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venerdì 31 agosto 2012

Capitolo 49, Luke CHambers.

XLIX

I sei erano scesi dall’auto e stavano scaricando dal portabagagli un sacco di attrezzatura. Vedeva zaini, bombole, forse anche delle torce. Le luci arancioni dell’autostrada li facevano risaltare abbastanza. Dopo qualche minuto li vide scendere giù su un sentiero. Se non ricordava male, da lì si scendeva allo scolmatore.
- Papà? – lo chiamò Allison con la sua nuova e tintinnante voce – Lo sai dove stanno andando, papà? –
- Entrano nello scolmatore. – rispose senza girarsi. Ogni momento che passava gli dava più fastidio la vicinanza di quelle cose che erano diventate le sue figlie.
- Stanno andando a Derry, papà, per fare del male a tutti noi. – gli disse Louise.
- Devo seguirli? – chiese alle sue figlie aguzzando lo sguardo per vedere se qualcuno si muoveva ancora là in fondo. No, erano andati tutti ormai.
- Vai avanti papà, e non fermarti quando vedrai i poliziotti, non cercano te. –
Guardò di sfuggita quei due mostri, puzzavano anche adesso, e poi mise in moto. Forse se le avesse accontentate sarebbero tornate nella loro tomba a riposare. I fantasmi vogliono sempre vendicarsi di chi le ha uccise, questo dicono tutti i racconti gotici, e a volte mentre lo fanno possono essere molto sgradevoli.
Partì a velocità sostenuta e, dopo pochi minuti, vide le luci di un posto di blocco. Sembrava che tutta la polizia della città si fosse data appuntamento sull’autostrada per Bangor. – Ci fermeranno, piccole. – disse cominciando a rallentare.
- No, papà, vai avanti tranquillo. Non stanno cercando noi. – gli disse Allison e poi se ne uscì con una risata agghiacciante, sembrava il verso di un animale, e finiva come con dei colpi di tosse acuti.
La piccola sembrò avergli letto dentro e gli chiese: - Ma tu ci vuoi bene, papà? –
No, cazzo! Mi fate schifo! Mi fate fare delle cose orrende! – Certo cara. – le disse sorridendo – Lo sai che il tuo papà ti ama tantissimo. –
E allora tutte e due risero, e i loro denti sembravano essere più lunghi, quasi zanne di lupo. Stanley Hanlon e i suoi amici avrebbero pagato per aver fatto diventare dei mostri le sue bimbe, avrebbero pagato a costo della sua anima, anche se dopo avere soffocato quella povera donna la sua anima non doveva più essere poi così pura.
- Il vostro papà la farà pagare a quel mostro, così voi potrete riposare. – disse mentre due auto della polizia si spostavano e Chambers con la sua auto passava tra tutti quei poliziotti armati fino a i denti come sarebbe potuto passare un soffio di vento. Le due bambine non erano gli unici fantasmi, quella notte, anche lui era invisibile.
- Vai a destra, papà. – gli disse Louise e lui svoltò, fino a che, dopo una manciata di minuti, si trovò vicino a un ponte. Lì, una trentina d’anni prima, fino al maggio ’85, c’era stato il centro della città con le sue banche e i suoi centri commerciali. Ora l’area era quasi disabitata e c’erano diversi tratti in cui il Kenduskeag scorreva all’aperto.
- Fermati qui, papà. – disse Allison – Se scavalchi il parapetto e vai a destra, dovresti entrare nella bretella dello scolmatore. Loro arriveranno tra una ventina di minuti. -
Luke Chambers parcheggiò a lato del ponte, prese da sotto al sedile il lungo coltello da cucina che aveva preso a casa e uscì dall’auto. Stava rinfrescando, c’era un po’ di vento, anche. Si avvicinò al parapetto e vide che il terreno scendeva fino al letto del fiume, non più che un torrentello adesso, con una specie di rampa erbosa. Le sue figlie erano già laggiù, con i loro occhi che riflettevano le luci dei lampioni in un turbinare di pagliuzze argentee e arancioni. Non aveva voglia di seguirle. Non aveva voglia di uccidere di nuovo. Forse avrebbe potuto infilarsi il coltello nel collo, da un lato all’altro.
Si immaginò il fresco del metallo nella sua carne, immaginò con un brivido la liberazione di sentire il suo sangue che defluiva portandosi via la vita e lasciandolo libero. E immaginò anche di essere davvero all’inferno a pagare per avere ucciso Carole Danner. Meglio di questo, meglio di vedere le tue figlie che sono diventati dei mostri, meglio di starsene appostati al buio con quei due cosi ad aspettare della gente che avrebbe dovuto uccidere.
- Vieni giù, papà. Ci vuoi bene, vero? – gli dissero tintinnando come posate d’argento.
E Luke Chambers si ricordò le sue figlie che giocavano e ridevano, si ricordò della volta che lui e Myrta si erano seduti sul divano con le due piccole in braccio, avranno avuto sei mesi, forse, e le due piccole si erano addormentate e così loro avevano passato tutta la notte seduti uno vicino all’altra con le bimbe in braccio. Dio! Aveva letto una volta che non c’è nulla di peggio che ricordare i momenti felici nella sventura. Dio, quanto era vero! E Stan Hanlon gli aveva tolto tutto questo lasciandogli in cambio quelle due cose orrende che ridevano chiedendogli di uccidere.
Scavalcò il parapetto e scese di corsa il breve pendio. Raggiunse le sue piccole, che non proiettavano alcuna ombra, e si diresse con loro verso la bocca buia dello scolmatore, era alta sì e no due metri, e larga quattro. Si trovò immediatamente al buio e sentì le sue piccole che gli prendevano le mani, una a destra e una a sinistra, con le loro manine gelide e secche. Ancora un poco, pensò, ancora Hanlon e i suoi amici e poi sarebbe stato libero di farla finita.
Un buio pressoché solido lo ingoiò e sentì che l’odore delle sue figlie, l’odore delle sue nuove figlie, saturava l’ambiente intorno a lui. Ed era l’odore dei Barrens in cui giocava da bambino, l’odore che aleggiava ovunque su Derry. Le sue figlie erano Derry, e Stan hanno e i suoi amici stavano camminando in quel buio per distruggerla. Sentì che le bimbe si fermavano e si fermò appoggiato al muro, mentre nel buio intorno a sé vedeva volteggiare piccole luci che esistevano probabilmente solo nella sua retina.
Si accucciò dietro a un angolo, sentendo l’eco del suo respiro e dei fruscii accanto a sé che sperava provenissero dai vestitini delle sue figlie. Perse la cognizione del tempo e cominciò a perdersi nei suoi ricordi. Allison sul triciclo, Louise che bagnava le piante in giardino con un innaffiatoio rosso più grande di lei, Myrta che lo svegliava sorridendo e gli diceva di essere incinta, loro quattro a tavola mentre le bambine usavano per la prima volta le posate.
Piangeva rigirandosi in mano il coltello, quel coltello che, una volta finito il lavoro avrebbe usato per sgozzarsi, quando sentì una lontana eco di voci e passi. Aguzzò lo sguardo e vide un fantasma di un bagliore molto lontano davanti a lui. Si appiattì contro il muro, dietro a una sporgenza, mentre i sei si avvicinavano parlando tra loro. Ridevano, quei sei maledetti ridevano, mentre lui era costretto a vedere le sue bambine così ridotte. Si sporse dal suo riparo e ora li vide abbastanza bene, a non più di cento metri da lui. Hanlon era davanti a tutti, vicino a (Bill Tartaglia pensarono le bambine nella sua mente) e dietro gli altri. Non sospettavano che fosse lì, li avrebbe presi di sorpresa. Sorrise nel buio, perché quando sei all’inferno, l’unica cosa e comportarti da demonio.

giovedì 30 agosto 2012

Capitolo 48, i Perdenti (nuova formazione).

XLVIII

- Scusate la mia ignoranza, - disse Rachel – Ma che diavolo sarebbe uno scolmatore? – e intanto scendeva con grande attenzione la scoscesa stradina che portava alle sponde del canale in secca che andava poi a sfociare nel Penobscot a meno di mezzo miglio da lì.
- B-B-Ben, pensaci tu! – disse Bill che apriva la strada con una pila molto potente in mano. Accanto a lui camminava Stan che era l’unico tra loro ad aver visto la zona di giorno.
- È un canale artificiale che viene costruito, in questo caso sotto terra, in cui si scaricano le acque in eccesso di un fiume, perché non tracimino. Questo parte prima di Derry? –
- Sì. Appena prima di quello che chiamano il canale. – disse Stan – Poi circa ogni cinquecento metri sotto alla città c’è una bretella che collega il fiume allo scolmatore, per l’acqua che cade sul centro abitato. –
- Ah! E allora questo scolmatore porta sotto a Derry? –
- Porta diretti da It. – disse Bill. E finita la discesa si trovarono sull’argine in cemento armato del canale. C’erano delle luci molto fioche, giusto per indicare il dislivello, ma si riusciva comunque a vedere il fondo del canale. C’erano molti sedimenti, ghiaia e sassi, e in mezzo a loro erano cresciuti dei cespugli, rovi soprattutto.
Alla loro sinistra si apriva, grande come le fauci di una Moby Dick di tenebre, la bocca dello scolmatore. Una decina di metri di larghezza per quattro e mezzo di altezza. Un rivoletto d’acqua passava tra i sassi serpeggiando sul fondo in cemento. A massimo quattro passi dall’entrata la tenebra sembrava diventare solida.
- Tu ci sei mai stato? – chiese Ben a Stan avvicinandosi a lui e porgendogli il casco da speleologo e l’imbracatura con la bombola di carburo.
- Una volta, tre mesi fa. Si era perso un bambino e si pensava che fosse finito qua dentro. Ci hanno chiamato per dirci che era stato trovato a casa del padre separato quando avevamo fatto sì e no cinquanta metri. Rimane larga così anche dentro, almeno fino a lì. –
- E quanto c’è da qui a Derry? –
- Tre miglia circa. Va più dritto della strada. –
- Un’oretta di cammino, forse un po’ di più se c’è molto sporco. –
- Che voglia incredibile che ho di infilarmi qua dentro! – disse Richie passando avanti a tutti con l’ugello per l’acetilene già acceso. – Entrare qua dentro mi sembra la cosa più furba che abbia mai fatto in vita mia! –
- E sei ancora v-v-vivo? – gli chiese Bill.
- Lassù qualcuno mi ama, Dembrough, lo si capisce anche dalla mia bellezza da dio greco. –
- Ti ci hanno mai mandato, Tozier? – chiese Ben poggiandogli una mano sulla spalla.
- Dove Hanscom? A ritirare il premio Nobel per la bellezza e la simpatia? –
- No. A fare in culo. – disse Ben, poi, mentre tutti ridevano, accese anche il suo elmetto. Faceva luce sì e no fino a quattro metri davanti a lui, poi c’era un alone grigiastro di un metro scarso e infine il niente. Gli venne mente un antico autore romano che parlava di un tunnel dell’epoca, forse Cicerone. Diceva all’incirca così: “La tenebra era così fitta che le fiaccole non la dissipavano, la rendevano solo più scura.” E loro stavano per entrarci.
- Qualcuno di voi si ricorda cosa c’era là sotto? – chiese Beverly che era stata zitta fino ad allora.
- Cunicoli allagati e tanta merda. – disse Richie.
- E scheletri ammuffiti. – disse Ben.
- E It. – disse Bill.
- Sì, lo so. – disse Beverly – Ma nessuno si ricorda come fosse poi It? –
Ben si girò verso di lei e sembrò sul punto di rispondere, poi scosse la testa e disse: - No, cara. Buio totale. –
- Bene! – disse allora Stan caricandosi sulla spalla buona lo zaino e accendendo la sua luce – Mi sembra proprio in tema. Andiamo? – e si addentrò nella galleria buia.
Lo seguirono camminando in due file di tre, mentre la luce fioca della notte si perdeva velocemente dietro di loro e a fare loro compagnia rimanevano solo i cerchi di luce dei loro elmetti. Riuscivano, a tratti, a vedere le pareti della galleria, ma dall’eco che ripeteva i loro passi, capivano che era sempre molto larga. Non era tanto ingombra di terra e sassi, e l’acqua sul fondo era poco più di una pisciatina. Ogni tanto intorno a loro sentivano strisciare delle bestie, topi, ricci e serpenti che cercavano là dentro un po’ di fresco nell’estate torrida del Maine. E sopra di loro, un minuto sì e uno no, volavano nugoli di pipistrelli disturbati dal loro passaggio.
- Ma la notte questi topastri non dovrebbero essere fuori a cacciare zanzare? – disse sbottando Ben.
- E privarci del piacere di sentirceli sulle teste? – gli rispose Richie – Come ti ho detto, Hanscom, lassù qualcuno mi ama! –
- Più che altro laggiù qualcuno ti odia, Tozier, credimi! – disse Beverly.
- E non solo me. – disse ridendo – E non solo me, Bevvie. Ma ora gli andiamo a fare il culetto! –
- Che ottimista! – disse Bill che camminava davanti a loro accanto a Stan e che dava il ritmo alla camminata. Non vedeva l’ora di arrivare da It e di farla finita, a un modo o a un altro, ma non sapeva che a una cinquantina di metri da loro, appostato nell’oscurità, qualcuno li stava aspettando per impedirgli di raggiungere It.

mercoledì 29 agosto 2012

Capitolo 47, Stan.

