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venerdì 30 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XVIII.

7

Carla

Seduta sul coperchio del water scossa da brividi incontrollabili, Carla pensò che Camilleri avrebbe saputo descrivere benissimo la sua situazione. “Nuttata fitusa” avrebbe scritto “tutta curcarsi e susirsi, e con continui arrizzatuni di friddu lungo la schiena.” L’unica differenza con Montalbano, il suo commissario preferito, che occupava con i romanzi di cui era protagonista un bel pezzo della sua libreria in camera, è che lei non stava male per una “quintalata di puripetti alla strascinasali”, ma per quel cabaret di paste che si era mangiata con Amalia nel pomeriggio, mentre l’altro se l’era sbafato la sua nuova amica.
Guardò l’orologio, le tre, cazzo!, e continuava a sbadigliare e a ruttare con un gusto acido in bocca come neanche dopo una sbronza, con lo stomaco pesante come se avesse per sbaglio ingoiato un’incudine.
Si alzò nel suo pigiamino rosa con disegni di farfalle, così vecchio da essere oramai sforacchiato qua e là come un vestito di Bruce Willis in un film della serie Die Hard, e andò in cucina per fare una cosa che aveva tentato di rimandare finché possibile, e anche un po’ dopo. Prese il pentolino e lo riempì d’acqua, lo mise sul fuoco e prese dallo sportello a destra in alto una bustina di camomilla.
- Che schifo! – disse alla stanza vuota mettendo la fetida bustina nel bicchiere con Shrek, evidentemente un ex barattolo di Nutella, poi aprì il frigo e si accucciò per cercare un pezzo di limone. Accucciandosi le scapparono contemporaneamente un rutto e una scorreggia. Scoppiò a ridere così forte che dovette sedersi a terra appoggiando la schiena allo sportello del frigo, mentre l’aria gelida le scendeva addosso.
Asciugandosi le lacrime che le scendevano dagli occhi ruttò di nuovo e il riso divenne assolutamente incontrollabile. Pensò ai vicini, cazzo, rideva così forte che sicuramente rischiava di svegliarli, ma il solo tentativo di fermarsi aumentò ancora di più la forza delle sue risate.
Si immaginò la vicina del piano di sotto, l’aveva vista il giorno prima, assomigliava a un cubo di settanta centimetri di spigolo, se la immaginò che veniva a bussare urlando con quella sua voce acuta e fastidiosa “La smetta di fare rumore, signorina!” avrebbe guaito, e lei le avrebbe risposto con un rutto cavernoso alla Barney che l’avrebbe pettinata come una punk colorandole i capelli di verde elettrico. E così continuò a ridere mentre la pancia le faceva sempre più male, coricata in terra con la faccia nascosta tra le mani, mentre rutti e peti srumorazzavano allegramente dal suo corpo.
Dopo un po’, quanto?, dieci minuti?, un’ora?, boh!, riuscì a smettere di ridere e si rialzò poggiando un quartino rinsecchito di limone sul tavolo accanto al bicchiere. Versò l’acqua bollente nel bicchiere e la guardo diventare sempre più gialla, mentre l’odiato odore di camomilla si diffondeva nell’aria. Tolse il filtro, schiacciò il limone ottenendo cinque gocce, tre solamente caddero nel bicchiere, però, e poi condì il tutto con un robusto cucchiaino di zucchero. Mescolò almeno trenta volte, tentando di ritardare il momento fatale, ma una altro rutto la convinse all’insano gesto. Buttò giù la camomilla per quello che era, una medicina schifosa, tutta d’un sorso tentando di non sentirne il gusto, e quasi si ustionò.
Mentre risciacquava il bicchiere la camomilla fece effetto e digerì ruttando per l’ennesima volta. – Questa volta i vicini l’hanno sentito. – disse sogghignando, poi spense la luce e andò alla finestra. Fuori c’era la luna piena, e non faceva per niente freddo. I palazzi sembravano diversi da come erano di giorno, quasi disegnati da geometrie lovecraftiane, e ripensando al racconto di Amalia le venne voglia di vedere la collina alle sue spalle e la villa là in cima. Con la luna piena chissà come le sarebbero apparse. Sorrise di questi pensieri infantili e si disse che alle tre e mezza di notte, in pigiama e pantofole a forma di orsacchiotto, sì, erano comode e usava quelle, non poteva certo uscire sul pianerottolo ed entrare nell’appartamento della vicina.
Se l’avessero sentita avrebbero chiamato la polizia per i ladri, nessun adulto avrebbe fatto una cazzata simile. Assaporando la sua avvenuta digestione sorrise nella stanza buia, disse: - Ma vai! – e prese le chiavi di casa. Accanto alle sue tre chiavi c’erano le due della vicina. – Ma sì, dai! – si disse per farsi coraggio.
Aprì la sua porta con una lentezza estenuante, poi zampettò nel pianerottolo come Wil E Coyote e aprì la serratura dell’altra porta maledicendo quei clic che le sembrarono assordanti. Entrò nell’appartamento buio, rischiarato solo dalle persiane sollevate in bagno, andò quasi alla cieca alla finestra della sala e la aprì. Uscì sul poggiolo e guardò fuori rimanendo senza fiato.
- Cazzo! – disse guardando la collina. La luce della luna tagliava con angoli nettissimi tutte le sagome, e gli alberi e le case sembravano scomparsi. La collina era enorme, si stagliava davanti a lei come una minacciosa Moby Dick che stesse emergendo dal mare per trascinarla giù con lei, con i lati tagliati con l’accetta come una antica piramide. Ecco, sembrava proprio una antica piramide assira o azteca, e sulla cima, come il tempio dove il re sposava la dea Ishtar, la casa del ricchissimo padre di Alessandro, quel Filippo Malerba che secondo Amalia doveva essere più potente del Presidente degli Usa.
Sembrava il tempio dove nasceva il potere del re, e Alessandro sembrava avere il carisma di un re. C’era una luce accesa, lassù, qualcuno come lei non dormiva.
E mentre guardava la collina e pensava questi pensieri, un ululato risuonò nel silenzio della notte. Scossa dai brividi, evidentemente non doveva avere ancora digerito così bene, chiuse in fretta le persiane e tornò in casa sua. Se ne tornò a letto e si coprì la testa con le coperte, pensando a quella casa e a quell’ululato. L’ululato di quel cane, pensò mentre si addormentava, anche se in effetti sembrava proprio l’ululato di un grosso lupo sorridente.

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