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lunedì 13 agosto 2012

Capitolo 31, due sgherri di It.

XXXI

L’uomo senza qualità. Se c’era a Derry un uomo a cui calzava a pennello il titolo del libro di Musil, senza dubbio questo era Harlan Bowers. All’età di quarantadue anni il figlio del cugino primo del mai da nessuno rimpianto Henry Bowers non aveva mai combinato nulla in vita sua che avesse in qualche modo migliorato la condizione del mondo o di una qualunque creatura che gli fosse passata accanto.
Passato senza infamia e senza lode attraverso tutta la scuola dell’obbligo, capace di leggere, scrivere e far di conto, ma mai visto da nessuno con un libro o un giornale in mano da quando aveva preso in mano il suo diploma che lo riconosceva come appena sufficientemente maturo, Harlan, che lavorava come necroforo al cimitero di Derry, ricordava con una certa, se non gioia, nostalgia, solo i suoi allenamenti nella lotta libera all’età di diciassette anni.
Non che avesse mai vinto nulla, era troppo sgraziato e distratto per poter vincere in una lotta così piena di limiti e regole, ma ricordava come quel poter usare la forza, come quel potere soverchiare un estraneo con la sua massa fisica, già allora preponderante, lo facessero sentire sollevato, tranquillo, a volte, ma solo quando riusciva a ribaltare l’avversario, moderatamente felice.
Se fosse vissuto in Europa quasi sicuramente sarebbe diventato un ultrà di qualche squadra di calcio, quello strano tipo di tifosi che vanno allo stadio non per vedere vincere o perdere la loro squadra, ma per inneggiare a essa e minacciare i tifosi avversari, sperando sempre che un fallo non fischiato o un gol negato diano loro il motivo, la scusa, per attaccare gli avversari con sassi e spranghe.
Ma in America questo strano tipo di esseri umani, non essendo per nulla diffuso il calcio, non esiste e il povero Harlan sentiva crescere dentro di sé un qualcosa di inespresso che chiedeva a gran voce di poter uscire fuori, e questo ancora di più da quando la sera del linciaggio aveva potuto menare le mani con quei due porci pedofili e con quel negro schifoso di un poliziotto.
E così quest’uomo triste e perso, questa bussola in cerca di un qualunque nord, aveva cominciato, nelle lunghe notti passate nel cimitero, faceva anche da custode e la piccola casa che abitava era all’interno del muro di recinzione, aveva preso l’abitudine di andarsi a sedere con una confezione da sei budweiser sulla semplice tomba del suo lontano cugino, che se non era famoso e rimpianto, era almeno famigerato tra quelli che ne sapevano abbastanza di lui.
Seduto sulla lapide di Henry Bowers Harlan parlava delle persone che aveva visto, tutti stronzi naturalmente, delle donne a cui aveva rivolto la parola, tutte troie schifose, dei politici che aveva sentito parlare, idioti culattoni e ladri, immaginando come il grande Henry, che aveva ucciso un sacco di persone già all’età di undici anni per poi morire tentando di nuovo di farlo a trentotto, avrebbe potuto rispondergli.
Ed era stato proprio poche sere prima, mentre parlava con Henry di quella schifosa troia moglie di un negro, se aveva una certezza nella vita era che i negri fanno schifo e sono all’incirca delle scimmie, di quella puttana della Danner, che gli aveva detto, non chiesto, detto, di ripulire dalle erbacce la tomba di suo marito Mike, negro di merda che aveva ferito a morte il caro mitico Henry, era stato proprio in quel momento che erano successe le due cose che avevano dato un senso alla sua vita.
Qualcuno aveva gettato qualcosa oltre il muro di cinta, un qualcosa che da quella distanza e alla luce della luna calante sembrava proprio una vanga, e nello stesso momento il cugino Henry gli aveva parlato.
