lunedì 2 novembre 2015

Gli Dei di Dagshepan. 5.

Quinto episodio, un viaggio nella melma e nell'orrore. Che schifo! Buona lettura, comunque!

5

Le costruzioni sorgevano tutte sul bordo di un cratere che formava la cima del monte. Come sempre la vetta era avvolta da nubi in tempesta e l’acqua che cadeva incessantemente sui pendii scoscesi della bocca dell’antico vulcano spento si riuniva in rivoli e poi in ruscelli e infine in fiumi che vorticavano fino alle acque agitate di un lago giallastro che finiva poi per infilarsi in un’apertura nella roccia che sembrava la bocca di un mostro. Lì, accanto alla cascata dal rumore assordante, cominciava la ripida scala su cui gli uomini lumaca lo stavano trascinando. Scesero per un bel po’, alla luce tremolante di torce che sembravano sempre sul punto di cedere alla eterna umidità che saturava l’ambiente facendo stillare gocce limacciose da ogni superficie.
Passò in una grande stanza dove vide, incatenati ai muri su uno strato di lurida paglia semimarcita, alcuni abitanti dei villaggi nella vallata, evidentemente gli anziani e i fortunati prescelti tra i maschi adulti che erano stati chiamati a sé dagli Dei. Molti erano i poveri sfortunati che giacevano tremanti attaccati alle catene rosse di ruggine, ma molti di più erano i posti vuoti. Vedendo quei posti vacanti Okaka si ricordò che di lì a pochi giorni i sacerdoti sarebbero dovuti scendere a valle per un’altra infornata di beati e fortunati chiamati all’Ascensione.
Di guardia ai poveri sventurati destinati al macello e sparsi un po’ ovunque qua e là, gli orrendi guardiani, che, lontani dal gregge che amichevolmente proteggevano là in fondo, passavano il tempo a sgranocchiare tranquilli ossa umane.
Lo trascinarono ancora più giù, sempre più a fondo in quella terra maleodorante e viscida, in scale e cunicoli sotterranei grondanti di muffe e bave, e vide, dentro a un’altra stanza, degli altri uomini che si aggiravano in stato catatonico evitando appena le pareti. La loro pelle era ricoperta di chiazza grigiastre e, a volte, i loro occhi sembravano sporgere dalle orbite. Erano i più grandi tra gli abitanti della grande pianura, alti più di lui anche di un palmo, ed evidentemente erano i novizi del culto degli Dei Bousi.
Poi arrivarono in fondo alle scale, in un corridoio il cui pavimento era ricoperto di un’orrida guazza che puzzava di morte e paludi, e, liberatisi di quei sai neri, i suoi carcerieri lo trascinarono fino a una porta. Quando questa si aprì lo portarono all’interno.
Era una immensa caverna rischiarata non da torce ma da pietre debolmente fluorescenti che stavano incassate un po’ ovunque nelle pareti e nel soffitto. Il buio era quasi totale e il poco che si vedeva sembrava di colore verde marcio. Lì c’erano i Bousi, senza alcun dubbio, e, in fondo alla stanza là dove rombava la cascata del fiume che, fuoriuscito in un tranquillo laghetto ai piedi del monte, irrigava la pianura con le sue pigre e ampie anse, un qualcosa di enorme che sembrava ronzare e vibrare muovendo quell’atmosfera marcia e puzzolente tutto intorno a sé. Quel qualcosa, che i suoi occhi tentarono di non vedere, era un’enorme lumaca priva di guscio, più grande di dieci olifanti messi insieme, intenta a divorare con la sua oscena bocca il corpo ancora caldo di una donna ritenuta evidentemente troppo vecchia per essere utile a quei demoniaci allevatori.
- Eccolo! – disse il capo dei suoi aguzzini, quello che gli aveva assaggiato il torace e lo gettò in mezzo a quelli che dovevano essere i suoi capi. In alcuni di loro traspariva ancora, semisommersa nella forma della lumaca che erano diventati, un’ombra degli uomini che erano stati, ma in quelli più vecchi, o forse antichi, dell’uomo che erano stati non rimaneva nulla.