XLVII

Stan Hanlon aveva combattuto in Afganistan e aveva visto un bel repertorio di cose raccapriccianti, ma se pensava al vero terrore, come è probabilmente giusto, lo aveva vissuto la prima volta al cinema.
Aveva dodici anni e il suo professore di storia, un reduce del Vietnam, ecco il problema degli Stati uniti, troppi reduci di troppe guerre, aveva deciso di portare tutta la classe a vedere un film, anche se era vietato ai minori di tredici anni. Ma era amico del direttore del cinema, il cinema nuovo Aladdin di Derry, e così tutti gli scolari si erano trovati al buio a vedere Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Ecco, per Stan il vero terrore erano i minuti iniziali di quel film. Non i primi due, col vecchio Ryan che va sulla tomba del capitano, e neanche i venti successivi in cui si vedono i Tedeschi fare letteralmente a pezzi i soldati americani che sbarcano a Omaha beach. No. quello che ci sta in mezzo, quel breve lasso di tempo in cui i soldati sono imprigionati dentro ai mezzi da sbarco che si stanno avvicinando alla spiaggia.
La scena era quasi silenziosa, ricordava Stan mentre la macchina correva sul nastro d’asfalto che univa Bangor a Derry mentre il cielo diventava da rosso viola scuro e le stelle cominciavano ad apparire a est. Si sentiva solo il rumore delle onde, come ora solo quello del motore e del vento che entrava dal finestrino, e le voci dei soldati che pregavano e di quelli che piangevano e di quelli che invocavano la madre.
Ricordava benissimo lo sguardo di Tom Hanks, la sua mano che tremava come se gli fosse stata estranea, un soldato che vomitava in preda al terrore più nero. Ecco, per lui il terrore era lo sguardo di Tom Hanks in quel mezzo da sbarco, mentre la sua mano trema e il portellone sta per aprirsi.
Alzando un attimo lo sguardo si vide riflesso nello specchietto retrovisore interno, lo sguardo era senza dubbio lo stesso. Lo sguardo di un condannato a morte che vede il patibolo precipitare verso di lui. Guardò le sue due mani, entrambe bloccate, una nel gesso e l’altra dal corpo di Rachel che si era forse addormentata con la testa appoggiata alla sua spalla. Non tremavano. Ma Hanks non ce l’aveva mica la sua ragazza appoggiata alla spalla.
- Come va, Stan? – gli chiese Ben che stava guidando.
- Come se avessi vinto la lotteria. – e fece un sorriso a trecento denti.
- E avessi perso il biglietto subito dopo? –
- Eh! Proprio così. – disse , poi sentì il suo cellulare suonare. Mentre lo prendeva con molta fatica, svegliando intanto Rachel, vide il cartello “Derry 4 miglia” che passava veloce alla sua destra.
- Ciao Andy. – disse rispondendo, a chiamarlo era il suo collega Andy Gaunt, uno dei suoi migliori amici.
- Siete in strada Stan? – gli chiese Andy; parlava sottovoce e sembrava spaventato. Davvero un brutto tono di voce, da cospiratore.
- Siamo quasi a Derry. – gli disse Stan preoccupato.
- Fermatevi subito, accostate e stammi a sentire. –
- Fermati qui, Ben! – disse Stan, poi rivolgendosi a Andy: - Dimmi pure Andy. –
- Cazzo Stan! – e gli sembrò che stesse per piangere, cazzo, Andy che piangeva – Voglio che mi giuri di dire la verità, voglio che lo giuri sull’anima di tua madre, che possa bruciare all’inferno se menti! – e ora piangeva per davvero, e Andy era molto credente e non avrebbe mai scherzato sull’Inferno.
Stan guardò i suoi compagni che erano molto incuriositi e cercavano di afferrare qualcuna delle parole di Andy, poi disse: - Lo giuro, Andy, lo giuro solennemente. –
- Tu non c’entri con Bob Gray, tu non c’entri nulla con quei bambini morti? – gli chiese Andy come sputando un boccone che gli si era bloccato nel gargarozzo.
- A parte che l’ho arrestato, niente di niente. –
- Lo giuri? –
- Certo che lo giuro, Andy. Cazzo, Andy, ma che stai dicendo? –
- Stan, qui va tutto a catafascio, sono tutti impazziti. –
- Cosa sta succedendo, Andy? –
- Il capo Gardener. Ha detto che eri complice di Gray e Paniska, ha detto che hai degli altri mostri con te, e che state arrivando a Derry per uccidere altri bambini. –
- Cosa? – e prima di sentire la risposta riferì in poche parole quello che Andy gli aveva detto ai suoi compagni.
- Ci hanno ordinato di fermarvi. Dicono che siete armati e pericolosi, qui si stanno armando tutti fino ai denti. Nessuno lo ha detto chiaramente, ma l’ordine è quello di sparare a vista. –
- Grazie, Andy. Sei un amico. –
- Ma che sta succedendo qua, Stan? – gli chiese Andy piangendo.
- È Derry, Andy, Derry ha qualcosa di sbagliato. – gli disse Stan. –
- Mia sorella ... – disse allora Andy – La mia sorellina Sarah, mi ha detto che l’altro giorno, mentre giocava da sola in un capannone … mi ha detto che qualcosa la stava guardando. Qualcosa che sembrava Alien. È questo che intendi quando dici che Derry è sbagliata? –
- Sì, Andy. –
- Se venite qui vi ammazzeranno. Bloccano ogni via di entrata. –
Stan rimase un attimo in silenzio col cellulare in mano, guardò i suoi compagni mentre qualche macchina li superava sparendo nel buio che era ormai sceso. Poi disse: - A che distanza da Bangor siete? Dove è il posto di blocco? –
- Un miglio. –
- Grazie Andy. Sei un vero amico. – guardò gli altri facendo un cenno con la mano, alzò il pollice. E poi disse: - Andy, se puoi prenditi la tua famiglia e portala via da Derry. –
- Pensi che succederà qualcosa, Stan? –
- So che succederà, Andy, lo so. Addio, amico. – e chiuse il cellulare.
Li guardò tutti e vide che aspettavano una spiegazione, ma non c’era tempo per spiegare. Potevano anche stufarsi di aspettarli e venirli a cercare. – A un quarto di miglio da qui, - disse a Ben – C’è lo sbocco dello scolmatore. Lo hanno costruito dopo l’85 per prevenire le alluvioni. Possiamo entrare da lì. –
Si guardarono tutti aspettando che qualcuno prendesse la decisione, e naturalmente fu Bill a farlo. – Andiamo ragazzi. – sorrise e per un attimo apparve la faccia del bellissimo ragazzino che era stato – Ho sempre sognato di entrare in uno scolmatore! – e Ben mise in moto l’auto inoltrandosi nella strada buia.
Nessuno di loro si era accorto della Toyota che li aveva superati e che aveva accostato un centinaio di metri davanti a loro. Appena la superarono li seguì a fari spenti fino a che si fermarono accanto alla stradina che portava allo scolmatore. Anche quell’auto si fermò.

martedì 28 agosto 2012

Capitolo 46, il capo Gardener.

XLVI

Quando nel 1997 Harold Gardener aveva divorziato da sua moglie Meryl, aveva pensato che sarebbe potuto tornare alle gioie della vita da scapolo. Mah!
Poter allargare le gambe da un lato all’altro del letto e, quando faceva molto caldo, spostarsi prima a destra e poi a sinistra per cercare un po’ di fresco? Scorreggiare tranquillamente quando si è a letto senza disgustare un’altra persona? Fare la corte alle belle donne senza il pensiero fisso che qualcuno lo dica a tua moglie?
Be’, se era questo che cercava, lo aveva avuto. Ma altro gli mancava. Sentire il respiro di una persona amata accanto a sé di notte quando ci si svegliava da un brutto sogno e si aveva bisogno di convincersi che tutto andava bene, per esempio. Parlare di tutto e niente con qualcuno. Anche questo gli mancava. Avere qualcuno in casa che sapesse cucinare e con cui sedersi a mangiare la sera come persone civili. Ecco, anche questo gli mancava.
E così, quella torrida serata di luglio, quando il sole era appena calato, Harold Gardener, per tutti il Capo, se ne stava seduto davanti alla tivù, sulle gambe una tovaglietta e sulla tovaglietta un piatto di ravioli al ragù in scatola che aveva scaldato a bagnomaria poco prima. Era seduto su un divano troppo grande per il suo sedere single, e vicino a lui, sul tavolino pieno di polvere e ditate, c’era una bottiglia di vino troppo grande per il suo stomaco single, ma l’avrebbe finita comunque.
Gli ultimi dieci giorni erano stati orrendi, pensava seguendo senza alcun trasporto le vicende di quegli ultra tecnologici poliziotti del telefilm. Prima il caso di Gray e Paniska, e quello che ne era seguito. Poi quello che avevano fatto alla tomba di Hanlon, roba da paesi del Terzo Mondo, non degna di una città come Derry. E poi la Danner. Carole. Carole!
Se esisteva un’età in cui si smetteva di innamorarsi, un’età in cui una bella donna non ti avrebbe più fatto girare la testa, bene, i suoi 59 anni ne erano ben distanti. Gli era sempre piaciuta, quella donna, e a essere sincero, ma non era poi così difficile standosene da solo a guardare la tivù mangiando ravioli scaldati, un bel po’ di volte scopando con Meryl aveva chiuso gli occhi e si era immaginato di stare sopra a Carole. Che bella donna che era, cazzo.
L’avevano ammazzata come un cane, soffocata con un cuscino, ed era stato lui a doverla identificare all’obitorio, era bianca tendente al grigio, gli occhi infossati e il collo tirato. Avevano tolto il lenzuolo e aveva visto quel bel viso irrigidito, i capelli abbandonati sul tavolo di acciaio.
Stan non c’era, povero ragazzo, era partito per un viaggio con la sua fidanzata. E lui lo aveva dovuto chiamare per dargli la notizia. Avrebbe preferito baciare il culo di un cammello piuttosto che fare quella diavolo di telefonata. Quello Stan era proprio … e che cavolo era quel rumore? Chi c’era in bagno?
Si alzò poggiando il piatto sul tavolino senza fare rumore. Tanto con il baccano che faceva la tivù, sembrava che quei poliziotti della scientifica potessero esaminare le loro dannate provette solo dopo aver sparato. Andò in camera e prese la pistola nel cassetto. La caricò sentendo ancora altri rumori. Sì, c’era qualcuno in bagno. Strano. La porta di entrata era davanti alla sala dove stava mangiando e nessuno era entrato. E poi viveva al terzo piano. Ripensando a un racconto che aveva letto da ragazzo, i Delitti della Rue Morgue, pensò che poteva trattarsi di un orangutan assassino. Armò la pistola e andò verso il bagno. Qualcuno aveva aperto la doccia.
La porta era aperta. Si fermò un attimo per fare rallentare il cuore, prese un bel respiro e la aprì. Sì, qualcuno stava facendo la doccia. La donna si girò verso di lui e subito si sentì gelare dal terrore. I pochi capelli che aveva in testa gli si drizzarono e sentì anche i peli della schiena fare altrettanto.
- Ciao Harry! – gli disse la donna sporgendosi da sotto il getto d’acqua calda e sorridendogli. I capelli le scendevano sulle spalle appiattiti dall’acqua. Le piccole tette non erano forse fresche come quelle di una ventenne, ma si difendevano assai bene. Il ventre era forse un po’ troppo prominente, non era quello di una ragazzina. Le gambe erano belle, sottili, lisce. Come avrebbe detto il compianto Harlan Bowers il cui corpo era stato cremato il giorno prima, malgrado avesse cinquantadue anni Carole Danner era un notevole pezzo di figa. Ah, era ancora morta, lo si vedeva dalla pelle livida e dagli occhi come slavati. E anche il sorriso era un po’ tirato, come una smorfia non troppo gradevole. – Non ti dispiace se mi lavo qui? – gli chiese mentre l’acqua le portava via dal corpo la schiuma.
Harold Gardener guardava quella donna morta che si lavava sotto alla sua doccia, la guardava in uno stato contrastante, perché mentre sicuramente tremava di paura, il suo cazzo non era affatto d’accordo e stava spingendo con forza la stoffa leggera dei suoi pantaloni da casa.
- Devo parlarti Harry. – gli disse sorridendo di nuovo a quella maniera un po’ inquietante, poi uscì dalla doccia e cominciò ad asciugarsi. Sembrava che per quanto si asciugasse tutte le parti più interessanti del suo corpo rimanessero sempre scoperte. Gardener era ormai eccitato come un quattordicenne con una copia di Playboy in mano.
La donna smise di asciugarsi e si piegò in avanti. Con pochi gesti eleganti si avvolse i capelli nell’asciugamano e lo avvolse in un turbante, si rialzò e lo guardò negli occhi sorridendo. – Andiamo di là? – gli chiese e lo precedette in sala senza vestirsi.
Si andò a sedere sul divano e tolse il volume al televisore. Nella luce della sala, più debole di quella del bagno, il suo pallore e il colore slavato dei suoi occhi si notavano molto meno. Batté una mano sul cuscino vicino a lei e gli fece cenno di sedersi.
- Lo sai che ho sempre avuto un debole per te, Harry? – gli disse sorridendo mentre lui si sedeva accanto a lei. – E lo sai che dove sono adesso, so delle cose … Ho scoperto delle cose orrende, sai? – e il suo sorriso si trasformò in un’espressione triste.
- Cosa hai scoperto, Carole? – le chiese. Non si poteva farla soffrire, povera Carole, no. lui avrebbe rimediato a tutto. – Dimmi cosa hai scoperto. –
- È mostruoso, sai Harry? – stava piangendo. Le lacrime le scendevano su quelle guance fredde e pallide e andavano a cadere sui seni. Harold Gardener poteva sentirne il rumore quasi impercettibile. Lei gli prese la mano e stringendola tra le sue se la posò in grembo. Gardener respirava fatica e la fissava in quegli occhi che avevano riflessi d’argento e arancioni nella luce del televisore.
- Cosa, Carole? –
- Ho scoperto che il mio Stanley è molto cattivo. – pianse e singhiozzò rumorosamente – Stanley e Gray lavoravano insieme. È Stan che ha ucciso la piccola Louise. –
- Cosa? –
- Sì, Harry. E hanno degli amici, li sta portando qui. Avevano già ucciso dei bambini nell’85, sai? Stanno arrivando in macchina con lui, quattro vecchi debosciati. Sono stati loro a farmi ammazzare, sai? –
- No! – non lo Stanley Hanlon che lui conosceva. No!
- Sì invece! – disse lei piangendo, poi lo abbracciò e lo strinse a sé. Era fredda, ma i capezzoli gli bucavano la maglietta e spingevano contro il suo petto.
- Cosa posso fare, Carole? – le chiese sentendo che stava per annegare nei suoi ormoni.
- Devi fermarli. Sono venuti qui per fare del male a Derry. Vogliono uccidere altri bambini di Derry. – si staccò da lui e lo guardò con quei suoi grandi occhi slavati che riflettevano pagliuzze di luce d’argento e arancione – Devi fermarli prima che entrino qua a Derry. – e si accucciò sul suo ventre armeggiando con la sua cerniera lampo.
Harold Gardener pensò che la sua bocca era fredda, mentre prendeva la cornetta del telefono e dava l’ordine al suo vice di mettere dei posti di blocco per fermare l’auto con a bordo Stan Hanlon e i suoi amici provenienti da Bangor. E, prima che mettesse giù, lei si girò verso di lui e, guardandolo da sotto in su con un ciuffo di capelli bagnati sulla fronte, disse: - Sono armati e pericolosi. – frase che lui ripeté mentre lei tornava all’attacco.
Amava davvero gli abitanti di Derry il nostro caro It, non chiedevano altro che una piccola bugia per tradire tutti i loro cari.

