domenica 23 agosto 2009

Benvenuti in mia casa!

Scusatemi per il titolo privo di originalità, dopotutto io stesso sono privo di originalità, come ogni scrittore di questo mondo, se è vero che sono ormai diecimila anni che continuiamo a riraccontare sempre le stesse quattro o cinque storie, quella della donzella in pericolo, quelle di Giobbe perseguitato da Dio, quella dei poveri innamorati a cui è proibito amarsi, quella del mostro che viene da fuori, quella del mostro che viene da dentro, quella del bambino che diventa uomo...
Malgrado ciò, mi piace scrivere e incredibilmente conosco gente a cui piace leggere quello che io scrivo... Boh! Contenti loro! Dopotutto ha avuto dei lettori anche Liala!
Comunque, cari i miei 2,5 lettori, e mi sembrano già troppi, se vi interessa leggere qualcosa di strambo e orrorifico, sulla scia di Lovecraft, Poe, King e altri, ecco a voi i faticosi parti della mia mente malata. Il primo che vi offro si intitola:

L’ULTIMO BICCHIERE

Il giovanotto vestito elegante e la bella ragazza con l’abito rosso salutarono il barista e uscirono dal bar dirigendosi al distributore di preservativi più vicino, o almeno così pensò Enzo lasciando il bancone e andando a ribaltare sui tavoli le sedie per pulire il pavimento dalle palline di carta e le noccioline salate cadute ai clienti nelle dodici ore di apertura del locale.
Prese la scopa e cominciò dal lato destro della lunga sala, vicino alla porta della stanza dei vini pregiati, raccogliendo il solito mucchietto di spazzatura che, una volta arrivato al bancone, sarebbe stato un piccolo monte alto due o tre centimetri.
- Immagino che sia l’ora di chiusura? – chiese l’ultimo avventore che stava giocherellando col suo bicchiere facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio contro il vetro.
- E sì, tra dieci minuti dovrò chiederle di andarsene. – disse Enzo. – Brut-ta serata? –
- Un po’. – rispose l’uomo buttando giù l’ultimo sorso di cocktail di vodka alla pesca insieme ai rimasugli del ghiaccio – Direi proprio che la si può definire così. –
- Vuole parlare un po’ con me? Sono ancora in orario di lavoro e a pulire la stanza senza parlare con qualcuno mi rompo un po’. –
- È una storia lunga. – guardò di nuovo il bicchiere con gli occhi lucidi di chi forse ne ha già bevuti troppi e chiese: - Potrei averne un altro? –
- Non è che poi deve guidare? –
- No, abito a due passi e riesco ancora a reggermi in piedi. –
Enzo appoggiò al muro la scopa e andò dietro al bancone, versò altra vodka e succo di frutta nel bicchiere e cominciò a tagliare la fetta di limone, quando il cliente disse: - Un po’ più di vodka, grazie. –
- Allora è proprio una serata di quelle brutte! – disse Enzo versandone ancora nel bicchiere e completando il tutto con due cubetti di ghiaccio.
- Grazie, amico. – disse il cliente che gli sembrava un hobbit, cicciotello e con un cespo di capelli ricci in testa. – Allora lo vuoi sapere perché sto tentando di ubriacarmi? –
- Dica pure, sono qui per questo. –
- È cominciato tutto due mesi fa, in un bar di Milano, e io e il mio amico eravamo seduti ad un tavolino come quelli lì dietro.
Lui era un famoso artista astratto, sa di quelli che fanno le installazioni che vanno tanto di moda. – rise tra sé e sé – Quelle specie di spettacoli ripresi da un video, dove gente stupida fa cose stupide. –
- Come quella tizia che mette un sacco di modelle nude ferme in una stanza? – chiese Enzo – O quello che aveva messo dei cavalli in un salone con paglia e biada? –
- Sì, proprio quelli. – e bevve un bel sorso dal bicchiere e rabbrividì diventando contemporaneamente rosso – E il mio amico Lucio era uno dei migliori, vendeva le sue opere per un sacco di soldi e andava continuamente in Germania e in America, dove sono pazzi per quelle stronzate. –
- Mica male come vita. –
- No. Per niente, ma lui non era contento. “Io divento ricco fotografando una donna nuda che piscia su un divano, e mi chiamano artista. L’ho portata a pisciare in mezzo al Guggenheim, al Moma, a Bilbao, e dappertutto mi hanno acclamato, ma era solo una donna nuda che pisciava, come anche il cuore di bue in formalina era solo un cuore di bue in un vaso.”
