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lunedì 20 agosto 2012

Capitolo 38, Carole Danner.

XXXVIII

Carole scese dall’auto e si guardò intorno, non c’era nessuno. Stan era un caro ragazzo, ma a volte si preoccupava proprio un po’ troppo. Camminò sul vialetto in un ticchettare di tacchi sul cemento, quanto odiava il suono della sua camminata nel silenzio della notte, sembrava la colonna sonora di un film horror di Dario Argento, infilò la mano nella borsa e prese le chiavi.
Sarebbe entrata, sarebbe andata in bagno un attimo, avrebbe fatto il il giro della casa per controllare che le finestre fossero chiuse e che il rubinetto del gas, e quello dell’acqua, e le luci etc. etc., poi avrebbe preso l’urna di Mike, sarebbe tornata in auto e sarebbe partita per New York, lo Stato e non la città, là in mezzo alle foreste del nord. Mentre apriva la porta ed entrava nel corridoio buio, allungando la mano sul muro per cercare l’interruttore stava pensando alla sorella, quanto rompeva le palle Henrietta, era una di quelle donne tutte perfettine che sanno sempre tutto e hanno sempre un’opinione su tutto e … che palle, ma se Stan diceva … e persa nei suoi pensieri non si accorse della corrente che le scompigliò i capelli. Doveva esserci una finestra aperta da qualche parte.
Si chiuse la porta alle spalle, posò la borsa sul mobiletto, girò a sinistra e si infilò in bagno. Si calò la gonna e fece pipì, si rivestì, si sciacquò le mani e la faccia, si controllò i capelli guardandosi allo specchio. Non male, pensò, cinquantadue anni e in piena notte, ma non male. Sorrise alla sua faccia e uscì dal bagno. Passò davanti alla porta del salotto ma non guardò all’interno. Chambers non si era nascosto, era seduto al buio sulla poltrona. Guardò in cucina, tutto spento, in camera di Stan, cioè, lui non viveva più lì ed era una stanza priva di una vera e proprio funzione, ma la chiamava ancora camera di Stan, tutto a posto, poi la sua stanza e … la finestra era aperta, c’erano cocci di vetro in terra. L’urna di Mike era sul letto, aperta e rovesciata, le ceneri formavano un piccolo cono vulcanico grigio. Sopra alle ceneri c’era uno stronzo.
Si portò una mano alla bocca, non sapeva se era più terrorizzata o avvilita. Avevano cagato su Mike. Fece un passo indietro e colpì qualcosa con la schiena. Qualcuno, anzi. Urlò!
- Salve signora Danner! – disse una voce di uomo dietro di lei. Si girò e vide la faccia bovina di uno che conosceva di vista.
- Ti piace la nuova sistemazione del negro? Tra stronzi si terranno compagnia, non pensi? –
L’uomo era più alto di lei di una spanna almeno, era grande e grosso, un po’ grasso ma con braccia da camionista. Era il becchino, Bowers si chiamava.
- Bowers. – disse allontanandosi da lui di un mezzo passo.
- Allora sai anche il mio nome, scopa negri! Allora, ti piace lo stronzo che ho fatto su quella scimmia di tuo marito? – e sorrideva, all’angolo della bocca un po’ di bava.
- Harlan Bowers. – disse lei. Poi agì. Sollevò il ginocchio prendendo contemporaneamente Bowers per le spalle. Il suo piccolo ginocchio gli affondò nelle palle, con una parte del cervello registrò anche il fatto che lo stronzo ce l’aveva duro, e Bowers la guardò per un attimo con gli occhi stupiti. Poi si piegò in due emettendo una specie di risucchio mentre la faccia gli diventava viola. Spero che crepi d’infarto! Pensò Carole mentre l’omaccione cadeva al suolo tenendosi il pacco tra le mani. Piangeva e mugolava.
Non rimase lì a guardare l’uomo a terra, sapeva che una ginocchiata nelle palle non stende un uomo abbastanza a lungo, corse nel corridoio e, quando già pregustava la durezza del pomolo della porta nel palmo della mano, qualcuno la afferrò per i capelli strattonandola così forte da farla cadere di schiena a terra. Batté la testa e perse i sensi.

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