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lunedì 3 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXI.

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Ora di pranzo.

Carla salì le scale per andare a prendere i pensierini dei suoi alunni, alta letteratura tipo “Il mio companio di banco” o “La mia gita al porto antico”. Sull’ultima rampa incontrò di nuovo Alessandro che scendeva con la sua giacchetta di jeans e la sua cartella con gli adesivi dei Gormiti.
- Ciao Alessandro. – gli disse sorridendo.
- Arrivederci signora maestra. – le rispose lui riuscendo a tirare fuori un sorriso dalla faccia triste e avvilita del buon alunno inaspettatamente sospeso. Lei percorse il corridoio ormai deserto ed entrò nell’aula dove trovò Amalia che puliva la lavagna con uno straccio umido.
- Ciao Amalia. – le disse facendo una faccia buffa.
- Di che livello è stato il ciclone? – le chiese Amalia che due giorni prima aveva parlato con lei del film Twister che entrambe trovavano esilarante.
- F5. Il dito di Dio. –
- Lo hanno espulso? –
- Tre giorni. E io sono sempre più simpatica alla Gomez. –
- Immagino. Li hai visti i Malerba? –
- Chi erano, quei due che starnutivano pepite d’oro? –
- E si dice che caghino diamanti. – disse Amalia.
Risero entrambe mentre Carla raccoglieva i pensierini, li metteva un po’ in ordine e li infilava prima in una cartellina e poi nella borsa. – Quella tr … La Gomez ha tentato di brutalizzarmi davanti a loro, sai? –
- È una sua specialità. Ci siamo passati un po’ tutti. –
- Tranne la Traverso. –
- Cha cara donna! – disse Amalia – Pace all’anima sua, credimi, ma era proprio una spina nel culo. –
- L’impressione che ho avuto a sentirne parlare è proprio quella. –
- E che ti ha detto la Gomez? –
Carla le sorrise, si girò per mostrarle il collo e disse: - Ma si è fatta male al collo, signorina Damiani? –
- Ah! Ah! Che per una beghina come lei, ti avrebbe dato della … -
- Troia. Con tanto di porte Scee spalancate, se mi capisci. –
- Ah! Ah! Ah! Buona questa. E chi è l’Achille di turno, se mi consenti? –
- Franco. Alto, riccio, castano, muscoloso. –
- A - ha! Modello di intimo? –
Carla le sorrise, si avvicinò e le disse sottovoce: - Astronauta. –
- No!?! –
- Sì! –
Amalia fece una faccina da furetto e le chiese: - Ti ha fatto andare in orbita? –
Carla scoppiò a ridere e annuì. – Fino ad arrivare là dove nessuna donna era mai stata prima. –
- Eh! Che esagerazione! Lo rivedrai? –
- Boh! Era simpatico e bello, e gentile che non guasta mai, ma era anche un po’ strano. Gli ho fatto vedere la collina e … non so, si è come rabbuiato. Come se avesse visto qualcosa di strano. –
- Avrà visto la fauna locale. Ma l’hai visto che gente c’è in ‘sto quartiere? –
Carla inclinò la testa da un lato, poi disse: - Dici gente brutta? In effetti alcuni bambini non vorrei trovarmeli di fronte al buio. –
- I bambini? Io parlo degli altri. Adesso quando vai a casa guardati un po’ intorno. Sembra il circo Barnum. – e uscì dall’aula salutandola con un cenno della mano.
Carla scese le scale ripensando alle ultime parole di Amalia, uscì dalla scuola ormai deserta e si diresse verso casa cercando di notare tutti i tipi strani. E dopo un minuto o due le sembrò di essere in un racconto di Lovecraft.
Si trovò di fronte la facciata di un palazzo che dava a sud e, su quasi tutti i poggioli c’erano delle persone sedute a prendere il sole su delle normali sedie da cucina. Che forse a dirlo non sembra strano, ma l’effetto che fece a lei fu quello di un palazzo abitato da lucertole.
Girò l’angolo e si trovò di fronte un ragazzo di forse sedici anni, ma potevano essere anche venticinque, da quanto era brutto. Aveva le proporzioni di un cocker, se mi capite, come se allo sportello dove davano in dotazione le ossa lunghe non avesse avuto proprio voglia di fare la fila. Aveva una faccia da bulldog ottuso che lo faceva sembrare un down, ma non lo era. Ascoltava musica da degli auricolari a volume spaventoso e camminava a tempo di musica ballonzolando sulle sue gambotte corte.
Svoltando dalla strada che scendeva dalla collina e trovandosi sulla via principale ne dotò altri due. Un vecchio che, malgrado il sole caldo e la totale assenza di vento, camminava in giacca e cravatta e soprabito portando due borse. La cosa più gradevole che vide in lui erano i capelli tinti di un castano un po’ troppo scuro per essere non dico credibile, ma non esilarante. Dietro a lui veniva una tizia che aveva già visto altre volte, ma senza farci caso. Avrà avuto settanta anni, grassa, coi capelli biondo/bianchi. Portava un berretto di lana, una felpa enorme che le arrivava ai fianchi e, udite udite, degli scaldamuscoli bianchi che le coprivano le gambe di pieghe.
Li superò cominciando a sentirsi un po’ fuori luogo, aveva dimenticato a casa le antenne e la coda, e allora vide l’uomo in tuta. Camminava facendo una sorta di respiro gorgogliante e, ogni due o tre passi, sputava. Aveva una enorme pancia e sotto a quella tuta sembrava avere tutti gli arti di dimensioni sbagliate. Le venne in mente Men in Black, con quegli alieni travestiti malamente da umani, tipo l’Edgarabito.
E infine, quando già aveva in mano le chiavi del portone, i due colpi di grazia. Dovevano essere padre e figlio, senza dubbio. Sessantacinque e trentacinque anni, bassi, brutti, stempiati. Camicia, l’uno, e polo, l’altro, infilate nei pantaloni, stessi occhiali e pantaloni larghi. Camminavano uno davanti all’altro, almeno a sei metri di distanza, senza dire una parola. I loro sguardi, che si posarono fugacemente su di lei, erano allo stesso tempo assenti e cattivi. Portavano ognuno in mano una borsina semivuota e camminavano a passo veloce.
Carla aprì velocemente la porta, se la richiuse alle spalle come faceva da piccola dopo avere attraversato il corridoio al buio tornando dal bagno, perché aveva sempre l’idea che là, nel buio di un angolo, ci fosse ad attenderla un essere dalle mani ad artiglio, con la pelle gelida e l’alito fetido che voleva solamente mangiarle la faccia.
Salì i sette scalini dell’atrio col cuore che le batteva troppo forte, e, nell’ascensore, riuscì un po’ a calmarsi. Entrò in casa e diede le mandate, anche se era solo mezzogiorno e mezza e poi sarebbe dovuta uscire, perché tutta quella bruttezza, tutte quelle proporzioni sbagliate, le avevano dato un’inquietudine davvero fastidiosa. Andò alla finestra e guardò fuori, ma si rese conto che, se avesse visto un’altra persona di quel genere, avrebbe potuto urlare. Richiuse la finestra e andò a cucinare.
Mentre tagliava a fettine i wurstel le sembrò che il mondo tornasse lentamente a posto. Una lavata di capo di quella troia della Gomez, un bravo bambino come Alessandro che dà un pugno a un altro facendogli male, una sospensione, una famiglia dove tutti si comportano come in un film di Coppola e quei tizi che sembravano usciti da un orribile film che aveva visto una volta, Freaks se non si sbagliava, dopo una pasta e wurstel come la cucinava lei, sembravano meno brutti.

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