“Meglio per te, no?” gli ho detto io, “sempre meglio di me che vendo vecchi quadri a coppie di giovani rampanti in cerca di affermazione sociale.”
“Non penso che tu abbia ragione.” mi ha risposto “Almeno tu hai a che fare con arte vera. Tra cent’anni un quadro venduto da te sarà sempre un quadro, mentre quello che faccio io sarà visto per quello che è: Merda.”
“E allora cosa vorresti fare?” gli ho chiesto, “Andare in fabbrica?”
“Vorrei fare quello che ho studiato, arte, come quella di Michelangelo o Raffaello, anche se nessuno degli espertoni di oggi vuole della vecchia e sana arte del tipo buono.”
“E vorresti scolpire o dipingere?” gli ho chiesto senza sapere che vaso di merda stavo per scoperchiare.
“Scolpire, come faceva Michelangelo, senza uno schema, ma seguendo la forma del blocco di pietra e l’ispirazione del momento. Quella sì che sarebbe arte, e io sarei un artista.”
“Il treno per Carrara parte tra un’ora,” ho detto ridendo “ oppure ho una cosa da proporti.”
“E cosa?” mi ha chiesto finendo il suo bicchiere di bianco, e io gli ho risposto: “Sai scolpire il legno?”
“Sì!”
“Anche se è molto duro, perché si tratta di legno di vite stagionato per anni.”
“Sì. E da dove viene?” e dai suoi occhi vedevo che l’idea di tirare fuori un’opera da quel vecchio legno lo aveva già conquistato.
“Uno scultore di un secolo fa aveva appena cominciato a sbozzare un grosso tronco di una vite millenaria cresciuta vicino a casa sua e uccisa da un fulmine, ma poi si è sparato una fucilata in bocca. Ora quel grosso pezzo di legno, sarà alto due metri e mezzo e peserà una tonnellata, è nel mio magazzino a coprirsi di polvere.” e senza volerlo avevo davvero scoperchiato il vaso di merda e avevamo cominciato a sguazzarci.
“Legno di vite?” ha detto sorridendo Lucio “Lo sai che è proprio il legno con cui gli antichi Greci hanno scolpito le prime immagini dei loro dei? E che l’albero colpito dal fulmine è sempre stato considerato sacro?”
“E sì, hai proprio ragione, e poi c’è la storia del suicidio dell’artista, il legno è ancora macchiato di scuro in un punto, e il nipote dell’artista mi ha assicurato che si tratta del suo sangue.” e ora so che lo era.
“Quanto vuoi per quel tronco?” mi ha chiesto con lo sguardo di un bambino che chiede il gelato alla mamma.
“Per me lo puoi prendere in regalo, io non so cosa farmene.” gli ho risposto, al che lui ha detto: “No, voglio che sia mio. Se non vuoi altro te lo pago un euro.”
“Va bene.” gli ho detto, e ho preso la monetina bicolore dalle sua mani. Poi ho aggiunto: “Se passi domani col tuo furgone, ti do il tuo pezzo di legno.” E così quella sera a Milano io e Lucio ci siamo tuffati da soli in un bel mare di merda che sì è rivelato molto più profondo di quanto potessimo pensare. –
Enzo, che era passato dalla parte del bancone dove stavano i clienti e si era seduto accanto all’hobbit in vena di confidenze, disse: - Se dice così mi incuriosisce davvero, comincia a sembrare un racconto del terrore. –
L’uomo sorrise sollevando a fatica gli angoli della bocca, poi disse: - E così le sembra un racconto del terrore? Buffo.
Ma penso che ora debba chiudere e toglierò il disturbo. – e fece per raccogliere la sua giacca e alzarsi.
- Non ci provi neanche! – disse Enzo – Oramai ha cominciato a raccontare e voglio sapere cosa è successo al suo amico. – poggiò sul bancone lo straccio con cui fino a pochi minuti prima stava spolverando i tavoli e versò dell’altra vodka pura nel bicchiere del cliente, e poi anche in un bicchiere che aveva preso per sé.
