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martedì 18 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXV.

1

Franco.

Il giovanotto che sembrava appena uscito dall’accademia di West Point gli si avvicinò senza dire nulla e si sedette accanto a lui aspettando che terminasse la telefonata. Dato che lui e Carla stavano parlando in italiano non dovette neanche fare finta di non ascoltare. Come tutti gli Americani era stato cresciuto nella convinzione che le lingue straniere fossero qualcosa di assimilabile a una malattia infettiva di quelle forse non pericolose ma comunque molto fastidiose.
- Bella cosa da dire a un uomo che ti chiama per sapere se pensavi a lui, proprio bello. “Io amavo Mulder.” E di me che dici? – le chiese sorridendo, al solo sentire la sua voce si ricordava della bella serata, e della ancora migliore nottata che avevano passato insieme e il sorriso gli veniva spontaneo.
- Ti accontenti se ti dico che ti ho pensato tanto? – disse la donna che si trovava a Genova, a centinaia di chilometri da lui, vicino a quella strana collina che gli aveva fatto tanta impressione vedendola nella luce incerta della luna calante. Ecco, ora il sorriso gli era sparito, cazzo, quella collina gli aveva davvero fatto montare l’inquietudine.
- E quando? – le disse continuando quella lotta di fioretto di battutine tra quasi innamorati.
- Mah! Stamattina alzandomi, quando parlavo con una mia amica. Ti ho pensato un sacco di volte. – che voce che aveva, quasi da lolita sexy, ora sorrideva di nuovo. – Così va meglio. E come mi immaginavi? – le chiese sperando in una di quelle risposte solleticanti sotto alla cintura, una di quelle risposte che ti fanno sentire fiero di come ti sei comportato con una donna.
- Come sono io adesso. – fu la risposta di lei, detta con voce ancora più maliziosa.
- Non capisco. – disse lui mentre il ragazzo con i capelli tagliati a barattolo come nei film sui marines gli indicava la scritta nel tabellone luminoso. Il loro aereo per Mosca, da dove sarebbero poi partiti per la città dello spazio, era in partenza. – Devo andare, mi parte il volo. –
- Va be’! Salutami gli alieni. – disse lei con la voce che sorrideva.
Franco pensò a quelli che sarebbero state le sue prossime cinque settimane, guardò il ragazzo immaginandosi quello che avrebbe vissuto, poveretto lui, di lì a tre giorni, e immaginarlo era fin troppo facile, avendolo sperimentato lui stesso solo quattro anni prima, e poi pensò a quella collina vista al buio dalla finestra di un appartamento in cui si erano infilati senza permesso dopo aver fatto l’amore e le disse: - Con quella collina che c’hai vicino, forse puoi salutarli da sola. –
E poi, rendendosi conto di averle detto una cosa che non avrebbe assolutamente dovuto dirle, mannaggia a lui e alla sua boccaccia, cambiò discorso per distrarla: - Ma che voleva dire che mi immaginavi come sei adesso? –
- Nuda. – gli rispose lei con una vocina sexy che avrebbe dato fastidio persino alla doppiatrice di Meredith Grey in Grey’s Anatomy e lui ridendo chiuse la telefonata e rimise il cellulare in tasca.
- Andiamo? – gli chiese il ragazzo che probabilmente sotto agli abiti civili doveva portare una divisa da marine come Superman porta la calzamaglia.
- Certo.- gli rispose passando senza neanche rendersene conto all’inglese, ma dopo tanti anni in aeronautica e all’ESA parlare in inglese gli veniva più che naturale. Sbrigarono tutte le pratiche d’imbarco, salirono a bordo, si accomodarono sui loro sedili business class e, dopo il decollo che ormai non faceva loro né caldo né freddo, guardarono quasi con noia la terra che si allontanava velocemente sotto di loro. Di lì a tre giorni l’avrebbero vista da molto più in su.