Al nostro Harlan i testicoli erano all’incirca risaliti all’altezza del pomo d’Adamo, perché non solo la voce di Henry era uscita dalla tomba, ma anche la sua faccia semi putrefatta.
- Ciao Harlan! – gli aveva detto con tono gioviale quella specie di zio che non aveva mai avuto la fortuna di conoscere .
Harlan aveva deglutito e, per un brevissimo istante, aveva pensato di fuggire, ma poi aveva deciso di parlare al mitico Henry. – Ciao cugino! –gli aveva detto e il fatto stesso di aver parlato lo aveva calmato.
- Harlan, caro il mio nipotino … - aveva detto Henry uscendo totalmente dalla sua tomba e sedendosi accanto a lui – Guarda là alla tua destra, un uomo sta per fare capolino dal muro! –
Ed effettivamente, nello stesso punto dove era passata la vanga volante, spuntò la faccia di un uomo. Harlan lo conosceva, era il signor Chambers, un uomo da niente, secondo la sua personale opinione, ma quando si era trovato di fronte l’assassino delle sue figlie aveva tirato fuori i coglioni, due coglioni da toro, davvero.
- E cosa vuole fare quello lì? – chiese Harlan che se registrò il fatto che stava facendo questa domanda a un morto uscito dalla sua trentennale sepoltura, lo fece solo con un angolino del suo cervello.
- Ora vedrai, caro il mio Harlan, ora vedrai! – e gli poggiò una mano davvero fetida sulla spalla – Guarda dove va, penso che tu conosca quella tomba! –
E infatti la conosceva. Era la tomba per cui si era lamentata la troia, la tomba del bibliotecario negro.
- Lo sai che mi ha ucciso quel negro di merda? – gli chiese Henry, i cui occhi riflettevano la luce della luna come lumini d’argento.
- Sì, lo so, Henry. –
- Già quando eravamo bambini mi perseguitava, quel negro, mi accusò persino do avergli ammazzato il cane. Ma ti pare che io muovevo il culo per ammazzare il cane rognoso di un negro? –
- Ma no, Henry! – gli rispose e sentì un cameratismo meraviglioso nascere tra sé e quel suo parente a lungo mitizzato. Si sentì davvero felice. Insieme al defunto ma mai domo Henry Harlan guardò Luke Chambers avvicinarsi alla tomba di Mike Hanlon e lo videro parlare con qualcuno. Tre cose si potevano dire con sicurezza dell’interlocutore di Chambers, pensò Harlan guardandolo. Primo, doveva essere molto deciso perché Chambers annuiva e sembrava obbedire a degli ordini. Secondo doveva essere non più alto di un metro e dieci, perché Chambers stava curvo e guardava in basso. Terzo questo interlocutore non esisteva o era invisibile. E così il Bowers vivo si voltò verso il Bowers morto da ventisette anni che gli sedeva accanto spandendo intorno a sé un’aria profumata come una cesta di pomodori marci e gli disse: - Ma è impazzito? Parla da solo? –
Henry non gli rispose subito, stava fissando Chambers e borbottava a voce bassissima, Harlan sentì distintamente che diceva: - Devi tirarlo fuori, se vuoi che soffra comincia a scavare. – e proprio allora Chambers rispose al suo invisibile interlocutore: - Va bene, scavo, va bene. –
Poi Henry si girò a guardarlo e disse: - Non lo aiuti? – e Harlan, se anche per un attimo aveva pensato quanto fosse strano che Chambers parlando da solo rispondesse a tono a ciò che Henry diceva a lui, si alzò e andò a prendere la sua vanga. Quando arrivò da Chambers questo non si spaventò, oddio, una faccia più terrorizzata di così difficilmente avrebbe potuto averla, ma gli disse: - Mi hanno detto che saresti arrivato. – e ricominciò a scavare.
Si erano divertiti col corpo di quel negro, Harlan almeno si era divertito, e ora, quattro notti dopo, erano davanti alla casa della moglie di Mike. Il figlio non l’avevano trovato, era partito con una troietta ebrea, ma con la madre ci sarebbe stato di certo da divertirsi, anche Henry glielo aveva detto.

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