martedì 27 ottobre 2015

Gli dei di Dagshepan.

Prima di tutto, vorrei porgere le mie scuse a chi avesse cominciato a leggere Berserker. Quella storia, come un torrente dopo la pioggia, pareva scorrere rigogliosa e gorgogliante, ma si è presto inaridita. Chi lo sa, magari un giorno mi tornerà in mente e la continuerò.

Oggi però comincia una nuova storia del gigante nubiano, il guerriero Okaka che già avete potuto conoscere ne "I cinghiali di Marit". La nuova storia mi è già abbastanza chiara in mente e quindi, malgrado la mia patetica incostanza, dovrei riuscire a finirla in pochi giorni.
Comunque, eccovi la prima puntata che, naturalmente è pulp, molto pulp, pure troppo!

GLI DEI DI DAGSHEPAN

1

Quel ramo del lago che volgeva a meridione aveva portato Okaka fino a una foresta che, dopo nemmeno un’ora che vi era entrato, era diventata fitta e buia come le foreste che avvolgono il sognatore in quegli incubi in cui un qualcosa di orribile sta per saltarti addosso e tu non riesci a muoverti.
Continuò ad andare a sud, malgrado la luce che passava attraverso alle fronde fosse così debole e diffusa da rendergli impossibile capire in quale direzione si trovasse il sole. Il gigante nubiano tentò di capire dove fosse il nord nel modo che gli avevano insegnato da bambino, guardando su quale lato dei tronchi crescesse il muschio, ma l’ombra e l’umidità erano così compatte e onnipresenti in quell’intrico di alberi plurisecolari che il muschio non cresceva solo su ogni lato dei tronchi, ma muschi più giovani crescevano come viscide escrescenze sul muschio più antico.
Continuò a camminare per ore, con i moscerini che ininterrottamente lo pungevano per succhiargli il sangue dalla nera pelle sudata. Dopo un po’ smise di scacciarli agitando la mano e li lasciò fare. Poi, il sole doveva essere probabilmente oramai molto basso sull’orizzonte, si accorse che tutto si era quietato intorno a lui. Niente fruscii di serpi o schiocchi di merli intorno a lui, nessuno scoiattolo rosicchiava noci diverse braccia sopra alla sua testa, nessun cinghiale dai denti ritorti correva lontano al rumore dei suoi passi. Silenzio, totale e innaturale silenzio, solo il rumore dei suoi piedi che schiacciavano il molle terriccio ricoperto dalle foglie marce. Continuò a camminare guardandosi intorno nella foresta di secondo in secondo più buio, la sua lama di ossidiana ora stretta in mano e gli occhi spalancati nel buio per notare anche il minimo movimento.
Avrebbe voluto vedere vicino a sé, come spesso capitava, il baluginare della presenza di Leka, la sua compagna non morta che ovunque lo accompagnava combattendo con lui i nemici peggiori, ma da qualche giorno la ragazzina defunta tra le sue braccia alcuni mesi prima sembrava essersi offesa ed evitarlo quando poteva. L’aveva ferita quando aveva aggredito quella vecchia per succhiarle il sangue, nel villaggio a un paio di giorni di cammino alle sue spalle, ma non era la prima volta che litigavano quando la fame di lei diventava troppo forte in assenza di nemici da distruggere.
Era sopravvissuto fino a quasi trenta primavere senza di lei e avrebbe continuato a farlo malgrado la sua malcelata rabbia. Si fermò ruotando su sé stesso e finalmente, le pupille dilatate come quelle di una civetta nel buio, intravide una forma che gli si avvicinava passando tra i tronchi squamosi. Era alto più di lui, il doppio di un uomo adulto, imponente e con gli occhi illuminati dall’interno da un lampo di maligna luce rossa. Fece finta di non averlo visto e rilassò totalmente i muscoli della schiena e del braccio. Era più facile scattare dopo essersi lasciato andare a un attimo di riposo. E poi la bestia attaccò.
Fu velocissima, un attimo il gigante nubiano la vedeva a una ventina di passi da lui e il momento dopo gli stava saltando addosso da un’altezza simile al tetto di una capanna. Si lasciò cadere terra e rotolò sul fianco con la lama stretta per il suo manico di corno di olifante e evitò per meno di un capello la zampata dell’animale. Aveva zampe da uccello, ricoperte di scaglie e con un grande artiglio centrale, affilato come una lama di ossidiana. Fece scattare la sua mano e inflisse un enorme squarcio su quella zampa; la bestia gridò facendogli sanguinare le orecchie da tanto acuto fu il suono, poi si rivolse verso di lui e lo aggredì con le zampe anteriori che, muovendosi contro di lui, fecero il rumore delle vele sbattute dal vento. Doveva avere le penne, come un’aquila enorme dotata di mani artigliate. Una zampa lo afferrò squarciandogli un pettorale dalla spalla allo sterno, ma il nubiano ignorò il dolore e conficcò la sua lama nel petto muscoloso dell’animale. Un altro grido, più forte e stridulo del primo, artigliò le tenebre della notte e, intorno a loro, almeno otto grandi animali fuggirono via lamentandosi. Erano un branco di predatori e lui aveva ucciso l’avanguardia dell’attacco. Si alzò a sedere incombendo sull’animale morente che respirava gorgogliando e guaendo e, per rispetto per un prode cacciatore, lo sgozzò interrompendo la sua agonia. Poi, con il sangue che sgorgava nero dal collo squarciato, si coprì il volto, il petto e le braccia. Così, sperava, gli altri animali si sarebbero tenuti lontani. E poi, mentre si fasciava il petto e la spalla con una fascia di stoffa ricoperta di un unguento medicamentoso a base di bava di pipistrello delle grotte di Roan-Ahan, vide una luce baluginare nella foschia davanti a lui.
Si incamminò zoppicando, era stato colpito anche alla gamba destra dall’animale e solo ora, calata la furia del guerriero, se ne accorgeva, e, superati due enormi alberi, si trovò tra i cespugli di rovi che contornavano quella che sembrava una sconfinata pianura punteggiata da case. Una di queste case illuminate da torce era a non più di trecento passi da lui. Si incamminò verso quell’abitazione che sembrava indifesa così vicina a quel branco di predatori mostruosi, quando nella luce della luna calante una figura bianca ed enorme gli si avvicinò. Era simile a quello che lo aveva attaccato, ma il suo odore era più gentile e le sue piume, lunghe e morbide, erano bianche invece che brunastre e tigrate. Il grosso muso da coccodrillo con gli occhi da aquila si abbassò su di lui e la bestia, che aveva un collare di cuoio, lo annuso, poi lanciò un fischio e dalla casa uscirono delle persone che cominciarono a correre verso di lui. Fu in quel momento che la perdita di sangue dalla grossa ferita lo indebolì così tanto da fargli perdere i sensi. E così, addormentato e appoggiato su una lettiga, Okaka entrò nella strana terra di Dagshepan.

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