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sabato 1 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XIX.

III

I figli della lupa

Il cielo era passato dal nero al grigio e poi, a oriente, le dita dell’Aurora avevano tinto di rosa la foschia che aleggiava tranquilla tra i colli. Tutto aveva cominciato a riemergere dal buio prendendo man mano consistenza, fino a che, dietro la collina più alta, l’enorme palla infuocata era apparsa prima come un arco di luce rossa, per cominciare poi ad alzarsi velocemente verso il cielo.
Gli uccellini infreddoliti cominciavano a fischiare sui rami degli alberi, mentre i ghiri e i cinghiali si affrettavano a rintanarsi nel folto delle frasche e delle chiome. Le ultime falene si nascondevano tra le spaccature delle cortecce, mentre le api infreddolite cominciavano ad allontanarsi dagli alveari saltando più che volando da un fiore all’altro.
La natura era in pieno rigoglio e tra i fili d’erba ricoperti di fresca rugiada si vedevano ancora le scie lasciate dagli animali che nottetempo erano andati ad abbeverarsi.
La lupa trotterellava allegra nell’erba alta come il suo muso, sentendo il fresco del terreno tra le dita e beandosi della sensazione di sollievo che la rugiada dava alle sue mammelle gonfie di latte. Camminava allegra giù per la stretta vallata, cogliendo appena con la coda dell’occhio i movimenti furtivi degli altri animali che si nascondevano spaventati al suo passaggio. Facevano bene ad avere paura di lei, prede che non erano altro, perché lei era la regina del bosco, ma non in quel momento. Quella mattina si era svegliata con in mente solo la voglia di bere.
Scendeva giù per il breve pendio evitando i sassi più grossi, e lasciava dietro di sé, nella sabbia umida, due file di impronte nitide. Arrivò all’acqua che gorgogliava ininterrottamente intorno agli stessi sassi, e, infilando il muso nell’acqua, vide i minuscoli avannotti che fuggivano via dalla sua ombra. Risucchiò l’acqua come fanno i lupi, lappare è roba da cani, bleah!, e si godette ogni singolo sorso di acqua gelata che le scendeva giù per la gola. Quando ebbe finito di bere entrò nell’acqua fino al petto, sentendo l’acqua che le sfiorava i capezzoli arrossati e bollenti, guardandosi intorno in cerca di qualcosa. Perché ora che aveva bevuto, ora che l’impulso che l’aveva portata lì era stato placato, si rendeva conto che era un altro il motivo reale per cui era scesa al fiume appena dopo l’alba.
Con i piedi ormai quasi anestetizzati dall’acqua gelata guardò intorno a sé in tutte le direzioni, aguzzando i suoi grandi occhi color nocciola e allungando per quanto possibile il suo collo robusto.
Un rumore. Là alla sua destra, tra le canne, qualcosa si muoveva, quasi come un serpente che strisci su sé stesso, ma diverso, perché quell’ombra di un rumore non le aveva comunicato terrore e ribrezzo, ma tenerezza. Mentre aguzzava l’udito più di quanto un umano possa anche immaginare, da quell’angolo buio tra le canne arrivò un altro verso, molto più forte e chiaro. Il gemito di un cucciolo, il vagito di un bambino. Saltò fuori dal’acqua in una nuvola di schizzi d’acqua che, nella luce radente del sole appena sorto, formarono un effimero arcobaleno e in un paio di balzi fu accanto all’origine dei gemiti.
Una cesta di vimini si era incagliata tra le canne, in due dita d’acqua e, dentro alla cesta, avvolti in una coperta di lana rossa, c’erano due neonati dalla pelle rosea che muovevano le manine chiuse a pugno e si guardavano intorno con i loro enormi occhi azzurri quasi ciechi per la giovane età. Sentendo una fitta nelle mammelle gonfie di latte, i suoi cuccioli infatti non c’erano più, avvicinò il suo naso bagnato ai visini dei due piccoli. Li sfiorò annusandoli e il loro profumo di vita appena sbocciata la elettrizzò. Allungò delicatamente la sua lingua e saggiò la loro pelle che aveva ancora il sapore della madre che li aveva partoriti.
Uno dei due piccoli, (Alessandro), stese il suo braccino ciccioso e, con le sue dita minuscole, le afferrò i corti baffi neri che le adornavano il muso. Si guardarono e la lupa seppe di averlo trovato. Per sicurezza, era un’ottima madre, li tirò fuori entrambi dalla cesta, afferrandoli con estrema delicatezza per le loro schiene morbide, e li portò più in alto, dove già il sole aveva asciugato l’erba. Li appoggiò uno vicino all’altro e si coricò poi al loro fianco cominciando a leccarli per scacciare dai loro minuscoli corpi il freddo del fiume e della notte, fino a che i due bimbi furono abbastanza caldi da muoversi bene e poter cercare le sue mammelle.
Si attaccarono quasi contemporaneamente ai capezzoli, e naturalmente lui (Alessandro), scelse il più gonfio, riempiendosi lo stomaco del suo latte caldo. Mentre lui beveva lei lo guardava e, ogni tanto, lo leccava sulla fronte.

E fu allora che Anita Gomez si svegliò nel suo letto, coperta dalla vecchia camicia da notte che usava da quarant’anni, con il vecchio peluche che le aveva regalato il suo fidanzato Mario nel 1980, un cucciolo di lupo dagli occhi azzurri, stretto tra i piccoli seni che non avevano mai potuto nutrire un bambino.
Rimase per un bel po’ coricata con quel pupazzo stretto al petto, piangendo per la libertà e la potenza, e per la pienezza dell’amore materno, che aveva sentito in quel sogno, mentre il sogno stesso si disfaceva velocemente come la foschia mattutina al sole. Quando dopo circa mezz’ora la sveglia suonò e lei si alzò per andare in bagno, nulla del sogno era rimasto alla portata della sua mente cosciente, tranne un senso di vuoto e di depressione che l’avrebbero accompagnata per tutto il giorno. E quando era così di cattivo umore, purtroppo, qualcuno finiva sempre per farne le spese.

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