mercoledì 13 dicembre 2017

Ed ecco il secondo candidato!

Vi avevo promesso una storia di incubi e succubi? (Se non sapete cosa sono, enciclopedia, o Wikipedia, please!) Ed eccola, sono le prime pagine (e anche le uniche) e sono divise in un po' di capitoletti ancora slegati uno dall'altro, diciamo vari tentativi di assaltare la storia:

1° frammento, dal titolo:

L'Incubo

Il primo ricordo che aveva era lì, in quel posto. Stava coi piedi a bagno nell’acqua fredda e suo fratello Gianluca e i suoi amici, non ricordava affatto chi fossero, stavano infilando le mani sotto ai massi per prendere le trote. Erano bellissime, argentate e lucide, quando le tiravano fuori dall’acqua e sbattevano la coda in una girandola di gocce che riflettevano un arcobaleno di luce quando venivano colpite dal sole. Lei stava lì a guardarli e li invidiava, e intanto aveva freddo ai piedi e sentiva la ghiaia piccola e dura tra le dita. Poi Gianluca aveva tirato fuori una cosa dall’acqua e tutti avevano urlato mentre lui la gettava scappando via. Era una biscia d’acqua, grossa, ma a lei era sembrata enorme, era scattata fuori dall’acqua ed era corsa dietro al cespuglio di rovo. Il ricordo finiva lì, non c’era un prima e un dopo, non sapeva se Gian fosse stato morso o se lei si fosse punta, c’era solo quella sensazione di freddo e duro sui piedi, l’invidia per i ragazzi più grandi, la meraviglia delle trote guizzanti e la paura per la biscia.
Anche adesso sentiva freddo ai piedi, però non si era tolta le scarpe e invece che la ghiaia sentiva le calze viscide e appiccicose. Avrebbe dovuto togliersele, cavolo, ormai era tardi. Aveva freddo ai piedi e sudava sulla fronte, e aveva male alla schiena. Pesava, cavolo, pesava davvero. Le continuava a scivolare tra le mani, giù per gli avambracci e la stava anche ferendo, era molto dura e ruvida. Incespicò quando una pietra si mosse sotto al suo piede destro e rischiò di cadere, ma rimase in piedi. Un’altra fitta alla schiena, tanto … ricominciò a camminare sforzandosi di stare dritta, stai dritta che diventi gobba, le diceva il nonno, e lei camminava sempre dritta, una soldatina sull’attenti.
Lì il fondale scendeva poco alla volta, altri cinque o sei metri e si sarebbe trovata dove da piccola si fermava. Si ricordava che una volta, avrà avuto otto anni, era arrivata con l’acqua alla base del collo. Facendo fatica a mantenersi in piedi, l’acqua tentava di sollevarla, arrivò fino a lì. Aveva le mani sott’acqua, ormai, fece un altro passo e sentì il bordo della fossa. Si ricordava il suo cane, quella volta che Gianluca gli aveva lanciato una pietra in un punto nuovo nel torrente e lui era corso tutto tranquillo. Aveva beccato una buca talmente profonda che era scomparso sott’acqua, lui che odiava così tanto nuotare. Era riemerso dopo un secondo, forse due, lo sguardo sconvolto e la bocca spalancata per respirare. Anche a lei sarebbe venuto naturale farlo, per un attimo o forse un po’ di più avrebbe lottato. Era ferma sul bordo e sentiva la ghiaia che cedeva lentamente sotto ai suoi piedi. Stava scivolando giù di uno o due millimetri a ogni respiro, se non si fosse decisa sarebbe andata giù così, di colpo. Strinse la pietra tra le mani, chiuse gli occhi e fece un passo in avanti.
La pietra la trascinò giù così improvvisamente che quasi non capì cosa fosse successo, poi toccò il fondo. Guardò su e vide il fondale che si rifletteva sulla superficie dell’acqua a un metro e mezzo dalla sua testa, solo un piccolo cerchio oscillante le permetteva di vedere il cielo. Una nuvola bianca stava per coprire il sole, un aereo passava. Lasciò andare la pietra e questa le cadde su un piede. Fu un dolore così forte, così inaspettato, così inopportuno in quel momento, che aprì la bocca per urlare. L’acqua le entrò in gola, le entrò nei polmoni, mentre la sua vita risaliva in due o tre grosse bolle verso la superficie formando delle onde concentriche che restrinsero e allargarono un po’ di volte il cerchio di cielo. Sentiva in bocca quel gusto di pesce morto che ha l’acqua dei fiumi, sentiva i conati di vomito, tossiva tentando di buttare fuori l’acqua mentre i suoi polmoni bruciavano. Spinse coi piedi per risalire, la corda le scavò la vita dove l’aveva legata, non riuscì a risalire che di una trentina di centimetri, allungò un braccio che nemmeno arrivò a sfiorare la superficie ondeggiante, riflessa in quello specchio deformante vedeva la sua faccia, un urlo di Munch più pieno ancora di terrore, urlò e altra acqua le scivolò fino in fondo ai polmoni, voleva vomitare, voleva nuotare, voleva vivere, Dio, vivere. Tentò di sciogliere il nodo della corda, ma lo aveva fatto bene, era stretto, intrecciato, impossibile da sciogliere da bagnato. Le mani scivolavano sul nylon, un’unghia le saltò via formando una nuvoletta evanescente di acqua rosata intorno alla ferita. Il dolore la costrinse a urlare di nuovo e questa volta fu poca l’aria a fuoriuscire dalle sue labbra, le mani si muovevano come intorpidite intorno alla corda, come se non si ricordasse neanche più in che modo avrebbe potuto sciogliere quelle spire. Muoveva meno le gambe, era piena d’acqua, ritornò giù, sul fondo, gli occhi accecati dall’acqua che venivano invasi dall’ombra, il rumore di mille cascate nelle orecchie che diveniva come un ronzio, il rumore di fondo di un televisore senza antenna. Lì. A pochi metri da lei c’era il suo primo ricordo. L’ultimo era quello, la luce in quel cerchio di cielo che si spegneva piano piano, il sapore dell’acqua, il dito con l’unghia …
Un’ultima bolla d’aria le uscì dalla bocca che rimase aperta, due piccole bolle la seguirono da ogni narice, gli occhi, aperti, si persero e le mani rimasero stese, a mezz’aria. Alcuni piccoli cavedani si avvicinarono al suo dito ferito e assaggiarono il sapore del suo sangue, per un istante quell’immagine di buio tentò di diventare il suo ultimo ricordo, ma anche quell’ultimo gruppo di neuroni finì di funzionare. Era morta. Morta.

