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domenica 12 agosto 2012

Capitolo 30, Ben.

XXX

Ben Hanscom era un architetto incredibilmente coscienzioso e quando doveva progettare e poi costruire un qualcosa, si preparava sull’argomento in questione con una cura incredibile.
Dovendo costruire un auditorium per esempio aveva studiato tutti i libri possibili sulla acustica e sulla natura del suono, sapendone alla fine più di un musicista delle leggi di rifrazione delle onde sonore sui vari materiali e sulle capacità di assorbire o riflettere le onde sonore stesse da parte dei vari tipi di legno o di pietra.
Quando aveva progettato la moschea di Pittsburgh aveva visitato le più belle moschee del mondo islamico, a dire il vero era andato sotto falso nome anche a La Mecca, riuscendo a riconoscere senza alcun dubbio una nicchia dell’epoca Ommayade da una dell’epoca selgiuchide.
Tra le tante cosa che doveva costruire a Roma, un intero nuovo quartiere dove era sorta una delle più grandi caserme d’Europa, aveva studiato tutta l’architettura cittadina e rurale d’Italia, pubblica, privata e sacra, dedicandosi anche allo studio della religiosità cattolica e, in particolare, italiana per costruire una chiesa che fosse adatta ai fedeli che l’avrebbero dovuta frequentare per i secoli a venire.
Ecco una cosa che gli piaceva del suo lavoro. Se fatto bene, sarebbe rimasto in uso anche quando il suo nome fosse stato dimenticato da secoli.
Studiando la religiosità popolare italiana era si era imbattuto in un personaggio che alla sua mentalità di protestante del New England suonava assurdo come un’antica divinità dei Sumeri, Padre Pio da Pietrelcina.
Aveva letto tutto quello che aveva trovato su di lui, e anche sui suoi fedeli, che parevano pronti a credere che il buon frate fosse capace di fare miracoli mirabolanti, come e più di Gesù Cristo.
Aveva scoperto così l’esistenza della bilocazione, delle stigmate, delle lotte notturne col Diavolo e dell’onnipresente profumo di violette che il frate, secondo i suoi numerosissimi fedeli, spandeva intorno a sé.
Ma l’aneddoto sul frate che più lo aveva divertito riguardava la sua apparizione a un pilota di bombardiere inglese della Seconda Guerra Mondiale, mandato a bombardare l’area della Puglia dove il frate risiedeva.
Diceva l’aneddoto che il pilota in questione, volando di notte sull’area che doveva colpire, si sarebbe trovato davanti, a due o tremila metri di quota, Ben non sapeva quale fosse la quota di volo di un bombardiere degli anni ’40 e non è che poi gli interessasse molto, si sarebbe trovato davanti dicevo un’enorme frate, che tenendo i piedi ben piantati al suolo arrivava con la testa proprio all’altezza dell’aereo, e che avrebbe intimato al pilota in questione di desistere dalla sua missione.
Quando Ben aveva letto questa cosa aveva riso come poche volte in vita sua, come forse non faceva dal 1958 a Derry quando aveva sei amici inseparabili, ma in quel momento non aveva accesso a quei ricordi. Un frate alto qualche migliaio di metri che parla a un bombardiere inglese. O mio Dio che follia! aveva pensato, mamma mia.
Naturalmente queste cose, tutte queste cose, gli erano sfuggite di mente dopo la sua visita al Pantheon, dovendo lui stesso in un troppo vicino futuro lottare col diavolo come si diceva che il frate facesse ogni sera. Ma durate il volo da Roma a Los Angeles, con scalo tecnico a Chicago, ebbe l’occasione di ricordarselo. Era seduto sul suo sedile, la testa di sua moglie Beverly appoggiata alla sua spalla dopo aver letto un libro romantico di quelli che piacciono tanto alle donne per le prime quattro ore del volo. Ora dormiva e lui stava lì a godersi quel momento di tranquillità, il rumore attutito dei motori dell’aereo nelle orecchie, il respiro tranquillo di sua moglie lì sulla sua spalla e