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domenica 2 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XX.

1

Carla

Seduta davanti alla porta dell’ufficio della preside, porta che doveva essere stata ancora lucidata, oramai sembrava il primo caso di specchio in mogano nella storia, Carla pensava che quando il cervello, benedetto organo, ti dice che dovresti startene a casa, dovresti startene a casa, cazzo.
E invece no, lei era uscita, quella vocina che le diceva “Stattene a letto, Carlina, stattene a letto sotto alle coperte e goditi questo calduccio, rimani qui a fantasticare sull’uomo che è andato via da questo letto un’ora fa, goditi l’odore del suo sudore che hai addosso, chiudi gli occhi e fai finta che sia ancora qui ad abbracciarti …” l’aveva ignorata. C’era scuola, doveva alzarsi, doveva lavarsi, doveva andare in classe in mezzo a quei bambini maledetti di cui non era ancora riuscita a imparare i nomi, e dubitava che ci sarebbe mai riuscita.
E così si era alzata, si era lavata, si era vestita, era entrata in quel vecchio edificio cinto da un alto muro di cinta come un carcere e si era messa a insegnare italiano e geografia a quei bambini e poi … e poi a ricreazione, era successo il patatrac. Lei se ne stava su con Amalia, a parlare del più o del meno, il tempo e quel film che avevano dato nel week end, quello che aveva già visto come minimo un milione di volte e tutte le volte lo riguardava, con quell’attore biondo … no, proprio per i nomi non era portata, e se guardava i bambini due volte al minuto, era già tanto, anche perché, sì, lo aveva pensato, c’era Alessandro a tenerli buoni, con quel suo fare da Aragorn che arriva a Gondor, e poi aveva sentito delle urla e quando aveva guardato giù non aveva creduto ai suoi occhi.
Una rissa, tra bambini di nove anni, una rissa. Aveva visto Mikael, si scritto così, che si picchiava con Giulio e Walter, e altri che partecipavano a urli e spintoni, ed era corsa giù per le scale rischiando di impapocchiarsi giù per quei vecchi gradini, e quando era sbucata nel cortile, o giardino, boh!, Walter teneva Mikael per le braccia e Giulio gli tirava pugni nella pancia, e anche se lei gli urlava di smettere sembrava che avesse proprio l’intenzione di fargli un bel frullato di budella. Ed era quasi arrivata lì, era a un paio di metri e pensava come fermarlo, perché Giulio era alto per la sua età, una decina di centimetri meno di lei, ma sicuramente molto forte, e forse avrebbe dovuto usare un po’ di violenza … e mentre era distratta da questi dubbi, Alessandro era intervenuto strappando Mikael dalle braccia di Walter e dando poi un terrificante cazzotto a Giulio.
E lì era calato il silenzio, niente più urla, niente più spintoni. Anche lei era rimasta zitta, perché Mikael, per quanto ben bene frollato, sembrava solo reduce da una scaramuccia tra bambini, ma Giulio, coricato a terra con gli occhi sbarrati e un filo di sangue che gli colava giù dalla bocca dal labbro spaccato, ecco, lui sembrava davvero grave. E così lei aveva guardato Alessandro e, inaspettatamente, lo aveva trovato spaventato quanto lei. E poi era cominciato lo spettacolo di arte varia, tra infermieri, ambulanze, bidelle e, zitta dietro al vetro della finestra del suo ufficio, la Gomez che la guardava con disgusto e disapprovazione per nulla celati. E insieme a loro, mista a loro, una goccia di perfida soddisfazione.
Poi aveva accompagnato in infermeria Giulio, e poi all’ospedale, la madre era apprensiva e voleva controllare che non avesse una “colazione cerebrale” come aveva detto per ben tre volte mentre lei tentava di non scoppiarle a ridere in faccia mettendo su una faccia di marmo.