I

Risalendo il viale ricoperto da alberi notò subito la piccola auto. Una A112 rossa, targa AS e poi dei numeri. I numeri non gli dicevano niente, ma una A112 rossa targata asino se la ricordava bene. Era già vecchia e rara venti anni prima, e poi … sì, c’era. una piccola ammaccatura sulla portiere sinistra, era stato David col motorino, aveva colpito l’auto del prof facendo manovra e lo avevano preso tutti per il culo per mesi. Entrò nell’ospedale e salutò Luisa all’entrata. – Salve Luisa, dormito bene? –
- No. C’era mio marito vicino a me. –
- Se vuoi che ci stia un po’ io, Luisa, basta che fai un fischio. –
- Sono troppo abitudinaria, Marco, sarebbe un cambiamento troppo grosso. –
- Peccato. – le disse ridendo e andando a timbrare il cartellino, cosa che gli faceva sempre pensare a Fantozzi ragionierUgo, poi tornò indietro e le chiese: - Puoi cercare un nome? Giambattista Vassalli. –
Luisa digitò con i soli indici, aspettò il tempo necessario e poi disse: - Ricoverato due giorni fa in medicina. È arrivato al pronto soccorso con capogiri e affanno. Letto 24. –
- Grazie. – le disse dirigendosi verso le scale.
- Lo conosci? –
- Era il mio prof di latino. – e cominciò a salire le scale di corsa. Era al terzo piano, a destra dopo l’angolo.
- Salve, prof. – disse all’uomo anziano che stava seduto sul letto e leggeva il giornale. La Stampa, a Genova. Sempre eccentrico il prof. – Pensavo che quelli come lei leggessero solo Erodoto e Tito Livio. –
L’uomo si tolse gli occhiali, li richiuse e li depose con cura nel taschino del pigiama blu e azzurro, prese dal comodino un altro paio di occhiali e li inforcò. Lo guardò per non più di un secondo e poi, sorridendo, disse: - Ferrero. Vuoi ancora che ti dia una versione di Cesare? –
- La Gallia nel suo insieme è divisa in tre parti. – disse lui contento di vedere che il suo prof lo ricordava ancora. Per lui il prof di latino era stato solo uno, ma di studenti da sette e mezzo lui doveva averne avuti un bel po’.
- Hai sempre avuto questa convinzione che Cesare fosse facile. Cicerone è facile, Cesare è conciso. Tradurre il suo modo di scrivere è molto difficile. –
- E Tacito? –
- Tacito era pazzo. – disse il prof raddrizzandosi e tendendogli la mano. – Ferrero, Alessandro Ferrero. Che ci fai qui? –
- Io ci lavoro, lei che ci fa qui, piuttosto. –
- Mi dicono che ho il diabete di tipo 2 e che ho le arterie intasate e mi devono mettere … - prese un foglietto dal taschino e lesse a fatica una parola – Uno stent. Che cavolo è uno stent, poi! –
- Sarebbe un tubicino di rete metallica, glielo infilano da un taglio qui sul polso o nell’inguine, lo fanno risalire fino alla vena intasata e poi lo allargano permettendo al flusso sanguigno di riprendere. –
- Hai studiato la lezione, eh? –
- Molti anni fa, purtroppo. Respira male? –
- Mi dicono che è il cuore. Ho i polmoni che si riempiono di liquido, pare. –
- È il cuore, appena le riparano l’arteria vedrà come respirerà. –
- Farò la maratona. Sei medico? –
- Sì. – meglio non specificare di che tipo.
- Mi opererai te? –
- No. Io opero … altre persone. –
- Protesi al seno? –
- Ah! Ah! Mitico prof, mitico. No, io sono … sono un medico legale. –
- Ah! Allora spero davvero che non mi opererai tu, Ferrero, scusami ma non vorrei proprio che mi toccassi con quelle zampacce. –
-Lo spero anch’io prof, mi creda. – guardò l’orologio, era in ritardo, diede la mano al prof e poi disse: - Quando posso ripasso di qui e le faccio due o tre domandine per vedere se è preparato sui poeti neoterici. –
- Vai a cagare, Ferrero! – fu l’ultima cosa che sentì dal corridoio, poi scese le scale e andò al sotterraneo dove lavorava. Il suo lavoro l’aspettava, ossa oggi, almeno non avrebbe dovuto usare il vix vaporub, e questa era già un’ottima cosa.
Prima di entrare nel suo antro, il laboratorio del dottor Bishop lo aveva definito Emily, passò a cambiarsi. Si tolse ogni singolo indumento che indossava, perché la puzza di morte, la puzza dei morti, è la cosa più appiccicosa del mondo e anche se a fine giornata si faceva una doccia, sempre un po’ di quello schifo si portava a casa. Non ce l’aveva più fatta ad accarezzare un cane o un gatto da quando lavorava lì, si tenevano a distanza e soffiavano o ringhiavano, ma non da arrabbiati, era terrore e non rabbia quello che esprimevano le loro espressioni.
Una volta indossato il camice entrò nella sala autopsie. – Salve Agata! – disse all’infermiera che da anni lavorava con lui. Donna formidabile, capace di toccare un bambino morto e marcio senza dare segno di fastidio. Chissà dentro cosa le succedeva, naturalmente.
- Salve dottor Ferrero. – disse lei leggendo il foglio che era allegato alla scatola che era stata consegnata la sera prima.
- Ossa? –
- Sì. Ma dovremo usare lo stesso qualche protezione. –
- Cosa? E perché? –
- Le hanno trovate in un lago che … - andò a rileggere il punto in questione – Un lago che è stato contaminato vent’anni fa da una fuoriuscita di cromo esavalente. –
- Roba buona, genuina. – disse lui.
- Sì. Lo metto nel caffè tutte le mattine, ecco perché sono così bella. –
- Ne metterò un po’ anche io. – e rise. Agata era alta un metro e sessantadue e pesava ottantasei chili.
- Glielo consiglio, dottore. –
- E sarebbe morto per il cromo? –
- C’è una corda, dicono … sì, una corda di nylon legata a un grosso masso. Lo scheletro era dentro a un anello di corda. –
- O un suicidio o un occultamento di cadavere. –
- Sì. –
- Va be’, vediamo ‘sto scheletro. – disse lui e, infilati guanti protettivi e una mascherina, cominciò ad aprire la scatola. Ossa abbastanza pulite, solo una lievissima patina di alghe ormai secche. Prese il teschio e guardò quella che era stata una faccia. Gli incisivi superiori si accavallavano appena, doveva essere un sorriso simpatico.
- Giovane, non più di venti anni. –
- Donna. – disse Agata.
- Mi rubi il lavoro? –
- No. – disse lei mostrando la corda là dove era stata annodata intorno alla vita. Se la circonferenza arrivava a 60 centimetri era già qualcosa. – Ragazzi di vent’anni con questo vitino ne ho visti pochi. –
- E infatti è una ragazza. Bei lineamenti, regolari. Nasino alla francese, direi. –
- L’avranno uccisa? –
Alessandro esaminò il teschio. Nessun segno, nessuna botta in testa. Cercò le vertebre cervicali e l’osso ioide, intatti. Se non c’erano segni di coltellate su costole e vertebre avrebbe potuto dire con sicurezza quello che pensava. Guardò rapidamente le ossa e non vide tacche o incrinature. Poi notò una cosa. – Guarda. – disse.
- Ossa del piede? Dita? –
- Sì. Indice e medio del piede destro. Schiacciati. –
- E cosa vuol dire? –
- Era legata a un masso? –
- Sì. –
- Lo ha lasciato andare quando era sott’acqua e le è caduto sul piede. Avrà sicuramente urlato e le sarà entrata l’acqua in gola. –
- Brutta morte o bella morte? –
- Perché, ci sono anche quelle belle? Brutta, comunque, brutta e sgradevole. –
- Povera ragazza. Sarebbe giovane anche adesso, Cristo! –
- Avrebbe la mia età. – disse lui e, quasi sopra pensiero, riprese il teschio. Il dente incisivo destro si sovrapponeva appena al sinistro. Quelli inferiori erano regolari. I canini erano piccolissimi. Le orbite erano quasi impercettibilmente più distanti della norma, il naso era piccolo e delicato, quasi da bimba. Prese il femore e lo misurò. Era alta circa un metro e settanta, magra ma muscolosa. – aveva la mia età. – disse.
- Cosa? –
- Aveva la mia età. Elena Bonetti, si chiamava Elena Bonetti. – disse andando a cercare l’ulna destra. Era caduta sugli sci a sedici anni, le aveva firmato il gesso. Ale il mito aveva scritto, col pennarello rosso. Lo aveva scritto accanto a David scritto in nero, con vicino, aggiunto da Andrea, la parola gnomo. L’ulna era rotta e riparata, un piccolo e regolare callo osseo.
- Lo ha trovato scritto su un osso? –
- Scomparve l’ultimo anno di liceo, venti anni fa. Non ne sapemmo più nulla. –
- Non è detto che sia lei. –
- Questi denti me li sognavo di notte. Era la ragazza più bella della classe, forse della scuola. –
- Le piaceva? –
- Ne ero cotto. Elena … Elena Bonetti. Mio Dio, che ricordi! –
- Era la sua fidanzata? –
- Cosa? O no! Ero basso allora, basso mingherlino, lei aveva un ragazzo più grande che la veniva a prendere in motorino. Lo invidiavo da morire. –
- Sembra un ragazzino, dottore. –
- Spero di no, Agata, i ragazzini fanno schifo. Li odio i ragazzini, soprattutto quelli come me. –
- E perché, dottore? –
- Perché … per quello che fanno, mio Dio, Elena Bonetti … - posò il teschio e l’ulna sul tavolo d’acciaio e accarezzò la curva di quella testa con la mano. Mamma mia, Elena. Che schifo. – e poi cominciò il suo lavoro ordinando e classificando le ossa. Prima di poter finalmente avvertire la famiglia che da venti anni cercava quella figlia c’erano molte cose da fare.