l’Oceano Atlantico che cedeva velocemente il passo al continente americano dodicimila metri sotto di lui. Guardava fuori dal finestrino perso nei suoi pensieri, ricollocando i piccoli particolari della sua infanzia nel quadro più ampio della sua vita, trovando delle spiegazioni a cose che gli erano sempre sfuggite, come la volta che Bev si era tanto arrabbiata con lui quando aveva dato uno schiaffo a Eddie dopo che lui aveva rischiato di cadere da un muro di un paio di metri, rabbia che era aumentata quando lui aveva detto che gli sembrava normale preoccuparsi di suo figlio.
Povera Bev, aveva totalmente rimosso la sua infanzia di bambina maltrattata, così come lei pareva anche avere totalmente dimenticato il suo matrimonio con Tom Rogan.
Ripensava anche al piacere sottile e quasi inespresso che gli aveva sempre dato la visione del Richie Tozier show, o alla commozione irresistibile che aveva provato leggendo un racconto di Bill Dembrough che parlava di bambini persi in un bosco infestato da mostri.
E così, mentre la sua mente si rimetteva pigramente in ordine in quel breve momento di calma, il nostro Ben guardò fuori dal finestrino, proprio nel preciso istante in cui l’aereo sorpassava il confine della contea di Derry. Davanti al finestrino c’era una faccia e, malgrado l’aereo si muovesse ad almeno ottocento chilometri orari, la faccia rimaneva sempre lì, a non più di una decina di metri da lui. Guardando giù Ben vide il corpo sottostante a quella faccia scendere vertiginosamente fino a terra, con un bel banco di nubi all’altezza dell’ ombelico.
- Ciao Ben! – disse ridendo il clown alto poco più di dodici chilometri e la sua voce rimbombò nell’aereo facendo piangere i timpani di Ben. Naturalmente nessun altro lo sentì, neanche Bev che continuò a dormire, gemendo però come per un incubo nello stesso momento.
- Come va, vecchio Covone? Combatti sempre con la ciccia? – e vide che i denti del clown erano ossa di mostri preistorici e che la sua lingua era come un ribollire di coccodrilli di un agghiacciante colore rosso sangue. – Ti ricordi i miei figli, Covone? Te li ricordi? Li hai uccisi tutti, con quei tuoi piedi, ventisette anni fa. –
Ben deglutì accarezzando sua moglie che intanto continuava ad agitarsi e a piagnucolare nel sogno. Sentiva le sue viscere ballare la rumba dentro alla pancia, mentre un sudore gelido gli inzuppava la camicia e la giacca. Quel mostro era così grosso da ingoiare senza neanche accorgersene quell’enorme 747, gli sarebbe bastato alzare una mano e colpirli con un piccolo movimento dell’indice guantato di bianco per farli a pezzi.
- Hai per caso intenzione di tornare a Derry, ciccione bastardo? – gli chiese ridendo il clown e Ben vide una gocciolina di saliva grande come un furgone uscire dalla bocca del mostro e cadere giù allargandosi in un’enorme nuvola di gocce larga come una casa. – Pensi che alla vostra età potrete uccidermi? Non siete neanche più sette, i vostri Stan e Mike non ci sono più! – e rise così forte da far tremare l’aereo, Ben sentì chiaramente le lamiere cigolare, l’unico su tutto l’aereo.
- Non venire qua, Covone, non venire se non vuoi morire! – e rise di nuovo, la sua bocca era grande come un hangar e buia come un incubo. Poi svanì, l’aereo aveva appena oltrepassato il limite ovest della contea di Derry, e lo spostamento d’aria causato dalla sua scomparsa fu avvertito da tutti come un tremendo vuoto d’aria. Una hostess cadde a terra, molti gridarono e le maschere di ossigeno scesero davanti ai passeggeri.
- Cosa è successo, Ben? – gli chiese Bev con voce allo stesso tempo impastata dal sonno e terrorizzata, lui la strinse a sé e non riuscì a mentirle dicendo niente. La abbracciò e cominciò a piangere, accarezzandole quel bel viso che amava da sempre.

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