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sabato 25 agosto 2012

Capitolo 43, Rachel e Beverly.

XLIII

Rachel e Beverly stavano girando per negozi, ma non per cercare abiti come aveva pensato Richie. Cioè, sì, ma abiti robusti, da esploratori si potrebbe se dicendo questa parola non si pensasse subito a bermuda cachi e casco coloniale. Questa volta i Perdenti avevano deciso di essere ben preparati al loro viaggio nelle fogne, anche parchè non ricordavano per nulla i due precedenti.
Si ricordavano all’incirca dove erano entrati, la tana dei Morlock trovata da Ben, ma poi da lì in poi, buio totale. Ricordavano solo che Eddie era morto, e che anche It era morto, ma su questo cominciavano ad avere qualche dubbio.
Comunque le due signore girarono per alcuni di quegli enormi negozi di abbigliamento scoprendo che a luglio, nel Maine, si può comprare qualsiasi vestito, purché sia estivo, leggero e colorato.
Alla fine provarono in un negozio di articoli per la caccia e trovarono quello che gli serviva, tirando abbastanza a indovinare per i numeri di scarpe di Bill e Richie, ma Beverly aveva occhio per quelle cose.
Beverly pagò con la sua carta di credito, - Un’altra spedizione così e vado in rosso! – disse sorridendo quando uscirono con il colo carrello carico di merce.
E fu allora che la videro. Era una bambina. Beverly la vide giocare con lo yo-yo. Lo faceva scendere, lo faceva risalire, lo addormentava, lo portava a spasso come un cagnolino, gli faceva fare una giravolta completa intorno a lei. La bambina aveva circa undici anni e indossava dei jeans sbiaditi tagliati appena sotto le natiche, aveva due gambe snelle ma muscolose, già molto femminili, una camicetta bianca annodata alla vita e appena un accenno di seno. Era di spalle e i suoi capelli erano rosso ramati, come braci d’inverno. Beverly rimase immobile a guardarla mentre Rachel le parlava di un tic che aveva Stan quando rideva, gli si chiudeva l’occhio destro come quando si fa l’occhiolino.
- Mi hai sentito Bev? – le chiese voltandosi verso di lei e vedendo che si era praticamente tramutata in una statua di sale. Stava guardando una bambina di otto o nove anni.
La bambina che Rachel vide fissata così intensamente da Beverly aveva i capelli neri corvini, quasi con sfumature blu sotto le luci al neon. Era alta per la sua età, con un grosso taglio appena rimarginato sul ginocchio sinistro. Rachel si ricordava benissimo il dolore ce aveva provato sbandando con la bici e finendo contro il guard-rail. Aveva perso così tanto sangue che Mamma Patty e Simon, il suo patrigno, l’avevano portata all’ospedale in stile Kramer contro Kramer mentre il sangue le gocciolava giù per la gamba inzuppando la calza di cotone e la scarpina da ginnastica rosa di Paperina.
La bambina saltava la corda contando fino a sessantasei, prima di perdere il ritmo e incespicare nella corda, sul ritmo di O bladì o bladà dei Beatles.
- Cazzo! – disse Beverly guardando sé stessa di cinquantaquattro anni prima. Era impressionante, non riusciva nemmeno a respirare, per la prima volta capiva il dramma di Ed Kaspbrak. La piccola Bevvie continuava a far andare su e giù lo yo-yo con la costanza folle che possono avere solo i bambini, mentre tutti i clienti del centro commerciale, simili agli zombie del film Zombie di Romero, le passavano accanto senza vederla.
- O mamma mia! – disse invece Rachel rivedendo sé stessa di diciotto anni prima mentre ricominciava a contare da uno. Sentì un orrendo crampo all’intestino, mentre la schiena le si copriva di un sudore gelato che le scese giù verso l’elastico degli slip.
- La vedi anche tu? – chiese a Beverly prendendole la spalla con la mano. Quella sera Ben avrebbe chiesto a Beverly come si fosse fatta dei lividi là dove ora quelle dita sottili la stringevano così forte.
