mercoledì 21 ottobre 2009

Evoluzione I,6.

Prima di farvi leggere il sesto capitolo, vi dò un suggerimento. Andate sul sito di Repubblica e guardatevi le foto del papa in preda alla bufera. E' l'imperatore di Guerre Stellari! E' lui! E' Palpatine! Cioè, non ci sono dubbi, è lui e basta.
E ora, dopo 'sta cazzata, eccovi il capitolo di oggi:

VI

Guardò incredulo il sacchetto di plastica che conteneva i suoi piercing e se lo infilò sorridendo in tasca. Aveva fatto suonare il metal detector come un carillon per ben due volte e lo avevano costretto a spogliarsi fino a rimanere in mutande, davanti a tutti.
La cosa più divertente era stato vedere la faccia di tutti quegli stupidi italiani quando avevano visto la svastica tatuata sul suo pettorale sinistro e il ritratto di Hitler che aveva sul braccio destro. Lo avevano guardato come una cacca, e così lui aveva guardato loro, inutili coglioni che non sapevano neanche in che mondo vivevano.
Lui non era come loro, lui aveva degli ideali sani e puri, e per questi ideali era pronto a fare qualunque cosa.
Il suo compito adesso era andare in Brasile, sul fiume Japurà, nell’oasi ricovero gestita da quel vecchio santo del dottor Teubner. Lui sapeva bene chi era quel vecchio novantenne, o almeno chi era stato più di sessanta anni prima. Era stato uno di quegli uomini che in nome del simbolo che lui portava tatuato sul petto aveva osato tentare di cambiare il mondo. Lui sapeva che quel vecchio era in realtà il maggiore Ludwig von la Salle, un medico nazista che aveva lavorato a Auschwitz con Mengele.
Il suo compito era trovarlo e assicurarsi che fosse proprio lui, e poi fare quello che era giusto fare.
Sull’aereo si sedette vicino a lui Suleiman, che vedendolo ebbe l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Fu dopo un’ora di volo che pensò di essersi confuso a causa della somiglianza di quello Skinhead con l’attore Ed Norton in un film di una quindicina di anni prima, American History X. Solo un mese dopo avrebbe ricordato dove loro due si erano già incontrati.
Il nazi, che dal passaporto risultava chiamarsi Edmund Strauss, lo aveva invece riconosciuto subito, era una delle sue caratteristiche quella di non dimenticare più un volto, e si era messo subito a leggere una rivista in tedesco mettendo bene in mostra la piccola svastica che era tatuata sulla sua mano destra. Questo avrebbe dovuto sviarlo abbastanza da fargli dimenticare la sua faccia appena scesi dall’aereo.
Suleiman comunque smise presto di pensare al nazi seduto di fianco a lui, dopotutto pensò, odiavano gli stessi nemici, e chiuse gli occhi ripensando a quella che era stata la sua vita fino a due anni prima.
Era sempre stato il migliore della classe, dall’asilo alle superiori, e aveva percorso in un lampo l’università, esattamente come suo fratello, per quanto in campi molto diversi.
Il suo sogno fin da bambino era sempre stato quello di essere il primo uomo a mettere piede su un pianeta lontano anni luce e per quello aveva scelto quel ramo di studi. La guerra intorno a lui gli era sempre sembrata qualcosa di temporaneo e non aveva mai provato odio per gli Israeliani, come anche suo fratello.
Poi quei bastardi avevano sbagliato a lanciare un missile e tutta la sua famiglia era morta, come anche la sua gamba; mentre era intrappolato sotto le macerie, senza sapere ancora se sarebbe sopravvissuto, aveva deciso che quello che, forse, sarebbe uscito da lì, non sarebbe stato un tranquillo studioso di fisica teorica, ma un patriota pronto alla morte.
Quando aveva poi visto il cadavere del fratello, aveva detto di essere lui, perché nessuno prenderebbe sul serio uno studioso di scimmie con la coda prensile, nessuno avrebbe potuto crederlo un terrorista pronto ad uccidere.
Due anni di preparativi lo avevano portato fin a questo punto:
era in viaggio verso il Brasile dove, vicino alla frontiera con la Colombia, avrebbe incontrato i suoi contatti, dei trafficanti di coca che usavano come copertura un’oasi di protezione della fauna e lì avrebbe montato la bomba. Sorrise scivolando nel sonno, al pensiero del plutonio che viaggiava in un contenitore a tenuta stagna attaccato con una calamita alla chiglia di un mercantile americano. Tempo dieci giorni e i suoi compagni lo avrebbero preso nel porto di Rio e lo avrebbero portato da lui insieme all’oppio puro che era chiuso con lui nel contenitore magnetico. I suoi amici colombiani sarebbero stati contenti e lui avrebbe potuto lavorare alla sua vendetta.
Anche Edmund si addormentò e sognò il suo passato. Sognò la sua infanzia nel Kibbutz, sua sorella Sara e i suoi genitori, sempre con la pelle scottata dal sole. Sognò suo nonno, che aveva sempre preferito parlare in tedesco perché non aveva mai imparato bene l’ebraico, suo nonno che gli raccontava sempre dei campi di concentramento, dove i Tedeschi avevano tentato di ucciderlo.
Poi sognò il servizio militare, i bus esplosi e i pezzi di bambini che aveva visto penzolare dagli alberi una volta, e i posti di blocco e i volti di quei poveri ragazzi palestinesi, in fondo così simili a lui, che sembravano volerlo uccidere con lo sguardo.
E poi sognò anche l’arruolamento nel Mossad, l’addestramento che aveva cancellato in lui ogni umanità, trasformandolo in una macchina, interessata solo a compiere la sua missione. Malgrado l’addestramento aveva pianto e aveva vomitato quando si era fatto fare quei tatuaggi, si era sentito sporco quando si era dovuto infiltrare tra quei nazisti di merda a Dresda, fingendo di essere uno di loro, di parlare e di pensare come loro.
E poi sognò la sua missione, quel giovanissimo medico che più di sessanta anni prima aveva torturato e ucciso un migliaio di bambini, che aveva mandato a morire alle camere a gas centinaia di migliaia di poveretti con un alzata di sopracciglio. E ora quel vecchio avrebbe pagato, ma non prima di aver fatto i nomi di quelli che lo avevano aiutato a salvarsi, di quelli che si erano nascosti come lui in Sudamerica.
E infine sognò il momento in cui si sarebbe fatto togliere quei tatuaggi e sarebbe tornato a casa, un momento che purtroppo non sarebbe mai arrivato.
Così quei due ragazzi, quei due impostori che si erano già incontrati una volta in passato, dormivano vicini, ignari l’uno dei segreti dell’altro e ignari anche del futuro che li avrebbe attesi di lì a pochi giorni.

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