lunedì 27 agosto 2012

Capitolo 45, Eddie e It.

XLV

La carcassa sanguinante strisciava su mani e ginocchia, lasciandosi dietro le dita che continuavano a staccarsi a ogni movimento. Poi cadde su un fianco mugolando pietosamente e, quando fu a pancia all’aria, anche il naso cadde scivolando lentamente sulla guancia e finendo in terra.
Respirava a fatica, gonfiava il petto e si sentiva un sibilo sottile che usciva dalla bocca e dall’ampia ferita che era stata il suo naso. E poi smise di respirare, sussultò una o due volte e poi i suoi occhi iniettati di sangue parvero perdersi oltre il soffitto della volta, quel poco dei lineamenti che aveva avuto finalmente rilassati dalla cessazione del dolore.
La zampa del ragno lo sfiorò. Niente, morto, kaputt. Lo scosse con più forza, ma il corpo rimase lì immobile. – Eh no, Eddie! – disse canzonandolo It, poi si concentrò e appoggiò sul viso stravolto dalla lebbra del bambino il suo muso. Neanche It sapeva bene cosa succedesse, ma sapeva che succedeva. Eddie sussultò, fu scosso come da un breve attacco di convulsioni e, mentre tutte le parti che il suo corpo aveva perso si riformavano dal nulla, aprì gli occhi e urlò. Rinascere sembrava molto più doloroso di morire. – Come va Eddie? – gli chiese It che aveva appena riassunto la forma del clown, parlava meglio quando era umano. – Ti sei divertito ad avere la lebbra? –
Eddie non gli rispose. Si rannicchiò stringendosi le ginocchia con le braccia, ansimando per la sua asma e piangendo. Aveva perso il conto delle volte in cui era morto, oramai non gli sembrava neanche più reale, perché quando non veniva torturato dormiva e sognava ancora It. Naturalmente il povero bambino era impazzito. Ricordava vagamente la sua vita fuori di lì, la sua vita da adulto, ma It lo teneva lontano da quel periodo. Era stato un uomo pavido, ma da bambino, prima di entrare nel gruppo dei Perdenti, era stato davvero terrorizzato da tutto. A It piaceva terrorizzarlo, e gli piaceva come stesse perdendo la speranza. Oramai soffriva sempre, anche quando non lo torturava.
E ora It aveva fame. Si ritrasformò nel ragno e avvolse velocemente Eddie nel bozzolo per poi cominciare a sollevarlo verso il suo posticino sulla ragnatela.
Si arrampicò agile sulle pareti con Eddie tra le fauci, poi camminò sul filo grande come un filo di lana arrivando al punto preciso che aveva scelto per Eddie. Attaccò il bozzolo e cominciò a scendere.
Gli piaceva torturare Eddie, da impazzire, ma aveva fame di carne nuova. C’era una bambina, era grassa e brutta, stava sempre sola. Le piaceva andare in una fabbrica abbandonata e fare finta di essere Ellen Ripley che lottava con Alien. L’aveva seguita già varie volte, aveva studiato i suoi giochi e le sue paure, le sarebbe apparso come un barbone, all’inizio, poi al barbone sarebbe esplosa la pancia e ne sarebbe uscito Alien. Sarebbe stato divertente vederla combattere e scappare, e poi aggredirla con quella bellissima bocca doppia a scatto. E, mentre già pregustava il sapore del cervello della bambina, mentre sentiva già il dolcissimo sapore del suo terrore, accaddero due cose.
Eddie cominciò a ridere. Rideva, il bambino, ma non era la risata di un pazzo. Era la risata gioiosa di chi vede la luce in fondo al tunnel, lo scoppio di gioia del sepolto vivo che sente scavare la terra sopra di sé. Eddie rideva perché Loro stavano arrivando.
Questa fu la prima cosa. La seconda fu che It ebbe paura. L’aveva già avuta ventisette anni prima, ma non pensava che sarebbe successo di nuovo. Li sentiva avvicinarsi, oramai a poche miglia da Derry, a poche miglia da lui, e tutto a un tratto capì che erano ancora forti. Forse non abbastanza forti per ucciderlo di nuovo, questo probabilmente no, ma anche nell’85 aveva pensato che non avrebbero più potuto fargli niente. Avevano ancora paura di lui, lo sentiva, ma non abbastanza da scappare, non così tanta paura da mettersi in un angolino a piangere disperati, in un angolino dove lui avrebbe potuto mangiarli in un solo boccone.
Stavano arrivando e volevano ucciderlo. E avrebbero potuto farcela, cazzo, e lui non voleva morire, non di nuovo.
Era tornato in vita una volta, era vero, e di nuovo lo avrebbe fatto, perché i Pozzi Neri e Derry avrebbero tentato di nuovo di collegarsi come la terra e il cielo quando c’è un fulmine, ma ci sarebbero stati di nuovo paura, sofferenza, morte, seppure momentanea.
It non lo voleva, proprio no. e se fossero scesi lì da lui, per quanto improbabile, sarebbe potuto succedere. La paura lo paralizzava, lo si sarebbe potuto chiamare un attacco di panico, se lui fosse stato una persona. Aveva voglia di ucciderli con le sue mani, questo sì, di sentire il loro sangue scivolargli addosso, ma se fossero arrivati lì davanti a lui, tutti e sei, avrebbero potuto farcela.
Si andò a rintanare nella sua tana, per la prima volta da sempre tremava, pensando a cosa avrebbe potuto fare, mentre quel maledetto Eddie Kaspbrak continuava a ridere. Quel suono gli trapanava la testa, come la filastrocca di Bill Dembrough o i nomi degli uccelli di Stan Uris avevano fatto tanti anni prima.
- Basta! – urlò con tutta la sua voce, la grande sala tremò e i bozzoli delle sue prede oscillarono nell’aria ferma. – Basta! – ripeté rendendosi conto di essere quasi sul punto di piangere – Basta! – urlò ancora, e poi decise di agire.
Doveva dividerli. Doveva spezzare il loro gruppo prima che arrivassero a lui. Avrebbe usato Derry, come sempre.
Gli abitanti di Derry non chiedevano altro di agire per difenderlo. Bastava nascondere quello che gli chiedeva con una sottile mano di trucco, dire che era per quello che uno aveva fatto o per una colpa nascosta. Sì, Derry li avrebbe uccisi per lui, almeno alcuni di loro, e lui si sarebbe occupato degli altri.
Erano a metà tra Bangor e Derry, non aveva molto tempo, ma gli sarebbe bastato. Sapeva da chi andare, e sapeva anche come presentarsi a quella persona. Sì, ci avrebbe pensato lui, non chiedeva altro mentre se ne stava lì a guardare la tivù mangiando dei ravioli in scatola. Non chiedeva altro che poter aiutare Derry, gli bastava una piccola bugia.
E poi, se qualcuno ne fosse uscito, ci avrebbe pensato Chambers. Sì, It cominciò a ridere, la paura era passata, lui avrebbe vinto e finalmente i Perdenti sarebbero morti tutti.
Si lanciò attraverso il suo regno di cunicoli a velocità folle, verso la casa del capo Gardener. Ci sarebbe arrivato in un lampo.

domenica 26 agosto 2012

Capitolo 44, Bill, Ben e Stan.

XLIV

- Allora, signori, mi potete dire in che tipo di caverna vorreste scendere? – chiese a Bill, Ben e Stan il commesso del negozio a cui avevano chiesto della attrezzatura da speleologia. Non doveva avere più di diciotto anni, un ciuffo di capelli non troppo puliti gli scendeva sulla fronte e aveva un arcipelago di brufoli che gli decoravano guance, collo e fronte. Parlando si rivolgeva a Bill, la sua autorevolezza tra loro doveva essere davvero evidente.
- In che senso? – chiese Ben.
- Cosa? – disse allora il commesso e Bill cominciò a pensare di essere finito in una piece di teatro dell’assurdo stile “Aspettando Godot”. – Cosa intende per tipo di caverna? – chiese.
- Si tratta di una caverna naturale, di una caverna attiva, spenta, di una miniera, di gallerie artificiali abbandonate? –
- Scusi, attiva che vuol dire? – chiese Stan.
- La caverna è attiva se ci scorre ancora l’acqua, spenta se il fiume si è prosciugato. –
- Ah! Spenta, no? – chiese Stan agli altri due.
E che cavolo ne so io? Diceva l’espressione di Ben, che si ricordava appena dove fosse l’entrata, poi disse: - Direi che sono per metà gallerie artificiali e per metà cunicoli naturali, in alcuni luoghi c’è sicuramente acqua. –
- Bene! – disse il commesso – E la luce? C’è luce artificiale nelle gallerie? –
Bill si ricordò di quando strisciavano carponi, ognuno con la mano sinistra sulla spalla di quello che aveva davanti, mentre Beverly teneva sotto l’ascella l’unica scatola di fiammiferi. Tranne dove c’era un tombino quando erano ancora vicini alla superficie, erano stati sempre al buio. – Buio totale. – disse tentando di sorridere, ma lo avevano preso i brividi. Aveva ricordato il corpo di Patrick Okstetter, uno scheletro ricoperto di muffa, i suoi libri gonfi e marci vicino a lui.
- E ci sono dislivelli? –
- Qualcuno sì, no Ben? –
Ben fece un’espressione abbastanza buffa gonfiando le guance e stringendo le labbra. Per un attimo Bill rivide perfettamente il faccione tondo del suo amico di mezzo secolo prima. Poi annuì e disse: - Dislivelli piccoli, un metro circa. Però è passato molto tempo, potrebbero esserci stati dei crolli. –
Alla faccia dei crolli! Pensò Bill ricordando Derry subito dopo il nubifragio, quando erano riemersi là dove c’era sempre stato il Canale. – Sì, probabilmente ci sarà qualche salto, adesso. –
- E allora vi servono le luci, le corde, l’imbracatura … - e dicendo queste cose il ragazzo si allontanò infilandosi tra alcuni scaffali pieni di merci misteriose, seguito dai tre che si guardavano intorno intimoriti e stupiti. - … e il croll, la maniglia, i sacchi, il materiale da armo. – si fermò in un punto preciso venendo quasi investito dai tre. – Ecco! È tutto qua. –
Prese dei moschettoni e delle bombole, poi vide che Ben stava prendendo delle corde e lo fermò. – Alpinista? –
- Sì. – e si sentì colpevole come un ladro. Si era mosso e aveva sbagliato.
- Eh! Eh! – ridacchiò il ragazzo – Lo avevo capito. Lei ha preso corde da alpinismo, elastiche. – ripose con cura la corda presa da Ben – A voi servono queste, statiche da dieci millimetri! – e mise in braccio a Ben un bel rotolone di corda.
Poi si spostò e cominciò a prendere dei complicati ingranaggi che Bill e Stan guardarono come una scimmia guarderebbe un I-pod, mentre Ben le riconobbe.
- Croll e maniglie. – disse Ben.
- Eh sì. – disse il ragazzo, poi tirò fuori delle imbracature. – Quanti sarete? –
- Sei. –
- Ah-a! Una spedizione al centro della terra! Amanti di Verne? –
Legge il ragazzo, allora! Pensò Bill, e subito dopo pensò di aggiungere che semmai loro lo erano di Lovecraft, ma disse solo: - No. È solo che volevamo portare giù il ragazzo a vedere dove eravamo stati con suo padre. – e indicò con un cenno del capo Stan.
- E ce lo portate col braccio al collo? – chiese il commesso guardando Stan, poi fece una faccia un po’ di circostanza e disse: - Cioè, scusate. Non è che siano fatti miei. –
- Sta’ tranquillo. – disse Ben – Tra un paio di giorni glielo tolgono! – e fece un sorriso falso come una moneta da tre dollari.
- Ah. – disse il ragazzo e cominciò a battere lo scontrino. Bill pagò con la carta di credito e poi, quando stavano per uscire dopo averlo salutato, il ragazzo disse: - E attenti ai ragni! Ce ne sono di enormi laggiù! – e allora successe una cosa strana. Stan si girò a guardarlo come per un deja-vu uditivo, mentre Bill impallidiva fino a diventare bianco pergamena. Ben invece rimase per un istante interdetto, poi assunse un colorito graziosamente verdastro mentre i suoi occhi diventavano sempre più grandi. E infine, senza dire nulla, corse a rotta di collo verso i bagni riuscendo appena per un pelo a vomitare dentro alla tazza del gabinetto.
Tre pazzi dentro a una grotta, pensò il ragazzo guardandoli che si allontanavano dalla porta, due vecchi come suo nonno e uno col braccio ingessato al collo. Non la vedeva bene, proprio no.
Appena fuori Bill e Stan videro Richie che abbracciava Rachel e Beverly in lacrime. Si avvicinarono e chiesero cosa fosse successo. Le due donne avevano quasi finito il loro racconto quando arrivò anche Ben che sembrava molto meno verde di prima. Si incamminarono verso la grossa station wagon che avevano noleggiato con un passo molto meno baldanzoso di quando erano arrivati, tutti tranne Richie, che teneva una mano in tasca e stringeva una scatoletta molto preziosa. Presto o tardi sarebbe tornata utile, ma sentiva dentro di sé che non avrebbe dovuto parlarne agli altri fino al momento opportuno. Ridacchiando tra sé e sé seguì i suoi amici e insieme partirono verso Derry.
Dietro di loro, dopo neanche un minuto, si mosse anche un’altra auto. L’uomo che la guidava puzzava di alcool e sudore e aveva la barba lunga e gli occhi allucinati da drogato. Vicino a lui, anche se nessuno avrebbe potuto vederle, sghignazzavano in modo crudele due bambine morte.