Per quanto fosse ormai totalmente sicuro dell’identificazione c’erano ancora molti passaggi formali da effettuare, controlli sui verbali della polizia dell’epoca, tristissimi colloqui coi familiari, confronto dei calchi dentari e infine, ormai immancabile come il dolce dopo la cena, l’esame del DNA. Poi, forse tra sei o sette settimane, quelle povere ossa tolte dalla loro tomba di ghiaia e acqua inquinata sarebbero state restituite alla famiglia che avrebbe potuto, finalmente, mettere un punto a quel capitolo della propria vita, un punto che avrebbe avuto la forma di una bella lapide su un loculo con sopra una piccola foto di Elena diciottenne, al massimo del suo splendore.
Si lavò nella doccia annessa all’obitorio malgrado quel giorno no avesse avuto a che fare con fetidi liquidi della putrefazione, ma per quanto non fosse stato sporco nemmeno prima di infilarsi sotto al getto sempre o troppo freddo o troppo caldo, quando ne uscì continuò a sentirsi lurido. Elena Bonetti, la bellissima Elena che lui al liceo si sognava di notte, la bellissima Elena che quella notte in discoteca a Barcellona aveva ballato vicino a lui strofinandogli addosso un fianco. Ossa bianche, sporche di una patina di alghe secche.
Tornando a casa sul treno, come al solito, prese tutto quello che gli era avvenuto nella giornata e lo rinchiuse lontano da sé, con un metodo simile a quello che usano gli mnemonisti per ricordare tutto, la sua mente era una specie di palazzo della memoria che non serviva per ricordarsi ogni minimo particolare, anche se questo era un interessante effetto collaterale, ma una prigione in cui rinchiudere ricordi e pensieri per tenerli lontani dal suo cuore e dal suo volto quando era con Maria Teresa e Gabriele.
Sceso dal treno, nei dieci minuti di cammino verso casa, mentre una lieve pioggia cominciava a punteggiare di sparute macchie scure l’asfalto e le pietre del marciapiede sollevando nell’aria uno strano ma non troppo sgradevole odore di acqua e pietre surriscaldate, si sforzò di chiudere a doppia, anzi a tripla mandata, il teschio ghignante che aveva preso il posto del viso ovale e morbido di Elena e i pensieri e i ricordi che quei due piccoli incisivi sovrapposti avevano evocato dalle profondità oscure della sua memoria. Cose che aveva pensato e desiderato allora, quando sparuti peli gli crescevano sul petto e ogni cosa gli sembrava meravigliosamente e pericolosamente nuova e terribile, avevano rotto la crosta di terra che li aveva ricoperti per venti anni e si erano riaffacciati nella sua testa reclamando di essere pensati e ricordati.
- No. – disse tra sé e sé mentre cominciava a camminare vicino al muro perché la pioggia stava diventando di minuto in minuto più insistente – No, col cazzo, no. – disse ancora scuotendo la testa al solo pensiero che chi stava pensando quelle cose potesse avvicinare le proprie mani a suo figlio treenne, che una bocca attaccata a certi pensieri potesse baciare le labbra di sua moglie.
Quella strana bestia che era stato da adolescente, quel mostro incontrollabile e sognatore come tutti gli adolescenti sono in realtà, quello sconosciuto di cui aveva preso il posto maturando, fu legato a una grossa pietra e lasciato affondare in quella melma ribollente di odi, amori, invidie, sogni e depressioni che era stata la sua prima giovinezza e, quando salite le scale aprì la porta acchiappando al volo suo figlio che gli saltava addosso, era il Ferrero adulto e buono che amava pensare di essere che lo strinse a sé.
Gabriele gli raccontò dell’asilo con la sua parlata farfugliante dall’incredibile accento genovese, poi gli spiegò che aveva visto un cane che si annusava il sedere e tentò di fargli capire quanto me-ra-vi-glio-so fosse stato vedere accadere questo prodigio, e poi volle che mamma e papà lo accompagnassero a letto e gli raccontassero per l’ennesima volta la fiaba del gigante egoista di Wilde, la sua preferita, e, solo dopo, quando socchiusero la porta sulla stanza buia dove il piccolo caterpillar umano era crollato sotto alla stanchezza della sua ricca giornata di scoperte, Maria Teresa lo guardò e, accarezzandogli la guancia disse: - Giornata dura? –
- No. Perché? –
- Perché quando ridevi alle cretinate che Gabriele sparava a getto continuo, mai, nemmeno per un attimo, la tua fronte si è distesa. Ti ho visto così solo quando tuo padre è finito in ospedale per quell’ictus due anni fa. –
- Quindi quando penso di poterti nascondere qualcosa … -
- Ti conosco … ti conosco come una parte di me. So cosa pensi di solito e so che a volte ci sono pensieri ce non vuoi pensare davanti a me e a Gabriele. Di solito sono grata per questo, perché immagino che quello che vivi ogni giorno sia pesante, ma mi fai pena perché per difenderci … per non farci toccare da quanto di brutto riempie la tua vita, te ne stai sempre solo, asserragliato in un tuo fortino, anche quando sei qui con noi.
E quindi, ripeto la domanda, giornata dura? –
- Molto. – inspirò chiudendo gli occhi e scelse con estrema cura che parole dire, perché se avesse detto troppo, se si fosse lasciato andare ai ricordi, avrebbe ricordato cose che non voleva resuscitare dall’oblio. – C’era uno scheletro, vecchio di vent’anni. Era una ragazza che si è suicidata annegandosi in un lago. –
- O mio Dio! –
- La conoscevo, era una mia compagna di classe, a metà dell’ultimo anno di liceo era … scomparsa nel nulla. E si era uccisa. – e scoppiò a piangere abbracciando sua moglie che lo strinse a sé in silenzio per un bel po’.
- Lei era … importante per te? –
- Elena era … era così bella, una specie di bambola bellissima, buona e gentile con tutti. Io avevo una cotta per lei … noi no sapevamo che … non avremmo voluto che … si è annegata legata a un masso, annegare è la morte più orrenda che si possa immaginare, credimi, e lei si è legata ‘sto sasso alla vita e si è incamminata nel lago. Noi no sapevamo nulla, noi eravamo solo ragazzi. –
Maria Teresa lo baciò sulle labbra bagnate di lacrime e capì che parlando avrebbe solo continuato a ingarbugliarsi nei ricordi come un uccellino preso in una rete, così lo baciò di nuovo e tenendolo per mano lo portò a letto.
Lo coccolò a lungo, quasi come un bimbo, poi passò a carezze un po’ più da grandi perché lui stava soffrendo davvero e quello era l’unico modo per raggiungere il suo cuore. Ma …
- Mi dispiace, Maria, ma stasera proprio non ce la faccio. – disse lui avvilito.
- Non c’è problema, Ale, capita, a volte. –
- Mi dispiace, ma non … - e ricominciò a piangere. Lei lo abbracciò e si addormentarono così, stretti l’uno a l’altro. Poco prima di cedere del tutto al sonno lui sobbalzò e gemette disperato. Fu l’unico momento di quella notte che le sembrò aver avuto una parvenza di erezione. Chiedendosi quante cose un marito e una moglie felici possono ignorare della vita del coniuge, chiedendosi in realtà se si potesse ignorare che vita avesse avuto una persona in passato, Maria Teresa si addormentò e dimenticò questi pensieri.
Si svegliò solo una volta, quella notte, l’aveva svegliata il respiro affannoso di Alessandro che sembrava oppresso da un peso, lo accarezzò sulla guancia e lui si calmò sospirando. E poi ci fu solo il sonno e i suoi sogni subito dimenticati al mattino.