E ora, circa all’orario dell’ultima campanella, era di nuovo lì e stava per entrare dalla Gomez. Quanto avrebbe goduto, quella troia rinsecchita a strapazzarla, quanto se la sarebbe goduta, cazzo. E il brutto, cazzo al cubo, era che quella troia col muccio avrebbe anche avuto ragione, mannaggia alla miseria, perché in effetti lei non era con i bambini quando era cominciata la rissa, e si erano fatti male in tre perché lei c’aveva messo due minuti a scendere le scale.
E poi … peggio di tutto, Alessandro Malerba aveva dato un pugno a Giulio e gli aveva rotto un dente. E anche se lei, come un capitano di nave di un romanzo di Conrad, era l’unica responsabile di quello che accadeva ai bambini a lei affidati, il pugno lui lo aveva comunque dato, e sarebbe stato punito. E con quella specie di cotta che la Gomez aveva per il bambino, mamma mia, da avere paura a lasciarcelo insieme, la punizione sarebbe poi ricaduta su di lei ingigantita settanta volte sette.
E così se ne stava seduta a guardare quella porta, mangiandosi l’unghia dell’indice destro, aspettando che la porta si aprisse con la calma dei condannati a morte, che sanno che per quanto urlino e strepitino, quell’ultimo miglio lo dovranno percorrere lo stesso. E mentre stava pensando questo, mentre sperava di riuscire a entrare da sola nell’ufficio, senza il bisogno di due secondini a trascinarla per le braccia, la porta si aprì e la faccia da prugna rinsecchita della Gomez la fissò con freddezza bruciante. – Venga, signorina Damiani. – le disse, e lei entrò nell’ufficio dove trovò gli altri ad aspettarla.
- Salve. – disse ai due adulti seduti nell’ufficio e al bambino. Il bambino era Alessandro, l’uomo elegante e dinoccolato seduto con le braccia appoggiate sui braccioli e la gamba destra accavallata sulla sinistra doveva essere il padre Filippo, uno degli uomini più ricchi del mondo. E la bella donna con un filo di grigio tra i capelli, un po’ alla Elsa Lanchester de “La moglie di Frankenstein” doveva essere la moglie, una con un nome strano, da araba o simile.
- Salve. – le disse l’uomo tendendole la mano. Aveva una stretta da capitano d’industria, calda e sicura, delicata ma, lo si sentiva, capace di stritolarti le falangi se solo lo avesse voluto. E mentre gli stringeva la mano Carla pensò che le sembrava di averlo già visto.
- Si sieda pure, signorina Damiani. – disse la Gomez indicandole una sedia presa evidentemente da una classe. Una sedia da bambino, come quella su cui stava seduto Alessandro, che aveva una faccia molto dignitosamente imbronciata. Sedendosi vicino a lui, in basso come Napoloni davanti a Hinkel, gli sorrise e lui le rispose con un brevissimo lampo negli occhi.
- Quello che è successo è … estremamente grave, signorina Damiani. In tre anni sotto la responsabilità della dottoressa Traverso, non era mai successo nulla di anche solo lontanamente paragonabile. Spero che si renda conto della gravità dell’accaduto. –
- Dottoressa Gomez … - cominciò a dire, ma quella la interruppe con un – Preside Gomez, prego. - tagliente come un colpo di ghigliottina e lei deglutì tutta una serie di maledizioni che avrebbero colpito le antenate della preside fino all’ottantottesima generazione, mise su un sorriso forzato e riprese: - Preside Gomez, lo so perfettamente. Volevo dirle che per fortuna Giulio Mazzanti comunque aveva solo preso una brutta botta e non hanno dovuto neanche dargli un punto al labbro. –
- Per fortuna la sua incompetenza non verrà pagata da quel povero bambino, signorina Damiani. –
Carla sorrise pensando che come incassatrice era anche meglio di Alì a Kinshasa, deglutì di nuovo immaginandosi di infilare un enorme spiedo nel culo rinsecchito di quella vecchia maledetta per poi rigirarla a fuoco lento per una giornata o due, e disse: - Oggi ho corso più che potevo per raggiungere i bambini quando … - e di nuovo calò la mannaia della Gomez – Perché lei, signorina Damiani, era ingiustificabilmente lontana dalle persone indifese che le erano state affidate. –
Carla incassò il nuovo colpo con signorilità e diede un altro paio di giri allo spiedo, mentre si chiedeva da dove la Gomez avesse tirato fuori l’avverbio “ingiustificabilmente”, quando Alessandro prese la parola.