sabato 25 agosto 2012

Capitolo 43, Rachel e Beverly.

XLIII

Rachel e Beverly stavano girando per negozi, ma non per cercare abiti come aveva pensato Richie. Cioè, sì, ma abiti robusti, da esploratori si potrebbe se dicendo questa parola non si pensasse subito a bermuda cachi e casco coloniale. Questa volta i Perdenti avevano deciso di essere ben preparati al loro viaggio nelle fogne, anche parchè non ricordavano per nulla i due precedenti.
Si ricordavano all’incirca dove erano entrati, la tana dei Morlock trovata da Ben, ma poi da lì in poi, buio totale. Ricordavano solo che Eddie era morto, e che anche It era morto, ma su questo cominciavano ad avere qualche dubbio.
Comunque le due signore girarono per alcuni di quegli enormi negozi di abbigliamento scoprendo che a luglio, nel Maine, si può comprare qualsiasi vestito, purché sia estivo, leggero e colorato.
Alla fine provarono in un negozio di articoli per la caccia e trovarono quello che gli serviva, tirando abbastanza a indovinare per i numeri di scarpe di Bill e Richie, ma Beverly aveva occhio per quelle cose.
Beverly pagò con la sua carta di credito, - Un’altra spedizione così e vado in rosso! – disse sorridendo quando uscirono con il colo carrello carico di merce.
E fu allora che la videro. Era una bambina. Beverly la vide giocare con lo yo-yo. Lo faceva scendere, lo faceva risalire, lo addormentava, lo portava a spasso come un cagnolino, gli faceva fare una giravolta completa intorno a lei. La bambina aveva circa undici anni e indossava dei jeans sbiaditi tagliati appena sotto le natiche, aveva due gambe snelle ma muscolose, già molto femminili, una camicetta bianca annodata alla vita e appena un accenno di seno. Era di spalle e i suoi capelli erano rosso ramati, come braci d’inverno. Beverly rimase immobile a guardarla mentre Rachel le parlava di un tic che aveva Stan quando rideva, gli si chiudeva l’occhio destro come quando si fa l’occhiolino.
- Mi hai sentito Bev? – le chiese voltandosi verso di lei e vedendo che si era praticamente tramutata in una statua di sale. Stava guardando una bambina di otto o nove anni.
La bambina che Rachel vide fissata così intensamente da Beverly aveva i capelli neri corvini, quasi con sfumature blu sotto le luci al neon. Era alta per la sua età, con un grosso taglio appena rimarginato sul ginocchio sinistro. Rachel si ricordava benissimo il dolore ce aveva provato sbandando con la bici e finendo contro il guard-rail. Aveva perso così tanto sangue che Mamma Patty e Simon, il suo patrigno, l’avevano portata all’ospedale in stile Kramer contro Kramer mentre il sangue le gocciolava giù per la gamba inzuppando la calza di cotone e la scarpina da ginnastica rosa di Paperina.
La bambina saltava la corda contando fino a sessantasei, prima di perdere il ritmo e incespicare nella corda, sul ritmo di O bladì o bladà dei Beatles.
- Cazzo! – disse Beverly guardando sé stessa di cinquantaquattro anni prima. Era impressionante, non riusciva nemmeno a respirare, per la prima volta capiva il dramma di Ed Kaspbrak. La piccola Bevvie continuava a far andare su e giù lo yo-yo con la costanza folle che possono avere solo i bambini, mentre tutti i clienti del centro commerciale, simili agli zombie del film Zombie di Romero, le passavano accanto senza vederla.
- O mamma mia! – disse invece Rachel rivedendo sé stessa di diciotto anni prima mentre ricominciava a contare da uno. Sentì un orrendo crampo all’intestino, mentre la schiena le si copriva di un sudore gelato che le scese giù verso l’elastico degli slip.
- La vedi anche tu? – chiese a Beverly prendendole la spalla con la mano. Quella sera Ben avrebbe chiesto a Beverly come si fosse fatta dei lividi là dove ora quelle dita sottili la stringevano così forte.
- Sì. – rispose Beverly. Poi tentò di ragionare e capì che Rachel, che la conosceva da solo tre giorni, non avrebbe mai potuto riconoscere quel bocciolo dal frutto oramai troppo maturo che aveva accanto. – Ma tu cosa vedi? –
- Me. – disse Rachel a cui intanto cominciava a girare la testa, come quando aveva bevuto sei tequila di fila alla festa del liceo e aveva vomitato sui piedi del preside.
- Non sei te. È It. – le disse mentre la piccola Beverly davanti a lei lanciava in aria il filo dello yo-yo e lo riprendeva al volo mentre si riavvolgeva ordinatamente. Lei quello non lo aveva mai saputo fare.
- Ma sono io. Ha i miei capelli, i miei vestiti, il mio taglio sul ginocchio. –
- Io vedo me. Me come ero nel 1958. –
- Cosa? –
- È un trucco di Pennywise. –
- O mio Dio! – disse Rachel e mollò la spalla di Beverly. Stava per scappare.
- No. Ferma! – disse Beverly. – Andiamo da lui. Non dobbiamo mai scappare, e poi qui a Bangor non può farci nulla. – e sperò di avere ragione, perché non aveva mai letto da nessuna parte che i mostri proteiformi fossero tenuti a rispettare le giurisdizioni delle contee.
Andarono verso la bimba, o le bimbe, camminando appoggiate una all’altra come due zoppe che si sorreggono a vicenda, fino a che arrivarono a non più di due passi dalla cosa.
Si girò a guardarle.
Beverly vide un qualcosa che sembrava un incrocio tra una mummia e un’iguana, l’essere che aveva davanti doveva avere almeno duecento anni, la pelle incartapecorita cadeva in borse su tutto il viso, i pochi denti che rimanevano erano consumati come gessetti usati troppo, i capelli che le restavano sulla testa a punta erano pochi, finissimi e bianchi.
Il collo era ornato da pieghe di pelle che sembravano quasi bargigli di un tacchino, mentre il corpo rinsecchito era accartocciato come un truciolo di legno.
E quella cosa, i cui occhi liquidi erano quasi totalmente velati dalla cataratta, era indubitabilmente lei. Vi riconosceva i suoi lineamenti come li avrebbe riconosciuti nella bambina che era stata fino a un istante prima. E la cosa parlò.
Rachel vide un qualcosa che solo con molta fantasia si sarebbe potuto riconoscere come un viso umano. Al primo anno di internato ad Atlanta si era trovata di turno al pronto soccorso quando era arrivata una ragazza pachistana che aveva fatto l’errore di innamorarsi di un ragazzo biondo di nome Ralph. Il padre e i tre fratelli si erano sentiti obbligati a difendere l’onore della famiglia gettandole in faccia una bottiglia da un litro di acido per batterie. Era stata Rachel a staccarle i lembi di pelle bruciata ancora attaccati alle ossa del viso, ed era stata ancora lei ad asportare quanto rimaneva dell’occhio sinistro. Per sfortuna la ragazza era sopravvissuta, condannata a una vita da molto onorabile mostro di Halloween. Rachel non aveva dormito per almeno due settimane dopo quel fatto, appena chiudeva gli occhi rivedeva quell’ammasso di carne rossa che ancora urlava.
Quella cosa che era stata lei bambina fino a un attimo prima, era quasi uguale a quella ragazza, ma chiunque avrebbe potuto notare l’occhio castano e i pochi capelli rimanenti, nero corvini con riflessi bluastri. Un dente che appariva tra le labbra bruciate e a brandelli era scheggiato, come un suo incisivo centrale da quando era caduta dallo scivolo a otto anni. E quella cosa parlò.
- Andate via, troie. Andate via finché ancora potete! – poi rise e svanì in un botto. Al suo posto rimase un palloncino bianco su cui erano disegnate in rosso le loro facce. Piangevano da orbite vuote. E poi anche il palloncino scoppiò schizzandole di sangue.
Le due donne si abbracciarono piangendo nella più totale indifferenza dei passanti, fino a che Richie, che stava scendendo le scale, si avvicinò a loro e le abbracciò. Era bello che qualcuno fosse lì per loro, era bello non essere sole.

venerdì 24 agosto 2012

Capitolo 42, Richie.