- Sì. – rispose Beverly. Poi tentò di ragionare e capì che Rachel, che la conosceva da solo tre giorni, non avrebbe mai potuto riconoscere quel bocciolo dal frutto oramai troppo maturo che aveva accanto. – Ma tu cosa vedi? –
- Me. – disse Rachel a cui intanto cominciava a girare la testa, come quando aveva bevuto sei tequila di fila alla festa del liceo e aveva vomitato sui piedi del preside.
- Non sei te. È It. – le disse mentre la piccola Beverly davanti a lei lanciava in aria il filo dello yo-yo e lo riprendeva al volo mentre si riavvolgeva ordinatamente. Lei quello non lo aveva mai saputo fare.
- Ma sono io. Ha i miei capelli, i miei vestiti, il mio taglio sul ginocchio. –
- Io vedo me. Me come ero nel 1958. –
- Cosa? –
- È un trucco di Pennywise. –
- O mio Dio! – disse Rachel e mollò la spalla di Beverly. Stava per scappare.
- No. Ferma! – disse Beverly. – Andiamo da lui. Non dobbiamo mai scappare, e poi qui a Bangor non può farci nulla. – e sperò di avere ragione, perché non aveva mai letto da nessuna parte che i mostri proteiformi fossero tenuti a rispettare le giurisdizioni delle contee.
Andarono verso la bimba, o le bimbe, camminando appoggiate una all’altra come due zoppe che si sorreggono a vicenda, fino a che arrivarono a non più di due passi dalla cosa.
Si girò a guardarle.
Beverly vide un qualcosa che sembrava un incrocio tra una mummia e un’iguana, l’essere che aveva davanti doveva avere almeno duecento anni, la pelle incartapecorita cadeva in borse su tutto il viso, i pochi denti che rimanevano erano consumati come gessetti usati troppo, i capelli che le restavano sulla testa a punta erano pochi, finissimi e bianchi.
Il collo era ornato da pieghe di pelle che sembravano quasi bargigli di un tacchino, mentre il corpo rinsecchito era accartocciato come un truciolo di legno.
E quella cosa, i cui occhi liquidi erano quasi totalmente velati dalla cataratta, era indubitabilmente lei. Vi riconosceva i suoi lineamenti come li avrebbe riconosciuti nella bambina che era stata fino a un istante prima. E la cosa parlò.
Rachel vide un qualcosa che solo con molta fantasia si sarebbe potuto riconoscere come un viso umano. Al primo anno di internato ad Atlanta si era trovata di turno al pronto soccorso quando era arrivata una ragazza pachistana che aveva fatto l’errore di innamorarsi di un ragazzo biondo di nome Ralph. Il padre e i tre fratelli si erano sentiti obbligati a difendere l’onore della famiglia gettandole in faccia una bottiglia da un litro di acido per batterie. Era stata Rachel a staccarle i lembi di pelle bruciata ancora attaccati alle ossa del viso, ed era stata ancora lei ad asportare quanto rimaneva dell’occhio sinistro. Per sfortuna la ragazza era sopravvissuta, condannata a una vita da molto onorabile mostro di Halloween. Rachel non aveva dormito per almeno due settimane dopo quel fatto, appena chiudeva gli occhi rivedeva quell’ammasso di carne rossa che ancora urlava.
Quella cosa che era stata lei bambina fino a un attimo prima, era quasi uguale a quella ragazza, ma chiunque avrebbe potuto notare l’occhio castano e i pochi capelli rimanenti, nero corvini con riflessi bluastri. Un dente che appariva tra le labbra bruciate e a brandelli era scheggiato, come un suo incisivo centrale da quando era caduta dallo scivolo a otto anni. E quella cosa parlò.
- Andate via, troie. Andate via finché ancora potete! – poi rise e svanì in un botto. Al suo posto rimase un palloncino bianco su cui erano disegnate in rosso le loro facce. Piangevano da orbite vuote. E poi anche il palloncino scoppiò schizzandole di sangue.
Le due donne si abbracciarono piangendo nella più totale indifferenza dei passanti, fino a che Richie, che stava scendendo le scale, si avvicinò a loro e le abbracciò. Era bello che qualcuno fosse lì per loro, era bello non essere sole.

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