Uno dei più mostruosi, una lumaca grande almeno come un toro, lo guardò con i suoi occhi bulbosi e disse: - Okaka del Mare dei Mostri. Benvenuto! –
Lui si alzò malgrado la cinghia che gli stringeva i polsi feriti, sollevò la catena e si deterse per quanto possibile il corpo da quella bava fetida che ammorbava e ricopriva tutto là sotto, guardò quella cosa che secoli prima doveva essere stata una faccia e disse: - Potete mangiarmi, se volete, ma non avrete le mie grida, bestie schifose! –
Da quell’orifizio stillante bava uscì uno strano suono sincopato che solo dopo un po’ il gigante nubiano capì essere una risata, poi quella voce gorgogliante riprese a parlare e gli disse: - Da te, gigante del colore dell’ebano, non vogliamo nutrimento.
Da millenni ormai selezioniamo con cura quegli animali che hai visto brucare il terreno giù alle falde del nostro monte, e abbiamo ottenuto delle ottime bestie da carne, grasse, robuste, fertili e docili; ma, proprio perché buoni per il macello, pochi di loro sono adatti a ricevere il nostro seme. Non sopravvivono al cambiamento o, se lo fanno, ne escono fuori dei deboli esseri che non sono degni di esistere accanto alla Grande Madre che vedi là in fondo.
Quelli che ti hanno catturato sono i pochi che riescano a servirla dignitosamente e io e i miei fratelli che vedi qui intorno a te esistiamo ormai da almeno un paio di millenni. –
- Aspetto con impazienza la vostra estinzione, mostri immondi. – disse Okaka ridendo in faccia alla morte.
- Tu, gigante nubiano, tu che hai battuto la morte e i demoni, tu che hai combattuto per tutte le terre di questo mondo contro nemici di ogni genere, tu sarai un ottimo ospite per il nostro seme e da te, tra qualche secolo, nascerà finalmente un compagno adatto per la Grande Madre. –
- Mai! – urlò lui.
- Nessuno ha chiesto il tuo permesso, bestia, quello che noi Bousi vogliamo, noi Bousi lo facciamo. – e i suoi carcerieri lo presero per le braccia e, malgrado i suoi tentativi di liberarsi, lo trascinarono davanti a quell’immonda mostruosità che riempiva il fondo della caverna.
Lui sputò addosso a quella parete di carne marcescente che pulsava di fronte a lui e uno dei carcerieri reagì dandogli una bastonata nel retro delle ginocchia. Crollò a terra e due di loro gli afferrarono la faccia aprendogli a forza la bocca. Intanto il loro capo si avvicinò alla Grande Madre e, con un pugnale d’argento, staccò un lembo di pelle dal suo fianco. Quando lo fece accaddero due cose, quel frammento di pelle si trasformò immediatamente in una minuscola lumaca identica alla Madre e tutti loro sussultarono per il dolore. Quindi tutti loro erano un unico essere, e presto anche lui sarebbe stato parte di loro. Il capo gli si avvicinò con quella piccola lumaca schifosa che gli si agitava stillando bava tra le dita e gli disse: - Ora questa piccola meraviglia entrerà in te attraverso la bocca e si discioglierà nel tuo corpo, dove, granello dopo granello, comincerà a crescere prendendo il totale controllo di quello che, ancora per poco sei tu, e poi, tra pochi secoli, sarai il nostro Re! – e si avvicinò alla sua bocca che gli altri tenevano spalancata.
E fu allora, proprio in quel momento che sembrava l’ultimo della sua vita, che delle grida arrivarono dall’esterno della stanza. Qualcuno stava uccidendo gli uomini lumaca e i loro guardiani pennuti, qualcuno che sembrava incazzato e potente.
Okaka non si stupì affatto vedendo che quel qualcuno era Leka, così colma del sangue dei nemici che aveva ucciso da sembrare davvero una dea della vendetta.
Non era ancora finita.

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