XLII

Eh sì, stava succedendo di nuovo. Stavano diventando invisibili. Sull’aereo tutti avevano riconosciuto Richard Tozier e Bill Dembrough, e uno o due anche il famoso architetto Ben Hanscom, e quando in una civiltà la gente conosce meglio un saltimbanco che fa interviste in tv che uno che progetta le città, allora vuol dire che quella civiltà è alla frutta, pensava Richie, ma ora che erano arrivati a Bangor, non a Derry, a Bangor, non solo nessuno li fermava per avere un autografo, ma neanche si fermavano a guardarli. Era come se non ci fossero nemmeno stati, la gente muoveva gli occhi e sembrava passare loro attraverso come gli occhi di Superman.
Si erano fermati in un grande centro commerciale per comprare alcune cose utili in un negozio di articoli sportivi. Avevano deciso che gli servivano caschi da minatori con luci all’acetilene o quello che cavolo si usava ora, corde, bussole, chiodi e moschettoni, non si sa mai, borracce, barrette nutrienti, razioni k o come cavolo si chiamavano quelle per i civili, e, questa era stata un’idea di Beverly, una bella balestra. Ben, che era quello bravo a manipolare le cose, avrebbe fissato in cima a una freccia la tartarughina d’argento di Rachel, comprata tanti anni prima da Stan, e quando si fossero trovati davanti It,in qualunque forma si fosse presentato, gliela avrebbero sparata in testa, e ciao ciao mostro! O almeno così speravano.
Erano entrati a comprare nel negozio Ben, che negli ultimi anni aveva fatto un po’ di alpinismo, Bill, che era il capo, e Stan Hanlon che in quanto reduce dell’Afganistan non era proprio digiuno di quegli argomenti.
Rachel e Beverly erano andate in giro per i negozi, prendi due donne, pensava Richie, mettile in qualunque situazione e poi fai vedere loro dei negozi. Anche se avranno vicino a loro un licantropo, gli diranno: ehi Ciccio, aspetta un attimo, che andiamo a provarci una camicetta e delle gonne. E lo diranno con una tale convinzione che l’uomo lupo starà lì ad aspettarle sbavando e ululando. E non è neanche impossibile che lo convincano a portare lui i sacchetti.
Mentre se ne stava seduto a un tavolino a bere un bicchierone di caffè e pensava questi pensieri, Richie si gustava la sua nuova e strabiliante invisibilità. Al tavolo di fronte a lui una donna stava sfogliando una rivista di moda e, in copertina, splendeva in tutta la sua meraviglia Kasia. Ciao bella! Pensò Richie, spero che tu sia felice. Non sperava di rivederla, se avesse dovuto valutare da bookmaker le sue possibilità di essere ancora vivo di lì a un paio di giorni, si sarebbe dato cento a uno. O forse mille a uno.
Bevve l’ultimo sorso di caffè e rise. Aveva avuto una bella vita. Niente di trascendentale, momenti sì e momenti no, e tra i più no c’erano senza dubbio le due cacce a It. Ma si era divertito, aveva conosciuto della bella gente e aveva avuto un discreto successo in quello che aveva fatto. E aveva avuto, per poco, Kasia. Buona fortuna, bella, divertiti più che puoi, perché prima o poi i mostri arrivano a morderti le chiappe.
Vide passare una cameriera e la chiamò. – Un altro caffè, grazie. – e la cameriera lo guardò sorridendo. Gli parve di vedere un dubbio nei suoi occhi, come se si fosse chiesta se quell’uomo un po’ anziano era … sì, sembrava proprio … Ma niente. It li aveva coperti col suo mantello invisibile, molto probabilmente a Derry avrebbero dovuto stare attenti ad attraversare la strada, perché forse gli automobilisti non avrebbero potuto vederli.
La cameriera portò il caffè, lui vi versò poco zucchero, non gli piaceva il dolce, meglio l’amaro, e poi cominciò a berlo a lunghi sorsi guardando la gente che passeggiava con le sue belle borse piene di merce. Donne, uomini, ragazze e ragazzi, bambini con i videogiochi in mano e tutti coi cellulari all’orecchio. Se da bambino avesse visto una scena così in un film, sarebbe stato in un film di fantascienza coi mostri, uno di quelli con i pionieri dello spazio che scendono su un pianeta che una volta era abitato dai Krell o da qualcos’altro di simile. Solo che poi gli alieni in questione non si erano davvero estinti, non del tutto almeno.
- Vivo in un film di fantascienza! – disse ridacchiando tra sé e sé. – Da un momento all’altro mi si parerà davanti il robot Robbie chiedendomi se mi serve qualcosa. – e giù un’altra risatina. Sempre meglio prenderla in ridere, sempre meglio così.
E mentre beveva caffè e rideva, sentì una vocina alla sua destra. – Lei è il signor Tozier? –
- Sì piccola. – era una bimba di cinque o sei anni. Carina, bionda con le treccine. Strano, lo vedeva. – E dove sono i tuoi genitori? – le chiese.
- La. – indicò con una manina tutta sporca di inchiostro blu giallo e rosso. Un uomo e una donna di nemmeno trent’anni. Non la guardavano, una bimba di cinque anni che parla con un adulto sconosciuto. Evidentemente il mantello dell’invisibilità aveva ricoperto anche lei.
- Io l’ho sognata stanotte, sa? – disse allora la piccola.
- O poverina! Era meglio se sognavi cavalli e prati verdi, no? Meglio che sognare un vecchiaccio! –
La piccola rise , poi disse: - Non c’era solo lei nel sogno, c’era anche Eddie. –
- Eddie? – o cavolo! – E chi sarebbe Eddie? –
La piccola sorrise, era davvero graziosa. – È il ragazzino che mi ha salvato la vita quando ero nel Paese delle meraviglie. Io mi chiamo Alice, sai? –
- E dove sarebbe questo Paese delle meraviglie? –
- Non lo dica a nessuno! Ci si entra da una tana di coniglio nei Barrens. –
- Sei di Derry, piccola? - chiese Richie sentendo la pelle d’oca. Eddie?
- Sì. Abito vicino ai Barrens, sai, e l’altra notte è passato il Bianconiglio. Aveva fretta, lo sai, no? –
- Il Bianconiglio. Lo so, piccola. E aveva il panciotto d’argento con dei pompon? –
- Sì! Arancioni! – disse lei tutta fiera – Lo hai visto anche tu? –
Cazzo, sì che l’ho visto! – Sì piccola, tanti anni fa. –
- E allora io l’ho seguito e sono caduta giù, e poi ancora giù, fino al centro della Terra e ancora più giù. –
- Sì, e poi? –
E poi il gatto del Cheshire e la Regina di Cuori hanno tentato di uccidermi, ma Eddie mi ha salvato e mi ha indicato la via per uscire. I miei genitori non sanno nulla, sai? Non mi lasciano mica correre dietro ai conigli, hanno paura, loro. –
- Eh, lo so come sono i genitori! – cavolo, Eddie! – E Eddie, lui è uscito? –
- Ah no! Mi correva vicino e poi, non so, gli è mancato il respiro. Mi ha detto di correre via per quella galleria, e poi di svoltare due volte. Lui è rimasto lì e mi ha detto che lo avrebbe fermato. Ha detto che avrebbe fermato It. –
- Lo so, piccola. E come era questo Eddie, quanti anni aveva? –
- Non lo so, era grande. Forse dieci, o dodici, non so. Era grande. –
- E poi lo hai sognato? –
- Sì, stanotte. Mi è apparso in mezzo ai Barrens, c’era una bici grigia vicino a lui, e stava tramontando il sole. Lui stava accarezzando una grossa tartaruga e mi ha detto che oggi, qui a Bangor, avrei visto uno della tv, il signor Tozier. E che dovevo dirgli una cosa. –
- Cosa piccola? –
Strinse gli occhi e aggrottò le sopracciglia, voleva ricordare le parole precise. – Mi ha detto che tu hai una cosa di Kasia con te, e lui ne ha bisogno. –
Richie la abbracciò pensando che di lì a un minuto gli sarebbero saltati addosso i vigilanti urlando che era un pedofilo, ma era invisibile. – Grazie piccola! Grazie davvero! – e la vide allontanarsi verso i genitori. Quando fu a metà strada si girarono a guardarla e la chiamarono, era di nuovo visibile anche per loro.
Si alzò controllando se aveva quel foglietto nel portafoglio. Sì! Al piano di sopra c’era il negozio che gli serviva, secondo il pannello appeso al muro. C’avrebbe messo un attimo.

giovedì 23 agosto 2012

Capitolo 41, It.

XLI

It se ne stava rintanato in fondo alla sua tana, là dove ventisette anni prima Dembrough e Tozier lo avevano ucciso, piccole scimmie sfrontate, e rimirava la sua tana pregustando il sapore sopraffino della vendetta. I Perdenti stavano tornando da lui, li aveva richiamati appena tornato in vita per farli a pezzi, divorarli, sentirli urlare.
Per prima cosa avrebbe preso il loro capo, quel balbuziente maledetto di Bill Dembrough, che avrebbe sicuramente tentato di riprovare il rito del Chud. Stupido. Era un vecchio, ormai, la sua fantasia si era sclerotizzata ormai da anni e anche scrivendo si limitava a rimasticare e variare minimamente le stesse vecchie idee.
Da quanto Bill Dembrough non nascondeva i piedi sotto le coperte per la paura che una gelida mano di morto gli potesse afferrare la caviglia? L’unica arma che Dembrough aveva avuto contro di lui, un’arma potentissima, era stata la fede nella sua fantasia, ma ora quella fede era morta. Restava solo la paura, e la paura non ti rende forte, ma solo inerme o avventato. In un caso come nell’altro, indifeso davanti a It.
E Tozier? Anche lui, un vecchio, un vecchio che da divertente era diventato, senza neanche accorgersene, ridicolo. Lo aveva sorpreso, l’ultima volta, quando lo aveva aggredito mentre si stava liberando di Dembrough, ma anche lui aveva perso totalmente la fiducia nei suoi mezzi. Sapeva ancora dire una battuta o due, questo sì, ma l’imitazione del signor Nell per lui era diventata, come per chiunque altro, solo una patetica imitazione. Che provasse pure a rifarla, che ci provasse. Divorarlo mentre urlava di terrore sarebbe stato ancora più divertente.
E Hanscom? L’unica cosa che era rimasta in lui del ragazzino che lo aveva quasi ucciso era la voglia di mangiare quando era agitato. Quanto si controllava, poveretto, che vita di rinunce. Magari non lo avrebbe neanche ucciso. Sì, forse se lo sarebbe tenuto lì come faceva con Kaspbrak, facendolo ingozzare all’infinito, fino a fargli riempire la sua tana con la ciccia, solo per gongolare della sua vergogna. Anche nel vecchio Ben di magia non ce ne era rimasta abbastanza neanche per accendere un fiammifero, altro che uccidere It.
Chi rimaneva? La Marsh? Che pena, mio Dio, che pena! Se non fosse stato per la sua rinascita, sarebbe stata ancora lì a scolarsi goccetti di Whiskey di nascosto dal marito, rimpiangendo le sue tette alte e sode e i suoi capelli rossi di rame. Le poteva leggere dentro, sì poteva farlo, quando si metteva davanti allo specchio e piangeva dello sfacelo che era il suo corpo, immaginando quasi con un perverso piacere come sarebbe stato a settanta anni e poi a ottanta e poi a novanta, se non fosse morta prima. Vanità, o vanità! Neanche lei avrebbe ucciso, l’avrebbe tenuta lì a invecchiare in eterno, nuda davanti agli occhi del marito, sempre più avvizzita e secca, sussurrandole all’orecchio i ricordi della sua gioventù per poi bere come un liquore prezioso le sue lacrime.
E Kaspbrak? Quante volte lo aveva già ucciso e risuscitato? Ogni volta si divertiva a scavargli dentro per scoprire ogni sua paura o pensiero più segreto e nascosto. Aveva desiderato sua madre? Aveva desiderato di ucciderla? Ecco che sia una cosa che l’altra si realizzavano, solo per farlo soffrire. E l’asma? Che aveva mai sentito di attacchi di asma così forti da far collassare le costole? Eddie li aveva avuti, e fino a che non si fosse arreso, fino a che la sua anima non si fosse spezzata, avrebbe scoperto nuovi orizzonti del dolore. Ah, che divertimento sarebbe stato uccidere il suo Big Bill davanti a lui, era quasi un Dio per lui quello scrittore balbuziente, era il padre che non aveva mai avuto. Lo avrebbe divorato di fronte a lui, fino a spezzargli le ossa per succhiarne il midollo, sarebbe arrivato quello stupendo momento e forse allora di Eddie Kaspbrak non sarebbe rimasto più nulla da torturare.
E poi c’erano quei due nuovi. Rachel Uris e Stanley Hanlon. Con lui si era già divertito, lo spettacolo messo su da Chambers e Bowers con il corpo di suo padre era stato davvero suggestivo. E ora anche sua madre era morta, magari gli avrebbe portato laggiù il corpo per farla ballare putrefatta davanti a lui. Mah! Ci avrebbe pensato, aveva tempo, ma anche quel ragazzo avrebbe pagato per il suo dolore e la sua paura di ventisette anni prima, sì.
E la Uris? Con lei sarebbe stato così facile, mio Dio! Così maledettamente facile! Aveva paura dei ragni, proprio dei ragni! Terrorizzarla sarebbe stato addirittura noioso, ma magari avrebbe potuto dare al tutto un po’ di pepe smembrandole il ragazzo davanti agli occhi.
E mentre It pensava questi pensieri, mentre gongolava tra sé e sé pregustando la sua vendetta, non si rendeva conto di essere anche inquieto.
Perché non tutto andava come aveva progettato e sperato. Il cerchio si era ricreato, le loro mani avevano sanguinato. Eddie Kaspbrak, che lui aveva riportato in vita per divertirsi, si era ribellato una volta e aveva salvato la piccola Alice. E Chambers, il suo cane da combattimento Luke Chambers, per quanto lo avesse soddisfatto con il corpo di Hanlon e sua moglie, non gli si era totalmente sottomesso come Henry tanti anni prima, ma aveva resistito ai suoi pensieri e aveva anche ucciso quella fedele palla al piede di Bowers. Per quanto fosse così tronfio e sicuro, It non poteva sapere quanto Chambers avrebbe obbedito ai suoi ordini.
E poi, proprio lì nella sua tana, stava succedendo qualcosa che solo Eddie, nel dormiveglia tra un momento di terrore e l’altro, aveva intuito. Qualcosa stava maturando nella tana, chiuso in un bozzolo e al riparo dagli occhi di It. Ed è proprio il nemico che non conosci, quello più pericoloso.

mercoledì 22 agosto 2012

Capitolo 40, secondo interludio.