Il giorno dopo, prima di scendere giù nell’antro degli orrori, definizione di sua sorella quando le aveva detto che lavoro avrebbe fatto, passò dal prof. Leggeva, naturalmente, e aveva una mascherina nasale per l’ossigeno.
- Guardi qua, prof! – disse al signore anziano che si voltò verso di lui con quella piccola sofferenza che i vecchi manifestano anche per i movimenti più semplici. Appena lo vide sorrise e sembrò di nuovo il simpatico ed eccentrico professore di latino che gli aveva insegnato molto più di due lingue morte.
- Cosa c’è, Ferrero, una giustificazione della mamma che mi spiega perché oggi non puoi essere interrogato? –
- Non le ho mai portato nulla di simile, io ero sempre preparato, o almeno quanto me lo permetteva la mia mente bacata. –
- Sì. – disse il prof annuendo con la faccia schifata di quando una persona che non è molto abituata a farlo deve farti un complimento – Tu eri abbastanza diligente e studioso, Ferrero. E allora, cosa c’è da vedere? –
Marco gli mostrò la mano che teneva dietro alla schiena. Poggiò sul tavolino il sacchetto e da questo tirò fuori un quaderno, una penna, un vecchio libro di versioni per il triennio e il vocabolario Italiano-Latino con la sua consunta e stropicciata sovraccoperta con la sua enorme scritta “IL”.
- Sei scemo? –
- Non vuole farla una versioncina? Nemmeno una corta corta? –
Finalmente il vecchio professore scoppiò a ridere e sembrò dimenticarsi le cannule nasali, i dolori, il diabete e l’infarto, rise sonoramente e tese le braccia verso Marco dicendo: - Che autore, Ferrero? –
- Cesare? –
- O mio Dio! – disse il prof e, preso il libro, lo aprì con sicurezza a una delle pagine dove stavano le versioni di Cesare.
- Lo sa a memoria quel libro? –
- Le sai a memoria le ossa del corpo umano? –
- Dovrei saperle, magari me ne manca un paio o giù di lì. –
- Ecco. Uguale. –
- Che numero sceglie? –
- 125. – disse il professore e diede il libro al dottore.
- Deum maxime Mercurium colunt. Huius sunt plurima simulacra, hunc omnium inventorem artium ferunt, hunc viarum atque itinerum ducem … - lesse velocemente, aggrottò un attimo la fronte e poi, inspirando, disse: - Ma è una cazzata, prof! –
- Da quanto non traduci dal latino, Ferrero? – gli chiese il vecchio professore prendendo la mascherina e ciucciandosi una bella chilata di ossigeno.
- Ogni sera mi metto alle mie scrivanie, una per il latino, una per il greco e una per l’italiano, e lì traduco a mente … -
- E chi sei, Pascoli? –
- Pensavo che si notasse fin dal liceo che il fanciullino in me non è scomparso. –
- Lo sai cosa non può fare un professore con i suoi studenti? Ti aiuto, è una cosa che un professore in pensione può fare con un dottore rompiballe. –
- Mandarlo affanculo? –
- Intelligente! E comunque non hai ancora tradotto nulla, Ferrero. –
- Adorano soprattutto il dio Mercurio. Ci sono molte sue statue e lo ritengono inventore di tutte le arti, guida o forse è meglio protettore, di tutte le vie e i percorsi … va bene? –
- Pedestre, non come la traduzione di un liceale, ma comunque pedestre. Però te lo ricordi ancora, sei e mezzo. –
- Eh no prof! Almeno sette meno! –
- Non hai un cadavere da sventrare, Frankenstein? –
- No. In questa città non crepa mai nessuno. –
- Ci si potrebbe scrivere un libro, il contrario dell’ormai frusto “Ultimo uomo sulla Terra”, il titolo sarebbe “Tutti gli uomini sulla Terra”. –
- Lo scriva prof, magari poi se ho tempo lo leggo. –
- Te lo dedico. “Al più stronzo dei miei studenti.” Ci scrivo. –
- Pensavo che fosse Cavallo il più stronzo. – disse lui.
- Al secondo più stronzo. – disse il professore e inspirò di nuovo dentro alla mascherina. Poi gli chiese: - No, davvero, Ferrero, dimmi un po’ cosa stai facendo, mi annoio a morte qui, raccontami qualcosa di macabro. Chi stai sezionando la sotto? –
Alessandro rimase qualche istante in silenzio, poi disse: - Niente cadaveri in questi giorni, solo ossa. Una ragazza morta probabilmente suicida una ventina di anni fa, si è annegata. –
- WOW. Non giudicarmi cinico, Ferrero, mi dispiace per lei, ma dimmi un po’! –
- Doveva avere diciotto anni, sul metro e sessantacinque, magra, molto bella. Si era rotta il braccio destro un paio di anni prima, aveva i denti incisivi superiori che si sovrapponevano appena, un sorriso molto carino. –
Il professore passò dal sorriso di prima a una strana espressione, se Alessandro non avesse saputo benissimo che cosa avesse causato quella smorfia avrebbe chiamato i colleghi per salvare un uomo colto da un infarto, ma sapeva benissimo la causa. Il vecchio professore deglutì e acchiappò la mascherina, inspirò e disse: - Ora sono stanco, Ferrero, porta via quella roba che devo riposarmi. – disse allontanando con una manata il ripiano mobile con su il quaderno, la penna e il vocabolario.
- Sì, prof. Ci vediamo quando capita. – gli disse e uscì dalla stanza dirigendosi al suo sotterraneo degli orrori. E quindi il prof aveva sempre saputo. Che bastardo! Che bastardi che erano stati tutti, cazzo, tutti dal primo all’ultimo.

E ora un secondo frammento, dal titolo:

Un nuovo inizio.