- E allora, dove ero arrivato? Ah ecco, le avevo raccontato di come avevo venduto quel vecchio pezzo di legno a Lucio per un euro.
Il giorno dopo alle quattro del pomeriggio Lucio si è presentato alla mia galleria e io lo ho portato nel magazzino, dove sotto a una vecchia coperta militare stava il tronco secolare di vite. Ho tolto la coperta inondando tutta la stanza di polvere e per la prima volta dopo anni ho visto quel legno, con la corteccia scura, il legno chiaro dove lo scultore del secolo scorso aveva cominciato a lavorarlo e una lunga striscia nera dove il fulmine l’aveva colpito.
“È solo un vecchio pezzo di legno, sarà tutto tarlato e non potrai cavarne un ragno dal buco. Per me è meglio se continui con performance e action painting.” Gli ho detto guardando il tronco che ci sovrastava di almeno settanta centimetri con i suoi spuntoni di rami ancora piegati come i contadini li avevano fatti crescere.
“Io invece penso che sia meraviglioso, mi sento come Michelangelo quando vide per la prima volta il blocco di marmo venato e sbozzato da cui estrasse il David. Comincerò a lavorarci stasera stessa.” Ha detto senza riuscire a staccare gli occhi dalla ruvida corteccia della vite, percorrendola con la punta delle dita come la schiena di una donna.
Abbiamo ricoperto il legno con la coperta e due miei inservienti lo hanno portato fuori rischiando di rompersi la schiena e bestemmiando in albanese al nostro indirizzo, mentre Lucio li seguiva guardando il tronco con lo sguardo affettuoso e preoccupato di una madre che vede il suo bambino tuffarsi per la prima volta in acqua. –
- E cosa ci voleva scolpire? – chiese il barista – Aveva già un’idea quel giorno? –
- No. Mi ha detto che non sapeva cosa c’era nascosto in quel vecchio tronco, ma che sarebbero state le venature stesse del legno a dirglielo durante il suo lavoro di ripulitura. –
- Beveva? – chiese il barista – Perché non è un discorso proprio normale.-
- No? Era la filosofia di Michelangelo, solo che lui usava il marmo, Lucio ci ha provato col legno. Mi creda se le dico che non beveva e che non era pazzo, magari lo fosse stato.
Per due settimane non l’ho più visto, poi gli ho telefonato e mi ha farfugliato poche parole così incomprensibili e confuse che il giorno stesso sono andato a trovarlo.
Mi ha aperto la porta e ho fatto fatica a riconoscerlo. Aveva i capelli un po’ più lunghi, tutti sparati per aria come se non li avesse lavati da un bel po’, la barba incolta gli era cresciuta sulla faccia in un modo irregolare e sgradevole, mentre la maglietta e i pantaloni che indossava sembravano avere bisogno di una bella lavata.
“Ciao!” mi ha detto abbracciandomi e ho sentito che puzzava di sudore vecchio, come un barbone “Devi vedere il tuo tronco, ci lavoro da quando l’ho portato qui, è meraviglioso!”
“Ma stai bene, Lucio?” gli ho chiesto guardandolo negli occhi che avevano delle occhiaie profonde e scure “Mangi ogni tanto?”
“Cosa?” mi ha chiesto come se non avesse capito la domanda, poi ha detto: “Sì, ieri ho mangiato qualcosa, mi pare.” E se ne è andato per il corridoio scomparendo in una stanza piena di luce. “Vieni?” mi ha urlato da lì e io l’ho seguito notando i riccioli di polvere e i trucioli di legno che coprivano il pavimento, fino a che sono entrato in questa grande stanza illuminata da una finestra-parete, uno stanzone enorme dominato dal mio tronco che Lucio aveva lavorato con vari strumenti da falegname e da scultore, sbozzandolo in vari punti e scolpendo totalmente un angolo in cui appariva quello che mi sembrava evidentemente un gomito umano ricoperto da spuntoni appuntiti.
L’intero tronco mi ha trasmesso un senso di fastidio come quello che provo per il sapore metallico del sangue quando mi sanguina una gengiva, ma i miei occhi continuavano a ricadere su quel gomito già perfettamente sagomato e rifinito, dove Lucio sembrava avere addirittura scolpito con la massima precisione le vene e i tendini, e se i miei occhi non mi hanno ingannato, persino i peli.