XL

Secondo interludio

Per quanto possa sembrare incredibile, dieci giorni fa ero un tranquillo agente di polizia di una sonnacchiosa cittadina del Maine.
Sto di nuovo scrivendo sul vecchio quaderno di mio padre, novello Frodo che scrive le continuazioni delle avventure di Bilbo e mi chiedo con una certa inquietudine se un giorno questo quaderno finirà in mano a un anziano hobbit di nome Sam per scrivere l’ultima parte. Cavolo! Se non sarò morto da qui a due giorni, è molto probabile che le parole scritte su questo quaderno sbiadiscano di nuovo fino a scomparire, così come i ricordi di tutti noi.
Stiamo rischiando, abbiamo preso tutti lo stesso volo da L. A. a Boston, ma dopotutto se It avesse voluto farci morire in un incidente, lo avrebbe già fatto. Voliamo a ottocento chilometri all’ora verso Derry, verso It.
Ieri il capo Gardener mi ha chiamato e con la voce rotta dai singhiozzi mi ha avvertito della morte di mia madre. Il mio avvertimento non è riuscito a salvarla, ma dopotutto tutti noi ci stiamo muovendo come su degli invisibili binari, crediamo di decidere di volta in volta la direzione da prendere, credo di aver capito, ma questa è già decisa da tempo, forse da prima della nascita di It.
Se c’era una persona innocente a questo mondo, questa era mia madre. It ha mandato i suoi scagnozzi a fare il lavoro sporco, solo che qualcosa deve essere andata male. Chambers, so che è lui, anche se non ne ho parlato a Gardener, dopo aver ucciso mia madre, ha ucciso anche Bowers. Evidentemente l’influsso di It non aveva annullato le loro menti. Chambers, che conoscevo come una brava persona, deve aver trovato insopportabile lavorare con un animale come Bowers. Peccato che la loro lite non sia accaduta un po’ prima, magari mia madre si sarebbe salvata. Ma non ce l’ho con Chambers, cazzo, no. È solo una pedina nelle mani di It, chissà cosa gli farà vedere per manovrarlo. È It quello da eliminare, è lui il problema.
Vorrei piangere e disperarmi, vorrei chiudermi in una stanza buia con la testa affondata in un cuscino, vorrei urlare la mia rabbia a Dio, vorrei prendermi una ciucca di quelle che non ti ricordi neanche più chi sei. Ma ci sono gli altri, c’è Rachel e non posso abbandonarli. Trasformerò questo dolore in rabbia, ne farò un’arma per uccidere It più di quanto lo fosse un dollaro d’argento fuso a formare un proiettile. Strapperò il cuore di It con le mie mani, se ne avrò la possibilità, o morirò tentando di farlo. In un modo o nell’altro porrò fine all’esistenza di It.
Ecco, uccidere It. L’ultima volta che ho scritto su questo quaderno, prima di partire per Los Angeles e conoscere quello che resta dei Perdenti, mi ero posto tre domande; la prima è: Se ventisette anni fa loro non sono riusciti a ucciderlo, perché dovremmo riuscirci adesso? La seconda è: Può essere ucciso It? E la terza, la più importante perché da essa derivano le altre: Che cosa è It?
E ora, mentre Rachel dorme con la testa sulla mia spalla, mentre Ben Hanscom e sua moglie Beverly parlottano sottovoce dietro di me, e mentre Bill Dembrough e Richie Tozier giocano a carte nei sedili davanti a me, tenterò di dare la mia risposta a queste domande.
Comincerò dalla terza, naturalmente.
Cosa è It? La risposta più semplice è che It è il male. Il Male con la M maiuscola. Ma essendo semplice, checché ne dica Guglielmo di Occam, questa risposta è sbagliata.
It è Derry allora? No, perché considerando Derry come un organismo che si articola in tutte le sue parti che collaborano per farlo vivere e prolungare la sua esistenza, anche i Perdenti e dopo di loro io e Rachel facciamo parte di Derry, eppure non facciamo parte di It.
E allora It è un corpo estraneo, un parassita? Non penso, perché Derry, malgrado il continuo salasso di vite umane causato da It, prospera proprio quando lui c’è, e soffre la sua assenza.
Sarebbe allora un simbionte, parola che fa tanto Star Trek, ma un simbionte non provoca mai un danno al suo ospite.
E allora mi è venuta un’idea. Io penso che It sia una specie di incrocio tra un’influenza esterna, un’entità extragalattica malvagia, un’inclinazione al male ovunque presente e qui più potente, e Derry. It è come un virus o delle radiazioni, o anche un comportamento sbagliato tipo fumare sigarette o respirare amianto. Ecco, per spiegarmi bene It era inizialmente un oncogeno che ha infettato Derry, e dal loro incontro è nato quel tumore che è It come lo conosciamo noi.
It cresce quando cresce Derry, si rinvigorisce quando lei è forte, si nutre delle sue pulsioni e le incanala verso il male. Derry è marcia, non come le altre cittadine, ma di più, come avevo avuto modo di rendermi conto facendo l’agente di polizia.
Farò un esempio per spiegarmi. Un anno fa ho seguito il caso di Tracey McCallister. Si tratta di una ragazza di diciassette anni, sedici all’epoca, con una faccia un po’ bovina, il corpo di una pin up e il cervello di un criceto incapace di girare sulla ruota. Questa povera ragazza, assolutamente incapace di fare del male a alcunché, è stata invitata a una festa dai suoi compagni di classe, che avevano tutti da uno a due anni meno di lei, quattordicenni quindi, e alla festa ha bevuto una bevanda corretta con dell’alcool. Quando la ragazza ha perso abbastanza i freni inibitori, e parliamo di una poveretta che da sobria è capace di alzarsi la maglietta per farti vedere il neo a forma di farfalla che ha accanto al capezzolo mentre la interroghi, tutti i suoi amichetti la hanno montata a turno, ed erano venticinque.
Ora, io so che gli stupri di gruppo avvengono ovunque, ma che venticinque quattordicenni o quindicenni violentino tutti una loro compagna ritardata, e parlo di ragazzi di buona famiglia, non teppisti cresciuti in un ghetto o in delle baracche, ecco, questo mi sembra davvero degno di nota. E tutto questo è passato sotto silenzio, nessuno è stato interrogato, nessuno è stato arrestato, nessuno è finito in galera.
I genitori di Tracey la hanno ritirata dalla scuola e lei, che era rimasta incinta, ha portato a termine la gravidanza, e tutto ha continuato come se niente fosse.
Ecco, Derry è una città in cui una sedicenne può essere violentata da venticinque quattordicenni senza che neanche i vicini di casa lo sappiano. Derry è una città dove ogni anno venti o trenta tra bambini e adolescenti scompaiono nel nulla. Derry è una città dove ci sono in media più morti per omicidio che nel Bronx, ma nessuno ne parla. Derry è una città dove il capo della polizia può ordinare un linciaggio senza che nessuno dica né ai né bai.
Derry è la città di It, plasmata a sua immagine e somiglianza.
Ma se Derry è un organismo e It è il tumore, e dico un tumore maligno, perché Hanscom dice che It lo ha accusato di aver ucciso i suoi figli, anche se lui non lo ricorda, se Derry dicevo è un organismo e It il tumore che le cresce dentro, i Perdenti cosa erano?
Io pensavo che loro fossero le difese immunitarie, ma quando ventisette anni fa lo hanno quasi ucciso, anche la città è stata praticamente distrutta, e non ho mai sentito di anticorpi simili. Quello che è successo, il risultato delle loro azioni, mi sembra molto più simile a un’altra cosa. Ecco, io penso che qualcosa di esterno a Derry e a It, una sorta di oncologo megagalattico se mi passate la metafora pedestre, probabilmente la Tartaruga di cui ha scritto mia padre, abbia tentato di uccidere It. E quello che si usa per uccidere un tumore, lo sa chiunque abbia avuto in qualche modo a che fare con questa simpatica malattia, è la chemioterapia. E la chemio, cari miei, è semplicemente un veleno. Mentre uccide il tumore, o mentre ci prova, avvelena anche te, e ci va giù pesante. E quindi io penso che i Perdenti, quei sette ragazzini spaventati e poi i sei adulti che erano rimasti di loro ventisette anni dopo, siano stati una tremenda chemioterapia somministrata a Derry per liberarla da It, e che il vomito e la perdita dei capelli siano stati l’alluvione con conseguente scomparsa del centro della città e i connessi ottantasette morti.
Ma It è sopravvissuto. Come una metastasi è cresciuto in Bobby Gray e poi si è recidivato in tutto il suo splendore. E quindi qui tenterò di rispondere alle altre due domande.
Può essere ucciso It? E se sì, perché dovremmo riuscirci adesso quando loro non ce l’hanno fatta nel ‘58 e nell’85? Io penso che possa essere ucciso, sì. Quello che mi chiedo è se sia possibile farlo senza uccidere anche Derry. Quindi saremo in grado di farlo? E soprattutto, siamo pronti a farlo?

martedì 21 agosto 2012

Capitolo 39, Luke chambers.

XXXIX

Luke Chambers rimase in totale silenzio mentre Carole Danner passava nel corridoio a meno di tre metri da lui. La sentì entrare in bagno, sentì lo sciacquone, la sentì uscire e girare per la casa controllando tutte le stanze.
Allison e Louise gli parlavano, di certo la Danner non le poteva sentire. – Prendila papà! – dicevano – Acchiappa quella troia e uccidila! – dicevano ancora – Suo figlio ci ha fatto morire, papà, ci ha fatto morire! – pigolavano con quelle loro nuove voci che sembravano il tintinnare di posate di argento e gli facevano gelare il sangue.
E Luke Chambers pensava. Era all’inferno, questo l’aveva capito, e non ne sarebbe mai uscito. Ma in quale girone voleva finire? Quello stronzo di Bowers girava con la patta dei pantaloni gonfia da quando erano entrati dalla finestra rotta, cosa volesse fare alla Danner lo si poteva capire.
Sicuramente le sue due nuove figlie avrebbero voluto che anche lui partecipasse, poteva sentire i loro pensieri che si insinuavano dentro di lui, appena smetteva di concentrarsi lo guidavano in fantasie di violenza e sopraffazione che per quanto orribili lo allettavano. Ma Luke Chambers dove sarebbe arrivato per compiacere le sue figlie morte?
Mentre pensava questi pensieri Chambers sentì la Danner urlare. Poi sentì la voce di Bowers, un cinghiale in calore sembrava, senza volere offendere i cinghiali, la risposta calma della Danner, poi di nuovo Bowers, e poi la Danner. E poi una specie di piccolo tonfo. Si alzò dalla poltrona mentre Bowers crollava al suolo come la statua di un dittatore dopo la rivoluzione e si vide passare di fronte la Danner che correva. – Uccidila papà! – urlavano le bambine – Prendila papà, uccidila! – e di nuovo poteva sentire le loro menti maligne che gli si inserivano in testa passandogli idee non sue. La Danner era quasi alla porta, non si era accorta di lui. Ripensò alle sue figlie, le sue vere figlie, morte sul tavolo dell’obitorio. Aveva dovuto riconoscerle e aveva visto le ferite sui loro volti. È stato Hanlon, pensò, e così si vide allungare una mano per afferrare i capelli della donna. Tirò con forza e la vide cadere, gli occhi fuori dalla testa dallo stupore, le braccia allargate a cercare un appiglio. Cadde e colpì il pavimento con la testa. Rimase immobile, un filo di sangue le usciva dalla bocca, doveva essersi morsicata la lingua.
Guardò la donna in terra, la gonna sollevata a mostrare quasi tutta la coscia destra, la camicetta spostata a mostrare uno spicchio di reggiseno nero. – Fallo papà! – gli dicevano le bambine – Fallo ora! – e poteva sentire i loro pensieri come serpi velenose nella sua testa, mentre si accucciava e appoggiava una mano sul seno sinistro della donna. Ridevano le bambine, come scimmie ridevano.
No! andò alla poltrona, prese il cuscino e tornò dalla donna. Tuo figlio ha ucciso le mie bambine. È colpa di tuo figlio se ora le mie bambine sono così! Pensò mentre si accucciava, poi appoggiò il cuscino sulla faccia della donna. Reagì dopo pochi secondi, cominciò a sbattere le braccia e le gambe sul pavimento, tentando inutilmente di alzarsi. Gli graffiò il viso, gli graffiò le braccia.
Questo è l’inferno! Pensò Luke Chambers mentre soffocava Carole Danner, assaporando ogni istante della sua dannazione, fino a che, dopo un tempo infinito, Carole Danner giacque immobile. Tenne il cuscino su quella faccia ancora per un po’, giusto per sicurezza, mentre il sudore gli gocciolava dalla fronte e formava cerchi scuri sulla stoffa blu.
Si alzò e andò da Bowers. Era seduto adesso, le palle ancora strette in mano. – L’hai presa? – gli chiese, lo sguardo ancora da gorilla infoiato.
- Questo è l’inferno, Bowers, lo sai? –
- Cosa? – chiese quell’essere ottuso facendo una O perfetta con la bocca, poi Chambers afferrò l’urna di metallo e gliela sbatté sulla tempia sinistra con tutta la sua forza. – Ho detto che questo è l’inferno. – ripeté e continuò a colpirlo fino a che Bowers smise di muoversi.

lunedì 20 agosto 2012

Capitolo 38, Carole Danner.