C’è ancora caldo a Genova i primi giorni di settembre e così le colline sopra alla stazione del metrò erano ancora verdi come in piena estate.
Il treno uscì lentamente dalla vecchia galleria scavata cent’anni prima dai prigionieri austriaci della I Guerra mondiale e andò a fermarsi presso la banchina. Appena aprì le porte uscirono i primi passeggeri, quelli che scappano dalla stazione come se ne andasse delle loro vite, poi la grande massa di persone sciamò con ordine sulla banchina e poi giù per le scale che scendevano a fianco dell’enorme cilindro di vetro ribassato che formava la stazione. Svoltarono verso l’uscita, passarono dai tornelli e si trovarono finalmente all’esterno sotto ai binari che poggiavano su colonne di acciaio che facevano sembrare l’intera costruzione un enorme brontosauro stanco.
La gente camminava a passo veloce dividendosi in rivoli più piccoli come un grande fiume arrivato stravolto dalla fatica alla sua foce mentre, staccati dagli altri, scendevano ancora le scale a passo lento gli ultimi ritardatari, vecchi insicuri sui loro piedi doloranti, donne incinte, padroni di cani che volevano rimanere lontano da una marea di piedi distratti che avrebbero potuto calpestare quelle povere zampette e … un uomo che scendeva le scale per ultimo, le mani in tasca e un motivetto allegro fischiettato distrattamente tra le labbra. Passato il tornello uscì dall’atrio e si guardò intorno; tra le colonne dipinte di blu e ricoperte di graffiti e cartelli pubblicitari di concerti punk e rock di gruppi già falliti prima ancora di essere fondati vedeva alberi alti e sottili e palazzi di fine Ottocento o inizio Novecento sulla destra e quella che sembrava una palestra costruita purtroppo in quel decennio privo di gusto per l’architettura che erano stati gli anni Sessanta sulla sinistra. E, per abbellirlo, gli avevano fatto davanti un campetto da basket da profondo Bronx dove i ragazzi, ispirati dalla bruttezza del luogo, avevano decorato i muri con graffiti che sarebbero stati male anche nel suddetto Bronx.
Riprese a camminare e si fermò davanti al cancello del grande edificio ottocentesco che dava il nome alla via, la scuola elementare “Ludovico Ariosto” e sbirciò le finestre ricoperte di grandi disegni vergati da mani infantili e il giardino con il suo cortile di cemento tra aiuole piene di cespugli e alberi dalle foglie già sulla via dell’ingiallimento. Lì l’autunno doveva essere un incubo, foglie da spazzare almeno tre volte al giorno.
Riprese a camminare giù per la discesa, dando sempre un’occhiata alla scuola e al suo giardino, poi attraversò la strada e passò nel sottopasso che portava nel resto del quartiere. Al suo fianco, sul muro di pietre vecchie e ricoperte di muschio e sporcizia, era dipinta una grande bandiera della Sampdoria. Scudetto del ’91-’92, roba vecchia. Con la sua andatura veloce e le mani in tasca come i vecchietti che guardano i lavori stradali si affacciò sulla strada. Una strada larga, palazzi di inizio Novecento sui due lati, e alberi di pero che arrivavano al quarto piano dei palazzi. Tirò fuori di tasca una cartina e controllò, doveva andare avanti per circa centocinquanta metri e poi svoltare all’interno, in via Alvise Cadamosto. Guarda te che nomi!
Passò vicino a negozi di vestiti, negozi di piante, bello tra l’altro quel ficus benjamin, e pure quei ciclamini, ne avrebbe presi su po’ appena avesse avuto tempo, negozi di cinesi pieni di … cineserie, edicole, e … eccolo, un negozio di frutta.
- Buongiorno! – disse al negoziante pachistano o cingalese.
- Salve signore, desidera? –
- Delle mele golden, grazie. –
- Queste le vanno bene, signore? –
- Sì, ne vorrei due o tre. Tre, sì. –
Il negoziante scelse tre belle mele così lucide da sembrare quei frutti finti messi a volte a centrotavola e le mise in un sacchetto. – Altro, signore? –
- No, grazie. – rispose e poi pagò l’euro e mezzo che gli fu chiesto.
- Arrivederci. – disse uscendo e riprese a camminare mentre mangiava una delle mele. Dolce e croccante, ottima, forse soprattutto grazie alla fame che aveva. Guardò l’orologio e rallentò. L’appuntamento col signor Criscitiello era alla mezza ed erano solo i venti. Arrivato a quello che gli sembrava il punto giusto sulla cartina, davanti a una banca, attraversò e cominciò a guardare i nomi delle vie. Alla terza traversa trovò via Alvise Cadamosto, navigatore del XV secolo. Faceva angolo con via Piccone, strumento da lavoro di molti secoli. Il numero 6 era lì. Si fermò sotto alla piccola palazzina e, non vedendo arrivare nessun Criscitiello si guardò intorno. Aveva 4 piani e una forma strana, con il tetto interrotto da un terrazzo che sembrava lungo circa una decina di metri. Sperava che la sua casa fosse all’ultimo piano, avere un terrazzino al piano sarebbe stato stupendo. Avrebbe comprato qualche albero da frutto e li avrebbe piantati in grandi vasi di plastica. Avrebbe raccolto mele, pere, pesche e … pomodori e zucchini uscendo dalla cucina. Meglio tornare coi piedi per terra, probabilmente la casa che gli doveva affittare il signor Criscitiello sarebbe stata al pianterreno, buia e umida come l’antro di un orco.
Vide arrivare un ragazzo con i pantaloni bracaloni, una maglietta di un gruppo hard rock e i capelli mezzi rasati e mezzi lunghi, tinti di un azzurro che sembrava grigio. Aveva piercing su tutta la faccia e gli occhi lucidi e arrossati in maniera preoccupante. Forse il terrazzino era già coltivato a marijuana.
- È lei il signore che cerca casa? –
- Sì, sono De Giovanni. – disse dandogli la mano. Il ragazzo parve esaminarla con attenzione, come se avesse avuto bisogno di contare quante erano le dita, poi allargò la bocca in un sorriso un po’ ebete e gliela strinse. – Mi segua, signor … non c’è ascensore ed è all’ultimo piano, glielo ha detto mio padre? –
- No. – rispose e intanto gongolava, l’ultimo piano, col terrazzino, e vai! – Era suo padre allora … -
- Sì, ha avuto un colpo pochi mesi fa e fare quattro piani a piedi, sa, il cuore … ha mandato me. –
Lui lo seguì temendo che i pantaloni sarebbero andati giù alla seconda rampa, ma per fortuna tennero fino in cima. Quando arrivò davanti alla porta il ragazzo cominciò a guardare quegli oggetti misteriosi che aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni, un mazzo di chiavi, e poi le provò faticosamente nelle due serrature. Mentre si impegnava in questo complicatissimo lavoro raccontava alcune cose importanti. – Questa era la casa di mia nonna, ci abitava da una trentina d’anni, ma negli ultimi tempi aveva l’Alz … sì, quella malattia, lo sa no? –
- Il morbo di Alzheimer. – gli disse lui.
- Sì, ecco, quello Era totalmente rincoglionita, se mi capisce, e così teneva tutte le cose senza buttarle via. La casa è un po’ piena di schifezze perché non permetteva neanche alla messicana di buttare via niente. –
- La messicana? –
- Sì, la badante, sa, quella che le puliva il culo, ha capito? –
- Sì, certo. – disse vergognandosi per lui. Alla fine comunque ce l’aveva fatta ad aprire la porta. Cioè, ad aprirne una fessura, perché una pila di vecchi giornali la bloccava. “Un po’ piena” era un eufemismo, in effetti.
- C’è davvero tanta roba. Che ne volete fare? –
- Noi? – chiese il ragazzo. – La butti via lei, a noi non serve. –
Bene, davvero bene, i due giorni che lo dividevano dall’inizio della scuola, due giorni in cui voleva un po’ acclimatarsi, li avrebbe passati a sgobbare buttando via schifezze vecchie di trent’anni. Bene. – Se trovo qualcosa che abbia, che so, un valore sentimentale, vi chiamo e ve lo porto, va bene? –
- A papà farebbe piacere, penso. Ora ho un impegno, signor … -
- De Giovanni. – gli disse dandogli la mano e guardandolo scendere di corsa le scale. Crisi di astinenza? Attacco di diarrea? Boh! Entrò in casa e gli venne da piangere, non era piena, era totalmente colma. Lo aspettava un bel po’ di lavoro.

