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domenica 5 agosto 2012

Capitolo 23, il signor Chambers.

XXIII

Luke Chambers era nato nell’agosto del 1977 e stava quindi per compiere trentacinque anni. Suo padre e sua madre lo avevano chiamato Luke in onore di Luke Skywalker, il protagonista di Guerre Stellari, ma era di aspetto totalmente diverso dall’attore Mark Hamill, non era basso e non era biondo, essendo alto un metro e novantacinque e pesando qualcosa come 120 chili.
In quel momento, le tre del mattino della sua quarta notte senza Allison e Louise, la seconda senza sua moglie Myrta, Luke se ne stava seduto in poltrona a guardare una foto che aveva spostato dalla credenza nell’ingresso al tavolino posto davanti alla poltrona.
C’era lui che teneva in braccio Myrta che teneva a sua volta in braccio le due bimbe. Myrta, sua coetanea e ai tempi delle elementari compagna di banco, era alta un metro e sessantadue e pesava quarantasei chili. La foto era di un mese prima. Sorridevano.
Era così forte da tenerle tutte in braccio, le sue donne. Era forte. E loro erano morte.
Era al lavoro, in fabbrica, era l’addetto alla macchina roditrice che trasformava i tronchi in pasta di legno che sarebbe poi stata raffinata in cellulosa. Lavorava tutti i giorni per dare da mangiare alle sue bimbe, per dare loro una vita felice e, mentre guardava un vecchio tronco essere rosicchiato fino a scomparire, quei due mostri di J. D. Paniska e Robert Gray gli avevano rosicchiato via la vita.
Guardò i visini sorridenti delle sue due bimbe, bionde di quel biondo che crescendo diventa castano, ma loro no, sarebbero state bionde per sempre. Allison aveva quel minuscolo neo sulla guancia destra, l’unica differenza tra le due piccole. Sorrideva. Quando avevano fatto la foto aveva voluto guardarla sul display della macchinetta e aveva detto che il suo papà era bello. Ruffiana le aveva detto Louise, poi lo aveva baciato.
Anche Myrta sorrideva. Tenendola in braccio le aveva dato un pizzicotto alla natica destra, nella foto non si vedeva, ma lui lo ricordava. Quella sera avevano riso quando lui le aveva detto che proprio lì aveva un minuscolo livido. Lei lo aveva aggredito a cuscinate, in silenzio per non svegliare le piccole, e dalle cuscinate erano passati alla lotta, lui l’aveva messa sotto e poi lei si era messa sopra. Era così bella, esile vicino a lui così grande.
Avevano fatto l’amore quella notte, e anche al mattino prima che suonasse la sveglia, prima di svegliare le piccole per la scuola. Avevano dormito abbracciati, lei che quasi scompariva raggomitolata tra il petto e le gambe di lui.
Quando dormivano lui le teneva la faccia affondata nei capelli, gli piaceva l’odore della sua pelle misto allo shampoo alla mela verde.
I suoi capelli. Quando all’obitorio era andato a riconoscerla, due giorni prima, erano tutti sporchi di sangue, e si vedeva dove la testa si era schiacciata contro le rocce del fiume, si vedeva dove si era spaccata e i medici avevano tentato di riaccostare i lembi di pelle prima di mostrargliela.
Non dimostrava trentacinque anni, su quel letto di acciaio inox, sembrava una cinquantenne magra. La pelle bianca, quasi verdastra, sembrava come asciugata sulla faccia, quando il dottore aveva spostato il lenzuolo bianco aveva visto che le clavicole spiccavano nella pelle del petto. Non le aveva visto i seni, quanto era fiera dei suoi seni piccoli e sodi, quanto si era impegnata per non rovinarli troppo allattando le piccole. Erano seni perfetti, quando facevano l’amore li vedeva spostarsi a ogni suo respiro, quando si coricava supina si divaricavano appena sul petto chiaro e liscio. Non li aveva visti, per fortuna, dovevano sembrare due pieghe di pelle avvizzite, sembrava come svuotata dalla morte, come se un qualcosa di maligno le avesse succhiato via tutto quello che era stata, lasciando solo quell’espressione di dolore sul suo viso.
Aveva pianto per due giorni, sempre, senza smettere mai, non gli aveva neanche chiesto cosa avesse fatto a Gray, lui pensava che l’avrebbe aiutata sapere come lo aveva colpito, che rumore avevano fato le sue ossa, pensava che sarebbe stato un bene per lei sapere che si muoveva ancora quando gli avevano dato fuoco, ma lei aveva continuato a piangere.