- Quante volte è andato su? – gli chiese il ragazzo, che sembrava facesse una gran fatica a non aggiungere la parola “signore” in fondo a ogni frase.
Franco pensò per un attimo alla risposta che avrebbe dovuto dargli. Il ragazzo ancora non sapeva, anche se già era stato sottoposto al giuramento segreto di riservatezza, quello che quando te ne parlavano prima di arrivare su pensavi che fossero tutti pazzi dal primo all’ultimo. E sì, per lui la risposta era ancora quella standard, quella da dare anche a parenti, amici e giornalisti. – Tre volte, Brian. –
- E come è? L’addestramento che si fa a Houston prepara davvero a quello che si troverà lassù? –
Franco ripensò a quel giorno di quattro anni prima in cui si era ritrovato per la prima volta in assenza di gravità, con le budella che tentano di uscirti dalla bocca non sapendo più bene quale sia il loro posto, mentre la faccia gli si gonfiava di sangue spinto dal suo cuore scombussolato, mentre Dimitri e Jones, bisognava usare il cognome di lui, odiava il suo nome che era Wentwort, gli spiegavano che c’era una piccola sorpresina per lui lassù, degli strani amichetti dalla pelle grigia e dalle mani fornite di quattro sottili dita flessuose. E lisci come una bambola sotto la cintura, che era poi la cosa che colpiva di più tutti loro.
- Quante volte hai volato sulla vomito Airlines? – gli chiese riferendosi all’aereo su cui tutti gli astronauti effettuavano l’addestramento all’assenza di gravità, quel simpatico aereo puzzolente di succhi gastrici di generazioni di astronauti che amava andare su e giù in cielo facendoti galleggiare per una trentina di secondi.
- Ventidue voli, signore. – ed ecco che questa volta gli era sfuggita, la parolina magica.
- Franco, non signore, prego. Diciamo che allora sai quanta nausea si può avere, ma non quanta ne avrai. Ci vorrà qualche giorno prima che tu ti ci abitui. –
- Bene, Franco. – disse correggendosi mentre parlava.
Stava diventando bravo a mentire alla gente, erano quattro anni che lo faceva, quasi non ci faceva manco più caso. – Vuoi sapere altro, Brian? –
Il ragazzo lo guardò con un’espressione che lo faceva sembrare ancora più giovane, ma è anche vero che spesso gli Americani sembrano bambini anche a sessantenni, - Anche lei ha fatto quel giuramento? –
- Quale? – domanda inutile, sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma voleva che fosse lui a chiedere.
- Quello sulle cose che si verranno a sapere lassù, su quello che si potrebbe vedere. Il giuramento in cui si dice che non se ne parlerà mai se non con altri astronauti o con i propri superiori autorizzati. –
- Non lo ricordi bene, mi sembra. – gli disse ricordandosi quando era stato lui a farsi, e a fare, quelle domande.
- Come? – ebbe paura che gli occhi del ragazzo cadessero in terra, probabilmente il suo cuore batteva a duecentoquaranta al minuto.
- Non dice che ne potrai parlare agli astronauti, mi pare. –
- Agli astronauti che abbiano già passato un po’ di tempo in orbita. –
- Ecco. –
- E allora? Non mi dice niente? –
Lo guardò con severità, povero ragazzo, la curiosità lo divorava. Presto l’avrebbe saziata, anche troppo. Ma per ora: - Te devi ancora andarci in orbita, Brian. Riparliamone quando vedrai anche tu. – e anche il ragazzo capì che l’argomento, per ora, era chiuso. Quando avessero di nuovo affrontato l’argomento, sarebbe stato senza dubbio di visione molto più ampia.
E anche lui non vedeva l’ora di vedere gli “amici” di lassù, e la loro base, perché voleva proprio scoprire se per caso i cari “amici” si fossero dimenticati di accennare a una loro presenza in un lontano passato in quel di Genova. Perché lui l’aveva già vista una piramide di quel genere, ci era anche stato dentro, ed era sul lato nascosto della Luna.

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