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mercoledì 5 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXIII.

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Anita Gomez.

C’è un’ora, dopo l’una di notte all’incirca, dopo la quale in giro per strada non c’è più nessuno tranne i metronotte e i disperati, nelle vie dove non lavorano le prostitute di ogni genere e preferenza sessuale, naturalmente.
Ed era a quell’ora che Anita Gomez amava uscire per passeggiare nel suo quartiere. Di giorno le strade erano piene di persone e invece che stare attenti a dove si andava, si doveva starlo a non picchiare in qualcuno. E poi non sentivi i rumori del luogo, ma le parole delle telefonate inutili, dei litigi fastidiosi, degli scherzi puerili. E soprattutto le voci. Anita Gomez odiava le voci. Si ricordava di aver vissuto un solo momento di vera felicità, nella sua vita, di quella che ti riempie il cuore e ti fa pensare, nella parte più interna e segreta di te, che dopo quel momento potrai solo rimpiangere che il tempo sia andato avanti.
Era in mezzo alla campagna con il suo ragazzo, si doveva essere più o meno nel 1977, se ricordava bene. Si erano baciati, avevano mangiato, avevano parlato di loro e di quello che (non) sarebbe stato il loro futuro, poi erano andati un po’ oltre ai baci, o, per così dire, i loro baci si erano spostati sotto alla cintola e poi, dopo quei momenti che ora, donna matura e sola da molti anni non rimpiangeva neanche più, si erano messi sul loro plaid a quadri rossi e neri e se ne erano stati lì mentre il sole lentamente scendeva verso il suo tramonto, abbracciati senza parlare per qualcosa come un paio d’ore.
La voglia di toccarsi, la frenesia animale del volersi accoppiare, si erano placate ed era rimasto loro solo il piacere del contatto fisico, la soddisfazione del sentire accanto a sé il corpo di qualcuno che non era un estraneo. E piano piano, mentre la loro presenza diventava sempre meno appariscente nella splendida natura che li circondava, gli animali erano usciti dai loro nascondigli e, un minuto dopo l’altro, avevano ricominciato a vivere le loro tranquille vite davanti a loro.
Questo Anita Gomez ricercava in quei lunghi giri notturni, non il sollievo alla sua insonnia serale, ma un contatto con un mondo dove gli uomini, quelle bestie sbagliate e fastidiose, erano ormai dimenticati.
Passò davanti alla scuola e guardò verso la finestra del suo ufficio, sul vetro che le era tanto familiare si rifletteva la luna calante che si stava allora alzando in cielo. Sorrise e poi, a tradimento, la assalì il ricordo di quella mattinata. Quell’idiota della Damiani, sgualdrina che non era altro, l’aveva costretta a punire Alessandro. Il solo ripensare a quel bambino calmò la sua rabbia. Da quando quel piccolo meraviglioso essere umano era arrivato a scuola due anni prima Anita aveva ricominciato a provare affetto per qualcuno. Anche solo vederlo camminare in cortile, con quella camminata così adulta per un bambino, le mani incrociate dietro alla schiena e lo sguardo sempre intento a fissare qualcosa, fosse un piccione che faceva la corte alla sua femmina o una gemma che stava sbocciando sul ramo rinsecchito di una siepe in primavera, le faceva accelerare il battito cardiaco e mancare il respiro.
L’ultima volta che aveva provato una cosa simile era stato per Mario. Ecco, a volte quel piccolo uomo le sembrava la reincarnazione di Mario, non che credesse a tali panzane, naturalmente, ma non poteva fare a meno di percepirlo come un piccolo Mario che lei, e solo lei, poteva e doveva difendere da un mondo idiota e pericoloso, un mondo come la Damiani, che era capace di andarsene in giro tra dei bambini, di andare in giro davanti a Alessandro, con quello schifo di succhiotto sul collo, come vantandosi della sua schifosa lussuria, sì, lussuria, solo una parola così grande e, avrebbe potuto dire un cretino come le persone di oggi, desueta, poteva descrivere quella donna.
E così, camminando sulla strada dove ora, oltre all’ombra proiettata dai lampioni arancioni, Anita stampava a anche una meravigliosa ombra lunare, si accorse di essere arrivata di nuovo davanti alla casa dei Malerba. Anita li considerava senza dubbio una delle famiglie meno schifose del circondario, ma comunque per lei erano a malapena adatti a prendersi cura di quel meraviglioso bambino. Guardò la finestra della camera di Alessandro, gli sportelli delle persiane sollevati, e pensò con un moto di tenerezza che anche quello splendido bambino doveva avere un po’ di paura del buio.
Senza quasi accorgersene scavalcò il recinto dell’aiuola e, quasi in stato di trance, si sfilò le scarpe. appoggiando i piedi nudi nella terra, sentendo i fili d’erba freddi che le si infilavano tra le dita come tanti anni prima in quel pomeriggio, Anita immaginò che Alessandro fosse sveglio nel suo letto e che stesse guardando la luna che si alzava. Voltò la sua testa a guardare quel cerchio incompleto di luce, e le sembrò che i suoi occhi e quelli del bambino là nella stanza stessero accarezzando insieme i morbidi orli di quegli antichi crateri. Inspirò l’aria fresca e profumata della notte, stringendo le dita dei piedi affondate nell’erba e immaginò di essere in un prato illuminato dalla luna insieme a lui. Sentì i suoi capezzoli indurirsi e pianse, mugolando tutto il suo dolore.

E proprio allora Carla Damiani si svegliò di soprassalto dal suo sonno agitato, dimenticando subito l’incubo che l’aveva fatta rigirare nel letto. Si mise a sedere sul cuscino, le coperte ammucchiate sulle cosce, chiudendo gli occhi e tentando di convincersi di essere lì, in casa sua, e non in un altro posto pieno di pericoli. E allora, proprio quando stava cominciando a calmarsi, sentì un ululato lungo e affranto arrivare a lei attraverso la finestra chiusa.
E lì, seduta al buio con le braccia strette intorno alle sue ginocchia, fu sicura di avere sentito l’ululato di una lupa che stesse richiamando un figlio lontano. Non fece nemmeno in tempo a commuoversi per quel verso lugubre e triste che a quell’ululato, già in qualche modo terrorizzante di suo, rispose un ululato che poteva solo essere quello di un capobranco maschio, un ululato potente e prolungato che le fece venire i brividi.
Nessun ululato giunse più a disturbarla, ma per più di un’ora la povera Carla continuò a rigirarsi nel letto tentando di riaddormentarsi.

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