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lunedì 6 agosto 2012

Capitolo 24, Rachel Uris.

XXIV

Rachel Uris non aveva accompagnato il suo Stan, aveva cominciato a pensare a lui in questi termini, anche se non se ne era ancora resa conto, perché quella mattina, mentre Luke Chambers si faceva una lunga doccia per togliersi di dosso quell’immonda lordura che erano terra di cimitero e liquidi di risulta di una bara contenente un morto imbalsamato, e mentre lui si faceva la doccia le sue due “nuove” bambine giocavano sul pavimento del bagno con le bambole, facendo a pezzi le bambole a dire il vero, perché quella mattina dicevo, finito il turno di notte in ospedale, aveva avuto la bella pensata di fare un lungo giro a piedi per la città che aveva visto suo padre bambino.
Come quasi tutti gli orfani Rachel aveva idealizzato suo padre trasformandolo in una specie di perfetto supereroe capace di ogni meraviglia e privo di qualunque difetto. Lei lo avrebbe negato, ma era come quei vecchietti che a ottanta anni suonati continuano a parlare della loro mamma che li aveva abbandonati perché … segue sempre storia strappalacrime su ragazzina violentata, povera, indigente, ma buona come il pane, quando nella maggior parte dei casi si trattava di prostitute che non erano state troppo attente a che giorno era.
E così Rachel aveva reagito all’ostinato silenzio di sua madre su Stan Uris decidendo che lui era un grande papà e quando le era stato proposto un lavoro nella città del padre, era andata di corsa in quel buco di città in quel buco di stato del Maine solo perché così si sarebbe sentita più vicina, oserei quasi dire in comunione con quel suo padre mai conosciuto.
Naturalmente gli avvenimenti di quegli ultimi giorni le avevano aperto un po’ gli occhi su come fosse in realtà la città di suo padre, ma le avevano anche dato buone ragioni per perdonare a Stan, il padre e non l’innamorato, quell’unico atto di codardia che le aveva impedito di conoscerlo. Così quella mattina alle otto, sapendo che Stan, l’innamorato e non il padre, sarebbe stato dimesso solo alle undici, aveva deciso di andare in esplorazione per vedere i posti dove suo padre aveva affrontato It. La città era piccola e lei era una grande camminatrice, quindi aveva girato per Neibolt Street, dove It si era presentato secondo il quaderno del padre di Stan, l’innamorato e non il padre, sotto forma di lebbroso e lupo mannaro, Witcham Street all’angolo con la Jackson, dove It aveva strappato un braccio al fratellino dello scrittore, e i Barrens dove suo padre aveva giocato con i suoi migliori amici.
Senza neanche rendersene conto aveva lasciato per ultimo il Memorial Park, o quello che esso era diventato dopo il disastro dell’85, perché lì suo padre era stato solo, non con gli altri, e perché quello non era per lei un ricordo di seconda mano come gli altri, ma lo aveva vissuto nella sua mente durante l’attacco di febbre di tanti anni prima.
Sbucò quindi nel parco e si guardò intorno, riconoscendo con stupore, perché non dobbiamo credere che la sua mente logica di dottoressa si fosse totalmente arresa all’evidente follia di quello che stava accadendo in quella città, lo stesso parco che aveva visto in quell’incredibilmente vivido sogno della sua infanzia.
C’era ancora la vasca per gli uccelli, nuova naturalmente, quella vecchia era rotolata giù nei Barrens e poi nell’Atlantico ventisette anni prima, c’erano delle panchine, e c’era il basamento dove era sorta un tempo la cisterna. Le pareva di poterla vedere ancora, socchiudendo gli occhi, bianca ed enorme come una Moby Dick arenata in mezzo alle colline del Maine, mentre con i suoi veri occhi poteva vedere la giostra che ne aveva preso il posto.
Era una giostra di quelle enormi, con tre giri di cavalli che vanno su e giù a ogni giro, colonnine di forma stramba e musichetta spacca timpani e frantuma palle. La giostra stava girando e poteva contare cinque o sei bambini sparsi nel reggimento di cavallucci.
Si sedette sulla panchina, la stessa dove si era seduto Stan Uris quel giorno del 1958, e appoggiò la schiena alle assi tinte di verde lasciando che la stanchezza di una nottata di lavoro, la tensione dovuta alla strana situazione in cui si trovava e, eh sì c’era anche quella, la fatica per la lunghissima camminata potessero staccarsi da lei.
Guardò i bambini sulla giostra e si stupì a immaginare di essere lì con i suoi figli, dei figli dalla stupenda pelle di caffelatte, mio Dio, ma che pensieri faceva, lo conosceva appena Stan, non sapeva nulla di lui se non che … e cominciò a fantasticare su di lui, su di loro insieme, su un loro futuro felice e intanto la giostra girava … e quando Rachel riaprì gli occhi capì subito che era passato del tempo.