La sera prima del primo giorno di lavoro, tre giorni prima dell’apertura delle scuole, era in mezzo al suo appartamento e guardava con soddisfazione la radura che era cresciuta nella foresta di carabattole raccogliticce che la povera vecchia si era fatta crescere intorno per proteggersi dal mondo. Il corridoio e la sala erano fatti, sgombrati, scopati e lavati. Poi, con comodo, avrebbe tolto la carta da parati e avrebbe dato una bella mano di pittura, giallo ocra chiaro, ma per ora andava bene così. Aveva già sgombrato il bagno e rimesso in funzione la doccia, con tutta quella polvere stratificata come le rocce del Gran Canyon era stato indispensabile, e anche la cucina cominciava a sembrare una stanza normale. Le due camere e la sala … in una camera aveva vissuto la badante e allora era stata solo da sgombrare dalle sue cose che le aveva già portato in un paio di scatoloni, ma la camera della vecchia e la sala … lì sarebbe stata dura. Però non aveva trovato ratti o serpenti, sapeva che poteva accadere, e il non averli trovati era stata una splendida sorpresa.
Però la camera della vecchia, quella che sarebbe diventata la sua camera … per quanto fosse ancora molto simile al deposito dove metto l’Arca ne “I predatori dell’Arca perduta”, per quanto fosse ingombra come la stiva di un mercantile del ‘700, ce l’aveva fatta ad arrivare alla porta che dava sul terrazzo. Mise la mano sulla maniglia e fece forza. Niente. Spinse ancora più forte e si mosse un po’. L’avrebbe rotta piuttosto che rinunciare, cavolo e che cavolo!, la prese con entrambe le mani e la tirò in giù. Scricchiolò miseramente, poi cigolò facendo un altro scattino e poi, già aveva la fronte sudata, cedette del tutto. Quando aprì l’anta scoprì che era stato infilato un chiodino nel meccanismo, doveva averlo fatto la vecchia molti anni prima a giudicare dalla ruggine che lo ricopriva. Per fortuna che non doveva capirsene molto di lavoro manuale, perché se l’avesse infilato meglio non avrebbe potuto aprire se non staccando i cardini. Guarda te un cervello che comincia a dare i ciocchi cosa ti va a dire di fare, mamma mia, meglio morire d’un colpo a sessanta anni che arrivare a ottanta o a novanta. Aprì le due ante in un concerto di cigolii e si dedicò alle persiane. Si aprirono più facilmente, non erano state sabotate. Il terrazzo al piano c’era, pavimento di piastrelle e muretto divisorio con l’appartamento di fronte. Era largo una dozzina di metri e lungo, fino al muretto alto un metro circa, circa sei metri. Avrebbe potuto mettere dei vasi davanti al muretto, con dei rampicanti e un po’ di quelle griglie di assi di legno che vendevano in tutti i grandi magazzini del fai da te, in pochissimo tempo avrebbe avuto una siepe a dividerlo dai vicini e un po’ di privacy tutta per lui. Non che volesse prendere il sole nudo, dio no, ma si sarebbe sentito più a suo agio a non avere degli sconosciuti che lo fissavano mentre leggeva un libro o curava le piante.
Arrivò al muro e guardò ai lati, sinistro e destro, dove si vedevano le strade e i palazzi vicini. Avrebbe messo siepi anche lì, sì, lo avrebbe fatto. E quel terrazzo lo avrebbe trasformato in un giardino. Mentre si immaginava a raccogliere pomodori e pesche nel suo giardino pensile vide un movimento dietro alla finestra dei vicini. Qualcuno lo stava guardando da dietro alla tenda, forse. Come gli capitava spesso, sobbalzò come se lo avessero beccato mentre rubava o mentre spiava lo spogliatoio delle ragazze al liceo, sobbalzò e un brivido gli passò lungo la schiena. Cretino che non era altro. Tornò alla porta finestra ed entrò. Doveva lavarsi via quelle incrostazioni di polvere, doveva mangiare e doveva dormire. Il giorno dopo, alle sette e mezza, avrebbe cominciato a lavorare.

Uscendo dalla scuola si fermò di nuovo a guardare il brontosauro esausto di acciaio blu da cui scendevano ogni sei minuti fiumi di persone indaffarate. Una metropolitana sotterranea che cominciava con una stazione sopraelevata. Assurdo. Si accese una sigaretta e rimase per un po’ lì fermo a guardare gli alberi e un paio di strani uccelli verdi che saltavano da un ramo all’altro emettendo fischi acuti e sgraziati.
- Stai fumando? – gli chiese Imma, l’anziana bidella che sarebbe stata a tutti gli effetti il suo capo.
- Brutto vizio, lo so. – disse – Ma sembrano pappagalli quegli uccelli, non è vero? –
- Parrocchetti dal collare, stanno invadendo Genova. – gli rispose lei stringendosi nella giacca come se i ventidue gradi di quella splendida giornata autunnale fossero stati una temperatura invernale.
- Parrocchetti dal collare? Belli. – disse lui aspirando una bella bocconata di fumo.
- Aspetta di sentirli urlare tutti i giorni per cinque ore e poi ne riparliamo. – disse scendendo i tre scalini di marmo, poi si girò verso di lui e gli sorrise come solo le donne grasse sanno fare. – Ciao Dj, ci vediamo domani. – e andò a prendere l’autobus alla fermata subito davanti alla scuola. Lui uscì dal cortile e si diresse in su, verso la chiesa. C’era un vecchio chiostro trasformato in parco giochi, ma un parte era utilizzata come area di gioco per i cani e andò a sedersi su quella panchine in mezzo alle aiuole di olivi e alloro. Le campane batterono l’una e due tortore volarono via mentre il singolo rintocco rimbombava ancora. C’era pace lì, come se la città fosse stata a chilometri di distanza e non oltre a un cancello di ferro storto e arrugginito. Dal giorno dopo avrebbe avuto a che fare con un paio di centinaia di bambini urlanti, piangenti, svomitazzanti e fastidiosi, ma, dato il moderno terrore per i pedofili, in quanto bidello maschio sarebbe stato discretamente tenuto a distanza, una figura che i bambini avrebbero intravisto passare nei corridoi come un fantasma, il bidello con la barba, sai no, quello che sposta i mobili e le sedie, quello che dicono che … e sì, per quei bambini sarebbe stato un personaggio misterioso e segreto, una leggenda metropolitana da raccontare prima dell’entrata del maestro o quando si fossero trovati vicini in gita o in palestra. Tu lo hai visto quel bidello? Dicono che abbia una stanza tutta sua dove porta le sedie rotte e le ammucchia tutte insieme … io invece so che è lui che deve portare i bambini che l’hanno combinata grossa, quando li portano dal sindaco … io invece ho sentito dire che a volte, quando un bambino davvero l’ha combinata grossa, cioè, quando ha rotto una finestra o ha tirato un cancellino nell’occhio alla maestra, ho sentito che lui lo porta nello sgabuzzino e ce lo chiude dentro … eh sì, sarebbero girate storie su di lui, - Io sono leggenda. – disse ridacchiando tra sé e sé mentre spegneva sotto alla suola della scarpa la cicca della sigaretta.
Invece il suo lavoro sarebbe stato più semplice e banale. Spostare grossi pesi mobili, cattedre, armadi … lavare in terra nei corridoi e sulle scale, salire scale a pioli per cambiare lampadine o staccare tende dalle finestre. A lui non andava male, i lavori pesanti e solitari gli piacevano, a differenza della vicinanza con mocciosi urlanti e con le scarpe sempre piene di merda di cane.
Si alzò dalla panchina, gettò la cicca nel cestino pieno di lattine e bottiglie di birra e si diresse verso casa, fermandosi a comprarsi due pomodori cuore di bue, una fetta di polpettone di patate e fagiolini dal panettiere e, alla faccia della dieta, un paio di babà dal’altro forno che faceva anche dolci. Un buon pranzo per una buona giornata.
Arrivato davanti a casa si guardò intorno e vide arrivare una ragazza con il bastone bianco. Sulla punta del bastone aveva una pallina anch’essa bianca, che faceva scorrere a destra e a sinistra con la velocità di un pendolo uscito da un racconto di Poe. Veniva verso di lui a passo veloce, come se il fatto di essere cieca non potesse rallentarla in alcun modo. Lui non si sarebbe mosso così velocemente ad occhi chiusi nemmeno nella sua stanza. Si tolse dalla sua strada e la guardò, un ragazza coi capelli rossi magra e scattante, piatta come una tavola da surf e con due chiappette sode come palloni da calcio. Era uno spettacolo, con quell’alluvione di riccioli color rame e quella faccia piena di lentiggini con su due occhi verdi come l’Irlanda che non ci pensava neanche a nascondere dietro a degli occhiali scuri. Si stava infilando nel suo portone, era una sua vicina.
- Lei è il nuovo inquilino dell’ultimo piano? – gli chiese dopo averlo sorpassato, mentre tirava fuori dalla piccola borsa il mazzo di chiavi.
- Sì. – le rispose chiedendosi come si fosse accorta della sua presenza e come avesse potuto riconoscerlo.
- Le ho per caso dato fastidio stanotte ascoltando la musica? –
- No. –
- E ho per caso lasciato qualche luce accesa che le ha dato fastidio? A volte quando ho ospiti l’accendono e poi io non mi accorgo com’è. –
- No. – le rispose di nuovo, allora era lei la vicina dall’altra parte del terrazzo. E allora vuol dire che nessuno lo stava spiando la sera prima.
- Bene. Benvenuto a Certosa, signor … -
- De Giovanni. –
- Lungo? Non ce l’ha un soprannome? –
- DJ. – le rispose tendendole la mano. Lei capì che lo aveva fatto e agitò un po’ la sua qua e là prima di afferrarlo e stringerla. – Io adoro i soprannomi. –
- E lei ce l’ha un soprannome? –
- Sì. –
- E qual è? –
- Magari un giorno lo saprai, - gli disse passando al tu ed entrando a passo sicuro nel portone.
Strano tipo, pensò sorridendo, figa anche.
Avrebbe potuto infilarsi anche lui nel portone, ma seguirla su per le scale gli sapeva un po’ di maniaco. Andò a fare un giro e si fermò per qualche minuto davanti alla vetrina di un negozio di scarpe, aveva bisogno di un paio nuove da ginnastica, di un paio invernali e, dato che aveva deciso di esplorare le colline ricoperte di boschi che apparivano appena oltre ai palazzi al di là della ferrovia, anche un bel paio di scarpe da trekking. Le scarpe c’erano, erano pure molto belle, ma col suo stipendio da bidello, l’affitto da pagare e le spese per riattare la casa, visto che doveva anche nutrirsi non avendo ancora raggiunto l’illuminazione da lama tibetano, forse avrebbe dovuto rinunciare a uno o due paia di quelle che aveva progettato di comprare.
Di cattivo umore per i prezzi folli delle scarpe allungò il giro e arrivò fino alla biblioteca. L’orario di apertura era assolutamente corrispondente al suo orario di lavoro, bello, non avrebbe potuto metterci piede se non in sogno, che schifo. Se avesse ancora allungato il giro avrebbe finito per trasformarsi in un incazzosissimo e gigantesco mostro verde, così tornò indietro e affrontò con brio i quattro piani di scale che lo dividevano da casa sua. Almeno una cosa buona, quattro piani di scale riusciva ancora a farli velocemente senza ansimare. Entrò in casa guardando la porta della sua vicina e si sorprese di non leggere il nome sul campanello. Anzi, no. Non si sorprese affatto, non gli era sembrata il tipo da fare una cosa banale come mettere il nome sul campanello.