- La maestra Damiani non era con noi per colpa mia. –
I genitori del bambino, che fino a quel momento avevano assistito al martirio della maestra con interesse molto relativo, si girarono a guardare il loro frugoletto con sguardi molto più interessati e quasi parvero non sentire la Gomez che gli diceva: - Nessuno ha chiesto il suo parere, signor Malerba. –
“ Dà del lei a un bambino di nove anni?” pensò Carla sorpresa quando lui si alzò e le rispose a muso duro. E fu allora che il mento di Carla andò giù a toccare lo sterno nell’espressione di sorpresa più sorprendente della storia del mondo.
- Ma se non parlo, sembrerà che la maestra Damiani ci avesse lasciati soli senza ragione, mentre la ragione ero io.
Quando è cominciato l’intervallo io stavo finendo di passare tra i banchi per raccogliere i fogli dove avevamo scritto i nostri pensierini, e li ho appoggiati sulla cattedra uscendo subito dopo. Solo quando ero giù mi sono reso conto che avevo lasciato la porta aperta e la corrente li avrebbe sparsi ovunque. Quando l’ho detto alla maestra e mi sono offerto di risalire su a chiudere la porta, lei è stata così gentile da farmi finire la merendina e di andare a riparare al mio errore. –
La Gomez parve sgonfiarsi come un pallone gonfiato appena forato da uno spillo, mentre i genitori di Alessandro lo guardavano stupiti. – È andata così, signorina Damiani? – chiese la Gomez con la faccia di uno che stia deglutendo una rana toro.
Carla sorrise con fare ebete, guardò il bambino che aveva appena mentito spudoratamente e disse: - Sì. Avremmo dovuto rincorrere i fogli per tutto il corridoio. –
La Gomez sorrise con i suoi denti gialli da bestia feroce, strinse gli occhi con un’espressione che voleva dire all’incirca che sapeva benissimo che le stavano mentendo e che lei non aveva alcun modo di dimostrarlo, ma che comunque loro presto o tardi l’avrebbero pagata cara, anzi, non loro, lei, e disse: - Non avrebbe comunque dovuto abbandonare i bambini in cortile, signorina Damiani. Ci sono anche le bidelle. – poi la vecchia strega parve fissare qualcosa sul viso di Carla, un vero e proprio sorriso a seimila denti, modello “Lo squalo” di Spielberg, si aprì sulla sua faccia odiosa e poi disse: - Ha un brutto segno sul collo, signorina Damiani, si è forse fatta male? –
- Cosa? – chiese Carla non riuscendo minimamente a capire di che parlasse e vedendo che anche Alessandro e i suoi genitori allungavano il collo per guardare. E quando vide Alessandro fare uno sguardo incuriosito e i due adulti, mannaggia a loro, sorridere, capì di avere sul collo uno splendido esemplare di succhiotto lasciatole in dono da, come cazzo si chiamava?, sì, ecco, Franco, l’uomo che aveva incontrato la sera prima in quel bar. L’astronauta, se doveva credergli.