Le ombre erano più corte, molto più corte, doveva essere quasi mezzogiorno e lei era stata seduta lì sotto al sole di luglio a capo scoperto. Era sudata marcia e si sentiva debole. Se si fosse alzata troppo in fretta le sarebbe girata la testa. Prese un bel respiro e si guardò intorno. Non c’era nessun uccello nella fontana, loro erano furbi e non stavano certo al sole a mezzogiorno, e non c’era neanche nessuno intorno a lei. C’erano solo dei bambini sulla giostra.
La musichetta che proveniva dal carosello era se possibile ancora peggiore di prima, sembrava una via di mezzo tra un gemito e il canto di una megattera stonata, e stonato le sembrava anche qualcosa che vedeva. I bambini sulle giostre ridono e scherzano, schiamazzano agitando le braccia, fanno finta di inseguire gli amici come gli indiani con i cow-boy, ma quei bambini stavano zitti.
Malgrado il calore rabbrividì. Tentò di alzarsi ma sentì le gambe tremare come ricotta. I bambini erano scesi, camminavano verso di lei adesso, non proprio come gli zombi di Romero, così no, ma a passo innaturalmente lento, e c’era qualcosa di sgraziato nei loro passi, come se non fosse il loro modo naturale di camminare.
Invece che alzarsi si raggomitolò sulla panchina, nell’angolo più lontano da quei quattro bambini che camminavano silenziosi verso di lei. E quando mai si sono visti dei bambini silenziosi? Mai, neanche i bambini muti sono silenziosi, cazzo, battono le mani e i piedi, fanno versi gutturali e ridono. Erano sempre più vicini, vedeva i loro visi gonfi, i loro lineamenti rovinati da decenni passati nell’acqua, i loro occhi d’argento.
Ricordava quel terrore, lo aveva provato da bambina, ma ora era vero. E non era Stan Uris, cazzo, era Rachel Uris e non ricordava i nomi degli uccelli. Avrebbe potuto dire i nomi delle ossa del corpo umano, le ricordava tutte anche se aveva dato l’esame sei anni prima, ma non era una bambina. Era un’adulta e duecentosei nomi erano solo un elenco di nomi, non un potente talismano capace di scacciare il demonio.
Sarebbe morta lì, cazzo, senza il suo Stan, incapace di imitare suo padre. E allora si ricordò di una cosa. Sei anni prima del suo suicidio, quando ancora i suoi genitori parlavano di avere un bambino e non avevano abbandonato l’idea per la loro evidente incapacità di concepire, suo padre aveva comprato un ciondolino d’argento, una bella tartarughina d’argento, e aveva detto che quel gioiello lo avrebbe regalato a sua figlia, perché lui e Pat avrebbero avuto una bellissima figlia dai lunghi capelli neri e ondulati. E Rachel fece una cosa, l’unica cosa possibile. Si infilò la mano sotto alla camicetta e prese la tartarughina d’argento che ormai da diciotto anni portava ininterrottamente, non togliendosela neanche mentre faceva la doccia. La strinse forte in mano, mentre i bambini morti arrivavano a meno di due metri dalla sua panchina.
E vicino a lei ora c’era un bambino. Portava stivali di gomma gialli e una mantellina blu. Aveva un libro in mano, un libro sugli uccelli. I suoi stivali e la sua mantellina erano bagnati, poteva vedere le gocce di pioggia che vi cadevano sopra e che gocciolavano a terra. Pioggia che non esisteva né prima di toccare la mantellina né dopo, quando da questa cadeva su un terreno che si trovava cinquantaquattro anni più indietro. Il bambino guardava i bambini morti, non che lui fosse messo molto meglio, e lei non poteva vederne il viso. Si alzò, era basso e mingherlino, avanzò deciso verso i mostri e loro si fermarono. – Pettirossi! Aironi bianchi! Gavie! Tanagre scarlatte! Storni! Umbrette! Picchi capirossi! Cince! Scriccioli! Pelli … - disse il bambino, ma la sua voce parve provenire a Rachel come da una grande distanza, come un segnale radio acchiappato per caso modulando la lunghezza d’onda. I bambini morti sparirono in un botto, nel senso che l’aria estiva occupò il loro spazio con un brevissimo risucchio, poi il bambino con la mantellina si girò verso di lei.
Non era sicura di volerlo vedere, proprio per niente, ma lo guardò. Il suo viso usciva dal cappuccio come il muso di una tartaruga dal guscio, e per quanto quella fosse solo la faccia di un bambino di undici anni, le sembrò anche la faccia di un essere più antico del tempo stesso. La voce con cui le parlò non era quella di un bambino. Le piacque pensare che fosse la voce di suo padre, ma l’unica cosa di cui era sicura fu quello che le disse: - Vattene da questa città, Rachel, vattene via da questa città! – e svanì.
E fu allora che Rachel si alzò e corse nel suo appartamento in affitto, e passarono molte ore prima che trovasse il coraggio di telefonare a Stan, il suo Stan, per dirgli di avere incontrato It.

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