Nel pomeriggio, abbastanza appesantito dal pranzo, si dedicò alla stanza ancora imbottita di cianfrusaglie. Riuscì a liberarla quasi del tutto. Oltre alla accumulazione compulsiva la donna doveva avere anche una qualche fissazione religiosa, perché tra i giornali ammucchiati, gli oggetti impilati e la monnezza varia c’erano molti crocifissi e svariati rosari con tanto di immaginette di Padre Pio e madonnine varie.
Infilò tutte le varie robette religiose in una scatola in cui aveva messo anche alcune foto di bambini di quarant’anni prima o giù di lì, e un paio di agendine piene di una scrittura fitta fitta e illeggibile che sembravano parlare di mostri e maledizioni. Prima o poi, quando avesse finito di svuotare la casa, l’avrebbe spedita al padrone di casa.
Mangiò un po’ di risotto in busta, squallido ma gustoso, una fetta di petto di pollo fatto a scaloppina, non al marsala ma al vino bianco del cartoccio, e una cucchiaiata di gelato. Gironzolò un po’ per la casa, uscì sul terrazzo sforzandosi di non sbirciare nella casa della vicina, che aveva avuto ospiti comunque nel pomeriggio, un operaio che aveva fatto qualcosa alla calderina, e poi tentò di guardare la tivù. Talk show politici su ogni canale, telefilm americani vecchi che aveva già visto e partite di squadre di calcio che non gli interessavano.
Gli montò su una depressione che, se non fosse stato astemio, si sarebbe scolato un barile di rum, tipo pirata dei Caraibi, ma non aveva nemmeno alcolici in casa.
Andò in camera e pensò di chiudere le persiane e mettersi a letto prima delle dieci e mezza, ma vide che la vicina aveva la luce accesa.
Continuò a chiudere la persiana e, quando restava solo una sottilissima fessura tra le due ante, la vide passare davanti all’ampia finestra. I suoi capelli rossi sembravano fiammeggiare alla luce del lampadario con otto lampadine. Indossava pantaloni da casa molto leggeri e una maglietta bianca scollata.
Chiuse la persiana e si girò per andare in bagno. Sorrise immaginando quella finestra aperta e quella luce accesa. Non si sarebbe fatto male nessuno se avesse guardato ancora un secondo, cosa faceva di sbagliato? Se un albero che cade in una foresta deserta non fa rumore, uno che guarda una cieca che non può accorgersene non la sta guardando, no?
Aprì di nuovo la persiana e vergognandosi aspettò che passasse di nuovo. Era a piedi nudi, aveva le gambe lunghe anche così. Ancora un minuto e avrebbe chiuso, non era mica un guardone lui. Appoggiandosi allo stipite aguzzò lo sguardo e la vide. Si stava asciugando le mani sui pantaloni, si vede che era uscita dal bagno. Camminando verso una stanza dove la luce era spenta si fermò un attimo togliendosi dai capelli un elastico verde. I capelli le caddero sulle spalle come la criniera di un leone. Ancora un minuto e avrebbe chiuso, anche se nessuno poteva vederlo lì.
Lei entrò nella stanza e lui pensò che lo spettacolo fosse finito. Ancora un minuto e avrebbe chiuso, si mise a guardare il cielo e contò dodici stelle. Inquinamento luminoso inquietante, e gli stava venendo sonno, tra un attimo avrebbe chiuso la persiana e sarebbe andato a dormire. E poi la vide uscire dalla stanza, si avvicinò a una cesta di vimini e si sfilò la maglietta, la sua pelle era candida come una porcellana, i grossi capezzoli sembravano sbocciare direttamente dal petto, era piatta come un ragazzino ed era sensuale come mille donne con la quinta misura. Con fare scocciato si sfilò i pantaloni e infilò anche loro nella cesta, indossava solamente degli slip neri. Lui tratteneva il respiro quasi tramortito da quella scena e deglutì quando lei si sfilò gli slip rimanendo prima su una gamba e poi sull’altra. Un ciuffo di radi peli rossi spuntava tra quelle due gambe dritte e lisce. Lei chiuse la cesta e si rivolse verso di lui per chiudere la finestra. Seminascosta dalle tende chiare che erano trasparenti nella notte, la vide tornare nella stanza.
Arrapato come un ragazzino di tredici anni inspirò come se lei avesse riempito del suo profumo l’aria che li divideva e mormorò come un preghiera dicendo: - Vieni da me, bella rossa, vieni da me. – e poi, vergognandosi come un ladro, chiuse le persiane e andò a letto.
La sognò naturalmente, la sognò che veniva da lui e si svegliò ansimante da quel sogno. Non vedeva l’ora di sognarla di nuovo.

