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martedì 7 agosto 2012

Capitolo 25, Kasia.

XXV

Seduta a gambe incrociate sul letto Kasia Kowalsky aspirava con grande attenzione la canna che si era appena rollata con mani sicure.
- Ma chi cazzo è tutta ‘sta gente, porca troia! – disse aspirando il fumo aspro e sentendo un accenno di euforia che si faceva strada nel suo umore nero. – Ma chi li ha invitati qua, porca puttana? – e giù un’altra bocconata di fumo, il mondo cominciava a sembrarle più allegro e cominciò a ridacchiare – Ma cosa vogliono dal mio Richie? – e dopo una altra bella aspirata cominciò a ridere definitivamente, si coricò sul letto a gambe e braccia aperte e guardò il soffitto bianco più incredibilmente divertente del mondo. – Fuori da qui, maledetti amici di Richie! Volete portarmi via il mio bell’orsacchiotto vecchio e morbido? – parlava da sola e rideva, mentre con la mano destra continuava a portarsi alla bocca lo spinello che bruciacchiava tranquillo tra le sue dita.
- Maledetti amici d’infanzia! Maledetti gli amici e i figli degli amici! – e rise di nuovo battendo le mani e i piedi sul copriletto blu notte. Il fumo si avvitava azzurrino su di lei andando a formare una lievissima nebbia sotto al soffitto e intorno al lampadario di gocce di cristallo.
- Che schifo di lampadario! – disse aspirando l’ultima volta, poi sentì il calore tra le dita e sporse il braccio per schiacciare la cicca nel portacenere. Non fumava spesso, ma ‘sta volta ce ne era stato davvero bisogno.
Prima quegli incubi, cazzo, erano mesi che Richie non dormiva più bene, anche se lui sembrava essersene accorto da poco, da un paio di giorni prima di quella sera maledetta, quella dello scrittore.
Poi era andato a condurre il suo programma e gli si era presentato quel maledetto scrittore di horror, aveva tentato di leggere qualcosa scritto da quello spilungone pelato, ma si era arresa dopo dieci pagine. Morti ammazzati, bambini scuoiati e altre amenità simili, anche a lei erano venuti gli incubi, cazzo, era matto quello lì.
E poi, poi cosa era successo? Rise senza ragione, una smorfia tipo Bob De Niro alla fine di quel film di Leone, come si chiamava, sì, C’era una volta in America, e giù un’altra risata, era fatta coi fiocchi, mamma mia, era forte quella roba! Ecco cos’era successo, sì … era tornato a casa euforico come un cocainomane e si era messo a raccontarle un sacco di puttanate sulla sua infanzia e su un assassino di bambini. Cazzo, doveva essere roba di più di cinquant’anni prima, manco suo padre era nato allora. Ma a lei che gliene doveva fregare di un assassino di bambini di mezzo secolo prima in quello schifo di cittadina di quello schifo di Maine del cazzo? Rise ancora, ormai le pareva di galleggiare sul letto, mitica quell’erba, doveva averne ancora per una o due canne. E gli telefonavano i produttori, l’agente era venuto lì a casa che sembrava un fiume in piena, bella questa immagine, la faceva ridere, un uomo fiume in piena, scoppiò a ridere mentre ci pensava, più di prima, e le venne un attacco di tosse. Per un attimo ebbe paura che le potesse venire un attacco d’asma, certo che non era proprio un genio a fumare erba con la sua malattia, ma la tosse si calmò e ricominciò a ridere.
Venivano lì tutti per parlargli, gli telefonavano per dirgli che rischiava di perdere il programma, stavano già pensando a un giovane comico per sostituirlo, e lui non ci pensava. L’agente era lì, e lui cosa aveva fatto? Era uscito per accompagnare lo scrittore all’obitorio, perché doveva riconoscere la moglie.
Ma cosa doveva, tenerlo per manina come le ragazzine che andavano al cesso a scuola? Ma che giochi facevano quei due da bambini in quel posto che le aveva detto, i maledetti Barrens di Derry Maine? E quando era tornato, un morto pareva! Grigio, tremava quasi, quella notte a letto lo aveva dovuto abbracciare e accarezzare come un bambino, e c’aveva l’età giusta per essere suo nonno! E cos’era che aveva borbottato nel sonno, tra un incubo e l’altro? Non lo ricordava bene, subito le sembrava che imitasse Michael Jackson, questo è It diceva, questo è It. Mah! Maledetti vecchi rincoglioniti del Maine!
Si alzò a sedere e tutto le girò intorno, cazzo, era forte quella roba, e pensò che le era andata ancora bene. Da un anno stavano insieme, lei e Richie. Trentasei anni di differenza, non si poteva certo dire che fossero la coppia perfetta. Ma lui era buono, intelligente, famoso, e simpatico più di chiunque altro. E gli piaceva scopare, cazzo, gli piaceva e ci riusciva ancora egregiamente. Rise di nuovo, ma l’effetto stava senza dubbio scemando.