XXXVIII

Carole scese dall’auto e si guardò intorno, non c’era nessuno. Stan era un caro ragazzo, ma a volte si preoccupava proprio un po’ troppo. Camminò sul vialetto in un ticchettare di tacchi sul cemento, quanto odiava il suono della sua camminata nel silenzio della notte, sembrava la colonna sonora di un film horror di Dario Argento, infilò la mano nella borsa e prese le chiavi.
Sarebbe entrata, sarebbe andata in bagno un attimo, avrebbe fatto il il giro della casa per controllare che le finestre fossero chiuse e che il rubinetto del gas, e quello dell’acqua, e le luci etc. etc., poi avrebbe preso l’urna di Mike, sarebbe tornata in auto e sarebbe partita per New York, lo Stato e non la città, là in mezzo alle foreste del nord. Mentre apriva la porta ed entrava nel corridoio buio, allungando la mano sul muro per cercare l’interruttore stava pensando alla sorella, quanto rompeva le palle Henrietta, era una di quelle donne tutte perfettine che sanno sempre tutto e hanno sempre un’opinione su tutto e … che palle, ma se Stan diceva … e persa nei suoi pensieri non si accorse della corrente che le scompigliò i capelli. Doveva esserci una finestra aperta da qualche parte.
Si chiuse la porta alle spalle, posò la borsa sul mobiletto, girò a sinistra e si infilò in bagno. Si calò la gonna e fece pipì, si rivestì, si sciacquò le mani e la faccia, si controllò i capelli guardandosi allo specchio. Non male, pensò, cinquantadue anni e in piena notte, ma non male. Sorrise alla sua faccia e uscì dal bagno. Passò davanti alla porta del salotto ma non guardò all’interno. Chambers non si era nascosto, era seduto al buio sulla poltrona. Guardò in cucina, tutto spento, in camera di Stan, cioè, lui non viveva più lì ed era una stanza priva di una vera e proprio funzione, ma la chiamava ancora camera di Stan, tutto a posto, poi la sua stanza e … la finestra era aperta, c’erano cocci di vetro in terra. L’urna di Mike era sul letto, aperta e rovesciata, le ceneri formavano un piccolo cono vulcanico grigio. Sopra alle ceneri c’era uno stronzo.
Si portò una mano alla bocca, non sapeva se era più terrorizzata o avvilita. Avevano cagato su Mike. Fece un passo indietro e colpì qualcosa con la schiena. Qualcuno, anzi. Urlò!
- Salve signora Danner! – disse una voce di uomo dietro di lei. Si girò e vide la faccia bovina di uno che conosceva di vista.
- Ti piace la nuova sistemazione del negro? Tra stronzi si terranno compagnia, non pensi? –
L’uomo era più alto di lei di una spanna almeno, era grande e grosso, un po’ grasso ma con braccia da camionista. Era il becchino, Bowers si chiamava.
- Bowers. – disse allontanandosi da lui di un mezzo passo.
- Allora sai anche il mio nome, scopa negri! Allora, ti piace lo stronzo che ho fatto su quella scimmia di tuo marito? – e sorrideva, all’angolo della bocca un po’ di bava.
- Harlan Bowers. – disse lei. Poi agì. Sollevò il ginocchio prendendo contemporaneamente Bowers per le spalle. Il suo piccolo ginocchio gli affondò nelle palle, con una parte del cervello registrò anche il fatto che lo stronzo ce l’aveva duro, e Bowers la guardò per un attimo con gli occhi stupiti. Poi si piegò in due emettendo una specie di risucchio mentre la faccia gli diventava viola. Spero che crepi d’infarto! Pensò Carole mentre l’omaccione cadeva al suolo tenendosi il pacco tra le mani. Piangeva e mugolava.
Non rimase lì a guardare l’uomo a terra, sapeva che una ginocchiata nelle palle non stende un uomo abbastanza a lungo, corse nel corridoio e, quando già pregustava la durezza del pomolo della porta nel palmo della mano, qualcuno la afferrò per i capelli strattonandola così forte da farla cadere di schiena a terra. Batté la testa e perse i sensi.

domenica 19 agosto 2012

Capitolo 37, Harlan Bowers.

XXXVII

Harlan Bowers era sempre stato un bambino abbastanza chiuso, e anche come ragazzino non è che fosse proprio pieno di amici. Anche a donne non è che abbondasse, un paio di ragazze molto bevute intorno ai diciotto anni, di quelle così andate che non si accorgono neanche che glielo hai messo dentro, una decina di puttane beccate sulla strada da quando era un uomo, molte pornostar sullo schermo del computer la sera.
L’unica volta che si era innamorato, nel modo malato che la sua mente particolare poteva permettere, era stato nell’85, quando aveva quindici anni. Quella stronza della professoressa di inglese gli aveva assegnato un compito su John Milton, un cazzo di inglese di secoli prima che si faceva le seghe scrivendo di Adamo ed Eva e di demoni vari, a suo modesto parere, ma suo padre gli avrebbe cambiato i connotati a cinghiate se avesse portato a casa un’altra insufficienza, e così Harlan Bowers aveva varcato l’entrata della biblioteca. Puzzava ancora di vernice fresca quel posto, l’alluvione l’aveva colpita non si sa come e la galleria di vetro tra la sezione adulti e quella infantile era saltata per aria; i lavori di ristrutturazione erano appena finiti. E Bowers, intimidito da quella enorme massa di libri aveva chiesto aiuto alla bibliotecaria.
Quanto era stata gentile, quanto era bella, quanto gli piaceva vedere quelle dita sottili sfogliare le pagine di quel libro, quanto gli era venuto duro quando vedendola accucciarsi per raccogliere la penna le aveva intravisto le mutandine bianche. E così Harlan Bowers si era innamorato della venticinquenne Carole Danner e, mentre lei gli spiegava che libri leggere e come scrivere la sua ricerca, aveva deciso che l’avrebbe sposata e che avrebbero avuto almeno otto figli. E poi … e poi era arrivato quel negro di Hanlon. Non erano neanche tre mesi che Henry aveva tentato di ucciderlo e lui era di nuovo in piedi, e sembrava ringiovanito di dieci anni, cazzo. E Carole si era alzata, aveva abbandonato Harlan ed era corsa da quel negro. Era corsa da quel negro e l’aveva baciato. Sulla bocca l’aveva baciato, le aveva intravisto la lingua rosa tra le labbra.
E così l’amore di Harlan, quel suo unico amore romantico durato un paio d’ore, si era trasformato immediatamente in disprezzo, in odio viscerale, era una troia del cazzo, che se la faceva coi negri.
E questa notte, finalmente, con l’aiuto del grande Henry, Harlan avrebbe potuto sfogare su quella troia, che a cinquantadue anni a suo modesto parere era ancora un notevole pezzo di figa, tutta la sua rabbia e il suo odio. Eccola, eccola che entrava in casa ignara della loro presenza …

sabato 18 agosto 2012

Capitolo 36, il signor Chambers.

XXXVI

Luke Chambers era sempre stato ateo, ma è difficile rimanerlo quando le tue due figlie e tua moglie muoiono in rapida successione in un paio di giorni. Come succede ai malati in un reparto oncologico, l’idea di un aldilà dove ritrovare i tuoi cari scomparsi comincia a sembrarti molto più allettante e credibile. Però quella notte, seduto al buio su di una sedia nel salotto di Carole Hanlon, guardando gli spettri delle sue due figlie che giocavano a biglie sul tappeto, con la pelle grigia e gli occhi come luci di argento, Luke pensava proprio che quello in cui si trovava doveva essere l’inferno.
Aveva studiato Dante al liceo, ne aveva di idee bizzarre quell’italiano, ma che cosa fosse l’inferno, quello non lo aveva proprio capito. L’inferno è ritrovare le tue figlie morte e scoprire che sono diventate il male. L’inferno è dover sentire le tue figlie morte che ti chiedono di fare del male a qualcuno, di essere incredibilmente crudele con qualcuno a dire il vero, e non avere il coraggio di rispondere di no anche se sai che è sbagliato, perché saranno solo spettri, saranno malvagie, ma sono sempre Allison e Louise e se non le accontenti si metteranno a piangere, e tu non vuoi che piangano dopo la morte che hanno avuto, cazzo, no.
E l’inferno è anche dover lavorare in compagnia di una bestia come Harlan Bowers. Luke non pensava che si potesse essere contemporaneamente così cretini e così malvagi, pensava che le due cose fossero incompatibili. Anche Harlan parlava con uno spettro, un certo Henry, e la cosa strana era che a volte rispondeva al suo Henry ed erano state Allison e Louise a fare la domanda. Ecco, l’inferno è anche quando un cretino come Bowers prende le tue figlie morte per suo cugino Henry.
- Dammi un cinque Chambers! – disse Bowers entrando. Aveva uno sguardo ebete e trionfante, sembrava uno di quei gatti stronzi quando ti hanno fatto fesso e ti hanno mangiato il canarino.
- Cha cazzo vuoi, Chambers? Sta’ zitto! –
- Mitico, Chambers, troppo forte! –
- Cosa hai fatto? –
- C’era l’urna della cenere del negro, hai visto che l’ho portata di là, no? –
Ceneri, non cenere, ceneri, cazzo! Pensò Luke, poi gli chiese: - E allora? –
- L’ho aperta e l’ho buttata sul letto della moglie, e poi mi sono calato le braghe e c’ho cagato sopra! Le ho cagato sulla cenere del marito e sul letto! – e cominciò a ridere come lo scemo che era. Il brutto è che anche Louise e Allison ridevano, battevano le mani e facevano le capriole come dei clown. Ecco, l’inferno è quando le tue figlie morte tornano da te e trovano esilarante che un coglione abbia cagato nelle ceneri di un brav’uomo. –
- L’avevo visto in un film! – disse tutto fiero Bowers e Chambers se lo immaginò nei panni del gatto di De Niro in “Mi presenti i tuoi?”, ma Harlan continuò: - Era un film fortissimo, con un’auto assassina, e dei pazzi la distruggevano e per offendere il padrone ci cagavano anche dentro. Mitico! Troppo forte, davvero! – il film tra l’altro, se vi può interessare, era tratto da un vecchio libro di Bill Dembrough.
- Va bene, ora stai zitto un po’. – gli disse sentendo l’impulso di prenderlo per il collo per poi andarsene a casa con la testa sotto alle coperte, quando le bambine dissero: - Eccola! La troia sta arrivando! – e mentre Luke pensava che l’inferno è quando le tue figlie morte chiamano troia una donna, Bowers disse, guardando almeno settanta centimetri sopra le teste di Allison e Louise – Sì Henry, va bene! –
E rimasero zitti al buio sentendo un rumore di passi femminili che si avvicinava sul vialetto. Carole Danner stava arrivando, proprio come avevano detto le bambine. Stan Hanlon avrebbe sofferto per averle lasciate morire, la morte di sua madre lo avrebbe fatto soffrire.

venerdì 17 agosto 2012

Capitolo 35, Stan e Carole. (Il cap 35 e i seguenti sono praticamente parti di un unico capitolo)

XXXV

- Ciao Stan. È successa una cosa – disse Carole Danner al figlio che le aveva appena telefonato. Era davanti alla porta di casa di Stan, era andata a bagnare le piante d’appartamento e si era accorta che la porta era forzata. – Qualcuno è entrato in casa tua. –
- Cosa? –
- Ti hanno forzato la porta. Con un piede di porco o qualcosa di simile. –
- Tu dove sei, mamma? –
- Sono fuori. Ero venuta a bagnare le piante e stavo per entrare, quando ho visto che la porta era … vuoi che entro a controllare? –
- Mamma … Ascoltami bene! Ora tu risali in macchina senza girarti indietro e esci dalla città. Capito? –
- Cosa? Ma domani lavoro! –
- Domani fai ferie, ora Sali in macchina e vai da zia Henrietta. –
- Ma cosa dici, Stan, lo sai che io e Henrietta litighiamo tutto il tempo! –
- Mamma, ti fidi un po’ di me? Ti fidi almeno un po’ di tuo figlio che fa il poliziotto e se ne capisce un po’ di ‘ste cose? –
- Certo Stanley, certo! –
- Ecco. Allora tu adesso sali in macchina ed esci dalla città. Quando sei a Bangor o giù di lì chiami Henrietta e la avverti che stai arrivando. –
- E per la tua casa? Non bisogna chiamare la polizia? –
Stan ripensò al capo Gardener che dava distrattamente l’ordine di linciare Gray, con il povero agente Hanlon lì in mezzo a farsi ammazzare. Quella città era marcia, cazzo, marcia da capo a piedi. – Vattene via, ma’, ci penso io a quello. –
Carole andò verso l’auto, aprì la portiera e poi chiese al figlio, prima di entrare nell’auto – C’è qualcosa che non mi stai dicendo, Stanley? Mi sembri tuo padre quando aveva quelle strane idee sulla città e i suoi abitanti. –
Stan ripensò al linciaggio, al corpo di suo padre impalato sull’inferriata e a tante piccole cose che aveva osservato nel suo anno e mezzo di servizio. – Papà aveva ragione, mamma. Aveva totalmente ragione. Vattene subito senza voltarti. – e gli sembrò di essere la voce del signore che parla a Lot. Non gli venne da ridere, cazzo, non gli venne per niente da ridere. – Vattene subito da zia Henrietta, mamma, poi ti spiegherò tutto, ma ora vai! –
- Va bene, Stanley. Vado. – e chiuse il cellulare. Entrò nell’auto, mise la cintura e partì, andò verso la superstrada e, una svolta prima di imboccare l’entrata pensò a Mike. Sul mobile nel salotto c’era l’urna di Mike, lo avevano fatto cremare invece che rimetterlo nella tomba. L’idea era quella di spargere le ceneri nel Gran Canyon, dove avevano fatto la luna di miele, ma per ora era lì.
Ferma all’incrocio ripensò alle parole del figlio, alla preoccupazione quasi palpabile nella voce del figlio. E ripensò a Mike. Solo e indifeso in quell’urna. Svoltò a sinistra per tornare a casa, tanto doveva solo entrare un attimo, prendere Mike e uscire. Anche Stan sarebbe stato d’accordo, ne era sicura.