E il terzo, dal titolo:

La cosa nel lago.
Il lucchetto era ormai completamente arrugginito. Provò ad armeggiare per un po’ con la chiave e poi, già spazientito alle otto e tre minuti del mattino nella nebbia di quella primavera ancora fredda, prese il suo martello e colpì il piccolo parallelepipedo di ottone. Un paio di colpi e volò via. – Immo sbabbari! – disse Mario nella sua ormai famigerata imitazione di Attila l’unno nell’interpretazione di Abatantuono. Scesero per il sentiero che, malgrado i 20 anni di abbandono sembrava ancora essere segnato dal passaggio di molti piedi.
- Ma chi ci è passato di qua? –
- Ragazzini idioti. – rispose Aldo, ma per lui, era noto, tutti quelli che non erano lui erano di per sé idioti. Certo che, se dei ragazzini erano andati a fare il bagnetto in quell’acqua piena di cromo esavalente, proprio dei genietti non dovevano essere.
- Spero di no. – disse Walter, che era sempre ottimista sul’intelligenza e sull’animo umano, povero illuso. – Magari sono stati dei cinghiali. –
- Spero di no, a volte lo mangio il cinghiale, in ristorante. – disse Aldo.
- Buon cancro. – gli disse allora Mario, che aveva il raro dono di sbagliare sempre tono e merito delle battute, visto che la mamma di Aldo era morto di cancro meno di sei mesi fa. Continuarono a scendere giù per il sentiero in un silenzio carico di imbarazzo, fino a che arrivarono al laghetto. Un normale laghetto pieno di alghe verdissime, con un paio di grossi pesci che nuotavano tranquilli nella parte centrale, profonda almeno tre metri. Si vede che ai pesci il cromo esavalente sversato lì dentro da un branco di delinquenti andati prescritti da anni non faceva né caldo né freddo.
- Vuoi un pescetto, Walter? –
- Se lo assaggi prima te, Aldo … -
- Cominciamo? – disse Mario, poi borbottò qualcosa al walkie-talkie e guardò in alto. Dopo nemmeno un minuto videro arrivare giù un grosso tubo grigio, che stava attaccato alla mega autobotte che avevano portato, rocambolescamente, sul bordo del prato che si affacciava su quel lago. – Attacca pure. – disse al walkie-talkie e infilò, con l’aiuto di Walter e Aldo il tubo nell’acqua. Un forte rumore, come un temporale in lontananza, li avvertì che l’idrovora era partita e videro l’acqua che cominciava a vorticare intorno all’imboccatura del tubo.
- Addio, bei pescetti! – disse Aldo, poi andò a sedersi su una roccia al sole e cominciò a sfogliare il giornale. Effettivamente, fino a che si fosse riempita l’autobotte, e ne avrebbero dovuto riempire almeno una decina, di quella schifezza velenosa di acqua, non avrebbero avuto un gran che da fare.
Mario tirò fuori il suo vecchio e logoro cubo di rubik e cominciò, come sempre quando si annoiava, a rigirare le facce nel vano tentativo di renderle monocolori. L’unico che rimase attento al lavoro fu Mario, che stava in ascolto del rumore per accorgersi, l’esperienza nel farlo era ormai più che decennale, se un sasso o un ramo o un alga lo stavano bloccando. Fidando nei suoi stivaloni da pescatore alti fino alla cintola, non aveva infatti alcuna intenzione di bagnarsi in quel veleno, spinse il tubo fino alla parte centrale. Intorno alla bocca del grosso pezzo di gomma l’acqua si muoveva in un vortice, ricordò per un brevissimo istante il Maelstrom di un vecchio racconto che aveva letto a scuola, e un fango grigiastro si alzava in sbuffi e nuvolette nelle vicinanze. Guardò i pesci che andavano a nascondersi sotto le pietre più grandi, poveretti che non sapevano di essere già morti come i nemici di Ken il Guerriero che guardava da ragazzo, e ogni tanto dava una scossetta al tubo per aiutarlo ad aspirare l’acqua sporca di fango.
- Dove la porteranno quest’acqua? – gli chiese Walter.
- In un centro per il trattamento dei fanghi in Lombardia. –
- E dove? –
- A Legnate sul Membro. – gli rispose sorridendo, ma Walter non capì la vecchia battuta che aveva rubacchiato a un programma televisivo.
- E i fanghi e i sassi? Anche quelli dovranno essere trattati, no? –
“Ma a lui che gliene frega, cazzo?” pensò e disse: - Mi pare in Emilia, a Modena o Parma, in una discarica attrezzata. –
- Ah! – disse Walter e ricominciò a rigirarsi tra le mani il cubo.
Mario guardò i suoi due colleghi aspettando che uno dei due si offrisse di entrare al suo posto nell’acqua, stava lì da mezz’ora e il freddo alle gambe e il rumore assordante dell’idrovora gli stavano davvero rompendo le balle, ma nessuno dei due sembrava neanche lontanamente pronto a farlo. – Andate affanculo, merde.” Pensò quando gli sembrò di vedere qualcosa con la coda dell’occhio. Il fango intorno al tubo era diventato rosso, rosso ruggine o del colore dei capelli di una ragazza irlandese, e stava turbinando intorno al vortice in un modo strano. – Ma che cazzo … - borbottò quando il fango rosso si staccò dal vortice e gli si raccolse intorno ai piedi. Un brivido lo percorse, si sentì come soffocare e, chissà perché, si ricordò delle elementari, di quando era il più basso e mingherlino e tutti lo prendevano per il culo e lo menavano. Si sentì di nuovo piccolo e indifeso, mentre quella nuvola di fango rosso ruggine gli turbinava intorno come una piccola bestia maligna. Gli venne da urlare dal terrore, ma non stava respirando, era come avere i polmoni pieni di liquido a stare in mezzo a quel rosso, fino a che il terrore si dissolse come la nebbia al sole del mattino, la nuvola rosse si staccò da lui e serpeggiò verso la riva, dal alto opposto ai suoi due colleghi che, persi nei loro pensieri, non si erano accorti di niente.
- Che cazzo è quella roba? – disse a voce bassissima mentre inspirava l’aria come un naufrago che sia appena emerso dall’acqua perigliosa, quando la nuvoletta arrivò a riva, ne emerse come un serpente, e sembrava un serpente, e poi scomparve nei cespugli correndo e saltando come … non come, era un grosso scoiattolo con la sua coda rossa alta nell’aria dietro alla schiena.
- Ho le traveggole. – disse tentando di convincersi che non era successo nulla, non poteva aver visto del fango … mica era in un libro di Stephen King, mica era in un film horror … no. Guardò in basso, nel punto dove aveva visto formarsi quella nuvola vorticante di fango rugginoso, e vide qualcosa. Allontanò l’imboccatura del tubo e aspettò che il fango si posasse almeno un po’ per vedere meglio. Due enormi occhi neri lo fissavano dal fondo del laghetto, le orbite di un teschio ricoperto dalla patina verdastra di alghe di anni e anni lo guardava dal letto di pietre a due metri sotto di lui. E tutto lo scheletro stava lì appoggiato, rannicchiato a parte le braccia che stavano allungate verso l’altro, appoggiate alla scarpata ripide che era il fondale. Una corda nera di alghe era legata alla vita dello scheletro e lo collegava a un grosso masso. E lì finalmente il terrore lo prese e, urlando indietreggiò e cadde di schiena in quell’acqua velenosa attirando l’attenzione di quei due scansafatiche dei suoi colleghi. E, nei tre giorni che passò in ospedale a farsi ripulire dentro e fuori dal cromo esavalente, si dimenticò di quella strana cosa rossa che gli aveva vorticato intorno prima di correre via dal laghetto e dalle ossa.

A domani, la storia parlerà di ... nazisti e licantropi!


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