Un anno bello, non perfetto, ma bello, fino a che era cominciata ‘sta storia. Le avevano offerto un lavoro in Europa, la campagna pubblicitaria di una di quelle linee di intimo che pare che meno stoffa ti mettono addosso, più te la fanno pagare. Che poi il trucco era sempre lo stesso, lo sapeva fin dai suoi primi servizi undici anni prima. Prendi una modella così bella che starebbe ben anche con uno sputo addosso, uno sputo catarroso, e rise di nuovo, l’effetto non era passato, non ancora, e poi addobbala con i tuoi slippini vedo e non vedo e con dei reggiseni che ti sollevano le tette fino al mento. E le donne ci cascheranno. Lei era una di quelle modelle, ma aveva ventinove anni, presto le avrebbero proposto le pubblicità delle creme antirughe e delle tinture per capelli. Avrebbe dovuto lasciarlo per un po’, un paio di mesi per andare a farsi fotografare seminuda qua e là tra colline toscane e spiagge sarde, nonché su lussuosi letti in alberghi da urlo, solo per scriverci sotto che la foto l’avevano fatta all’albergo Tal dei Tali a Cortina o a Portofino o in qualche altro posto da ricchi del genere.
Non aveva ancora risposto, perché quel suo vecchio Richie stava male, lo vedeva che c’aveva qualcosa dentro che lo rodeva, che fosse una storia di cinquant’anni prima o un problema di adesso, e anche se non era il grande amore della sua vita, cazzo, poteva essere suo nonno, gli voleva un gran bene, gli voleva davvero un gran bene!
E ora lui era giù con quei suoi amici, lo scrittore calvo, l’architetto con la barba, quello che aveva fatto quell’aborto di grattacielo a Londra che a vederlo ti veniva voglia di minarlo seduta stante, la moglie dell’architetto, una vecchia smorfiosa che si comportava come una ragazzina, che pena. Lei sperava proprio di non fare così, bisogna sapere invecchiare. Sei stata bella da giovane? Bene, accontentati e smettila di sbattere le ciglia a destra e a manca!
E poi c’erano quei due, che cazzo c’entravano quei due non riusciva proprio a capirlo. Il poliziotto nero, pieno di lividi e col braccio al collo, e la dottoressa sexy, manco nei film avrebbero messo una simile a fare la dottoressa, con quei cazzo di capelli neri che le scendevano sulle spalle in un profluvio di riflessi violetti. Manco per un attimo riuscivano a staccarsi quei due, sempre con la mano nella mano, sempre ad abbracciarsi, ormai c’aveva paura di svoltare un angolo perché c’era sempre il rischio di trovarseli avvinghiati stile albero ed edera, ma un po’ di rispetto, cazzo!
Le era venuta fame, cercò nella borsa una barretta alla mela o qualcosa di simile, ma c’era solo una caramella vecchia di mesi. Il suo stomaco fece un rombo stile temporale e decise di scendere in cucina. Doveva esserci dell’arrosto avanzato in frigo, se lo sarebbe mangiato con le mani dalla scodella di plastica, senza neanche scaldarlo. E c’erano anche i biscotti al cioccolato, pure quelli avrebbe mangiato, magari tra un boccone di arrosto e l’altro.
Scese le scale stando attenta a non far rumore, ma tanto quelli parlavano a voce così alta che non l’avrebbero sentita manco se fosse scesa suonando la grancassa. Li sbirciò un attimo, leggevano un vecchio quaderno ingiallito e si parlavano uno sulla voce dell’altro, ridendo come bambini.
Andò verso la cucina, aprì il frigo e prese l’arrosto. Tolse la pellicola arrotolandola in mano e affondò le dita tra le patate fredde e unte. Quando portò il primo boccone alla bocca e cominciò a masticarlo, si fermò sentendo un gelo orrendo che le scendeva per la schiena. Era paura? Non si ricordava di avere mai avuto così tanta paura, neanche quando a sei anni era caduta nel lago gelato e per un breve istante era rimasta sott’acqua prima che papà la prendesse per la mano.
Cosa aveva visto, cazzo? Ripensò alla scala, al corridoio in penombra, si era affacciata alla stanza e li aveva visti seduti intorno al tavolo. Parlavano, ridevano, dicevano cazzate. Cosa le faceva così paura, cazzo? Un gruppo di persone male assortite che ridevano e scherzavano come una scolaresca in libera uscita? No. E cosa allora? Poteva tornare a vedere. Il solo pensiero la terrorizzò. Non sarebbe tornata in quella stanza neanche per un milione di dollari, mai. Tamburellando sul tavolo le dita sporche di patate arrosto ripensò a quello che aveva visto, la porta illuminata, il tavolo e le sedie intorno, quelle sei persone che ridevano e scherzavano leggendo un vecchio quaderno. E poi ricordò. Lasciò lì la scodella con l’arrosto avanzato, non lo ricoprì neanche con la pellicola trasparente.
Corse su per le scale e cominciò a riempire una valigia, lasciò attaccato allo specchio un post-it per Richie per avvertirlo che partiva per quel lungo lavoro in Europa, e lo fece solo perché gli voleva davvero molto bene. Scese le scale in fretta e in silenzio e si chiuse alle spalle la porta. Salì in macchina e se ne andò senza neanche guardarsi alle spalle. Dopo un chilometro si era abbastanza calmata per chiamare il suo agente e dire che accettava il servizio di intimo.
Quando aveva guardato nella stanza quei sei non erano soli. Tra loro e la tenda che copriva il finestrone che dava a sud c’erano degli altri. Un bambino con una mantellina gialla, a cui una manica insanguinata pendeva inerte come se non ci fosse stato un braccio sotto, una donna bellissima e con lo sguardo assente, un uomo con capelli ricci neri e baffi anni Ottanta stile Tom Selleck, bianco come un morto dissanguato e un uomo di colore coetaneo di Richie che sembrava molto malato. Nessuno li aveva fatti entrare lì, nessuno li aveva invitati. E non proiettavano alcuna ombra.
Quei quattro erano morti.

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