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mercoledì 14 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. II parte.

I

Tornando a casa

Filippo girava per quella casa che gli era contemporaneamente familiare e aliena come in trance. Evitava i mobili nel buio della notte più basandosi sula sua memoria che sulla effettiva percezione visiva della loro presenza.
Entrò in quella che era stata un tempo la stanza dei suoi genitori, una sala di sei metri per sei con tappez-zeria a gigli di Francia tendente al marrone chiaro che gli era sempre sembrata più una sala da ballo che una stanza fatta per dormire e amare, accese la luce e guardò il letto da cui era stato tolto appena due ore prima il padre. Un enorme letto da ospedale, le sponde metalliche rialzate, le lenzuola bianche con scritta azzurrina, la coperta bianca ripiegata da un lato. Vicino al letto un comodino azzurrino con dei fiori, due o tre macchine che sembravano uscite da Guerre Stellari e la bombola dell’ossigeno, che sembrava a tutti gli effetti l’unità C1. Nel letto si intuiva ancora la sagoma del corpo del padre, era stato lì mesi e mesi, immobile, spostato ogni due ore su un lato o sul’altro per evitare il decubito.
La luce dell’abat-jour era radente e metteva in risalto quella lievi infossatura al centro dell’alto materasso. Un’infossatura in un materasso, l’odore acido della malattia, un corpo freddo su un tavolo d’acciaio. Suo padre, ecco cosa ne rimaneva.
Tentò di ricordare suo padre giovane, quando lui era stato bambino in quella casa. Tentò di ricordare risate, scherzi, giochi con la palla. Niente.
Andò fino al letto e vi si sedette. Cigolò un po’. Si guardò le mani e vide che sotto alle unghie della mano destra c’era dello sporco scuro. Sembrava nero con quella luce, ma poche ore prima era stato rosso. Del sangue secco sotto alle unghie e un corpo straziato e freddo pronto per l’inceneritore. Ecco cosa rimaneva invece di Kevin, il suo cane. I ricordi di giochi e scherzi col cane non doveva cercarli. Lo aggredivano tutti insieme. Facevano male, cazzo, facevano molto male.
Solo il giorno prima aveva detto che quel cane si sarebbe buttato nel fuoco per lui. E che lui avrebbe fatto lo stesso. E ora lui era lì, seduto su un letto vuoto a guardarsi le unghie sporche del sangue del cane che aveva abbandonato. Del cane che aveva tradito. Dell’amico che era morto aspettandolo inutilmente.
Si coricò sul letto mentre le lacrime gli inondavano gli occhi e, singhiozzando forte, così forte da svegliare la madre che dormiva intontita dai sonniferi nella stanza accanto, si assopì dopo trentasei ore di veglia.
Sognò quello che era successo, anche quello che non aveva visto. Non gli piacque sognarlo, ma lo fece.
Non lo sapeva ancora, ma la sua vita da allora in poi si sarebbe ridotta soprattutto a fare cose che non gli piacevano.

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