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giovedì 13 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXXI.

5

Elsa.

Quando Andrea richiuse il cancello del montacarichi, guardando il capannello di persone che li fissavano Elsa capì alcune cose. Molti di quelli che li stavano guardando entrare in quel pozzo li ritenevano temerari, o forse pazzi. E molti di quei molti, una discreta maggioranza di quelli che stavano lì in piedi, pensavano che non li avrebbero mai visti tornare su.
E un’altra cosa che capì fu che alcune di quelle persone, i militari per esempio, ma anche altri, non volevano assolutamente che loro scendessero là sotto. Se stavano scendendo, se glielo avevano permesso cioè, era solo perché quello che avevano trovato là sotto, qualunque cosa fosse, era stato così inaspettato che non c’era stato il tempo di reagire, e, quando loro due si erano offerti di scendere, nessuno aveva ancora dato l’ordine di richiudere quel pozzo e di costruirci sopra un parcheggio.
E quindi, quando la sua testa scese sotto al livello del terreno e smise di vedere i volti di quelle persone, pensò che alcuni lì tra la folla, oltre a pensare che non sarebbero dovuti scendere, speravano anche che non riuscissero a risalire. Non risalire, rimanere là sotto, a qualcosa come seicento e passa metri di profondità vicino a quello che non si poteva fare a meno di definire un manufatto alieno.
Si voltò verso Andrea che stava controllando per l’ennesima volta le corde e l’attrezzatura da discesa, quando le arrivò all’orecchio un suono orrendo. – Cos’è? –
- Messaggino. – disse lui, - Ho il cellulare in tasca. -
Lei alzò lo sguardo verso la luce là in cima e disse: - C’è ancora campo?
Lui prese il suo cellulare, lo guardò e disse: - Non più. Chiunque fosse, mi ha preso in tempo. –
- E chi è? – gli chiese lei guardando la parete di roccia che scorreva accanto a loro veloce e uniforme.
- Gelosa? –
- E mamma mia! Mica ci siamo sposati, sai bello? –
- Neanche un pochino? –
- Un pochino sì. – disse lei.
- Ah! Ah! Lo sapevo! Il grande playboy colpisce ancora! – disse lui e guardò il messaggio. – È una foto, me l’ha mandata mia sorella. –
- Cos’è? Un gattino, un nipotino? –
- Un muro. L’altro giorno ho visto ‘sto muro vicino a casa sua e mi sembrava di averci visto dei segni, per me era una scrittura. –
- E ti manda una foto del muro? –
- Sì. Penso che mi stia prendendo per il culo. –
- Mi è già simpatica la ragazza. – disse lei. – Penso che ci siamo quasi. –
- Ancora un paio di minuti. Sei pronta? –
- No. ho paura. –
- E allora siamo in due. Come disse mio padre quella volta che cadde in una buca piena di rovi e scomparve alla vista di me e mia sorella che eravamo molto piccoli, “Pensa quando ne rideremo.” –
- Un vero duro, tuo padre. –
- Sono il suo orgoglio, duro come lui, ma più bello. –
- O mio Dio! – disse lei scuotendo la testa, poi si accucciò e cominciò a indossare l’imbracatura. – Che dici che troveremo? –
- Un buco. E dentro al buco qualcosa. –
- Sei ambiguo come un oracolo. –
- Così non sbaglio. –
E allora il montacarichi si fermò. Sotto di loro c’erano circa cento metri di pozzo appena scavato e, sotto, la cavità con l’oggetto. Lui prese il walkie talkie e disse: - Il montacarichi è arrivato in fondo. Passo. –
- Andate giù o avete cambiato idea? – chiese una voce gracchiante, forse quella di Gianfranco.
- Andiamo giù, cazzo! – disse lui, poi sorrise e aggiunse: - La prossima volta che sentirai la mia voce, sarò nei libri di storia! Passo. –
- Ho sempre preferito la geografia. Passo. – poi ci fu un momento di silenzio e disse ancora: - Buona fortuna, ragazzi! Passo. –
- Si dice In bocca al lupo, cretino! Passo e chiudo. – disse Andrea, poi la guardò come per dire “Andiamo?” e lei annuì. Andrea piantò un chiodo nella parete e vi attaccò moschettone e corda. – Andiamo? –
- Sì. – fu la risposta di Elsa e cominciarono a calarsi. La discesa fu lenta e noiosa, c’era caldo e dovevano continuamente passare le mani nel magnesio. Dopo circa mezz’ora arrivarono alla fine del pozzo.
- Eccoci. - disse lui e la sua voce rimbombò nell’enorme spazio sottostante.
- Cacchio! –
- Eh sì. Vado io. – disse lui e si calò sulla corda scomparendo nella cavità.
- Cosa vedi? – gli chiese lei.
- Cose incredibili. – rispose lui, e poi – O almeno così rispose l’archeologo Carter aprendo la tomba di Tutankhamon. Io a dire il vero non vedo niente. Aspetta che butto una luce chimica. – e Elsa vide una luce verdastra apparire dal foro a un paio di metri sotto ai suoi piedi. – Vieni giù, Elsa! – disse lui e lei scese a sua volta trovandosi così appesa a un paio di metri sopra quella che sembrava una sterminata superficie di oro.
Fece un giro su sé stessa guardandosi intorno. Come le era sembrato di capire guardando le immagini sfocate della videocamera il buco era un’enorme cavità sferica e all’interno stava, sospeso su gigantesche molle di acciaio, una altrettanto enorme sfera di oro. Guardò Andrea e si misero a ridere.
- Siamo arrivati. – disse lui alla radio – Per ora sembra tutto normale, cioè, non è normale per niente. Ora cominciamo a esplorare. Passo. –
- Va bene. – disse la voce di Gianfranco, così disturbata da essere a malapena comprensibile – In bocca al lupo, ragazzi! Passo e chiudo. –
Elsa si calò sulla sfera che era così enorme da poterci facilmente camminare sopra, mentre Andrea metteva altri chiodi sulla parete di salgemma per esplorare la parte soprastante. Con quello che, a loro insaputa, stava succedendo seicento metri sopra di loro, gli sarebbe servita davvero molta di quella fortuna che Gianfranco gli aveva appena augurato.

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