“Mio Dio!” ho detto guardando prima l’enorme pezzo di legno annerito e poi il mio amico “Impressionante!”
“Bello!” ha detto lui avvicinandosi al legno e accarezzandolo in un punto dove aveva dato solo pochi colpi di scalpello “Allora, che ne dici?”
“Be’, senza dubbio mi ha colpito.” ho tentato di dire qualcosa che potesse fargli piacere “È quello che dovrebbe fare l’arte, no?”
“Ecco! Tu hai capito quello che provo!” ha detto prendendomi per le spalle e facendomi voltare verso quell’enorme tronco sbozzato e indicandolo con una mano piena di tagli non curati e mezzi infetti “Quella è la prima cosa vera che faccio! Tutto quello che ho fatto fino a oggi era solo merda, roba per ricchi debosciati che vogliono distinguersi dalla massa.
Questa è arte, questa è una cosa viva” e la sua voce tremava alzandosi di almeno un’ottava “Questa è una cosa che guardandola ti fa sentire il sangue che ti scorre nelle vene, la vedi e ti parla all’anima, come una madonna con bambino o il Laocoonte, la puoi guardare per ore e ogni istante ti dice qualcosa di nuovo.” –
- E cosa raffigurava questa scultura? – chiese il barista.
- Niente! – rispose l’uomo – Era solo un abbozzo, neanche Lucio lo sapeva ancora, vi lavorava senza uno schema preciso, togliendo un truciolo qui e uno lì, come il legno gli diceva di fare, stupendosi a ogni colpo di scalpello di come cambiava la materia sotto le sue mani.
Quello che le posso dire che quel tronco, che già da anni mi inquietava ogni volta che entravo nel magazzino e lo vedevo sotto alla sua coperta impolverata, mi era diventato allora quasi insopportabile, suggerendomi un terrore fin nel midollo, come quando ero piccolo e dovevo attraversare il corridoio buio prima di arrivare nella mia cameretta. –
- E poi ha continuato a lavorarci il suo amico? –
- Sì. Ogni due o tre giorni lo andavo a trovare e lo ritrovavo in condizioni sempre peggiori, puzzolente come una capra e con gli occhi allucinati da drogato, mentre la massa di trucioli si alzava di volta in volta e il tronco che se ne innalzava mutava davanti ai miei occhi tramutandosi di lì a una settimana in due gambe muscolose e lunghe, le cui ginocchia avevano qualcosa di impercettibilmente sbagliato, come se non fossero state le gambe di un uomo, ma solo di qualcosa che lo imitava maldestramente. –
- Cazzo! – disse Enzo versando un altro dito di vodka nel bicchiere dell’hobbit che aveva ormai il naso e le gote arrossate, e che non sembrava più in grado di smettere di raccontare la sua storia.
- Non avevo più voglia di andare a trovarlo, dopo averlo visto così ridotto, dopo aver visto quell’enorme scultura di legno che cambiava ogni volta che la vedevo, ma lo stesso ogni giorno andavo da lui e lo osservavo al lavoro, mentre scalpellava quel legno antico liberando quello che da dentro invocava il suo aiuto per liberarsi, mentre si feriva le dita e continuava imperterrito, macchiando il legno chiaro e annerito lasciandovi tracce che da rosse diventavano di giorno in giorno brune e vecchie come il legno su cui si trovavano. –
- Le faceva paura e continuava lo stesso ad andare a vederlo? –
- Mi chiede se mi faceva paura? No. Mi terrorizzava, ogni volta che guardavo la larva che era diventato Lucio e la folle massa di forme umane, animali e altro che stava tirando fuori da quel vecchio tronco, pensavo che il mio cuore si sarebbe fermato, anzi, le dirò, avevo quasi l’impulso di strapparmi via gli occhi pur di non vedere quello che avevo lì davanti a me, ma ogni sera dopo il lavoro tornavo lì e vi rimanevo sempre più tempo. –
- E poi? – chiese Enzo.
- Come fa a sapere che c’è un poi? –
- C’è sempre un poi, tutte le storie raccontate a questo bancone hanno un poi ad un certo punto. –
L’uomo sorrise e disse: - E infatti c’è anche qui.
