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sabato 4 agosto 2012

Capitolo 22, Stan (e Mike).

XXII

Il capo Gardener era nel parcheggio ad aspettarlo e Stan ebbe l’impulso di alzarsi dalla sedia a rotelle, perché proprio come nei film era dovuto uscire dall’ospedale in sedia a rotelle, di alzarsi e di lanciargli quella trappola sulle corna.
- Ciao Stan. – disse Gardener con lo sguardo un po’ basso. Sembrava che vedesse gli occhi di Stan all’altezza dello sterno.
- Salve capo. – disse freddo Stan. Continuava a immaginare come una ruota di quel trabiccolo avrebbe potuto avvolgersi sferragliando intorno alla brutta testona di Gardener.
- Ho saputo che uscivi e, sai, volevo sapere come stavi. –
Lo guardò per due o tre secondi, immaginò il primo piano dei loro occhi che avrebbe fatto Sergio Leone, sorrise e poi disse: - Sono vivo. Sono vivo e sto in piedi. –
- E il braccio? –
Nel culo te lo infilerei, con tutto il gesso! Pensò Stan, ma rispose: - Rotto in due punti, ma composto. Un mese e potrò giocare a tennis, se ne avessi voglia. –
- Volevo dirti una cosa. – disse Gardener facendosi piccino piccino come fa un cane quando si sottomette. – Volevo dirti che … -
- Se vuole dirmi che le dispiace, non so come risponderle. Come Stanley Hanlon o come agente Hanlon? –
- C’è differenza? –
- Sì. L’agente Hanlon le risponderebbe che lo sa e accetta il suo rincrescimento, signore. –
- E Stanley Hanlon come risponderebbe? –
- Le direbbe di infilarselo su per il culo il suo rincrescimento, le sue scuse, il suo dispiacere e anche la sua faccia contrita. Ma come ha potuto? –
- Tu devi capirmi, Stan! – lo pregò Gardener.
- Ma io la capisco, signore. Crede che a me non sia venuta la voglia di sparargli in testa, a quel mostro, crede che non lo avrei strozzato con le mie mani? La capisco, so perché lo ha fatto.
Quello che non capisco e non potrò mai capire è come abbia potuto farlo. Mio Dio, capo, un linciaggio! –
- Stan … -
- Stan un cazzo, capo! Io la ammiravo, io volevo essere come lei, e lei mi manda addosso quella banda di invasati? Io non potrò mai … - e qui uno squillo del telefono di Gardener lo interruppe. Aveva la musica di Rocky 4 come suoneria, mio Dio!
Gardener prese il telefono e disse: - Avevo detto di chiamarmi solo in caso di emergenza, Stan. – e rispose. Ascoltò qualche secondo, poi, ingrigito come uno che sta per vomitare disse: - Ma cosa hanno fatto? – e ascoltò di nuovo annuendo un paio di volte. – Arriviamo subito. – disse.
Non era più il Gardener contrito. Era un Gardener triste e furioso al tempo stesso. – Stan, dobbiamo andare al cimitero. –
- Sono in malattia. –
- Lo so. – si interruppe per salutare Carole, la madre di Stan che arrivava in quel momento con l’auto per prendere il figlio. Gli era sempre piaciuta Carole Danner, e anche ora che aveva cinquantuno anni gli piaceva moltissimo. – Devi venire, e anche tua madre. Hanno fatto qualcosa alla tomba di tuo padre. –
- Cosa? – gli chiese Stan, e intanto immaginava cosa avrebbe potuto fare It alla tomba di uno dei suoi assassini. Si rese conto che non aveva la minima idea di cosa avrebbe potuto fare. Per lui It era un mistero totale. Fece cenno a Gardener di aspettare, poi si avvicinò all’auto della madre. – Ciao ma’. C’è un problema. Hanno fatto qualcosa alla tomba di papà e devo andare a vedere col Capo. Te puoi andare a casa. –
Carole Danner era impallidita e sembrava sul punto di accasciarsi sul volante, poi gli zigomi le si tinsero di rosso e macchie paonazze le comparirono anche sul collo. Sembrava che stesse per avere un infarto, pensò Stan, ma lei era solo incazzata, molto incazzata. –
- Andate, io vi seguo. – disse tentando di mantenersi calma.
- Mamma, potrebbe non essere bello da vedere. – e continuava a immaginare tutto quello che un’entità crudele e immortale avrebbe potuto escogitare per punire un suo nemico inerme.