giovedì 16 agosto 2012

Capitolo 34, Ben e Stan

XXXIV

Stan se ne stava seduto sul patio a guardare le stelle, anche se il cielo di Los Angeles è una vera chiavica, troppo smog e troppe luci artificiali.
- C’è più fresco qui, eh? – disse un uomo dietro di lui.
Si voltò di scatto e vide Hanscom che se ne stava in piedi appoggiato allo stipite della porta. Era un uomo alto e magro, una corta barba grigia a rendere più autorevole la faccia.
- E sì. –
Hanscom non disse nulla per un bel po’, Stan era un po’ a disagio. Poi disse: - Vi ci siete proprio ritrovati in mezzo! –
- Cosa? –
- Tu e Rachel, in questa storia. È come se foste stati sorteggiati come vincitori in un concorso a cui non vi eravate iscritti. E non è che il premio sia poi ‘sto gran che. –
Stan rise piano. Gli era simpatico Hanscom.
- Non è che per noi sia diverso. Non l’ho chiesto io di stare su quel ponte in inverno, con la mummia che mi inseguiva. E tuo padre non stava certo cercando il Rodan alle Ferriere quel giorno. È solo che noi ci stiamo dentro da prima. –
Non parlarono per un altro po’, poi Hanscom si sedette vicino a lui. Allungò una mano e disse: - Io comunque sono Ben! –
- Lo so. – disse Stan rispondendo alla stretta.
- Lo so che lo sai. Solo che quando mi guardi c’hai scritto in faccia “Signor Hanscom”. Io sono solo Ben. –
- E io Stan. –
- Certo agente Hanlon. – e risero. Una risata sincera, da vecchi amici.
- Mi dispiace per tuo padre. Per la morte e per quel fatto di un po’ di giorni fa. –
Stan non rispose subito. Quando parlava della morte del padre poi gli veniva sempre da piangere. E non gli piaceva piangere davanti a un uomo appena conosciuto, anche in quella situazione. – Ha sofferto un bel po’. Purtroppo. –
Ben sospirò, guardò la città che si stendeva sotto di loro, un’enorme distesa di luci gialle e rosse. Un vero e proprio mostro. – Mi dispiace non esserci stato. Avrei voluto ricordarmi di lui. Maledizione! –
- Perché It gli ha fatto quella cosa? Perché cazzo? Era morto! –
- Vendetta. Tuo padre lo ha fatto soffrire, tuo padre lo ha spaventato. Penso che It non sia diverso da un bambino capriccioso. È abituato a fare quello che vuole e si incazza con chi glielo impedisce. E poi voleva spaventare te e noi. –
- Capisco. –
Ben si grattò la tempia con un dito, sbadigliò e disse: - E comunque non penso sia stato It. –
- Cosa? –
- Cioè, non direttamente. Per certi lavori semplici usa degli scagnozzi. Ai nostri tempi c’era Henry Bowers. –
- Un suo cugino ha partecipato al linciaggio. Un bel po’ di ‘sti bozzi me li ha fatti lui. –
- Diciamo che se nascesse una malattia che uccide tutti i Bowers del pianeta, e solo loro, non mi metterei a studiare medicina per trovare la cura. – disse Ben.
- Neanche io. – disse Stan. Rimase in silenzio a pensare per un po’, poi disse: - Però Bowers mi sembra troppo cretino per fare una cosa così complessa. –
- E allora ci sarà qualcun altro. – disse Ben – It trova sempre qualcuno debole o incazzato o pazzo. È il suo modo di agire. –
Stan ripensò a quel giorno al cimitero. C’era uno che li guardava, lui e la madre. – Chambers! Il padre delle bimbe. Quello del linciaggio. –
- Ha ragioni per avercela con te? –
- No. Cioè, sono io che ho arrestato Gray. It potrebbe convincerlo che io sono stato troppo lento o che … -
- Come minimo gli è apparso sotto forma delle figlie. Pensa un po’: te ne stai lì in casa da solo, ad ascoltare il rumore del silenzio di due figlie morte, poi ti riappaiono e ti dicono che c’è un colpevole ancora vivo, magari ti dicono che quel poliziotto poteva salvarle … -
- Cazzo! –
- Esatto, Stan. Cazzo! –
- Potrebbe non aver finito. C’è mia madre lì a Derry. –
- Carole Danner? –
- La conosci? –
- Veniva a trovare tuo padre in ospedale nell’85. Se non glielo avessi detto io a quel fesso che lei era innamorata cotta, tu saresti ancora in cielo con le aluccie, Stan. Gran bella donna, se non ti offendi. –
Stan sorrise arrossendo, poi disse: - Pensi che corra dei pericoli? –
- Ha un posto dove andare? Dei parenti, una casa lontana da Derry? –
- Ha una sorella che vive nello stato di New York. La invita sempre per l’estate e lei trova sempre una scusa per non andare. Non è che si amino alla follia, capisci? –
- Come Bev e mio figlio Eddie. Se sono lontani si parlano al telefono e si mancano. Se sono nello stesso fuso orario cominciano a litigare. Roba da tirargli il collo, prima a uno e poi all’altra. –
Stan rise e diede una pacca sulla spalla a Ben. Strano per uno riservato come lui, ma cosa c’era di non strano nella sua vita negli ultimi giorni dopotutto?
- Credi che sia meglio avvertirla? –
- Male non fa. E poi fa bene litigare con una sorella ogni tanto. Dicono, io sono figlio unico. –
Stan si alzò e disse: - Le telefono subito. – e tirò fuori di tasca il cellulare. Cercò il numero in rubrica e schiacciò il tasto verde. Al quarto squillo, quando cominciava a preoccuparsi, Carole Danner gli rispose. – Ciao Stan. È successa una cosa … - disse lei con voce preoccupata.

mercoledì 15 agosto 2012

Capitolo 33, It e altri.

XXXIII

Tracey McCallister era a casa da sola. I suoi genitori erano usciti per andare a mangiare fuori e l’avevano lasciata sola con suo figlio Johnny. Johnny aveva tre mesi, Tracey diciassette anni e mezzo. Il padre di Johnny era uno dei dodici compagni di classe di Tracey, o uno dei tredici amici che avevano invitato alla festa di un anno prima.
Aveva bevuto un po’ Tracey, della coca cola corretta con vari liquori, e forse non aveva voluto fare sesso proprio con tutti loro, non ricordava bene. Di certo non era contraria con i primi, ma non ricordava bene quali fossero stati.
Il quoziente di intelligenza di Tracey, misurato alle scuole medie dopo la sua seconda bocciatura, era di settantuno. Abbastanza per essere condannata a morte in Texas, ma assolutamente insufficiente a capire cosa volesse dire sesso sicuro. E, come avrebbero scoperto i suoi genitori tornando dalla cena da Arnaldo, l’unico ristorante italiano di Derry, famoso per i suoi maccheroni con sugo di polpettine, insufficiente anche per occuparsi di un neonato.
Il capo Gardener, perché se ne era occupato lui in persona, trattandosi di un caso molto delicato, aveva detto che avrebbe potuto anche arrestarli tutti quei porci schifosi, ma al processo sarebbe bastato che l’avvocato di uno a caso dei violentatori le ponesse un paio di domande perché nella mente dei giurati sorgesse anche più di un ragionevole dubbio, perché sperare che lei dicesse sul banco dei testimoni delle cose sensate era come sperare di ottenere una risposta parlando al muro.
E così i signori McCallister, la cui fervente fede cattolica impediva di pensare all’aborto, decisero di tenersi anche il piccolo figlio di Tracey e di crescerlo come un figlio loro.
Il piccolo aveva fatto qualcosa nel pannolino, Tracey non era una cima ma il naso lo aveva, e così decise di cambiarlo. Gli tolse il pannolino sporco, lo ripiegò con cura e lo buttò nella pattumiera, poi provò a pulirlo con delle salviette, ma Johnny quella sera aveva davvero esagerato. Pensò allora di fargli un bel bagnetto.
Ma il diavolo, come sapeva bene It, sta nei particolari. Ci voleva l’acqua calda per lavarlo, e il signor McCallister aveva appena fatto cambiare lo scaldabagno mettendone uno molto moderno. Tracey si era già fatta spiegare tre volte come accenderlo e come regolare la temperatura, e forse altre tre o quattro sarebbero bastate per farglielo imparare. Ma quella sera, quella sera che era lì da sola con Johnny, non riuscì mai a ottenere più di un filo d’acqua fredda.
Se non era molto intelligente, Tracey non si perdeva però d’animo. Poteva scaldare l’acqua sul fuoco. Prese la pentola più grossa di tutte, la riempì d’acqua, poi prese la vaschetta di Johnny e la riempì d’acqua. No. vuotò la vaschetta e vi versò l’acqua della pentola, ma, no. Era fredda. Vuotò la vaschetta, vi mise Johnny che la guardava incuriosito, pensò di versare l’acqua, perché le sembrava di poter capire che se la vaschetta fosse stata piena infilandoci il bambino l’acqua sarebbe traboccata. Ricordò di un tizio strano di cui le avevano parlato a scuola, un turco o un italiano o uno spagnolo, Archi qualcosa di qualcos’altro, si ricordava bene che sul libro di matematica c’era il disegno di questo tizio che saltava fuori dalla vasca tutto nudo urlando EIPEKA o EIAKEKA, non ricordava, ma sapeva che c’entrava l’acqua che usciva quando lui entrava.
Rimase ferma per un bel po’ tentando di capire in quale sequenza avrebbe dovuto riempire la pentola, mettere il bambino, scaldare l’acqua, riempire la vasca, lavare il bambino, ma continuava a perdere il filo del ragionamento.
Ma non era una donna di pensiero, era una donna d’azione, questa era una frase che usava sua madre, e quindi agì. Mise la pentola sul fuoco e cominciò a girare per la cucina aspettando che si scaldasse, quando da fuori della finestra le arrivò una musichetta.
- Il circo! – urlò correndo a vedere, e in cuor suo sperò che passasse una sfilata di clown e pupazzi, e avrebbe dato una mano per vedere il suo pupazzo preferito. Scrat.
Da quando non andava più a scuola, non c’era più andata dal giorno della festa e del fattaccio con i compagni e i loro amici, aveva guardato tanta tv e tanti filmati sul computer, e non si stancava mai, ma proprio mai, di vedere Scrat e le sue ghiande.
Ed ecco che da dietro all’albero sulla strada, proprio davanti a lei, spuntò un uomo travestito da Scrat. Solo che non sembrava un pupazzo di quelli con la cerniera sulla schiena, sembrava proprio Scrat, e aveva non una ghianda, ma un enorme pompon arancione che spostava furtivo qua e là. Rimase lì incantata a guardarlo saltare sull’albero, sulla staccionata, scavare in terra per piantarci il pompon-ghianda, saltarci sopra con i piedi per nasconderlo, stringerlo tra le braccia come un bimbo.
Ah, ecco, al pensiero del bimbo sentì Johnny piagnucolare, stava quasi per girarsi a controllarlo, ma Scrat stava correndo quasi fuori dal suo campo visivo, si sporse per guardarlo e lo vide correre indietro. Rideva come una disperata, era ancora meglio del film. Quanto passò guardando quel buffo scoiattolo alto un metro e novanta col suo pompon? Un minuto, un’ora, un giorno? Non è che Tracey avesse mai dato tanta importanza allo scorrere del tempo, sapeva solo che le ore di scuola erano troppe e che il tempo passato a guardare una lumaca che strisciava su una foglia era sempre troppo poco.
Comunque a un certo punto Scrat smise di giocare con la ghianda. Si girò verso di lei e la guardò inchinandosi. Aveva gli occhi d’argento, le fecero paura, tanto che si fece qualche goccia di pipì addosso. Scrat scappò nei cespugli oltre la strada, verso i Barrens, e lei ancora sconvolta dal terrore per quello sguardo ripensò a due cose. Non aveva più sentito Johnny e l’acqua doveva ormai bollire. Capendo confusamente di averla fatta grossa andò alla pentola, che per far scaldare prima l’acqua aveva coperto col suo coperchio di alluminio, e spense il fuoco. C’era un odore strano, come di pollo bollito.
- No! No! No! No! No! – cominciò a ripetere all’infinito mentre allungava la mano per sollevare il coperchio. Lo sollevò e vide Johnny. La pelle era grigia nell’acqua ancora fumante, e gli occhi bianchi e opachi. La pelle si era sollevata e sembrava sul punto di staccarsi. – No! – disse tentando di capire come potesse essere stata così scema da lasciarlo nella pentola, perché era davvero troppo anche per lei. – Johnny? – gli disse infilando una mano nell’acqua e ustionandosi gravemente. Lo toccò e sentì la pelle rugosa e molle.
Tirò fuori la mano, le faceva male, ma non urlava. Continuava a guardare suo figlio, le piaceva tanto stringerlo a sé mentre lo allattava, le piaceva quel suo sguardo pieno di amore, quelle piccole manine grassocce che si allungavano verso di lei per sfiorarle il naso. – Johnny? – ripeté, poi cominciando a piangere andò alla porta. La aprì e andò verso i cespugli. Indossava solo degli short e una canottiera, mamma non l’avrebbe mai fatta uscire così, ma era da sola in casa. Attraversò la strada, superò i cespugli e andò verso i Barrens. Era buio, molto buio, e l’odore che c’era lì le sembrava quello di un bambino cotto. La mano le faceva un male cane, forse avrebbe dovuto pucciarla nel fiume. Quando arrivò all’acqua vi trovò Scrat. Era molto più alto di lei e puzzava. Le sue zanne non erano ridicole come nel film, proprio no. erano zanne cattive. – Johnny è morto! – gli disse, poi Scrat la aggredì e la trascinò via.
Un’oretta dopo, mentre It fasciava nella sua ragnatela i resti di Tracey gongolando per l’ottima serata, sentì uno strano verso provenire dall’alto. Si girò a guardare e vide che il bozzolo contenente Kaspbrak sussultava. Aveva allargato le braccia e teneva i pugni stretti come se avesse afferrato qualcosa. Quel verso che aveva sentito, un verso che praticamente non aveva mai risuonato in quel luogo, era una risata. Dalle palme delle mani di Eddie cadevano gocce di sangue.
It urlò tutto il suo furore, e il suo terrore, ma Eddie continuò a ridere.