Poi, una sera della settimana scorsa, mentre ammiravo Lucio che scolpiva una mano della sua creatura, una mano che aveva dieci dita, alcune palmate, altre con ventose al posto dei polpastrelli, altre con lunghi artigli e altre che semplicemente avevano qualcosa di impercettibilmente sbagliato, mi creda, le peggiori da vedere, mi è sembrato di cogliere qualcosa con la coda dell’occhio, un particolare che non è arrivato al livello della mia coscienza ma si è fermato appena prima, e sono fuggito.
A casa, cambiandomi, perché per il terrore mi ero pisciato addosso, ho capito che non sarei mai tornato in quella casa.
E fino a stasera effettivamente non vi avevo più messo piede. –
- E cosa aveva visto? – chiese Enzo versando dell’altra vodka, poca perché l’hobbit era già a buon punto di cottura e troppo alcool l’avrebbe steso del tutto, impedendogli di finire il racconto.
- Anche questo particolare è un poi. Arriverà tra un po’.
Ieri sera, poco prima delle sette di sera, Lucio mi ha telefonato e ha cominciato a parlare come una macchinetta, mangiandosi le parole e urlando nel telefono. Voleva che andassi da lui per vedere il momento più importante della sua vita. –
- E cioè? –
- Stava per terminare la scultura, mancavano solo tre colpi di scalpello e una bella limatura e “…la creatura sarà libera! Devi venire qui, devi assolutamente esserci, perché è la mia opera più importante, mi sembra quasi che mi stia guardando, che mi parli con una voce più antica dell’arte stessa!”
E io non ci sono andato, ho inventato scuse e ho ignorato le sue preghiere e i suoi insulti, alla fine gli ho sbattuto in faccia il telefono, perché sapevo che se fossi stato lì sarei potuto morire. –
- Cazzo! – disse Enzo – Ma poi c’è andato. –
- Sì. Stamattina non sono andato al lavoro e mi sono invece diretto a casa di Lucio, senza aver dormito un solo secondo e sapendo dentro di me che avrei visto un qualcosa che mi avrebbe cambiato per sempre.
Ho bussato e ho suonato il campanello, ma non mi ha risposto, così ho usato le chiavi che mi aveva dato anni fa, quando andavo spesso da lui per prendere piccole opere che vendevo nella mia galleria.
L’odore di rame impregnava l’aria a un tal punto che ho temuto di vomitare lì nell’ingresso, ma mi sono fatto coraggio e sono entrato, andando verso il salone dove sapevo che li avrei trovati.
Il tronco non c’era più. Al suo posto c’era un qualcosa che ho stampato qui nella mia mente, ma che non proverò neanche a descrivere, perché non ci sono parole umane che lo possano fare.
Era alto, enorme, con lunghi arti rapaci e al posto della faccia aveva tutto il dolore e la rabbia del mondo. Ho visto parti maschili e parti femminili, ma unite in un modo malvagio, ali e artigli, denti e ventose, tutto di legno ma tutto vivo.
E, sparso per tutto il salone, Lucio, smembrato in pezzi minuscoli, lanciato sui muri e negli angoli del salone, spalmato sul vetro della grande finestra, lacerato da unghie e zanne, masticato da fauci maligne e bruciato da fiamme sulfuree. Intorno alla statua c’erano ancora i trucioli da cui era emersa, tra essi vedevo le impronte orrende dei suoi passi. Là dove Lucio aveva finito di vivere, ma ne sono sicuro non di soffrire, stavano ancora il martello, lo scalpello e la lima.
Facendomi coraggio ho alzato gli occhi su di esso, e ho visto le sue mani e le sue bocche grondare del sangue ormai annerito del mio amico.
E ho visto finalmente quello che allora avevo solo intuito: pur essendo fatto di legno, vedevo le vene che tanto abilmente Lucio aveva scolpito seguendo le venature di quel legno millenario, pulsare sotto i miei occhi mentre un sangue nero vi scorreva dentro.
Sono fuggito da lì senza voltarmi indietro, perché se lo avessi fatto il mio destino sarebbe stato ben peggiore di quello della moglie di Lot che divenne di sale, ma prima di uscire ho appiccato il fuoco ai mobili del salotto e sono andato in cucina e ho aperto tutti i rubinetti del gas.
Spero che un legno tanto antico e compatto sappia ancora bruciare. Spero che le fiamme possano distruggere quello che Lucio ha creato. –
FINE

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