- Stanley, io ho vissuto per venticinque anni con quell’uomo e ho sopportato il razzismo strisciante di questa città merdosa sempre a testa alta. – aveva detto merdosa, e lei non diceva mai parolacce – E se non riescono a lasciare in pace quel santo di tuo padre nemmeno da morto, io voglio vedere cosa hanno fatto. Voglio vedere di cosa sono capaci questi schifosi figli di troia di razzisti. –
Stan temeva che si trattasse di qualcosa di lievemente peggiore del razzismo, ma ammirò sua madre come mai in vita sua. Sposare un nero in una città bianca del Maine è difficile, molto più difficile di nascerci con quella pelle, come avevano fatto lui e suo padre. La sua era stata una scelta. – Va bene, ma’. Seguici. –
Andò con Gardener e per tutto il tragitto non dissero neanche una parola. Non lo avrebbe mai più guardato con la fiducia di prima, ma era il suo capo. Quasi sempre un buon capo.
Arrivarono in cinque minuti al cimitero, lasciarono le auto all’ingresso e si incamminarono tra le lapidi. Passarono vicino alla tomba di Bob Gray, il nastro che diceva “scena del crimine” contornava ancora la terra smossa. Svoltarono a destra e lo videro.
Carole Danner si appoggiò al figlio per non cadere, e il suo – No! – fu più che altro un gemito.
Stan si sentì tremare le gambe, le lacrime gli schizzarono fuori dagli occhi senza chiedergli il permesso, strinse i pugni e sentì il braccio rotto dirgli con una fitta che era meglio non farlo più. Continuò a stringerli, non poteva evitarlo.
La tomba era stata scavata totalmente. La bara era stata aperta a colpi di vanga, e il corpo di Mike Hanlon, l’amato bibliotecario di Derry, il protettore della storia della città, l’anima dei Perdenti, era stato esumato.
Qualcuno lo aveva trascinato fuori dalla bara, quel corpo semimummificato dall’imbalsamazione obbligatoria per legge. Quei poveri resti smagriti e incartapecoriti, i cui lineamenti dolci e tranquilli si riconoscevano ancora perfettamente, erano stati sollevati e impalati sulla punta di ferro dell’inferriata che stava lì vicino. Al collo era stato appeso un cartello, come facevano i nazisti nell’Italia del ’45 con i partigiani morti. “Perdente” ci stava scritto in lettere rosse il cui colore era colato giù. La bocca di Mike era aperta ed era piena di piume.
- O mio Dio! – disse Carole stringendosi al figlio. Tremava e singhiozzava, povera donna. Stan invece guardava fisso quello scempio, fremendo di rabbia. Il Capo Gardener camminava avanti e indietro non sapendo che fare. Si avvicinò al corpo impalato a due metri di altezza e parve non accorgersi dell’uccello, grande forse come un corvo, ma con piume argentee e arancioni, che beccava uno dei palloncini appesi alla mano sinistra del corpo di Mike. L’uccello ruppe il palloncino e questo scoppiò liberando una incredibile quantità di sangue, che cadde addosso a Gardener. Lui non se ne accorse. Neanche Carole diede segno di aver visto il sangue, e sì che un bel po’ di schizzi le avevano sporcato la camicetta.
Stan capì che quello spettacolo, quel supplemento di orrore, era solo per lui. Si fece forza e fece finta di niente, per sua madre, mentre l’uccello cominciava a beccare il viso di Mike aprendo piccoli squarci in quella carne grigia. Ricacciò in gola la bava acida che gli era risalita su, sperò di parlare con voce abbastanza tranquilla, sperò di non urlare come un pazzo, a dire il vero, e poi disse: - Capo, quando lo potete tirare giù? –
Il capo Gardener si avvicinò all’uomo della scientifica e gli parlò all’orecchio, poi arrivarono due poliziotti in divisa e poggiarono una scala accanto al corpo. Stan pensò di portare via sua madre, poi, quando il corpo fosse stato ricomposto, avrebbero potuto dargli un ultimo saluto, ma non voleva che sua madre vedesse il laborioso lavoro che sarebbe servito a toglierlo da lì. L’uccello d’argento non c’era più, come i palloncini, ma Gardener e sua madre erano ancora sporchi di sangue. Vengo a prenderti, stronzo! pensò Stan mentre portava via la madre, e con la coda dell’occhio vedeva un uomo inginocchiato davanti a una lapide. Era il padre di Allison e Louise, il signor Chambers. Li stava guardando.

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