fuori, in realtà. La vecchia col bobby stava ancora caracollando sui suoi poveri piedi e nel giardino di fronte un uomo e un bobby stavano raccogliendo foglie secche con due rastrelli uguali. Si muovevano a tempo come ballerini, ma a dire il vero di foglie ce ne erano davvero pochine. Forse doveva tornare su, fare colazione, pettinarsi, fare il letto, sì, doveva farlo e quella sensazione di paura, di terrore anzi, sarebbe andata via. Le sarebbe bastato girarsi e tornare alla porta di casa, aveva già le mani sulle chiavi e sarebbe stato un attimo. Sì, ecco … - Tanta fatica per poche foglie! – disse una voce dietro di lei. La voce di un uomo, giovane, una voce simpatica.
- Effettivamente. – disse lei voltandosi e vedendolo per la prima volta da vicino. – Salve! –
- Salve! – disse lui porgendole la mano – Walter Rossi. – disse lui.
- Piacere. Anita De Franciscis. – disse lei sorridendo, poi scoppiò proprio a ridere.
- Sono così divertente? –
- No. è solo che, mamma mia!, di solito prima mi presento a un uomo e solo dopo, solo dopo un bel po’, lui mi vede le tette! – e le prese la ridarella incontrollabile, quella che poi comincia a farti male la pancia.
Lui arrossì e poi scoppiò a ridere con lei. – Potrebbe essere un nuovo modo di presentarsi, però! –
- Spero di non vedere mai il posto in cui ci si presenta così. – riuscì a dire lei tra una risata e l’altra.


“Posso sorridere, e mentre sorrido uccidere, posso gridare “Va bene!” a ciò che mi
opprime il cuore, e bagnare le mie guance con lacrime finte, e atteggiare la faccia per
ogni occasione.” Enrico VI, William Shakespeare

I

Le zebre sono animali intelligenti. Non è che siano molto diverse dai cavalli o dagli asini, neanche un po’, ma sono a righe.
Uno potrebbe pensare che sia folle essere a righe nere e bianche in mezzo a una savana che va dal giallo al verde, ma loro sono nere e bianche e prosperano. In un mondo in cui tutti si mimetizzano per assomigliare all’ambiente circostante loro vanno a vestirsi da carcerati delle barzellette della settimana enigmistica. Ma è questo il bello, anche loro sono mimetizzate per fuggire ai predatori, e fanno di tutto per mimetizzarsi nell’ambiente che le circonda; il loro ambiente sono le zebre. Quando diecimila zebre corrono tutte insieme anche il leone con la vista migliore del mondo vede solo un’enorme massa di righe bianche e nere che si confondono in maniera ipnotica e non riesce a identificare tra diecimila ipotetiche e possibili prede quella che deve essere “la” sua preda. Non è che funzioni sempre, questo no, ma di solito funziona e, male che vada, muore una zebra su diecimila. Meno che ad andare in macchina in autostrada, a conti fatti.

Qui finisce la storia, per ora, domani ci sarà la prossima, una storia di incubi e succubi. Ciao!

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