E così la Gomez aveva avuto un antipasto di vendetta, dandole molto graziosamente della puttana davanti ai genitori di un suo alunno. Nella sua mente molti tronchi furono aggiunti al fuoco sotto la Gomez allo spiedo, ma sul suo volto si aprì un sorriso ampio e bovino. – Ah, davvero? Dopo controllerò, grazie, preside Gomez. –
Visibilmente soddisfatta, gongolava come un bambino abbandonato nottetempo in un negozio di dolciumi, la Gomez si girò allora verso Alessandro e atteggiò la sua espressione ad addolorata delusione. – Io davvero non so che dire, signor Malerba … - disse la donna e Carla dovette soffocare una risata omerica per il “signor” riferito a un poppante, - un pugno. Da altri me lo sarei anche potuto aspettare, ma da lei … sono così delusa. E sono così addolorata per quello che dovrò … -
E di nuovo Alessandro la interruppe. – Stavano facendo male a Mikael. Walter e Giulio lo stavano picchiando perché lui è più piccolo e non sa difendersi. –
- E lei chi sarebbe, signor Malerba? Il difensore dei deboli e degli oppressi? Lei è forse Batman? –
- Giulio è già stato sospeso una volta, e si è sempre vantato che una settimana a casa a vedere i cartoni non è una punizione, ma un premio. –
- E allora lei lo ha voluto punire? –
Alessandro guardò i suoi genitori che lo fissavano in silenzio, poi guardò Carla che gli sorrise un pochino; quando si voltò di nuovo verso la Gomez drizzò bene la schiena e disse: - La maestra Damiani stava arrivando e li avrebbe fermati, e Mikael si sarebbe tenuto le botte e quei due se ne sarebbero stati a casa a guardare la tv, e allora io ho preceduto la maestra e li ho colpiti. Io sono più grande di Mikael, io mi so difendere. –
- Capisco, signor Malerba, capisco. E forse comprendo, ma … Lei capisce che il signor Mazzanti è finito all’ospedale. E mi creda, signor malerba, come i suoi genitori potranno spiegarle a casa, una sospensione non è affatto una vacanza. –
E fu solo intorno alla quarta o quinta parola che Carla si rese conto che la voce che sentiva era la sua. Si era intromessa e stava dicendo: - Ma Alessandro non voleva fare così male a Giulio, ma solo spaventarlo. Ho visto bene che quando gli ha tirato quel pugno ha inciampato. Se non fosse successo lo avrebbe appena sfiorato, tanto per spaventare un po’ uno che si stava comportando da bullo. –
La Gomez senza dubbio non incassava bene come lei. Le venne una faccia a metà tra il limone spremuto e la prugna secca, stirò le labbra in un sorriso orrendo e, rivolta ad Alessandro, chiese: - È così signor Malerba? –
Alessandro guardò un attimo Carla, lei annuì e lui disse: - Sì, signora preside. Ho inciampato e l’ho colpito, quando la mia intenzione era solo di sfiorarlo. –
La Gomez sorrise, spedì una bella manciata di maledizioni a Carla e disse: - Spero che quello che è successo non accada mai più, è stato un fatto davvero increscioso. Tre giorni di sospensione. E farà lo stesso tutti i compiti. E ora – disse rivolta a Carla e a Alessandro – fuori di qui. Devo dire due parole ai signori Malerba e farli parlare al telefono con i signori Mazzanti. –
Carla uscì insieme a Alessandro e richiuse la porta alle sue spalle. Si guardarono tirando un evidentissimo sospiro di sollievo e lui disse: - Scusi maestra. Non so che mi ha preso. –
- Lo so, Alessandro, lo so. –
E fu allora che lui disse qualcosa di totalmente inaspettato e Carla capì all’improvviso dove le sembrava di avere già visto suo padre. Il bambino si portò il dito indice a indicare la tempia e disse: - Lei mi ha aiutato, signora maestra, e io non me lo scordo. – e uscì dalla stanza per andare in classe a prendere giacca e cartella.
- Io non me lo scordo … - disse Carla sorridendo. – Io non me lo scordo. Come il padrino. – e ridendo se ne andò via. E se il figlio parlava come don Vito, suo padre, che comunque continuava ad avere un che di assai famigliare, si sedeva esattamente come Michael Corleone.

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