E poi aveva smesso. – Vado a prendere un po’ d’aria. – aveva detto al tramonto, c’era un bel venticello fresco, e lui l’aveva lasciata uscire. E aveva sentito il rumore del motore, senza sapere come reagire. Si era alzato solo dopo, quando l’aveva vista uscire dal vialetto. Aveva la faccia seria in quel momento, ma non piangeva. Il ponte da cui si era buttata era a sette minuti da lì, venti metri di caduta. Non avendo neanche spento il motore, vuol dire che non erano passati più di sette minuti e venti secondi dal momento in cui l’aveva vista al volante a quello in cui il suo cervello era ruscellato via nella corrente.
Pensò con orrore che i pesci dovevano aver mangiato il suo cervello, da qualche parte, sotto a un pietrone, c’era una trota che aveva mangiato quel punto del suo cervello in cui stava il ricordo del loro primo bacio.
Si alzò e prese dal tavolo la corda. Stava tentando di fare un nodo scorsoio, sapeva già dove appenderla. C’era una trave al piano di sopra, e su questa era scolpita una faccia. Era piena di buchi, quella faccia, si vede che dei bambini si erano divertiti a bersagliarla di freccette. Sarebbe morto appeso a quella trave, quella sera, ma prima doveva fare un nodo scorsoio. Continuava a girare e rigirare quella corda ruvida, avrebbe dovuto insaponarla, per farla scorrere bene al momento del salto, ma non riusciva a ricreare quel bel nodo che aveva visto in tanti film.
Forse anche un nodo più semplice sarebbe andato bene, lo sapeva, ma era un tipo preciso. Per impiccarsi ci voleva un nodo scorsoio. Mentre continuava a provare sentì un rumore. Era in cucina.
Si alzò col cuore in gola, brividi di terrore gli gelavano la schiena, perché quel rumore normalissimo, un bicchiere che si rovesciava, aveva avuto come una risonanza sbagliata. Le unghie sulla lavagna, pensò, il cigolio di un ramo che sta per spezzarsi.
Camminò su gambe come di legno verso la cucina nel corridoio buio quando le sue due figlie gli apparvero davanti.
Si tenevano per mano, con indosso due abitini uguali. Erano larghi e argentati, con dei pompon arancioni che non riuscivano a sembrare affatto buffi.
- Ciao papà! – dissero parlando in coro come i gemellini nei fumetti. Non lo avevano mai fatto. I loro occhi riflettevano la luce del lampadario in sala con una sfumature di argento. Sì, i loro occhi sembravano monete d’argento.
- Ciao papà! – ripeterono facendo un passo verso di lui ed entrando in uno spicchio di luce. Le ferite sui loro visini si erano richiuse, ma erano rimaste delle cicatrici. Guardarle faceva venire voglia di urlare, erano orrende come i mostri dei film horror. – Ci vuoi ancora bene, papà? – gli chiesero con quelle loro nuove voci tintinnanti, sembravano quei tubicini di metallo che si lasciano appesi a dondolare al vento.
Assolutamente no! pensò il povero Luke Chambers, ma la sua bocca rispose di sì, perché Allison aveva il suo minuscolo neo sulla guancia destra, e lui disse – Sì, piccole mie, sì – e scoppiò a piangere cadendo in ginocchio.
Mentre si copriva la faccia con le mani e piangeva finalmente tutte le lacrime che si era tenuto dentro in quei quattro giorni, mentre con terrore sperava che le sue due piccole non venissero ad abbracciarlo, perché temeva (sapeva) che sarebbero state fredde al tatto, fredde e maleodoranti come una pozzanghera in inverno, quando ci metti il piede dentro per sbaglio, sentì di nuovo le loro strane, nuove voci.
- Lo sai che poteva salvarci, papà, lo sai? –
Sollevò la faccia e guardò le sue piccole che se ne stavano lì nel corridoio, mezze illuminate dal lampadario, mano nella mano e con i piedi che sembravano quasi non toccare il vecchio tappeto di sua madre. – Chi? – chiese alle sue figlie morte, e tutto il dolore e il terrore che sentiva dentro di sé si trasformarono in furia. Quando gli avessero detto quel nome, lui lo avrebbe ucciso come aveva ucciso Gray, anzi, lo avrebbe fatto soffrire di più, perché Gray era malato e non aveva scelta, ma chi non le aveva salvate era solo colpevole. – Chi? – chiese di nuovo.
- Stan Hanlon! – dissero ridendo. – Stan Hanlon avrebbe potuto salvarci ma non ha voluto. –
- Io lo uccido. – disse lui e fece per alzarsi, ma loro si mossero ancora verso di lui, sfiorando appena il pavimento.
- Tu ci vuoi bene, papà? – gli chiesero tintinnanti.
- Sì, piccole mie. –
- E allora, se davvero ci vuoi bene, ti diremo noi come punirlo, perché Stan Hanlon non ci ha volute salvare, e anche la mamma è morta per colpa sua. Tu volevi bene alla mamma, papà? –
- Sì. – rispose, quelle voci lo stavano come ipnotizzando, una parte remota del suo cervello se ne era accorta, ma non le diede ascolto.
- Ti diremo noi cosa fare. – sorrisero e i loro denti parvero troppo lunghi – Vai a prendere la vanga, papà! –

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